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Giustizia: Margara; misure alternative, un diritto dei detenuti di Paolo Persichetti
Liberazione, 5 gennaio 2008
Ricorre in questi giorni il decennale della morte di Mario Gozzini (2 gennaio 1999). Esponente del cattolicesimo di sinistra cresciuto accanto a Giorgio La Pira ed Ernesto Balducci, fu senatore della Sinistra indipendente durante la stagione del catto-comunismo, primo firmatario della legge 663 del 1986 che ripristinò, ampliandola, la riforma penitenziaria varata nel 1975 (legge 354), ma la cui applicazione era stata sospesa negli anni dell’emergenza antiterrorismo e che - impropriamente - porta da allora il suo nome. In realtà alla stesura del testo avevano contribuito in molti: il giurista socialista Giuliano Vassalli, allora presidente della commissione Giustizia (il cui vice era proprio Mario Gozzini), Raimondo Ricci, giurista e avvocato comunista e Domenico Gallo, professore di diritto penale di area cattolica. Quella riforma della riforma varata e poi bloccata 11 anni prima, sotto la spinta e al prezzo di una durissima stagione di lotte carcerarie, non raccoglieva soltanto l’assenso dell’intero "arco costituzionale" (tutte le forze politiche presenti in parlamento, fatta eccezione per i fascisti del Msi), l’impulso dei ministri della Giustizia che si susseguirono durante l’iter parlamentare (i democristiani Martinazzoli e Rognoni) ma anche il contributo di figure riformatrici della magistratura di sorveglianza come Mario Canepa e Giancarlo Zappa, degli allora dirigenti del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Nicolò Amato e Luigi Daga, nonché - come ricordò spesso lo stesso Gozzini - dell’area della detenzione politica legata alla dissociazione dalla lotta armata. Approvata nell’ottobre del 1986, e nata inizialmente per abolire le limitazioni imposte dalla legislazione d’emergenza, la nuova legge si trasformò in una vera e propria rivisitazione dell’ordinamento penitenziario introdotto nel 75, superandone in alcune parti prudenze e timidezze. Restò tuttavia marcata dall’impostazione premialistica, con un forte approccio moralistico a sfondo cattolico, che pochi mesi dopo si tradusse nella legge terza legge sulla "dissociazione dalla lotta armata" del febbraio 1987. 22 anni dopo la sua entrata in vigore proviamo a tracciare un bilancio sulle luci e le ombre di un dispositivo che ha indubbiamente modificato il carcere, mutato il rapporto con la pena attenuandone (di quanto?) l’impostazione afflittiva, recependo (fino a che punto?) il dettato dell’articolo 27 della Costituzione, cambiando la relazione tra la società esterna e il mondo della reclusione. Ne parliamo con Alessandro Margara, che è stato magistrato di sorveglianza a Firenze, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ed oggi è presidente della fondazione Michelucci di Fiesole.
La legge Gozzini è sotto attacco. In parlamento sono stati calendarizzati diversi disegni di legge (ddl Berselli e altri) che ne prevedono l’abolizione. Le Destra ne ha fatto un suo cavallo di battaglia mentre la sinistra, travolta dal giustizialismo, non sembra molto interessata a fare resistenza… Rispetto al testo iniziale, questa legge ha già subito ripetute modifiche. Nel clima di emergenza antimafia del 90-92 subentrarono delle restrizioni (limiti all’accesso e carcere duro) contro i reati legati alla criminalità organizzata. Nel 1998 ci fu invece una estensione in favore dei reati minori, con pene non superiori ai 3-4 anni (legge Simeone).
Ma è vero che i benefici penitenziari contribuiscono ad accrescere il numero dei reati, come sostengono i fautori della certezza della pena? Questa tesi è smentita da dati ufficiali del Dap. La ricerca più esauriente è del 2006 e dice che nell’arco di 7 anni precedenti, dalla fine del 1999 al 2005, la recidiva di chi ha usufruito delle misure alternative o dei benefici penitenziari ha avuto un tracollo, appena lo 0,30%. Nei 5 anni successivi alla fine della pena è scesa al 19% per chi ha ottenuto benefici mentre è salita al 68,5%, cioè più di tre volte tanto, per chi ne è stato escluso. Ciò dimostra che la pena inflessibile è il vero incentivo a delinquere.
