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Giustizia: l’Ue chiede armonizzazione delle misure alternative di Marina Castellaneta
Il Sole 24 Ore
Reinserimento nella società della persona condannata nel rispetto delle vittime. Diminuzione della popolazione carceraria per rendere più umane le condizioni di vita dei detenuti. Con un monitoraggio costante per valutare il comportamento dell’autore di un reato che usufruisce di sanzioni sostitutive alla pena detentiva o di misure di sospensione condizionale. Per assicurare la sua effettiva riabilitazione. Questi gli obiettivi perseguiti dall’Unione europea e dal Consiglio d’Europa che, recentemente, hanno messo in atto strumenti idonei a rafforzare l’utilizzo di misure che guardano al reinserimento dell’autore del reato. E per consentire agli incensurati che commettono reati puniti con pene lievi di uscire dai circuiti criminali. Ci prova l’Ue con la decisione quadro 2008/947/Gai del 27 novembre 2008 relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive. Un atto che tiene conto della diffusione nei Paesi membri di sistemi di differimento della pena per verificare le possibilità di reinserimento degli autori di reato. È il caso del Belgio che ha attuato fin dal 1964 un sistema di sospensione condizionale e di messa alla prova nei soli casi in cui l’autore del reato non abbia commesso altri crimini e se la pena massima prevista per l’illecito non supera i 5 anni. Con la possibilità, nel caso di commissione di altri reati durante la messa alla prova, di far scattare subito le misure detentive. Grazie a un sistema di supervisione applicato anche in Germania, che assicura un monitoraggio costante del comportamento del soggetto. Un istituto previsto anche in Francia (articolo 132-63 del Codice penale) con un deferimento della pena condizionato alla messa alla prova, il cui utilizzo si è diffuso nel corso degli anni. Come dimostrano i dati di alcuni Paesi. In Inghilterra, per esempio, 30mila persone usufruivano di questo sistema nel 1995, mentre nel 2005 sono state oltre 200mila, con l’impiego di uno staff di oltre 21mila unità. Di recente, poi, Londra ha predisposto un ufficio ad hoc per gli stranieri sottoposti alla messa alla prova. L’Unione europea ha, almeno fino a oggi, messo nel cassetto il sistema di ravvicinamento delle sanzioni penali e di sospensione condizionale, ma ha dato il via libera a meccanismi di riconoscimento reciproco. È questo il caso della decisione quadro 2008/947/Gai, che gli Stati dovranno recepire entro il 6 dicembre 2011. Uno strumento che, una volta a regime, obbligherà le autorità nazionali dei Paesi Ue a predisporre strutture per monitorare la corretta esecuzione di misure sostitutive al carcere come la messa alla prova o l’obbligo di seguire percorsi educativi, in attuazione di decisioni prese dalle autorità nazionali di altri Stati. In questo modo, anche se non previste nell’ordinamento interno, misure come la messa alla prova o il monitoraggio elettronico, faranno ingresso negli Stati membri. Che, d’altra parte, nell’ottica del principio del riconoscimento reciproco, basato sulla fiducia sull’operato delle autorità di altri Paesi membri, avranno poche possibilità di rifiuto e dovranno dare il via libera all’esecuzione di misure, anche socialmente utili, per gli autori di reati che non vivono nello Stato che emette il provvedimento. In pratica, le autorità nazionali dello Stato di emissione trasmetteranno le decisioni allo Stato nel quale la persona destinataria dei provvedimenti risiede. Spetterà poi al Paese di esecuzione, che è competente anche per la sorveglianza, predisporre le misure richieste, con poche e tassative possibilità di rifiuto, fissate dall’articolo 11. Anche il Consiglio d’Europa punta a sistemi alternativi al carcere, con interventi costruttivi e non solo punitivi, in grado di deflazionare il processo penale. Il Comitato europeo sui problemi della criminalità, nella Conferenza sui servizi di messa alla prova, ha adottato, il 28 novembre 2008, un documento di lavoro in vista della messa a punto di una raccomandazione agli Stati sulle modalità di funzionamento di questi servizi, nei quali dovranno sempre essere predisposti supporti alle vittime con l’impiego di personale specializzato. Giustizia: pronta bozza di riforma, ma non c’è nessuna intesa
Il Mattino
Quando a metà dicembre si annunciò che di giustizia si sarebbe parlato nel primo Consiglio dei Ministri del 2009 - e non nell’ultima seduta del 2008 come inizialmente previsto - la maggioranza annunciò che il rinvio era la manifestazione chiara di una disponibilità nei confronti dell’opposizione. Una ventina di giorni in più che sarebbe servita a cercare punti di contatto tra i poli. Il momento è arrivato: entro questa settimana la bozza di riforma della giustizia potrebbe approdare sul tavolo di Palazzo Chigi, qualora venga fissata una seduta di governo. Ma tutto ciò accadrà senza che tra destra - lacerata al suo stesso interno - e sinistra sia iniziata alcuna forma di dialogo. "L’appello del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per riforme condivise è una fermata a cui non ci si può sottrarre. È necessaria una riflessione comune da parte di tutte le forze politiche, o almeno di quelle che hanno a cuore il destino del Paese", ha detto ieri da Palermo il presidente del Senato Renato Schifarli. E Italo Bocchino, Pdl, propone di verificare fin da subito - con gli uffici di presidenza delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia - eventuali convergenze sulla materia. Anche i capigruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri insistono sulla necessità di un dibattito, ma le loro parole finiscono solo per suscitare insofferenza nel Pd: "Il Pdl è disposto a un confronto a tutto campo, dall’economia alle riforme, dalla politica estera alla giustizia. Ma bisogna prima rispettare fondamentali regole democratiche. La politica degli insulti e le incredibili vicende di Pescara e Napoli mal si conciliano con quel confronto che giustamente viene sollecitato". "Le riforme procedono solo se il Pd è disponibile a scusarsi continuamente delle sue scelte e delle sue azioni! Se questo è il metodo politico richiesto dalla destra è bene prenderne atto", fa sapere Giorgio Merlo, Pd. "Se la destra ha una vera volontà di fare le riforme nell’interesse degli italiani presenti le sue proposte e apra una discussione nel merito con le opposizioni", aggiunge Andrea Orlando, portavoce dei democratici. Resta l’Udc, con il segretario Lorenzo Cesa, per bacchettare entrambi i contendenti: "Pdl e Pd la smettano di utilizzare le riforme e la questione morale come merce di scambio perché si tratta di temi che viaggiano paralleli. Le riforme vanno fatte con la collaborazione e il dialogo tra la maggioranza e le opposizioni, a partire dall’indispensabile intervento per la giustizia civile e penale". Le premesse lasciano al momento poche speranze di una intesa, anche perché lo stesso Pd al suo interno ha mostrato fin dai mesi scorsi posizioni non univoche sulla giustizia. Posizioni diventate ora incerte, dopo che più inchieste giudiziarie hanno travolto alcune amministrazioni di centrosinistra. Al consiglio dei ministri dovrebbero comunque approdare solo le riforme per via ordinaria (processo penale, carcere) e non quelle costituzionali (Csm e separazione delle carriere tra pm e giudice), il vero obiettivo a cui punta il premier Silvio Berlusconi. Anche sulle intercettazioni - che il Cavaliere vorrebbe limitare a quei reati puniti con oltre 15 anni di carcere - non c’è convergenza alcuna: ma le divisioni qui toccano anche la maggioranza, con Lega e An poco propense a tanta severità. Il provvedimento, comunque, arriverà in aula a Montecitorio entro fine mese; e sarà questa stessa Camera, probabilmente, a vedersi assegnato il pacchetto giustizia mentre al Senato procederà il federalismo. Una soluzione, questa, che dovrebbe mettere a tacere le perplessità del Carroccio che ciclicamente frena sulla riforma della giustizia, temendo venga rallentato l’iter del disegno di legge sul federalismo. Giustizia: Alfano vuole misurare "l’efficienza" dei magistrati di Liana Milella
La Repubblica
Se l’era venduta come la prima, grande riforma del 2009, quella della giustizia e della separazione "degli ordini", i giudici e i pm, da fare al primo consiglio dei ministri utile, venerdì 9 gennaio. E, subito dopo, doveva toccare alle intercettazioni da limitare a mafia e terrorismo. Non si farà, per adesso, nell’una né l’altra, perché Bossi vuole prima garanzie su Malpensa e perché i desiderata di Berlusconi non coincidono del tutto con quelli del Carroccio e di An (soprattutto sulla stretta per gli ascolti). Ma, salvo improvvisi litigi e altolà che potrebbero arrivare oggi nel vertice tra il premier e Bossi, il Guardasigilli Angelino Alfano si appresta comunque a portare una novità, di quelle che suscitano subito clamore, alla prossima riunione dell’esecutivo: nel denso provvedimento che riscrive le regole del processo penale, suddiviso in tre capitoli (efficienza della macchina giudiziaria, giusto processo, razionalizzazione del dibattimento), il titolare di via Arenula vuole lanciare le nuove regole per garantire controlli di efficienza negli uffici giudiziari italiani. Lo strumento non saranno i tornelli che avrebbe preteso il ministro della Funzione pubblica Brunetta, né tantomeno, come spiegano i tecnici della Giustizia, sistemi che interferiscano sull’autonomia delle toghe. Ma il progetto, coperto dal più rigido top secret almeno fino a oggi, quando Alfano ne parlerà direttamente con Berlusconi, si sostanzierà in un meccanismo per cui, come spiegano nell’entourage di Alfano, "la stessa legge dovrà essere applicata in modo uniforme su tutto il territorio in modo da evitare le attuali discrepanze tra uffici efficienti e in cui la giustizia va a mille, come a Torino e Bolzano, ed altri in cui gli indici si fermano invece a livelli bassissimi". Tutta da vedere la reazione di magistrati e Csm che ovviamente dipenderà dal tipo di meccanismo messo a punto. Sul quale la Lega, come su tutto il futuro ddl, si riserva di dire l’ultima parola. Il presidente dei deputati del Carroccio Roberto Cota, che durante le feste ha incontrato il consigliere giuridico del premier Niccolò Ghedini per leggere la bozza della riforma, non dà nulla per definito: "Siamo in una fase istruttoria. Serve ancora un approfondimento, ci vorrà un po’ più di tempo per garantire una legge ben fatta. Finora non c’è un accordo definitivo, anche se stiamo lavorando senza contrasti ma proficuamente". Per certo la Lega ha finora incassato i giudici onorari elettivi, un primo assaggio dei pm scelti col voto. Alfano e Ghedini sono convinti di essere vicino al punto d’arrivo di riforme che si trascinano ormai da tempo senza giungere mai a un accordo pieno tra gli alleati. Bastino le intercettazioni la cui sorte si conoscerà solo quando, a metà gennaio, scadrà in commissione il termine per gli emendamenti e Berlusconi deciderà se cambiare il testo con un atto di governo. Ghedini assicura che "venerdì si comincerà a discutere del processo penale e al prossimo Cdm il testo sarà varato". Identica la posizione di Alfano che, subito prima di Natale, ha sottoposto la scaletta della riforma al collega della Difesa Ignazio La Russa ma con l’accordo di rivedersi dopo le vacanze. Tra oggi e domani il Guardasigilli cercherà di chiudere il cerchio incontrando Lega e An e anche il ministro ombra della Giustizia dei Democratici Lanfranco Tenaglia per verificare se l’eventuale inserimento nel ddl del giudice collegiale per il via libera agli arresti chiesti dal pm potrebbe portarli a mutare atteggiamento sulle riforme. Giustizia: Mancino; il Parlamento scelga i reati da perseguire di Giovanni Bianconi
Corriere della Sera
Dice Nicola Mancino, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: "Si sentono troppo spesso dichiarazioni da cui emerge una voglia di "fare la guerra", per esempio contro i magistrati, che sembrano sottolineare la volontà di "riformare contro", piuttosto che di riformare. Ma sono del tutto inutili".