Ma ci sarà pure qualche ombra? Certo, c’è sempre una parte di rischio dovuta ad errori di valutazione. Ma anche qui i dati ci dicono che le revoche delle misure alternative arrivano appena al 4%. Attenzione, le revoche sono originate da problemi di condotta indisciplinata, di mancato rispetto delle prescrizioni (per esempio ritardi, allontanamenti non autorizzati ecc.). Molti di questi sono tossicodipendenti che trasgrediscono il programma terapeutico stabilito. Soltanto nello 0,14% dei casi, l’1 per mille, sono stati accertati nuovi reati.
Molti studi di settore dimostrano che i tribunali di sorveglianza ricorrono ad una interpretazione impropria della recidiva per i tossicodipendenti. Dove per recidiva non si intende più la realizzazione di un nuovo reato ma la semplice ricaduta nel consumo di droghe… Per definizione clinica quello della tossicodipendenza è un percorso di recupero segnato da ricadute tant’è che per il testo della legge la semplice assunzione di stupefacenti non è ragione di revoca. L’insuccesso momentaneo del programma non dovrebbe quindi provocare revoche automatiche. Purtroppo qui è intervenuto l’irrigidimento della Fini-Giovanardi.
Ma nella realtà quotidiana degli uffici di sorveglianza le revoche sono pressoché automatiche, mentre l’ammissione alle misure alternative, anche in presenza dei requisiti previsti e del parere favorevole degli operatori e dei direttori del carcere, resta sottomessa alla valutazione personale del magistrato. L’assenza di automatismi non è forse uno dei limiti strutturali della legge? Bisogna distinguere tra testo della legge e indirizzo delle magistrature di sorveglianza. Nella "faticosa valutazione" del giudice c’è ovviamente una certa discrezionalità, ma non deve essere una discrezionalità vuota. Permessi, semilibertà, misure alternative sono strumenti di esecuzione ordinaria della pena. È testuale che non tratta di "benefici" e che esiste dunque un diritto alla concessione. Nella sentenza 282, del 1989, la Corte Costituzionale afferma che le misure alternative non sono una concessione "graziosa", ma un diritto da applicare quando ne ricorrano le condizioni.
Si può dire che da alcuni anni si è affermato nei tribunali di sorveglianza un atteggiamento culturale che tende a sabotare la Gozzini utilizzando le contraddizioni presenti nella legge? Quando un giudice comincia ad obiettare troppo fuoriesce dalla sua funzione. In questo caso siamo di fronte all’assunzione di un ruolo, quello di difensore della pena, che il magistrato di sorveglianza non ha. La legge gli assegna un altro ruolo, quello di gestore della pena.
Eppure nuova leva di giudici sembra agire quasi come un quarto grado di giudizio. Quando accade è un comportamento extra legem. Non compete loro una valutazione del fatto processuale già giudicato dai giudici della sentenza. La pena è il riassunto di quello che la condanna ha detto.
Il fatto che molti magistrati di sorveglianza vengano dalla procure antimafia, secondo lei è una cosa casuale o dettata da una strategia ben precisa finalizzata a costruire collaboratori in ambito carcerario? Mi sembra un giudizio temerario. A me sembra che si spieghi soprattutto con l’incombere in un certo periodo della legge Castelli sulle carriere dei magistrati.
L’applicazione flessibile della pena, che ispira la filosofia della Gozzini, ha tra i suoi risvolti anche il fatto che la pena sia divenuta una sorta processo permanente. Questo è un tema cruciale nelle filosofie del sistema penale. Nel quadro del nostro ordinamento, dove permangono pene lunghe come l’ergastolo, la Corte Costituzionale ha stabilito, nel 1974, che l’esecuzione deve essere flessibile. C’è un diritto soggettivo della persona detenuta che dopo un certo tempo ha diritto alla verifica del proprio percorso. Ovviamente la flessibilità espone al rischio di arbitrarietà. Ma senza la flessibilità non vi sarebbe sistema e la ricchezza delle valutazione nel tempo diventa liberatrice. Se il sistema funziona. Giustizia: seimila detenuti liberi, con i lavori socialmente utili? di Andrea Maria Candidi
Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2008
Le porte del carcere potrebbero aprirsi per 6mila detenuti, vale a dire uno su dieci. Tanti sono i condannati a una pena fino a due anni, presenti negli istituti penitenziari, ai quali teoricamente potrebbe applicarsi il regime della messa in prova ai lavori utili (con eventuale estinzione del reato), sul quale punta il Ministro della Giustizia per alleggerire le carceri. Numeri che naturalmente aumentano al crescere della pena limite ammessa: l’ipotesi originaria, va ricordato, era quella dell’applicazione del beneficio a chi è stato condannato per reati che prevedono pene fino a quattro anni di reclusione. Va peraltro sottolineato che anche l’Europa punta sulle misure alternative alla detenzione quale via preferenziale per la riabilitazione dei condannati. Ma il cruccio della nostra Amministrazione Penitenziaria, più che il recupero dei detenuti, resta quello dell’inadeguatezza delle strutture. Alla vigilia del raggiungimento dei livelli del periodo pre-indulto (al 30 novembre eravamo a 58.500 detenuti presenti, in pratica 136 ogni 100 posti disponibili quando erano poco di più, 139, all’epoca dell’approvazione della legge sull’indulto), l’unica misura allo studio del Ministro della Giustizia che possa avere un’efficacia immediata sembra essere quella dell’introduzione della messa in prova per i condannati a una pena detentiva fino a due anni. Che porterà al massimo una limitata boccata d’ossigeno alle patrie galere. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sono infatti poco più di 6mila al 30 novembre, in pratica il 10% del totale, i detenuti che rispondono ai requisiti per accedere al beneficio, condannati cioè a una pena fino a due anni. Questo vuol dire che, senza gli altri interventi strutturali promessi dal Guardasigilli, in breve tempo ci ritroveremo al punto di partenza. Un risultato certamente diverso si otterrebbe se passasse l’idea originale del ministro prima citata. Entro il tetto dei quattro anni gli interessati sarebbero molti di più (circa 15mila, secondo le stime del Dap). Tuttavia, al di là delle resistenze di ordine politico ad appoggiare tale scelta, su tutte quelle della Lega, la soluzione più "ampia" rischia di somigliare troppo a un indulto mascherato, in virtù proprio del grande numero di condannati che potrebbero lasciare il carcere con il limite a quattro anni. In ogni caso, anche a volere immaginare oggi l’automatico accesso alla messa alla prova per tutti i condannati fino a due anni di pena (ma così non sarà, perché il regime di favore dovrebbe applicarsi solo a chi è alla prima condanna), già domani le presenze nelle strutture della Penisola supererebbero le 52rnila unità. Ben al di là della capienza regolamentare degli istituti penitenziari, stabilita in 42.951 detenuti. L’approvazione del piano "carceri leggere" diventa quindi imprescindibile. L’obiettivo è quello di costruire in pochi mesi prefabbricati da 200 celle singole in grado di "ospitare" un totale di 15mila detenuti non pericolosi e/o in attesa di giudizio. A questo riguardo non deve sfuggire un altro dato che caratterizza gli istituti penitenziari nostrani. Al 30 novembre scorso, la popolazione carceraria mostrava già una netta prevalenza dei detenuti in attesa di giudizio rispetto ai condannati in via definitiva: 32.547 contro 25.953 (cioè 55 su 100 presenti). Sottrarre il numero di condannati definitivi fino a una determinata pena farebbe lievitare ancora di più la differenza, trasformando sempre più le carceri italiane in una sorta di area di servizio processuale, un "parcheggio" per imputati - nella maggior parte dei casi, peraltro, stranieri - in attesa della chiusura della propria vicenda giudiziaria. Giustizia: 4 milioni e mezzo di italiani vittime di errori giudiziari
L’Unità, 5 gennaio 2009
Sono uomini bagnati. Con il freddo nelle ossa, per sempre. "Sa come si dice dalle mie partì? Chi è stato bruciato dall’acqua calda ha paura dell’acqua fredda". Le "parti" di Francesco Masala sono la Calabria e una stanza muta dove ha soggiornato per dieci armi, scontando una pena più lunga (16 anni) per un omicidio compiuto da un altro, un criminale con tanto di pedigree. Lui, Masala, nel novembre del 1985 era un ragazzo che sei mesi prima aveva messo un mattone nella costruzione del suo futuro, prendendo la Maturità. Quel mattone divenne cemento, a destra, sinistra, sopra, sotto. Una porta blindata era il diversivo di quest’orizzonte negato.