Perché inutili, presidente? "Perché la guerra non si fa. E poi perché si creano condizioni di incomunicabilità che non aiutano, mentre su materie come la giustizia le distanze tra maggioranza e opposizione andrebbero superate, come auspicato dal capo dello Stato".
Lei è sicuro che ciò sia possibile? "Sicuro no, fiducioso sì. Una maggioranza parlamentare solida come quella uscita dalle ultime elezioni ha una responsabilità in più nella ricerca del dialogo e deve essere convinta che riforme così importanti, per lasciare un segno profondo e durevole, hanno bisogno dell’apporto dell’opposizione. E l’opposizione, ovviamente, deve predisporsi al confronto, senza pregiudiziali e senza attendere di dire la sua solo dopo avere conosciuto le proposte del governo".
Ha in mente qualche intervento per ridurre i tempi dei processi troppo lunghi e costosi? "Buona parte dei codici sono superati, e non è più tempo di aggiunte o di modificazioni a testi emanati da molti decenni. Per quanto siano state apportate modifiche anche apprezzabili ma non ancora definitive al codice di procedura civile, resto dell’idea che il ricorso alla delega sulla base di principi e criteri oggettivi sia lo strumento più efficace da porre a disposizione di un gruppo di esperti coordinato dal ministro. I lavori della commissione Pisapia sulla riforma del codice penale, e della commissione Riccio sulla procedura penale possono essere un’utile traccia anche per l’attuale governo".
Intanto però il dibattito s’infiamma su altre proposte di riforma. L’ultima, del ministro-ombra del Pd, prevede tre giudici anziché uno per decidere l’arresto di un indagato. "Personalmente sono d’accordo. In occasione della discussione del decreto-rifiuti in Campania, il Csm non solo condivise che su quell’area fossero tre i giudici delle indagini preliminari, ma pose anche il problema di estendere la composizione collegiale all’intero territorio nazionale".
Ma poi c’è il rischio che i giudici non bastino… "Si potrà attingere dai concorsi in atto e recuperare magistrati attraverso la riforma delle circoscrizioni giudiziarie, chiudendo uffici che non hanno più ragione di esistere; compito, quest’ultimo, che spetta principalmente al ministro della Giustizia, anche se difficile e impopolare. Le questioni di garanzia dovrebbero sempre prevalere rispetto alla penuria di persone e di mezzi; nel settore penale la deroga al principio della collegialità è sempre un problema. Tre giudici in luogo di uno possono evitare alcune gravi anomalie, come quelle verificatesi, ad esempio, nei recenti casi di Pescara e di Potenza".
Lei parla di gravi anomalie in inchieste che riguardano amministratori locali ed esponenti politici, mentre i magistrati ribattono che il vero problema è la corruzione. "Che va certamente colpita, ma con provvedimenti giudiziari che rispondano a requisiti di equilibrio e di "giustezza" che in alcuni casi sono sembrati trascurati".
E del presunto abuso delle intercettazioni nelle inchieste giudiziarie che cosa pensa? "Che debbano servire a completare, non a dare inizio a un’indagine. Ma anche che non è giustificabile tenere fuori dall’ambito in cui possono essere utilizzate reati come la corruzione e la concussione".
C’è pure chi mette in discussione il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Lei è sempre a favore? "Non io, ma la Costituzione. Tuttavia mi rendo conto che, in tempi di emergenza come gli attuali, se si vuole evitare che la scelta dei processi sia operata dai pubblici ministeri, solo il Parlamento a maggioranza qualificata, del 65 o 70 per cento, può stabilire le priorità".
Quale emergenza, scusi? "Quella dei troppi procedimenti pendenti, per cui c’è il rischio che siano i singoli magistrati a scegliere quali trattare. Meglio allora che sia il Parlamento, con una maggioranza che coinvolga almeno una parte dell’opposizione, a stabilire le priorità sui reati da perseguire. Ma sempre come soluzione temporanea a situazioni eccezionali. Col ritorno alla normalità, dopo la riforma, una potatura dei reati che non destano più allarme sociale è una strada da percorrere".
Il governo annuncia di voler separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri, che vogliono chiamare "avvocati dell’accusa"... "Penso che il pubblico ministero debba continuare a fare parte dell’ordine giudiziario sia pure con funzioni fortemente differenziate rispetto al giudicante. Non mi piace la figura di un pm ghettizzato nella sua esclusiva funzione inquirente, che non subito ma nel tempo sarebbe destinata a dare attuazione a indirizzi punitivi governativi, quindi di parte. L’accusa deve essere obiettiva, documentata; nell’ultima riforma del codice è stabilito che, ove emergessero prove di innocenza, il pm è tenuto a chiedere l’assoluzione dell’imputato. Un pm-parte che più parte non si può, farebbe altrettanto? Quanto all’uso di certi termini, mi pare che ci sia una certa dose di dilettantismo. Del resto, con la riforma Castelli-Mastella e la decadenza automatica di tanti incarichi direttivi dopo otto anni trascorsi nella stessa sede, non c’è stato un passaggio consistente di magistrati da una funzione all’altra. Segno che già oggi la prima scelta del magistrato condiziona lo sviluppo della sua carriera".
E l’idea di un Csm separato per i soli pubblici ministeri? "La previsione costituzionale di attribuire al capo dello Stato la presidenza del Consiglio superiore si è mostrata, in cinquant’anni di esperienza, lungimirante e stabilizzatrice, e ha permesso di superare fasi di stallo e soprattutto le a volte aspre polemiche nate dal difficile rapporto politica-giustizia. Proprio il ruolo super partes del Presidente della Repubblica è stato e resta garanzia della unicità, in un solo organismo, della rappresentanza della magistratura, sia inquirente che giudicante".
Alcuni sollecitano una diversa composizione del Csm, in prima fila l’ex magistrato e ex parlamentare Luciano Violante. Qual è il suo parere? "Sono contrario ad aumentare il peso dei laici rispetto ai togati, ma l’attuale differenza è eccessiva. Ferma restando la presidenza del Capo dello Stato, una tripartizione della composizione affidata per un terzo ai magistrati, per un terzo al Parlamento e per un terzo al presidente della Repubblica mi pare equamente distribuita. La riforma costituzionale potrebbe confermare il vincolo della scelta parlamentare tra avvocati che abbiano esercitato da almeno quindici anni e professori ordinari di diritto, e stabilire che le nomine attribuite al capo dello Stato (giudici di sperimentata professionalità e docenti di diritto) assicurino nell’ organo di autogoverno una prevalenza complessiva di togati".
Perché ritiene necessario diminuire la componente togata? "Perché l’attuale sproporzione ha giocato più a favore della correntizzazione che non di una libera rappresentanza delle diverse componenti in seno all’organo di autogoverno, scelta peraltro attraverso leggi elettorali sbagliate. Con la rappresentanza dei due terzi contro un terzo è più facile cedere alla tentazione distribuire i posti a seconda dell’appartenenza alle correnti".
Ma con la sua proposta non si rischia di rafforzare in maniera eccessiva la posizione del capo dello Stato? "I costituenti furono saggi nel preferire la presidenza del Capo dello Stato a quella di supremi magistrati. L’esperienza conferma che nel cinquantennio è stato fatto buon uso del potere presidenziale: non sono mancati saggezza, equilibrio e imparzialità". Giustizia: Pisapia; per la riforma propongo una "Bicamerale" di Giuliano Pisapia
Liberazione
Che la Giustizia sia in uno stato disastroso è innegabile. E, purtroppo, ogni seria proposta di riforma si scontra con reazioni che, quasi sempre, nulla hanno a che vedere con il merito della proposta e finisce per aumentare le polemiche e affievolire la possibilità di un dialogo e di un confronto serio e propositivo. Le divergenze sono soprattutto tra chi ritiene prioritari interventi tesi ad incidere sui tempi dei processi e sulla macchina giudiziaria e chi, invece, considera indifferibili riforme per rafforzare la parità delle parti e la terzietà dei giudici nonché alcune limitate, ma rilevanti, riforme costituzionali (modifica del C.S.M.). Problemi tutti reali e interventi tutti necessari, che, però - a differenza di quanto alcuni sostengono - non si contrappongono, ma anzi si rafforzano se affrontati contemporaneamente, possibilmente in una apposita sessione che occupi i due rami del Parlamento. E che debbono avere come obiettivo anche quello di ripristinare l’equilibrio tra poteri dello Stato, in modo da salvaguardare sia l’autonomia della magistratura che l’autonomia del Parlamento, in un clima di leale collaborazione che è esattamente l’opposto di quelle ingerenze tra poteri dello Stato, purtroppo non rare negli ultimi decenni. Entrando nel merito di alcune proposte concrete (e concretamente praticabili), in grado di trovare ampio consenso, si può partire dagli attuali, irragionevoli, tempi di durata dei processi. Sarebbe sufficiente istituire le notifiche per via telematica (quasi metà dei processi vengono rinviati per omessa notifica); sospendere i processi, e la prescrizione, in caso di imputati irreperibili; razionalizzare il processo penale, devastato dalla legislazione d’emergenza e da interventi estemporanei e spesso schizofrenici; introdurre nel codice penale istituti deflattivi (non punibilità per irrilevanza del fatto e tenuità dell’offesa o in presenza di attività riparatorie e/o risarcitorie), per dimezzare la durata dei diversi gradi di giudizio e per evitare, con una modifica della prescrizione, le impugnazioni meramente dilatorie. Per quanto concerne le garanzie - es. libertà personale e privacy - ampio è il consenso sulla proposta che, a decidere sulle richieste di custodia cautelare (e, aggiungerei, sulle proroghe delle intercettazioni telefoniche), siano tre giudici: i paventati problemi di incompatibilità, soprattutto nei piccoli Tribunali, possono essere superati demandando tali decisioni alle Corti d’Appello. Le altre norme sulle intercettazioni non necessitano di modifiche; già oggi è possibile autorizzare le intercettazioni solo se "assolutamente indispensabili per la prosecuzione delle indagini". Il problema è quello di evitare gli abusi e di impedire, con immediate sanzioni (pecuniarie o interdittive, non certo carcerarie) la loro pubblicazione, già oggi vietata (ma mai punita) fino alla conclusione delle indagini preliminari. Obbligatorietà dell’azione penale: valore intangibile e garanzia di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, purtroppo quotidianamente violato, tanto da poter parlare di discrezionalità di fatto (e, non raramente, di arbitrio). Il problema, però, non si può risolvere cancellando un principio sacrosanto, ma creando le condizioni affinché diventi realtà. Sarebbe certamente auspicabile una ampia depenalizzazione, ma è inutile illudersi; sarebbe già positivo se si riuscisse ad evitare che, come avvenuto nelle ultime legislature, si pensasse di risolvere ogni problema con l’introduzione di nuove pene e di nuovi reati (basti pensare al reato di immigrazione clandestina). Sulla separazione della carriere bisogna sgombrare il campo da equivoci e strumentalizzazioni. Ogni posizione è legittima, ma è assolutamente falso che la separazione delle carriere incida sull’autonomia e sull’indipendenza della magistratura, Chi è favorevole a distinguere nettamente P.M. e Giudici è totalmente contrario alla dipendenza dei P.M. dall’esecutivo. Del resto, la separazione delle carriere ha avuto autorevoli sostenitori nei lavori della Costituente