La Regione "maledetta"
Dal dopoguerra al 2003 quattro milioni di persone sono state vittime di errori giudiziari o ingiusta detenzione o prosciolti perché il fatto non sussiste. Questo enorme numero è già vicino ai quattro milioni e mezzo, se esteso al tempo odierno. Per quantità si tratta dell’intera popolazione di Toscana e Umbria assieme. Ci si arriva con un’interpretazione ampia ma corretta di "errore giudiziario", che in senso stretto si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio, un condannato viene riconosciuto innocente in seguito a un nuovo processo, detto di revisione. Nell’ultimo mese sono finite sui giornali le storie di tre uomini detenuti per molti anni ma innocenti. Gente del sud, dove l’errore giudiziario è più frequente del doppio rispetto al resto d’Italia (statistica evinta dai risarcimenti, riconosciuti nel 54% dei casi da giudici delle procure del Meridione). Ma la macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati "freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena definitiva. Perla Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva.
L’attesa
Secondo un rapporto del ministero della Giustizia, su 53 mila detenuti complessivi 16.740 sono in attesa del primo giudizio, 9.600 dell’appello, 3.200 del giudizio della Cassazione: il totale di questa popolazione carceraria "sospesa" è assai maggiore dei 22 mila detenuti perché condannati in via definitiva. "Quando si è chiusi dentro per cose che non hai mai fatto, il tempo ti mangia lo stomaco. Provi a fare una vita normale, ma ci vuole forza. Sai di essere innocente, e aspetti convinto che prima o poi qualcosa accada". Nella storia di Felice Turco, siciliano di Gela, ci sono otto processi e un’ammissione di colpa che abbrevierà i tempi del processo di revisione: è la stessa procura di Caltanissetta che ha rinnegato la soluzione ai delitti del 1998. Morirono un commerciante e un ragazzo (Fortunato Belladonna, 16enne) accusato di essere l’esecutore dell’altro omicidio. La coinquilina di Belladonna era la testimone del delitto del commerciante: per questo i due episodi furono collegati. Il nome di Felice Turco fu un depistaggio dei pentiti di mafia. Prese l’ergastolo, la pena massima, con sentenza definitiva. Adesso sono sette i collaboratori di giustizia che lo scagionano, "Turco non c’entra niente". Colui che lo accusò con più vigore si è suicidato dopo aver ammesso la menzogna. Come racconta Turco, l’uomo innocente ha una speranza da coltivare, che il tempo consuma giorno dopo giorno come il moccolo di una candela. E se la storia del siciliano potrà essere risarcita in sede civile, questo finale è vietato a chi è ingiustamente incolpato e poi prosciolto. Nel nostro ordinamento non esiste una norma che "indennizza l’ingiusta imputazione. Al contrario andrà risarcito chi è stato detenuto per errore, anche nel caso di custodia cautelare". Lo ha confermato la sentenza della Cassazione del 13 marzo 2008, sollecitata dalla richiesta di risarcimento di un professionista accusato di bancarotta fraudolenta e poi assolto. Nel "giro" si seppe dell’incriminazione, e gli affari del tizio andarono in malora.