ed è stata condivisa, in tempi non sospetti, da illustri giuristi che hanno illuminato il cammino della democrazia, non solo nel nostro Paese (si sono recentemente pronunciati a favore, ad esempio, il prof. Vassalli, Presidente emerito della Corte Costituzionale, e il dr. Vigna, già Procuratore Nazionale Antimafia). Montesqueieu considerava un "abuso" gravissimo il fatto che gli stessi soggetti potessero essere "juge et accusateur"; Calamandrei, in vari interventi, si è dichiarato favorevole alla separazione "tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti". Sul C.S.M. il discorso è delicato, anche in quanto, se si leggono i lavori della Costituente, emerge che non è organo di "autogoverno" della Magistratura: il che trova conferma sia dagli artt. 104 e 105 Cost., che dalla presenza di laici eletti dal Parlamento. Una soluzione potrebbe essere quella di prevedere che il 50% dei suoi componenti sia eletto dai magistrati e gli altri eletti dal Parlamento e nominati dal Presidente della Repubblica tra professori universitari o alte personalità. Se si considera che sono membri di diritto il Procuratore Generale e il Presidente della Cassazione, si avrebbe ancora una maggioranza di magistrati ma, anche, una significativa presenza di laici (per lo più non politici), tale da impedire sia difese corporative sia una politicizzazione che sarebbe dannosa sotto ogni profilo. Solo con un confronto serrato ma costruttivo, senza steccati ma anche senza pericolosi salti nel buio, sarà possibile bloccare chi, all’interno della maggioranza parlamentare, vuole stravolgere principi fondanti della nostra democrazia e chi, all’opposizione, cerca di impedire ogni cambiamento in grado di ridare fiducia a chi vuole credere in una giustizia realmente al servizio dei cittadini. Giustizia: il sistema penale è al collasso per colpa della politica di Guido Calvi
Il Riformista
A fronte del collasso del sistema penale e di possibili errori dei giudici, deve essere il Parlamento a intervenire. Per misurare la debolezza del pensiero politico in tema di giustizia è sufficiente osservare il dibattito di questi ultimi mesi. Si sono susseguite dichiarazioni contrastanti e polemiche e, tuttavia, il segno dominante è la totale assenza di un qualsivoglia progetto organico di riforma del sistema giudiziario. Separazione delle carriere, obbligatorietà dell’azione penale, intercettazioni, notifiche, custodie cautelari, sono temi di non modesto interesse ma che tuttavia sono, come sempre, affrontati soltanto in occasione di eventi di cronaca. E inoltre finora non vi è nessun disegno di legge, in questa legislatura, sul quale in concreto ci si possa misurare. Insomma, il vuoto. I discorsi sono generici e le polemiche gratuite. Alla fine l’unico imputato sembra essere la Magistratura. Non vi è dubbio che i magistrati hanno responsabilità non indifferenti rispetto alla crisi attuale. Abbiamo assistito a errori giudiziari e a imprudenze nell’uso della custodia cautelare. Tuttavia sono errori di singoli magistrati che non mettono in discussione il sistema processuale, ma taluni istituti del codice di rito. Forse la critica più severa che si può muovere alla magistratura riguarda il rapporto che si è instaurato tra l’Associazione nazionale Magistrati e il Csm, sempre più influenzato nelle sue scelte dagli equilibri tra le correnti che alla fine hanno alterato i criteri di valutazione. Ma per quante critiche si possano muovere ai magistrati, il problema vero della crisi della giustizia è tutto politico. Nella storia recente, vi sono stati soltanto due momenti di grande rilievo della cultura politica in tema di riforme della giustizia. Nella tredicesima legislatura la bicamerale propose riforme costituzionali di straordinario rilievo. Basti pensare alla instaurazione della unità della giurisdizione. Il secondo momento è il lavoro svolto in quella legislatura dal Parlamento. Si cominciò con la riforma del reato di abuso di ufficio per poi passare ad affrontare il tema, con la riformulazione dell’articolo 513 del Codice di rito, della parità tra le parti processuali nel momento della formazione della prova e infine, dopo l’intervento della Corte costituzionale, con la nuova formulazione dell’articolo 111 della nostra carta fondamentale. Infine, fu necessario rileggere tutta quella parte del Codice che configgeva con il nuovo principio costituzionale, introducendo anche nuovi istituti quali quello delle indagini difensive. Il Governo propose l’importante riforma del Giudice Unico e poi l’introduzione del Giudice di Pace. Da allora in poi c’è il vuoto o, piuttosto, è accaduto il peggio. La XIV legislatura fu segnata dalle cosiddette leggi "ad personam", con le quali il centro-destra mostrava non solamente tutta la sua arroganza ma, soprattutto, incultura democratica, essendosi piegato a tutelare gli interessi processuali personali ignorando gli interessi generali di tutti i cittadini. Molte di quelle leggi furono saggiamente interpretate dalla Magistratura, circoscrivendone gli effetti e censurate severamente dalla Corte costituzionale. Nella XV legislatura il governo di centrosinistra provvide a riformulare l’ordinamento giudiziario ma il Parlamento rimase pressoché inerte. Non ci fu nessuna legge significativa di iniziativa parlamentare. Il problema dunque è qui. Nella politica. Quando un politico è intercettato e le dichiarazioni sono illecitamente rese note, la domanda da porsi non è tanto perché ciò avviene, quanto piuttosto perché Governo e Parlamento non hanno affrontato la riforma delle nonne sulle intercettazioni e, soprattutto, sulla loro utilizzabilità. Disegni di legge di iniziativa parlamentare e governativa sono stati già presentati da lungo tempo. La crisi della giustizia è dunque una crisi di iniziativa politica. La distorsione che la cultura di destra opera sull’equilibrio dello stato di diritto da una parte, e l’afasia della sinistra sono non il sintomo della crisi, ma la crisi stessa. Occorre uscire da questo stallo, ma è necessaria una grande e forte riflessione sul diritto e sul sistema giudiziario affinché la giustizia divenga finalmente lo strumento di tutela di tutti i cittadini. Giustizia: 1 milione di firme per il referendum sul Lodo Alfano
Liberazione
Oggi inizia il conto alla rovescia contro il "lodo Alfano", la norma approvata definitivamente dal parlamento lo scorso luglio e che sospende i processi per le quattro più alte cariche dello stato: presidente della Repubblica, del Senato, della Camera e, ovviamente, del Consiglio. Questa mattina, infatti, davanti alla sede della Corte di Cassazione, a Roma, ci saranno tutti i promotori e i sostenitori del referendum abrogativo per consegnare le firme raccolte in questi ultimi due mesi. In prima fila, naturalmente, Antonio Di Pietro. Il leader dell’Italia dei valori ha lanciato per primo la proposta del referendum, ma soprattutto è il più radicale nel criticare la norma voluta a tal punto da Berlusconi da essere diventata legge in soli 25 giorni: quasi un record. "È una norma scritta dai legali del premier, a misura per lui o se preferite per il titolare della tessera P2 numero 1816" tuonava in Aula al Senato il giorno del voto il fedelissimo capogruppo Felice Belisario. Quando Napolitano, il giorno dopo, promulgò la legge, Di Pietro la giudicò addirittura una scelta "rispettata ma non condivisa". "La raccolta delle firme, iniziata l’11 ottobre scorso, ha superato il muro del milione, doppiando di fatto la quota minima richiesta di 500mila - dice ora Di Pietro - Abbiamo trascorso le vacanze di Natale a verificarle una per una. Abbiamo dimostrato che si può tornare a fare politica anche tra la gente e non più solo nelle segrete stanze. La Rete e il passaparola hanno fatto il miracolo". Il lodo Alfano "è una legge che di fatto ha violentato immoralmente e incostituzionalmente lo stato di diritto, perché d’ora in poi nel nostro paese la legge è uguale per tutti, meno che per quattro persone, fra cui Silvio Berlusconi, rendendoli di fatto impunibili e impuniti". Ma oggi davanti alla Cassazione ci saranno anche, tra gli altri, Sinistra democratica e Rifondazione comunista, i due partiti di sinistra che hanno contribuito alla raccolta delle firme. "In questi mesi uomini e donne di Sd si sono impegnati contribuendo a raggiungere lo straordinario risultato di oltre un milione di firme - commenta Claudio Fava, portavoce di Sd - Un successo che è la testimonianza più viva di quanto siano radicati nella coscienza degli italiani i valori della Costituzione repubblicana, a partire da quel principio di eguaglianza che il lodo Alfano ha voluto stravolgere mettendo quattro cittadini italiani, tra cui Silvio Berlusconi, al di sopra della legge e garantendo loro il privilegio dell’impunità". Sulla stessa lunghezza d’onda Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione: "Il Prc ha raccolto firme in questi mesi in tutte le manifestazioni e in tutti i banchetti organizzati nelle piccole come nelle grandi città italiane". Il lodo Alfano, dice ancora Ferrero, lede il principio dell’uguaglianza dei cittadini, rendendo impunibili e impuniti solo quattro italiani, fra cui Berlusconi". Non per nulla, subito dopo il sì di Napolitano, il Cavaliere si lasciò andare ad una battuta: "Ora Ghedini (deputato e avvocato personale del premier, da più parti giudicato il vero ministro della giustizia, ndr) è senza lavoro!". La legge in questione, detta anche "scudo a tempo", è stata approvata definitivamente a tempo di record nei primissimi mesi di legislatura, per la precisione il 22 luglio (al Senato). In breve, dispone che per la durata del mandato sono sospesi tutti i procedimenti giudiziari, anche relativi a fatti precedenti l’assunzione della carica. Contemporaneamente è interrotta anche la prescrizione, i cui termini di decorrenza riprendono quando viene meno la sospensione. Cioè, alla decadenza dalla carica. Il tutto non è ripetibile, cioè vale per una sola legislatura; ma c’è l’eccezione: per esempio, se il capo del governo si dimette e viene rinominato nella stessa legislatura mantiene la prerogativa. Infine, un occhio alle eventuali parti lese: per tutelare i loro diritti, è previsto che esse possano trasferire il processo in sede civile. L’opposizione, in sede parlamentare, ha tra l’altro molto contestato l’accelerazione impressa dal governo, surclassando molti altri provvedimenti. Il ministro Alfano, il giorno del via libera definitivo al Senato, si è limitato a rilevare che "questa nostra ipotesi legislativa non è né molto urgente né poco urgente. Questo disegno di legge a nostro avviso è giusto. È un testo sobrio ben calibrato rispetto ai principi costituzionali coinvolti, nonché in linea con numerose normative di altri ordinamenti occidentali". Solo che, già in luglio, la fretta del governo sui temi della giustizia aveva fatto storcere il naso ai leghisti: "Per noi alla lettera "A" c’è il federalismo fiscale e solo alla "G" c’è la giustizia". Qualcosa che si sta vedendo anche in questi giorni. Giustizia: a Catanzaro, I° Giornata Nazionale dei "testimoni"
Asca
Ci sarà anche Franco Maccari, Segretario Generale del Coisp - il Sindacato Indipendente di Polizia - alla I Giornata Nazionale dei Testimoni di Giustizia, in programma per sabato, 10 gennaio, dalle ore 09.30 alle ore 24.00, a Catanzaro, che inizierà presso l’Auditorium "Casalinuovo", organizzata dalla Fondazione don Caporale di Catanzaro. Maccari, in particolare, parteciperà alla "tavola rotonda", fissata per il pomeriggio, alle ore 16, nella Sala Consiliare del Comune, cui saranno presenti anche Don Tonino Vattiata, parroco di Vazzano; Romano De Grazia, Presidente Centro Studi Lazzati; Ida D’Ippolito, componente della Commissione Nazionale Antimafia. Nel corso dei lavori, come da programma, verranno presentate proposte di emendamenti alle vigenti normative sulla materia trattata e verranno effettuati alcuni collegamenti in video conferenza con alcuni testimoni di giustizia. "Quello dei testimoni di giustizia è un tema a noi particolarmente caro - afferma Maccari -, perché con essi il Coisp condivide il coraggio di tenere fede alla propria dignità, al proprio senso civico, e la forza di battersi ogni giorno per la legalità e la giustizia, nel proprio piccolo, con un contributo che forse qualcuno paragona ad una goccia, dimenticando però che essa sa scavare la montagna. Le Istituzioni, d’altro canto, non di rado relegano queste valorose persone in una solitudine pericolosa e sconfortante. Ecco perché è giusto che se ne parli, che si discuta di loro e della loro condizione, che si cerchino soluzioni normative adeguate alle loro esigenze, poiché lo Stato deve loro vicinanza e sicurezza. Nulla - conclude il leader del Coisp - vale come l’esempio di chi, giorno dopo giorno, testimonia con i fatti, e non con le parole troppo spesso abusate e ipocrite di molti, il valore di una vita spesa per difendere gli altri. Proprio come fa ogni giorno un testimone di giustizia, proprio come fa ogni giorno un Poliziotto". Giustizia: vittime di mafia; fuori pregiudicati dal Parlamento! di Giuseppe Melchiorri
Sicilia Web
"Nel nostro Parlamento siedono 18 parlamentari pregiudicati condannati in via definitiva e 70 condannati con sentenze in primo e secondo grado. Nessun cittadino italiano, per legge, può lavorare nella pubblica amministrazione con tali fedine penali. Giustamente. Ai parlamentari che non sono più nemmeno scelti dai cittadini, ma sono solo nominati dai partiti, invece questo è permesso. È forse un modo per onorare la bandiera italiana, la sua Costituzione e la sua democrazia e per rendere giustizia a chi come mio padre ha versato il proprio sangue per difendere tali valori?". Sono le parole di Sonia Alfano, presidente dell’Associazione nazionale familiari vittime della mafia, che in occasione del 212° anniversario della proclamazione del tricolore e del 16° anniversario dell’omicidio di suo padre, il giornalista Beppe Alfano, che ricorrerà l’8 gennaio prossimo, ha scritto al presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini. Oggetto dell’appello la richiesta di appoggiare il disegno di legge d’iniziativa popolare "Parlamento pulito". "Giovedì - si legge nella lettera - ricorrerà l’anniversario dell’uccisione di mio padre da parte di Cosa Nostra. 16 anni fa lei si sedette per tutto il tempo del funerale di mio padre al fianco mio e di mio fratello. Spesso guardo la foto di quel funerale in cui lei veglia su mio fratello con fare paterno. E nella giornata di domani lei sarà a Reggio Emilia per il 212° anniversario della proclamazione del primo tricolore". "L’8 settembre 2007 - ricorda la Alfano -, in quello che fu chiamato V-day, in una sola giornata oltre 350.000 cittadini, organizzati spontaneamente sulle piazze d’Italia da Bolzano a Palermo firmarono un progetto di legge d’iniziativa popolare denominato "Parlamento pulito" che aveva come primo firmatario Beppe Grillo. Si proponeva l’ineleggibilità di condannati in Parlamento, di poter tornare a scegliere e votare i singoli candidati da parte dei cittadini (con la reintroduzione o delle preferenze o dei collegi uninominali), il massimo di cumulabilità di 2 legislature (10 anni) in Parlamento. Tutto è fermo". "Presidente Fini - ha continuato la figlia del giornalista ucciso - in una grande democrazia come quella degli Stati Uniti d’America, un candidato a segretario di Stato del neo presidente Barack Obama ha rinunciato alla carica alla quale era stato designato perché coinvolto in una inchiesta su un appalto. Nel nostro Parlamento siedono, nominati dai partiti, condannati per via definitiva! Lei in merito a tale iniziativa si espresse favorevolmente. Lei è presidente di una Camera del Parlamento della Repubblica italiana. È la terza carica dello Stato. Per onorare anche la memoria di mio padre, che lei conosceva bene e di tutti i cittadini e servitori dello Stato caduti per mano della criminalità organizzata, Le chiedo di accelerare quanto prima la discussione sul disegno di legge d’iniziativa popolare Parlamento pulito". "Tutti a parlare di questione morale (a corrente alternata in tutti gli schieramenti), ma nessuno che ricordi che esiste una proposta di legge, partita dai cittadini, che è un fondamentale punto di partenza per rifondare la nostra Democrazia e sentirci tutti italiani con orgoglio partendo dal valore dell’onestà e della scelta diretta da parte di cittadini dei loro candidati alla Camera ed al Senato. Oppure l’onestà non è un valore fondante della nostra democrazia?". "Il sangue dei nostri cari - ha concluso la Alfano - e la nostra disperata sofferenza di figli, padri, madri, mogli e fratelli degli uomini che per questa nazione hanno dato la vita è il dono più profondo di cui uno Stato possa fregiarsi. La prego, presidente Fini, di voler onorare la loro memoria e alleviare il nostro dolore appoggiando quella che all’apparenza è solo una legge ma che per noi rappresenta il vessillo della dignità di questa nazione. È questo, e sono certa che concorderà con me, il miglior modo per celebrare il nostro tricolore, la cui trama è intessuta anche sul sangue di mio padre che in quella bandiera ripose i suoi valori, per onorare la Costituzione della Repubblica Italiana e per ridare fiducia agli italiani verso la nostra democrazia". Giustizia: Costa (Pdl); più lavoro in carcere, con ditte esterne
Agipress
Lettera aperta al Ministro della Giustizia. Raffaele Costa (30 anni fa sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri): indispensabile introdurre il lavoro nelle carceri per un futuro onesto del detenuto. Oggi solo il 3% dei detenuti lavora per ditte esterne. "Com’è consuetudine ormai da molti anni, anche nel 2008 ho scelto di trascorrere alcune ore di fine anno negli istituti di pena della mia provincia. L’ho fatto, come sempre, per motivi umanitari, ma anche - o forse soprattutto - per rendermi conto dello sviluppo dell’attività carceraria nei dodici mesi trascorsi dalla mia ultima visita e confesso che, nel complesso, la situazione non mi è apparsa molto diversa rispetto ad un anno fa: forse un briciolo in più, soltanto un briciolo, non dico di allegria (impossibile), ma di minore pessimismo collettivo. Ho visitato diversi reparti del carcere di Saluzzo, del carcere di Cuneo, di quello di Fossano e infine di Alba, ove sono complessivamente detenute circa 900 persone. Lo scenario è lo stesso di sempre: cellette o celle destinate ad ospitare una o più persone, inferriate solide, letti singoli oppure a castello, tavolinetti per i pasti, televisori quasi sempre accesi, ospiti talvolta impegnati a dormire nonostante l’ora diurna oppure a confrontarsi con il calcio-balilla nell’ora di socialità. Al lavoro in pochi, anzi pochissimi: ne ho incontrati solo alcuni nelle cucine (pulite ed ordinate) intenti a preparare i pasti per gli altri detenuti. Nelle quattro carceri visitate ho incontrato singolarmente - e brevemente - circa 200 detenuti: in molti casi si è trattato solo di un saluto, in altri di fugaci conversazioni, in altri ancora - non molti a dire il vero - di richieste di interessamento da parte del recluso per l’espletamento di una qualche pratica cui ho risposto prontamente soltanto se si trattava di una richiesta non legata all’attività giudiziaria. Quale impressione ho ricavato dall’ambiente nel suo complesso? La stessa che ebbi circa trent’anni fa quando varcai per la prima volta la porta di un carcere non più in veste di avvocato difensore, bensì in qualità di sottosegretario alla Giustizia con delega proprio al sistema carcerario. Ebbene, qual è dunque questa impressione, ieri come oggi? Quella di trovarsi dinnanzi un mondo in espiazione, assistito da agenti attivi e corretti e beneficiato a volte da generosi assistenti volontari, ma essenzialmente privo di efficacia riabilitativa. Sì, l’espiazione della pena c’è, la sofferenza c’è, la legge è rispettata, ma la possibile riabilitazione è lontana soprattutto perché mancano, nel trattamento riservato ai detenuti, quei mezzi che potrebbero consentirgli, a fine pena, di rientrare a far parte della società in modo corretto, giusto, legittimo. Nella stragrande maggioranza dei casi la pena inflitta per i reati commessi (furti, rapine, spaccio di droga ecc.) è del tutto giustificata, ma insufficiente: ciò che manca è lo strumento riabilitativo per eccellenza, il lavoro. Come sancisce la stessa Costituzione all’articolo 27 "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Il carcere, dunque, dovrebbe tendere al recupero del detenuto, alla sua rieducazione: e come dare seguito al dettame costituzionale se non facendo in modo che i detenuti lavorino? Il lavoro, infatti, non solo li sottrae all’ozio forzato favorendone la rieducazione, ma permette loro di imparare un mestiere e di costruirsi così un’attività concreta per quando usciranno dal carcere. Ovviamente, allo stato attuale, nelle carceri italiane non sussistono le condizioni per far sì che oltre 50 mila persone comincino a lavorare, o imparino a lavorare, da un giorno all’altro: questa è una lacuna secolare che, in quanto tale, va colmata. So bene che mi si risponderà che vi sono migliaia di detenuti che un lavoro l’avevano e l’hanno perduto commettendo un grave reato; so bene che molti extracomunitari avrebbero problemi a restare in Italia indipendentemente dalle capacità lavorative; ma so altrettanto bene che la maggioranza dei detenuti, una volta fuori dal carcere, avrebbe molte più probabilità di condurre una vita ordinata e di non tornare a delinquere se sapesse svolgere un’attività lavorativa che, tra le altre cose, già durante il periodo di detenzione permetterebbe loro di guadagnare qualche euro per sé o per la propria famiglia. Quanti sono in Italia i detenuti che lavorano per ditte esterne, imparando o svolgendo un mestiere che potrebbero continuare anche una volta tornati in libertà? Pochissimi, appena il 3 per cento mentre una percentuale più alta, circa il 24 per cento, lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria svolgendo per lo più mansioni poco formative e difficilmente valorizzabili all’esterno, e la maggioranza, oltre il 70%, poltrisce più o meno forzatamente. Non tutti, forse, sono nelle condizioni di imparare e di esercitare un mestiere, ma è indubbio che molti detenuti potrebbero trovare nel lavoro una ragione, uno stimolo per non tornare a commettere reati. Sono perfettamente conscio che il discorso è facile da farsi, ma difficile da realizzarsi e che le criticità e gli ostacoli da superare sono innumerevoli - dall’eccessiva burocrazia all’esiguità dei fondi a disposizione -, così come so che vi sono organizzazioni no profit, comitati, associazioni, enti già attivamente impegnati nel senso indicato e carceri, come Bollate o Padova, dove il lavoro è una realtà consolidata: credo però che la questione meriti di essere approfondita e sviluppata e che siano necessari interventi normativi volti ad incentivare ed incrementare il lavoro nelle carceri. Una prima riforma potrebbe riguardare un aspetto se si vuole secondario del lavoro penitenziario ovvero la remunerazione - da parte di ditte esterne - che, in base ad una norma introdotta nel 1995, non può essere inferiore ai due terzi di quella prevista dai contratti collettivi nazionali in base alla tipologia di lavoro svolto. Una norma, questa, che unitamente ad altri fattori - quali la mancanza di professionalità e di una cultura del lavoro da parte di non pochi detenuti o l’impossibilità per il datore di lavoro di controllare il "dipendente" che svolge il proprio lavoro all’interno di un carcere, senza contare la questione sicurezza con gli inevitabili controlli - ha indotto molte aziende a rinunciare alle commesse in quanto gli oneri, specie quello salariale, risultano così elevati da mitigare persino i benefici e gli sgravi fiscali introdotti con la Legge Smuraglia del 2000. Per ovviare a questa problematica - e questo non è che un mio suggerimento ovviamente da approfondire - si potrebbe introdurre il pagamento "a cottimo", basato cioè sulla quantità dei beni prodotti, che insieme ad altri strumenti potrebbe incentivare e stimolare le ditte ad affidare le proprie lavorazioni ai detenuti. Da anni insisto su questo tema - e continuerò a farlo - perché sono fermamente convinto che la rieducazione e la riabilitazione passino anche o soprattutto attraverso il lavoro e che la possibilità di imparare un mestiere sia la condicio sine qua non affinché i detenuti, una volta in libertà, non tornino a delinquere. Mi permetto di scrivere questa lettera aperta indirizzandola al Guardasigilli Alfano, con l’auspicio che possa inserire nel suo opportuno discorso attuale sulla Giustizia anche un capitolo relativo allo sviluppo del lavoro nelle carceri". Giustizia: in lotta con gli ergastolani, contro il "fine pena mai" di Sandro Padula