Il pastore
Melchiorre Contena ha occhi sorridenti, umidi. Andò a trovarlo nel suo appartamento nel senese perfino il Tg1, nel podere dove nel 1977 viveva di pastorizia. Il 31 gennaio di quell’anno, poche colline più a sud, l’imprenditore milanese Marzio Ostini venne rapito. La famiglia pagò, i rapitori sparirono. Di Ostini non si saprà più niente. Sono gli anni dell’Anonima sequestri, sono terre dove lavorano molti pastori emigrati dall’isola. Gli inquirenti picchiarono subito nel mondo dei pastori sardi. Uno di loro, Andrea Curreli, venne fermato che vagava senz’arte né parte con due targhe in tasca di auto rubate. Interrogato, snocciolò una fantasiosa verità, risolvendo d’un colpo il caso-Ostini: "Il sequestro è stato pianificato al podere dei Contena". È un racconto lardellato di evidenti rancori e bugie. Si scoprì che Curreli aveva lavorato come servo pastore per Contena e fu allontanato perché inaffidabile. Non era una confessione ma una vendetta. Eppure quelle parole inchioderanno Contena nella sua cella. Il pastore di Orune ha oggi un filo di voce, ancor meno memoria. Un maledetto ictus gli ha complicato i ricordi. Sarebbero serviti a raccontare una vita intera passata nel posto sbagliato, per colpa d’altri, senza sapore, a rimbalzare fra muri spessi e grigi e cancelli di ferro. Con la lucida consapevolezza di essere vittima del furto più atroce, quello della libertà. Derubata in nome del popolo italiano: 31 anni di carcere, e altri 10 passati nel limbo di una parvenza di libertà ritrovata, ma l’onore ancora no, per quello ha dovuto attendere il 18 luglio scorso, quando la corte d’assise dell’Aquila scrive: "Contena è innocente". Ha gli occhi felici perché adesso, con i capelli bianchi e la stanchezza della vecchiaia, si fa compagnia con la dignità e l’onore che i giudici gli avevano tolto. Per lui, parla la moglie, Miracolosa Goddi. C’è sempre stata, nella buona e nella cattiva sorte: "Non c’interessano i soldi. Hanno detto che i Contena sono persone perbene. Questo volevamo". Ogni tanto lo Stato paga: il ministero dell’Economia conteggia in 213 milioni di euro i soldi sborsati nel periodo 2004-2007 per risarcire le vittime di errore giudiziario e per custodia cautelare ingiusta (il grosso del malloppo). I risarciti sono 3.600: il 90% italiani, il 10% stranieri, perché si difende chi può.
Le donne
Non sono storie di denaro, ma sono storie d’amore. Francesco Masala era un ragazzino, dunque. E il futuro già dietro le spalle. Lei sapeva che Francesco era innocente, il suo Francesco, che cresceva e restava un bell’uomo, un metro e 85, spalle larghe, viso dolce, occhi inarcati e castani, capello lungo, barba che va e viene. Lei c’è anche oggi, 23 anni dopo. E mo, cosentino come i protagonisti, che da vent’anni ha "questo tarlo: far capire ai giudici che Francesco è innocente". Quella sera di novembre aveva la colpa di essere sul marciapiede di piazza Kennedy accanto a Sergio Palmieri, impiegato comunale. Si riparavano dalla pioggia. Un killer conosciuto e sanguinario freddò Palmieri, due colpi precisi. Molti i testimoni, nessuno fece il nome dell’assassino. I poliziotti torchiarono un coetaneo e conoscente di Masala, finché non gli fecero ammettere di aver visto sparare l’amico. Il "falso" testimone affermerà 23 anni dopo: "Non ho mai detto di aver visto Masala con la pistola in mano. Lo interpretarono gli inquirenti". Vi furono dubbi, una prima scarcerazione di un anno, nel 1989 (e Masala fu chiamato al servizio di leva!). Indefesso, il procuratore generale fece ricorso e la Cassazione lo accolse, rispedendo il calabrese in carcere. Il presidente della Suprema Corte era Corrado Carnevale, quello che semmai scarcerava i mafiosi. Il tarlo rode