Liberazione
Il numero di gennaio del bollettino “Mai dire mai”, organo di informazione dell’Associazione Liberarsi (via Tavanti 20, 50134 Firenze), presenta un primo bilancio della recente campagna contro l’ergastolo. Il 29 novembre, prima che iniziasse la protesta nazionale con lo sciopero della fame a staffetta da parte dei “fine pena mai” e dei solidali, l’europarlamentare Giusto Catania ha visitato il carcere dell’Ucciardone di Palermo accompagnato da Beppe Battaglia dell’Associazione Liberarsi. Ha incontrato i detenuti ergastolani tra cui anche Antonino Marano che ha scontato 43 anni di detenzione. Il primo dicembre c’è stata una forte adesione alla protesta da parte di persone condannate all’ergastolo, in molti casi di intere sezioni di detenuti e in qualche caso dell’intera popolazione prigioniera in un determinato carcere. Lo sciopero ha coinvolto anche detenuti in altri paesi europei (specialmente in Spagna) e, come era successo nel 2007, tantissime persone che, fra familiari, volontari e amici, chiedono l’abolizione dell’ergastolo in Italia così come è già stato fatto in tanti altri paesi dell’Europa e del mondo. Da una lettera scritta da una detenuta risulta che nel carcere romano di Rebibbia femminile, dove la lotta ha assunto le forme dello sciopero del lavoro, del carrello del vitto, del sopravvitto (quello che si compra) e di diverse battiture, è stata allargata «la protesta, oltre contro l’ergastolo, contro il regime 41bis, contro la presenza di bambini in carcere e contro il disegno di legge Berselli» (disegno di legge restrittivo della legge Gozzini). Si discute, si lotta e si riflette dentro e fuori le carceri come una forza collettiva dalle tante intelligenze individuali e dalle mille speranze, anche con il viso di un bimbo in carcere fra le braccia. E’ una Gaza invisibile e senza molto sangue sparso quella che troviamo nella realtà carceraria italiana. Donne, uomini e bambini privi di libertà che lottano per una civiltà libertaria e superiore. Esseri viventi che ogni santo giorno lottano per la dignità, per una nuova prospettiva di vita quotidiana e collettiva. La loro protesta non fa notizia. I mass media uccidono la libertà non solo quando bombardano le menti con gli spot pubblicitari di qualche Corporation o di qualche banca, cioè di alcuni fra i massimi responsabili della catastrofica situazione economica e finanziaria mondiale, ma anche quando ignorano le lotte per una vita dignitosa per tutti e per ciascuno. Soltanto i quotidiani Liberazione e Il Manifesto ed i settimanali Carta e Umanità Nova (della Federazione Anarchica Italiana) hanno svolto, insieme a diversi siti Internet, una corretta attività informativa. Fra le altre eccezioni, oltre a quotidiani locali come quello di Catania, possiamo ricordare Radio Onda Rossa a Roma, Radio Popolare a Milano e gli interventi di Luxuria e Sansonetti nella trasmissione televisiva “Anno Zero” del 4 dicembre, con cui è stata denunciata pubblicamente l’assurdità di una legislazione che prevede l’ergastolo. In particolare, come testimonia anche il video visualizzabile nel sito Internet www.annozero.rai.it, Sansonetti ha dichiarato che l'ergastolo è una tortura. Il fatto sconcertante (come dimostra il file in formato pdf – di cui qualcuno ha dimenticato di mettere l’estensione - disponibile nel sito Internet www.sappe.it) è che la mattina di una settimana dopo, l’11 dicembre, il segretario provinciale di Perugia del Sappe (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria) Giancarlo Belli ha depositato presso la Procura della Repubblica di Spoleto un esposto-denuncia nei confronti di Sansonetti perché quest’ultimo avrebbe affermato che “i detenuti ergastolani sono torturati nel carcere di Spoleto”. In sostanza, il segretario perugino del Sappe ha presentato tale esposto-denuncia sulla base della non comprensione delle parole di Sansonetti, senza rivedere il filmato disponibile nel sito di “Anno Zero” e senza un preventivo avviso alla segreteria nazionale del Sappe. Ad ogni modo, speriamo che il Sappe, oltre a far ritirare tale esposto-denuncia, comprenda che la lotta per l’abolizione dell’ergastolo è qualcosa di positivo per tutti, così come stanno già capendo in molti. A Firenze il dibattito sulla necessità di mettere fine al “fine pena mai” è stato pubblicizzato da Controradio e attraverso incontri pubblici organizzati dal 1 al 7 dicembre da organismi come il Gruppo Brozzi 334, il Gruppo Anarchico di via dei Conciatori, la Comunità dell’Isolotto, la Comunità delle Piagge e il CPA di Firenze Sud. Sempre a Firenze si è svolta una conferenza stampa nella Regione Toscana, appoggiata dai gruppi di Rifondazione Comunista, Verdi, Comunisti Italiani e Sinistra Democratica, durante la quale hanno parlato anche Alessandro Margara, presidente della Fondazione Michelucci, e Vincenzo Striano, presidente dell’ARCI regionale. A Siena gli studenti dell’università occupata hanno svolto un’assemblea con la partecipazione dell’associazione Liberarsi per discutere della lotta contro l’ergastolo. In Toscana, nella prima settimana di dicembre, i consiglieri regionali della sinistra, il consigliere comunale di Siena di Rifondazione Comunista Fiorino Pietro Iantorno e Marco Solimano, presidente dell’Arci di Livorno, hanno incontrato i detenuti di Sollicciano, Livorno, San Gimignano e Volterra. La delegazione che ha visitato Livorno ha diffuso un comunicato riportato dalla stampa e da una televisione (Telegranducato) del luogo. Il giorno 8 dicembre, all’esterno del carcere di Spoleto, c’ è stata una manifestazione organizzata da gruppi di compagni anarchici in solidarietà con lo sciopero della fame contro il “fine pena mai”. Il 10 dicembre, sempre a Spoleto, il Vescovo ha incontrato un gruppo di ergastolani. Nelle Marche i consiglieri regionali di Rifondazione Comunista hanno appoggiato lo sciopero della fame con comunicati stampa e con la visita ai detenuti in lotta nel carcere di Fossombrone. Dal 15 al 22 dicembre c’è stato lo sciopero della fame nella regione Lombardia. Sabato 20 dicembre 2008 alle ore 12 si è svolto un presidio, con microfono aperto, davanti alle mura del carcere di Voghera da parte di gruppi di solidali. Al termine della messa di Natale nel carcere di Opera, il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, ha raccolto un appello degli ergastolani e ha dichiarato che “l'ergastolo toglie la speranza” e quindi va abolito. Il 30 dicembre la Comunità Papa Giovanni XXIII, oltre a sostenere la sopra citata affermazione del cardinale Tettamanzi, ha diffuso un comunicato stampa dal titolo “Comunità invece dell’ergastolo”. Dopo la pausa delle feste, la lotta riprenderà nella settimana dal 12 al 19 gennaio nelle carceri del Veneto con il Friuli e il Trentino, dopodiché seguiranno il Piemonte con Liguria e Valle d`Aosta. Una serie di staffette fino a metà marzo. La lotta contro l’ergastolo continua e ne riparleremo. Giustizia: sul caso di Denis Occhi; l’innocenza non si ridiscute di Guido Neppi Modona (Docente di Diritto Università di Torino)
Il Sole 24 Ore
Accade talvolta che il comune sentire non vada d’accordo con le regole giuridiche, o comunque non riesca a penetrarne le ragioni. Sembra essere questo il caso di una vicenda processuale a cui i mezzi d’informazione hanno dato ieri ampio rilievo: Denis Occhi, imputato per l’omicidio della giovane moglie, aveva confessato ed era stato condannato in primo grado, a seguito di giudizio abbreviato, a 16 anni di reclusione, con l’obbligo di ricovero per quattro anni in una casa di cura e di custodia (il che lascia presumere che fosse stato ritenuto seminfermo di mente). L’imputato aveva fatto ricorso contro la condanna ritrattando la precedente confessione e la Corte d’Appello lo aveva assolto perché mancavano prove certe della sua colpevolezza. Il pubblico ministero non aveva proposto ricorso in Cassazione e la sentenza d’assoluzione era passata in giudicato, cioè era divenuta definitiva e irrevocabile. Denis Occhi era stato immediatamente posto in libertà e dopo più di un anno, il 2 gennaio 2009, si è presentato in Questura e ha confessato di essere l’autore dell’omicidio della moglie. Anche ove risultasse che la nuova confessione è veritiera ed è stata resa nel pieno possesso delle facoltà mentali, il processo contro Denis Occhi non potrà essere riaperto, né ora né mai. I conti di questa persona con la giustizia penale sono definitivamente chiusi. Lo stabilisce un principio che ha radici secolari, contenuto nell’articolo 649 del Codice di procedura penale, intitolato "Divieto di un secondo giudizio". Vi si legge che l’imputato prosciolto o condannato con sentenza divenuta irrevocabile non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatte-se ciò nonostante il processo inizia di nuovo, il giudice deve pronunciare sentenza di proscioglimento perché la persona era già stata giudicata. L’unica eccezione a questo principio è la revisione, in casi particolari, della sentenza di condanna già passata ingiudicato, quando ad esempio emergano nuove prove che dimostrino che il condannato deve essere prosciolto con formula ampia. Ma, appunto, la revisione è ammessa solo in favore dell’imputato nel caso di una precedente condanna, e non anche quando la sentenza passata in giudicato sia di assoluzione. La regola affonda le sue radici nel superamento del modello processuale inquisitorio, in auge nell’Europa continentale sino al crollo dell’Ancien Regime. Riguardo a questo modello, Franco Cordero, grande processual-penalista, ha appunto parlato di "bulimia istruttoria", cioè di un processo in cui il giudice "inquisitore" ha poteri assoluti di ricercare all’infinito le prove della colpa dell’imputato e in cui il proscioglimento è sempre provvisorio, in attesa, appunto, di riuscire a trasformare l’assoluzione in una sentenza di condanna. Al contrario, il modello processuale accusatorio, proprio della tradizione e della cultura dei Paesi anglo-americani, sposato dalla Francia rivoluzionaria del 1789, si basa sulla parità tra accusa e