ancora l’avvocato: "Il processo di revisione è cominciato otto anni fa, a Salerno. Le procure sono oberate di carichi, e dilatano nel tempo la conclusione di un processo che deve certificare un loro errore. E per la causa civile serviranno altri dieci anni". Questo succede: l’Italia è lo Stato maggiormente sanzionato dalla Corte europea. I capi d’accusa di Strasburgo: lentezza nei processi e nei risarcimenti. Masala oggi è sposato e fa il manovale in una ditta di telefoni. Ha una figlia, "volevo che sapesse che sono innocente". Giustizia: la seconda vita dei detenuti che lavorano in carcere di Concetto Vecchio
La Repubblica, 5 gennaio 2008
Katharina Miroslava, l’entraineuse polacca che a 24 anni fece perdere la testa all’imprenditore Carlo Mazza, uccidendolo infine per intascare una polizza miliardaria, e perciò condannata a 21 anni di carcere, fa la sarta alla Giudecca. Confeziona vestiti perle dame di Venezia. Tra otto anni sarà libera. Cosimo Rega, all’ergastolo per un omicidio commesso una vita fa nel Salernitano, capocomico della compagnia teatrale di Rebibbia, poeta e scrittore, lavora per la società Autostrade italiane nella sezione alta sicurezza del carcere romano: dal suo Pc prende nota di chi non paga i pedaggi. Ogni anno lo fanno tre milioni di automobilisti. La multa vi arriverà a casa, via Rebibbia. Marino Occhipinti, ex sovrintendente alla narcotici della questura di Bologna, fece parte della Uno Bianca per i primi due anni, si ritirò dopo il primo omicidio, ma tacque per paura fino all’arresto nel ‘94: sta all’ergastolo al Due Palazzi a Padova, dov’è diventato un’altra persona. Se chiamate l’Asl locale per prenotare una visita vi potrà rispondere lui. Oppure Alberto Savi, il più piccolo dei fratelli-poliziotti-killer. Sia Occhipinti che Savi sono assunti dalla coop Giotto, vicina a Comunione e Liberazione, che dà lavoro ai detenuti del supercarcere veneto. Lavorare è un privilegio in galera, in tempo di recessione più che mai. Su 58mila detenuti - erano 35mila nel 1991 - solo 13mila hanno un impiego, dei quali 5mila stranieri. Gli altri poltriscono sulle brande, giocano a carte, fumano troppo e quando escono si ritrovano come quel detenuto di Padova scarcerato senza un mestiere e con una bolletta di mantenimento carcere da onorare pari a 8mila euro. Ogni detenuto costa allo Stato 149 euro al giorno, e chi lavora deve restituirne 53 al mese. Per avere un impiego servono almeno quattro requisiti: condanna definitiva, buona condotta, disagiate condizioni economiche, famigliari a carico. La situazione peggiore, secondo il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è in Campania, dove lavora solo il 16,2 per cento. La situazione più florida in Sardegna: qua è impiegato il 40% dei detenuti. Lavorare è decisivo ai fini della rieducazione. Chi esce con un mestiere difficilmente ricadrà nella spirale del crimine. Ma anche alle aziende conviene. Dal 2003 la legge Smuraglia ha introdotto sgravi fiscali per imprese e coop che assumono detenuti internati o ammessi al lavoro esterno. "Ma le recenti leggi, dalla Giovanardi alla Cirielli, hanno di nuovo sovraffollato le celle, riducendo così le occasioni di lavoro", sostiene Angiolo Marroni, il garante dei detenuti del Lazio, "vanificando talvolta le importanti iniziative avviate negli anni passati". "Noi cerchiamo di investirci con forza" spiega il direttore delle Vallette a Torino, Pietro Buffa. A Torino, su 1500 detenuti, lavorano in 270, dei quali 220 per l’amministrazione penitenziaria, 50 per ditte esterne. E Piemonte Parchi ha siglato una convenzione con una coop per produrre piante in carcere: un angolo bio in una fortezza di cemento e acciaio. Del resto a Velletri producono un vino, "Il Fuggiasco", lodato dal Wall Street Journal. A Padova fanno i dolci per il caffè Pedrocchi. A Venezia lavano i panni dell’Hilton e del Cipriani. "Tra le detenute straniere molte rifiutano la possibile riduzione di pena per poter continuare a lavorare con noi", spiegò tempo fa Gianni Trevisan, il presidente della coop Il Cerchio. Alle Vallette c’è perfino un presidio slow-food, merito della coop Pausa Caffè: i detenuti tostano il caffè importato dal Guatemala e lo vendono agli alimentari delle Coop. Hanno appena germinato una coop sorella, Pausa Cacao. A Firenze cuciono i cuscini per gli asili nido. Ad Opera i panettieri-detenuti sfornano ogni mattina otto quintali di pane. A Bollate gestiscono i bollettini di abbonamento Rai. Dei terroristi che uccisero Aldo Moro solo Rita Algranati, la vedetta di via Fani, è ancora dietro le sbarre, dopo una lunga latitanza in Algeria. Lavora come bibliotecaria a Rebibbia. Quasi tutti gli ex Br hanno familiarizzato con l’informatica, ricavandone un lavoro sicuro, a cominciare dal loro capo, Mario Moretti, recluso dal 1981. Vincenzo Guagliardo e Nadia Ponti, condannati per l’assassinio del sindacalista Guido Rossa, hanno tradotto su Pc migliaia di libri per ciechi. Un impiego completamente inventato ad Opera insieme ad altri due ex brigatisti, Giulio Cacciotti e Rosaria Bondi. I due uomini stavano in una cella nella sezione maschile, le donne nel reparto femminile, quando iniziarono non avevano nemmeno lo scanner. Trascrivevano riga per riga, come gli amanuensi. Lo scorso autunno il tribunale di sorveglianza ha negato la libertà alla coppia Guagliardo-Ponti, trasferitisi nel frattempo a Roma, dove lavorano presso la coop Soligraf. Non si sono mai pentiti, non hanno mai chiesto sconti di pena, però grazie a loro i ciechi oggi leggono agevolmente anche i "mattoni" dell’Ottocento. Pietro Maso, che uccise mamma e papà per l’eredità, cominciò la sua attività lavorativa al Campone di Verona dal livello più basso: spesino. Incamerava gli ordini dalle celle, e tornava con la merce. Trasferito ad Opera trovò impiego come istruttore nella palestra. Oggi è in semilibertà. I mafiosi, rinchiusi al 41 bis, non possono lavorare. Totò Riina riempie le sue giornate facendo esercizi con un vogato re e leggendo avidamente la Gazzetta dello Sport per seguire le sorti del Milan. Ma per lui non ci sarà una seconda chance. Giustizia: familiari vittime "Uno bianca"; no agli sconti di pena di Carlo Gullotta
La Repubblica, 5 gennaio 2008
I familiari delle vittime della Uno bianca chiedono al Viminale di sospendere i benefici ai killer in carcere per i 24 morti lasciati sull’asfalto dalla banda dei poliziotti. Nessuno sconto di pena, nessun permesso premio, nessun perdono per chi ha seminato il terrore per le strade dell’Emilia e delle Marche: è l’appello forte di Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione, ieri mattina al Pilastro per ricordare l’anniversario dell’eccidio dei tre carabinieri uccisi il 4 gennaio ‘91. Un anniversario diverso da tutti gli altri: l’estate scorsa è tornato in libertà Pietro Gugliotta, l’ex "gregario" della banda, e presto potrebbero ottenere permessi premio Alberto Savi e Marino Occhipinti, detenuti a Padova. "Tre settimane fa - confida Rosanna Zecchi - ho scritto al ministro Maroni per chiedere un incontro e discutere sui benefici di legge ai killer della Uno bianca. Non parlo di Gugliotta, che almeno 14 anni di carcere li ha scontati. Ma per noi, per chi piange i propri cari, è inaccettabile che vengano concessi sconti o agevolazioni a chi si è macchiato di delitti così orribili. Chiediamo soltanto giustizia. Ma attendo ancora una risposta. Se il Viminale non ci darà ascolto, scriveremo