difesa, che si confrontano davanti a un giudice terzo e imparziale. Accusa e difesa giocano le loro carte nel rispetto di regole, tempi e ritmi predefiniti; il giudice viene chiamato a decidere in seguito alle prove raccolte e formate in contraddittorio nel corso del dibattimento pubblico e la sua decisione, se è di assoluzione, risolve il caso in modo definitivo. Solo in caso di condanna sono previste ipotesi eccezionali in cui la sentenza può essere oggetto di revisione in bonam partem, cioè in favore dell’imputato. Il Codice francese dei delitti e delle pene del 1795 e il Codice napoleonico d’istruzione criminale del 1808 contengono appunto questo principio, che verrà poi introdotto, attraverso il Codice sardo, nei Codici di procedura penale italiani del 1865, del 1913, del 1930 e, infine, del 1989. Con una diversa formulazione, la garanzia di certezza nei confronti dell’imputato assolto è prevista dal quinto emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (la cosiddetta doublé jeopardy), ove è posto il divieto per lo Stato di compiere più di un tentativo per ottenere la condanna della medesima persona per lo stesso reato: in caso di assoluzione, il rappresentante della pubblica accusa non può né proporre impugnazione, né iniziare un nuovo processo. Il principio ha trovato riconoscimento costituzionale anche in alcuni ordinamenti contemporanei, ad esempio nella Costituzione tedesca; in Italia potrebbe essere implicitamente ricompreso tra le garanzie del giusto processo, introdotte recentemente nella Costituzione, e in particolare nell’ambito del principio della parità tra le parti nel processo penale. Innocente o colpevole, Denis Occhi si troverà a fare i conti solo con la propria coscienza, ma non sarà più chiamato a rispondere davanti ad alcun giudice. Il fatto che il dato nuovo della sua vicenda processuale sia consistito in una sorta di confessione (che tra l’altro non è di per sé prova certa di colpevolezza, specie se proviene da persona in instabili condizioni di mente) non deve trarre in inganno. La garanzia del divieto di un secondo giudizio affonda le sue radici in un principio di grande civiltà giuridica, che da un lato si fa carico, in favore dell’imputato, dei limiti e della fallibilità della giustizia umana, dall’altro vuole evitare, per usare le parole di una lontana sentenza del 1957 della Corte costituzionale americana, che chi è stato assolto viva "in un continuo stato di ansietà e d’insicurezza, e che aumenti la possibilità, sebbene innocente, divenire giudicato colpevole". Livorno: detenuto in coma; esigue le speranze di un risveglio
Il Tirreno
Sarà trasferito a giorni a Volterra, presso la clinica del risveglio. Le condizioni di Alfonso Maria Vizzini, giovane di 23 anni detenuto del carcere delle Sughere, sono disperate. È in coma, in stato vegetativo, non reagisce agli stimoli, riesce solo ad aprire gli occhi. La speranza è che presso il centro di Volterra possa riacquisire, un po’ alla volta, la capacità di muoversi e quindi le facoltà intellettive. Ma per ora la situazione resta precaria. Il giovane è entrato in coma dopo una lite, due mesi fa, in carcere con un compagno detenuto. Una discussione finita con una spinta in seguito alla quale Vizzini è caduto dalle scale e ha battuto il capo. Il ragazzo era stato arrestato dalle Volanti della polizia lo scorso 7 ottobre in esecuzione di una misura di custodia cautelare richiesta dal Tribunale di Ragusa per alcuni furti. Quella notte, il giovane era stato fermato dalla polizia mentre si trovava in auto con un amico in via Masi. Dal controllo era emerso che il giovane doveva essere arrestato, su richiesta del giudice, e quindi era stato portato alle Sughere. Vizzini è nato a Niscemi, in Sicilia, ma poi la sua famiglia si era trasferita in Toscana. Disperato il babbo, originario della Sicilia, ma residente a Cecina. Cagliari: Schirru (Pd); mai più dei bambini al Buoncammino
La Nuova Sardegna
"I minori non possono e non devono vivere in carcere": lo ha ribadito la parlamentare del Partito democratico Amalia Schirru dopo una visita nella struttura di Buoncammino. "Nel carcere cagliaritano ci sono da risolvere ancora diversi problemi - si legge in una nota firmata dall’esponente del Pd - ma la questione che mi lascia in assoluto più sconcertata è la presenza di una bambina di ventidue mesi, figlia di una extracomunitaria arrestata e processata per traffico di droga. Trovo inconcepibile e assurda una situazione di questo tipo e come già denunciato dal consigliere regionale Maria Grazia Caligaris, occorre trovare velocemente una struttura alternativa al carcere, che ospiti la bambina e la madre, tra l’altro, di nuovo incinta". Il primo impegno assunto da Amalia Schirru dopo la visita a Buoncammino sarà la presentazione di una interrogazione parlamentare al ministro Angelino Alfano: "Chiederemo al responsabile della Giustizia di essere coerente rispetto a quanto affermato nei mesi scorsi, quando dichiarò che nessun minore avrebbe dovuto varcare le soglie di un penitenziario - ha ricordato Amalia Schirru -. Inoltre, chiederemo un impegno preciso in merito all’individuazione di un alloggio adeguato per la bambina e sua madre, oltre ad azioni concrete per evitare il ripetersi di questi episodi e far si che non si rimandi ancora per la predisposizione di strutture idonee che evitino ai bambini di finire dietro le sbarre". La parlamentare ha poi elencato i problemi riscontrati a Buoncammino: "Ho constatato molta disponibilità da parte del direttore e di tutto il personale, così come nelle precedenti visite. Vanno risolti diversi problemi, come la carenza di personale, il sovraffollamento, i disagi legati alle tossicodipendenze e all’integrazione dei detenuti stranieri e l’insufficienza dei programmi rieducativi. Si tratta di questioni che, come parlamentari sardi del Partito Democratico, cercheremo di affrontare nell’immediato futuro. Il governo nazionale di centrodestra non investe nulla in riabilitazione, e al contrario noi pensiamo che ci sia bisogno di una rivisitazione delle politiche penitenziarie". Venezia: la "messa in prova" serve poco a S. Maria Maggiore
La Nuova di Venezia
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano punta sulla messa in prova ai lavori utili per decongestionare le carceri italiane. In questo modo, infatti, stando alle statistiche del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, potrebbero uscire seimila detenuti, di cui 369 dalle carceri venete: si dovrebbe applicare a tutti coloro che stanno scontando una pena di due anni. Ma, se per alcuni penitenziari veneti come quello di Padova sarebbe un provvedimento che decongestiona le celle, per Santa Maria Maggiore cambierebbe davvero poco. A spiegarne il motivo è lo stesso direttore Gabriella Straffi: "Quello di Venezia è una Casa Circondariale dove i detenuti con una condanna definitiva, quelli che potrebbero usufruire del nuovo provvedimento, sono una piccola minoranza". Oggi a Santa Maria Maggiore sono presenti 284 detenuti (la settimana scorsa erano oltre 300), almeno cinquanta in più di quello che il vecchio anche se ristrutturato edificio potrebbe ospitare, di cui soltanto meno di 80 sono definitivi, mentre gli altri 200 sono tutti in attesa del processo. Se le statistiche del ministro della Giustizia sono corrette, ad usufruire della messa in prova dovrebbero essere il 10 per cento dei detenuti definitivi: significa che a Venezia ne uscirebbero 8, che su 284 non sono certo una grande cifra. Meglio, invece, andrebbe per il carcere femminile della Giudecca, dove la maggioranza delle 70 detenute stanno scontando una condanna definitiva, trattandosi di una Casa di Reclusione. La situazione di Santa Maria Maggiore, comunque, è condivisa da altri e numerosi istituti di pena italiani, dove è nettamente prevalente il numero dei detenuti in attesa di giudizio rispetto a quelli già condannati definitivamente. I dati forniti dal Dap, in questo senso, sono chiari: in Italia ci sono 32.547 detenuti che devono subire un processo e 25.953 che devono scontare la pena (cioè il 55 per cento). Tempio Pausania: carcere in costruzione, sarà aperto nel 2011
La Nuova Sardegna
Proseguono a ritmi serrati i lavori di costruzione del supercarcere di Nuchis. Nei giorni scorsi l’intera struttura è stata completata, e ora le maestranze (operai specializzati e tecnici giunti dalla penisola) sono impegnate nell’allestimento degli spazi interni destinati ad ospitare i detenuti, i servizi di vigilanza, gli spazi comuni (sale di ricreazione e mense) e la palazzina che ospiterà il personale addetto alla sorveglianza. L’intero complesso, che occupa circa sette ettari nelle campagne di Nuchis, la frazione a pochi chilometri da Tempio, dovrebbe essere completata entro il 2010 e consegnata all’amministrazione penitenziaria entro il giugno del prossimo anno. La nuova Casa Circondariale, che dovrebbe avere (il condizionale è d’obbligo, trattandosi di lavori coperti da un rigoroso riserbo) anche dodici celle destinate a detenuti eccellenti, sottoposti ad alta sorveglianza, dovrebbe entrare in funzione nei primi mesi del 2011. Per la sua costruzione sono stati già finanziati e erogati circa 30 milioni di euro, mentre per attivare e rendere funzionale la struttura (con dotazioni di sicurezza all’avanguardia, quali telecamere all’infrarosso e sensori lungo l’intero perimetro) saranno necessari altri cinque milioni di euro per l’acquisto e la sistemazione in loco della modernissima tecnologia antievasione. Caserta: per pestaggio di detenuto 7 assoluzioni e 1 condanna
Corriere del Mezzogiorno
Sette assoluzioni (tra cui quella di un dirigente medico) e una condanna a sei mesi di reclusione: si è concluso cosi, questo pomeriggio, il processo a carico degli agenti ed ispettori di polizia penitenziaria accusati di aver violentemente pestato nel 2004, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, Joe Ortiz, un cittadino statunitense con diversi precedenti penali e ritenuto un recluso particolarmente violento. Il detenuto di colore vittima dell’aggressione, aveva denunciato diversi agenti e funzionari della Casa Circondariale sammaritana dopo aver ingoiato una lametta e ottenuto un primo ricovero nell’infermeria del penitenziario sammaritano e successivamente in quello di Secondigliano. Il coloured U.s.a. avrebbe accusato le divise in quanto questi si sarebbero vendicati per alcune sue dichiarazioni rese al tribunale di Santa Maria Capua Vetere con le quali aveva svelato diversi maltrattamenti di cui sarebbe stato vittima. Al ritorno dal tribunale gli agenti - a dire di Ortiz, oramai da tempo irreperibile e presentatosi esclusivamente all’udienza preliminare un anno e mezzo fa - su ordine dell’ispettrice generale Rosalia Colella (assolta con formula piena) lo avrebbero picchiato con bastoni, lo avrebbero denudato, e lo avrebbero fatto guardare così nudo da personale femminile per cinque ore consecutive. Portato in infermeria il medico Nicola Mottola (anch’egli assolto) non avrebbe certificato le sue lesioni che poi sono state riscontrate nello stesso giorno presso la casa circondariale di Secondigliano dove lo stesso fu immediatamente trasferito dopo il pestaggio. Il giudice monocratico Raffaello Magi, accogliendo la tesi della difesa e, alla luce delle dichiarazioni confessorie del solo condannato, ha irrogato la pena al solo agente Mario De Maio. Il collegio difensivo era composto dagli avvocati Giuseppe Stellato, Alberto Martucci, Umberto Pappadia e Angelo Raucci. Campobasso: lo "spot" dal carcere di Larino trasmesso al Tg5
www.telemolise.it
Sono approdati al tg 5 gli auguri di Telemolise realizzati con i detenuti del carcere di Larino. Ideato dal direttore, Manuela Petescia, lo spot è stato trasmesso nel telegiornale dell’ammiraglia Mediaset che ha voluto dedicare all’evento un lungo servizio. Una nuova vetrina nazionale dunque per Telemolise, più volte oggetto delle attenzioni dei media nazionali e solo qualche giorno fa premiata dall’Associazione Nazionale Malati di Alzheimer con la pubblicazione di un filmato di presentazione della patologia nell’home page del loro sito accanto a spot firmati da registi del calibro di Dario Argento e Giuseppe Tornatore. Un successo dopo l’altro per la tv regionale leader negli ascolti. Nello spot si vedono i giornalisti cantare insieme ai detenuti, recitare, dipingere, intagliare, restaurare e mangiare i pasticcini fatti da loro. È la prima volta che le porte di un carcere si aprono ad una tv con queste finalità, lasciando che si allestisse un piccolo set cinematografico all’interno della struttura e superando tutte le difficoltà e i vincoli burocratici, per offrire una giornata diversa e solare una volta nella vita a chi ha sbagliato ma intende cambiare, come fosse un augurio per candidarsi ad un futuro diverso, gratificante, socialmente riconosciuto. A dirigere la casa circondariale di Larino, che ospita 247 detenuti, c’è Rosa La Ginestra, che dedica se stessa al recupero e alla riabilitazione, organizzando una serie di attività alcune delle quali inserite - nei tempi e nei criteri di un carcere, ovviamente - in circuiti sociali e commerciali: pittura, restauro, musica, artigianato, pasticceria, teatro. Quando usciranno avranno imparato un mestiere. Grande soddisfazione è stata espressa dall’editore di Telemolise, Quintino Pallante, un giovane che sta dimostrando - a un anno dalla scomparsa del padre - di avere tutte le carte in regola per proseguire nel solco tracciato da quel grande editore che è stato Lelio Pallante. Immigrazione: espulso, può tornare in Italia per rivedere figlio di Carlo Raggi
Il Resto del Carlino
C’è un uomo, in Nigeria, che chiamiamo Joseph, che oggi forse può sorridere. E sorridono la moglie e il figlioletto di tre anni. La befana ha portato loro un regalo grande come una casa, la sentenza del giudice di pace di Ravenna Anna Maria Venturelli con cui viene annullato il decreto di espulsione a firma del prefetto e viene anche duramente censurata questa decisione imperativa adottata in spregio alla legislazione internazionale. "Ora - sottolinea il difensore, l’avvocato Andrea Maestri - ci aspettiamo che le autorità rilascino immediatamente a Joseph un visto d’ingresso per motivi familiari perché possa al più presto riabbracciare moglie e figlio. Per chi non crede in Dio diciamo che la Befana ha portato una calza piena di speranza per Joseph e la sua famiglia e di carbone per chi non ha saputo ascoltare il pianto di un bambino" e non ha saputo superare il metodo burocratico di applicazione della legge attingendo ai principi delle convenzioni internazionali che, se ratificate, sono legge al pari di altre. In questo caso, l’articolo 8 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (e anche la Convenzione dei diritti del fanciullo del 20 novembre 1989). La vicenda di Joseph ha comunque dell’incredibile e dimostra ancora una volta come anche uno Stato moderno non sfugga al rischio di trasformare la propria potestà d’imperio in una macchina stritolante quando a fronte di situazioni individuali, una diversa dall’altra, prevale invece la burocratizzazione dell’agire. "Questa sentenza - evidenzia l’avvocato Maestri - restituisce fiducia nella giustizia a chi lotta quotidianamente per i diritti dei più deboli". JOSEPH, nigeriano, è in Italia dalla metà degli anni Novanta. Dal 1996 al 2006 ha sempre goduto del permesso di soggiorno. Il 17 maggio del 2005 la sua compagna dà alla luce un bimbo che chiameremo Victor. Mamma e bimbo hanno anche loro un regolare permesso di soggiorno. È l’11 dicembre 2008 che Joseph si scontra con l’imperio dell’autorità statuale, sotto forma di un diniego del rinnovo del permesso di soggiorno: non ha più lavoro. Lo straniero, infatti, serve solo per le sue braccia. Il provvedimento, della Questura di Treviso, gli viene notificato il 18 giugno 2008. Il secondo impatto violento avviene il 17 luglio quando, in violazione alla legge che dà tempo all’interessato ben 60 giorni (con la sospensione dei termini feriali si sarebbe arrivati al 27 settembre) per ricorrere al Tar, la Prefettura di Siena gli notifica il decreto di espulsione amministrativa. Nel frattempo Joseph e la sua famiglia si erano trasferiti a Ravenna dove a settembre, in Municipio, i due conviventi si sono sposati. I tre vivono con i proventi del lavoro di lei. A quel punto l’avvocato Maestri, anche a fronte delle nuove condizioni familiari, ha presentato istanza alla Prefettura e al Questore di Siena per l’annullamento dell’espulsione anche in considerazione del fatto che è la stessa legge che disciplina l’immigrazione a disporre il principio della salvaguardia del diritto all’unità familiare e dell’interesse dei figli. Il 6 ottobre 2008 Joseph, previo appuntamento dell’ufficio-filtro del Comune di Ravenna, è andato in Questura a Ravenna per cercare di regolarizzare, sotto diversa forma - motivi familiari - il suo soggiorno in Italia. Ed ecco il terzo impatto di Joseph con la "violenza" delle istituzioni: il 9 ottobre la Questura dichiara irricevibile l’istanza e procede all’arresto di Joseph perché non se n’è andato dall’Italia. All’indomani, al processo per direttissima, su richiesta del pm Gianluca Chiapponi, il giudice assolve l’imputato perché illegittimo il decreto di espulsione per carenza di motivazione. Oltretutto sta diventando orientamento costante della Cassazione escludere che si configuri il reato di inottemperanza a lasciare il territorio dello Stato allorché la premessa all’espulsione sia il diniego al rinnovo del permesso di soggiorno, in quanto tale diniego viene considerato situazione diversa dalla revoca. E subito dopo la sentenza ecco ancora il pugno duro dell’autorità statuale abbattersi su Joseph: all’uscita dal tribunale il nigeriano viene accompagnato in Questura dove gli viene notificato un altro provvedimento di espulsione, questa volta a firma del prefetto di Ravenna e poi viene portato in un campo di detenzione amministrativa (che ora si chiama centro di identificazione ed espulsione) a Bologna in attesa dell’imbarco sull’aereo per la Nigeria. Dice Maestri: "Il provvedimento è stato convalidato dal giudice di pace di Bologna competente per territorio con una motivazione censurabile sotto il profilo giuridico e di fatto: addirittura giunge a dire che Joseph può tornarsene in Nigeria con moglie e figlio. Quale palese violazione della Convenzione sui diritti del fanciullo. Il fatto è che prefetture, questure e giudici spesso applicano solo le norme a tutela dell’ordine pubblico e della regolarità del soggiorno, non quelle a tutela dei diritti delle persone". I tempi stringono: l’avvocato Maestri il 16 dicembre 2008 presenta ricorso al giudice di pace contro il provvedimento di espulsione del prefetto di Ravenna e invia un fax urgente in Prefettura chiedendo di ritardare l’esecuzione dell’espulsione perché l’udienza - davanti al giudice Anna Maria Venturelli - è fissata per il 3 novembre. Il 28 ottobre Joseph viene invece imbarcato e solo nei giorni successivi la Prefettura risponde a Maestri: "Non sospendiamo proprio nulla". Insiste Maestri sollecitando la Prefettura ad agire in autotutela e annullare il provvedimento in ossequio alla legislazione nazionale e internazionale. Nulla da fare. Nel frattempo la causa davanti al giudice Venturelli ha conosciuto altre due udienze e il 30 dicembre la decisione, notificata ieri allo studio del legale ravennate, con cui viene annullata l’espulsione. Immigrazione: in 20 anni 13.351 i morti sulle frontiere dell’Ue
Redattore Sociale - Dire
Vittime di naufragi nel Mediterraneo, ma anche del caldo del deserto o degli spari della polizia. La strage continua da 20 anni. E non si ferma neanche in inverno. A dicembre 15 morti, tra cui il tredicenne afgano a Venezia. Morire di frontiera. Accade da 20 anni lungo i confini dell’Europa. Sono soprattutto naufragi nel Mediterraneo, ma non mancano incidenti stradali, morti di stenti nel deserto come tra le nevi dei valichi montuosi, piuttosto che uccisi da un’esplosione negli ultimi campi minati in Grecia, dagli spari della polizia egiziana o dalle violenze nelle carceri libiche. Esiste un sito che fa memoria dei quelle vittime. Si chiama Fortress Europe. Dal 1988 ad oggi ha documentato sulla stampa lo scomparsa di 13.351 persone. Sono uomini, donne e bambini. Emigranti e rifugiati politici tagliati fuori dalla mobilità, nell’epoca della globalizzazione. Alla loro memoria è stato eretto un monumento a Lampedusa. È una porta in ceramica refrattaria alta cinque metri, realizzata dallo scultore Mimmo Paladino e inaugurata col sostegno di Amani lo scorso 28 giugno 2008. A Lampedusa perché il Canale di Sicilia negli ultimi anni è divenuto un grande cimitero, nonostante i numerosissimi salvataggi in mare della guardia costiera e dei pescatori. Dal 1994 qui sono annegate almeno 3.128 persone. Un terzo dei 9.409 morti del Mediterraneo, documentati da Fortress Europe. Almeno, perché nessuno sa quanti naufragi fantasma siano avvenuti senza che se ne sappia niente. L’ultimo è stato a fine ottobre: 5 cadaveri ripescati a sud di Malta, in alto mare. Quanti fossero a bordo del barcone affondato in quel tratto di mare non lo sapremo mai. Accanto alla Sicilia, la Sardegna, con i suoi 125 morti negli ultimi due anni, tra Annaba, in Algeria, e Cagliari. La rotta albanese invece – oggi inutilizzata – negli anni Novanta fece almeno 603 morti. Più a oriente invece, tra la Turchia e la Grecia, si continua a morire. Nel mare Egeo, nei pressi dei noti isolotti greci di Samos, Mitilini, Chios. Almeno 1.066 emigranti sono annegati in questa area. Molti erano rifugiati. Da un punto di vista geografico infatti, la Grecia è la naturale via di fuga dei profughi afgani, kurdi e iraqeni. E dalla Grecia molti continuano il viaggio nascosti nei camion che si imbarcano sui traghetti per l’Italia. Quest’anno ne sono morti 8 nei porti dell’Adriatico. L’ultimo era un ragazzino di 13 anni, afgano, trovato senza vita a Mestre (Ve), lo scorso 10 dicembre. Dall’altro lato del Mediterraneo c’è la Spagna. E il Marocco. È il punto in cui l’Africa è più vicina all’Europa. Al largo di Andalucia, Murcia e isole Canarie, si contano 4.349 morti dal 1988. Mentre lungo la frontiera militarizzata che separa le due enclave spagnole in Marocco, Ceuta e Melilla, i morti sono almeno 36, l’ultimo ucciso il primo gennaio dagli spari dei militari marocchini. E nelle retrovie, sulle rotte trans-sahariane che dall’Africa occidentale portano in Marocco e dal Corno d’Africa in Libia, i morti sono altrettanti. Fortress Europe ne ha documentati 1.677. Ma secondo i sopravvissuti, quasi ogni viaggio conta i suoi morti. E per chi non si imbarca, ci sono tanti altri modi di passare le frontiere. Ci sono i camion. Basta nascondersi tra la merce oppure aggrapparsi sotto il telaio. Ci sono le stive dei traghetti e delle navi cargo. Ci sono i fiumi frontalieri e le frontiere terrestri, soprattutto nell’Europa orientale. La lista dei morti si allunga ogni giorno. Anche in pieno inverno, a dicembre, le vittime lungo le frontiere europee sono state almeno 15, di cui 12 nel mar Egeo, tra Turchia e Grecia, 2 alle isole Canarie, in Spagna, e una in Italia: il tredicenne afgano trovato morto a Venezia.
1.502 morti in frontiera nel solo 2008
Ad avvistarlo è stato un pescatore, nel pomeriggio dello scorso 26 dicembre. Il cadavere galleggiava tra gli scogli di Melilla, l’enclave spagnola in Marocco. È la vittima numero 1.502 del 2008. Tanti sarebbero i migranti e rifugiati morti lungo le frontiere europee nell’anno appena trascorso, secondo l’osservatorio sulle vittime dell’immigrazione Fortress Europe. Un dato che segna un meno 23% rispetto al 2007, quando le morti documentate alle frontiere Ue furono 1.942, poco meno delle 2.088 registrate nel 2006. Difficile comparare i dati, dato che si tratta delle sole notizie riportate dalla stampa. Nessuno infatti è in grado di conoscere il numero di naufragi "fantasma" sfuggiti alla cronaca ma non ai pescatori del Canale di Sicilia, che continuano a pescare resti umani nelle reti, specialmente in prossimità delle coste libiche. In linea con la crescita del numero degli arrivi, aumentano le vittime nel Canale di Sicilia. Le vittime documentate tra Libia, Tunisia, Malta e Sicilia sono passate dalle 302 nel 2006 alle 556 nel 2007 alle 642 nel 2008. Negli stessi anni, il numero di migranti intercettati nel Canale di Sicilia è passato da 19.000 a 20.450 per poi balzare a 36.900 nel 2008 (l’aumento percentuale tra il 2007 e il 2008 è dunque dell’80,4%). Un aumento significativo, ma comunque di gran lunga inferiore al fabbisogno di manodopera straniera, dato che il governo Berlusconi ha da poco chiesto l’ingresso di 150.000 lavoratori immigrati per il 2008. Ancora maggiore – per quanto contenuto in termini assoluti - è stato invece l’aumento dei migranti intercettati in acque maltesi, passati dai 311 del 2006 ai 613 del 2007 e ai 1.266 nei primi nove mesi del 2008. Somalia e Nigeria sono le prime nazionalità di chi attraversa il Canale di Sicilia. E parallela alla rotta siciliana, continua a essere battuta la rotta che dalle coste algerine di Annaba porta in Sardegna. Circa 1.500 algerini erano stati intercettati nel 2007. Le vittime continuano a susseguirsi. Dopo i 65 morti del 2007, l’anno appena trascorso ha registrato la scomparsa di 60 persone, tra annegati e dispersi in mare. Oltre alla Sicilia gli sbarchi aumentano anche in Grecia, sulle rotte che dalla Turchia attraversano l’Egeo. Dai 4.000 arrivi registrati nel 2006 si è passati agli oltre 10.000 del 2007 e il dato è in aumento anche per il 2008. Diminuiscono invece le vittime. Dopo l’anno nero del 2007, quando al largo delle isole greche persero la vita almeno 257 persone, perlopiù rifugiati afgani e irakeni, nel 2008 le vittime registrate sono 181. Continuano a diminuire invece gli arrivi in Spagna e alle isole Canarie, complici i pattugliamenti di Frontex e gli accordi di riammissione firmati dalla Spagna con i paesi di origine dei migranti. Il numero dei migranti intercettati al largo delle isole Canarie, nell’oceano Atlantico, è passato dai 32.000 del 2006 ai 12.624 del 2007 e ai 9.089 del 2008. Calano di pari passo le vittime. Passate dalle 1.035 del 2006 alle 745 del 2007 e alle 136 del 2008. Tuttavia rimane alta l’incertezza sul numero di naufragi fantasma, dato che i pattugliamenti europei hanno causato un allungamento delle rotte: ormai si parte da Gambia e Guinea, per viaggi di due settimane in mare. E di una imbarcazione che affonda in pieno oceano al largo delle coste africane non rimane nessuna traccia. Nello stretto di Gibilterra invece l’andamento è opposto: gli sbarchi continuano a diminuire, e le vittime ad aumentare. Il numero di migranti intercettati al largo delle coste andaluse sono passati dai 5.579 nel 2006 ai 3.748 nel 2007 e ai 3.017 nel 2008. Negli stessi anni le vittime sono prima scese dalle 215 del 2006 alle 142 del 2007, per poi risalire alle 216 dell’anno appena passato. Ma non c’è solo il mare a uccidere i migranti. C’è il caldo del deserto del Sahara, gli spari della polizia in Egitto, le mine alla frontiera turco-greca, i camion dentro i quali ci si nasconde in Turchia, come in Grecia e in Francia. E allora ai 1.235 morti del Mediterraneo nel 2008 se ne aggiungono altri 267: 27 al largo dell’isola francese di Mayotte, nell’Oceano Indiano; 4 al porto di Calais, alla frontiera tra Francia e Inghilterra, 32 sotto gli spari della polizia, di cui 25 in Egitto, 4 sui campi minati di Evros, in Grecia, 8 nei porti italiani dell’Adriatico nascosti sotto i tir in arrivo dalla Grecia, altri 75 sotto i camion, 27 annegati nei fiumi di frontiera e addirittura 90 morti disidratati nel deserto del Sahara tentando di raggiungere la costa mediterranea per poi imbarcarsi. Immigrazione: Maroni; in 2009 a stop sbarchi, nel 2008 +75%
Notiziario Aduc, 7 gennaio 2009
"Nel 2009 gli sbarchi dalla Libia verso Lampedusa cesseranno. Non è una promessa, è un impegno". Ad assicurarlo è il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, intervistato da Libero. Secondo Maroni la soluzione sta nell’accordo siglato un anno fa con la Libia "che prevedeva il pattugliamento delle coste libiche con sei motovedette italiane condotte da personale libico"; ecco perché - aggiunge - dobbiamo attuare l’accordo alla svelta e mettere a disposizione dei militari libici le sei motovedette. "Direi che stavolta ci siamo: entro la fine di gennaio il pattugliamento partirà e noi avremo risolto il problema... E anche la comunità di Lampedusa avrà finito di soffrire". Ai cittadini dell’isola lo spiega lo stesso Maroni il 5 gennaio, mentre il 13 incontrerà i suoi colleghi di Malta, Cipro e Grecia, "per stilare un documento comune da discutere in Europa, alternativo al programma Frontex". Nel 2008, sotto il Governo Berlusconi, gli sbarchi sono aumentati del 75% rispetto al 2007, durante il Governo Prodi, più volte accusato dal centro destra di non fare abbastanza contro il fenomeno. Passando dal traffico di esseri umani a quello di droga, Maroni sottolinea che "una delle principali porte d’accesso" della cocaina in Italia dal Sudamerica è "il porto di Gioia Tauro, un colabrodo che metteremo presto in sicurezza con un massiccio intervento di sorveglianza". Francia: riforma Sarkozy; Procure dipenderanno dal governo di Giampiero Martinotti
La Repubblica, 7 gennaio 2009
L’annuncio atteso oggi all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un sindacato boicotta la cerimonia. Nicolas Sarkozy vuole rivoluzionare la giustizia francese e molti oppositori lo sospettano di volere in realtà metterla al passo. Secondo Le Monde, infatti, il capo dello Stato dovrebbe annunciare oggi una riforma radicale della procedura penale: le inchieste saranno tolte ai giudici istruttori e affidate ai procuratori della Repubblica. Una decisione dirompente, poiché Oltralpe il magistrato istruttore è indipendente, mentre le procure ottemperano agli ordini del Guardasigilli. C’è il rischio che le inchieste "sensibili", quelle che riguardano affari politico-economici o terrorismo, vengano eseguite secondo i voleri del governo. L’Eliseo ha rifiutato di commentare le indiscrezioni e ha rinviato tutto al discorso che Sarkozy terrà oggi in Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Per capire la portata della riforma è necessario inquadrare il lavoro del giudice istruttore, "l’uomo più potente di Francia", secondo la definizione attribuita a Napoleone. Indipendente dal potere politico, è lui, con l’aiuto della polizia, a condurre le inchieste sui casi più gravi. I suoi poteri sono estesi: ordina perquisizioni, confronti, intercettazioni, distribuisce avvisi di garanzia. Solo il potere di incarcerare gli è stato tolto otto anni fa e affidato a un giudice delle libertà. Deve indagare "a carico e a discarico", individuare i colpevoli e rinviarli a giudizio. Ma svolge così un doppio ruolo: investigatore e arbitro. È lui l’uomo che deve trovare le prove contro i sospetti e quello che deve giudicare. Da tempo una riforma del suo ruolo è oggetto di dibattito e già nel 1990 una commissione prefigurò la soppressione del magistrato istruttore. Sarkozy sarebbe deciso a varcare il Rubicone, affidando ai procuratori della Repubblica il compito di condurre le inchieste sotto il controllo di un magistrato indipendente, il "giudice dell’istruttoria". Ma questa scelta suscita timori e disappunto: la commissione del 1990 aveva infatti ipotizzato questo scenario, ma insieme all’indipendenza delle Procure. Sarkozy, invece, rifiuterebbe di compiere quest’ultimo passo. Ma è evidente che un magistrato legato al governo, che lo comanda e lo nomina, non può dare molte garanzie nel caso di inchieste delicate. Da qui le proteste, compresa la decisione di un sindacato di sinistra di boicottare l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Certo, numerosi casi recenti hanno fatto sorgere molti dubbi sul ruolo del giudice istruttore, potentissimo e solo. Ma una riforma che non accordi l’indipendenza ai procuratori della Repubblica è considerata inaccettabile dall’opposizione e da numerosi giuristi: "Se questo progetto si concretizza, lo trovo pericoloso e suscettibile di far vacillare l’equilibrio della società francese", ha detto il centrista François Bayrou. Francia: tre i detenuti suicidi in sette giorni, 90 i morti nel 2008
Associated Press, 7 gennaio 2009
Un detenuto del carcere di Aiton, in Savoia, è stato ritrovato morto suicida nella sua cella. La vittima, di una quarantina d’anni, era in detenzione provvisoria, precisa il quotidiano locale "Le Dauphiné Libéré". Nello stesso carcere, il 25 dicembre scorso, un uomo di 45 anni, anch’egli in detenzione provvisoria, si era ucciso nella sua cella. La notte di San Silvestro, un uomo di 38 anni, arrestato perché aveva tentato di dar fuoco a un’auto, si è suicidato nel carcere di Saint-Paul a Lione. Nel 2008 si sono contati nelle prigioni francesi oltre 90 casi di suicidio.
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