al ministro Alfano. Da Maroni aspetto comunque un segnale: non possiamo dimenticare che quegli assassini erano gente in divisa. Erano poliziotti". Nella chiesa di Santa Caterina di Quarto, ieri mattina al Pilastro, la presidente della provincia Draghetti, il candidato sindaco del Pd Flavio Delbono, l’assessore Mancuso con la fascia tricolore e, più defilata, l’assessore Maria Cristina Santandrea. Assai ristretta la pattuglia del centrodestra, che nei giorni scorsi ha polemizzato per l’assenza del sindaco Cofferati alla celebrazione. Fuori, davanti alla chiesa, lo stato maggiore del Pd: Salvatore Caronna, Merighi, Cevenini, Lombardelli. Anna Maria Stefanini, la mamma di Otello, uno dei tre carabinieri ammazzati nel ‘91 al Pilastro, porta sull’altare un berretto dell’Arma su un cuscino, poi segue la piccola processione fino al cippo che ricorda l’eccidio. Con lei, il nipote Matteo, 14 anni. Per lui è la prima volta. Una madre che ha pianto tutte le sue lacrime. "Chi ha ucciso 24 persone non deve avere benefici di legge, non deve esistere - dice la signora Stefanini - Cosa significa che si sono comportati bene? Prego che quel giudice che dovrà firmare i permessi pensi, se ha un figlio, se con una telefonata gli dicessero un giorno che non c’è più e che non gli si può nemmeno dare un ultimo bacio. Il mio Otello oggi ha 40 anni, ne parlo al presente perché per me è ancora vivo. È l’unico pensiero che mi permette di sopravvivere a un dolore tanto grande. La mia è una crociata solitaria, una battaglia contro i mulini a vento. Ma andrò fino in fondo, chiederò un incontro anche al presidente della Repubblica. Nessuno sconto per i banditi della Uno bianca. Il perdono può darlo soltanto Dio. Io, allo Stato, chiedo giustizia". Giustizia: Amato; non cambiare leggi, ma cultura dei magistrati
Apcom, 5 gennaio 2008
Giuliano Amato, giurista due volte Premier ed ex ministro degli Interni, invita a mettere al centro della riforma della Giustizia non singole norme e singoli istituti del codice di procedura che pure vanno revisionato ma "formazione e cultura dei Magistrati", con un invito a evitare la stretta sulle intercettazioni anche nelle inchieste su reati contro la Pubblica Amministrazione, paventata dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. "Invece di pensare a nuove norme - ragiona Amato in un’intervista a Il Messaggero - preoccupiamoci della formazione: il Magistrato deve prima accertare i fatti per poi arrivare alla cupola e non viceversa. Da costituzionalista e da garantista - sottolinea confermando la sua convinzione di innocenza per l’ex Governatore dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco - dico che è l’accusa che deve provare che lui ha preso i soldi e non lui che deve dimostrare di non averli mai presi: e questo deve essere chiaro". Più in generale, l’invito di Amato è a riflettere sulla "cultura e la formazione dei Magistrati dell’accusa, per mettere fine al fenomeno per cui "spesso ormai capita che la teoria della cupola giustamente imparata nella lotta alla mafia, viene estesa altrove, facendo prevalere impostazioni deduttive sulla ricognizione dei fatti". Quanto alla nuova legge sulle intercettazioni, "da ex ministro degli Interni sconsiglio vivamente la limitazione di quelle per reati nella P.A. perché nella mia esperienza al Viminale ho scoperto che la propensione a parlare al telefono è più invincibile delle propensioni erotiche", considerato che " persone che tutto potevano aspettarsi fuorché di non essere intercettate parlavano con voluttà al telefono, cosa che aiuta molto chi sta al Viminale....". Quanto al merito della disciplina, "il Magistrato - sottolinea Amato - deve distruggere tutto ciò che è irrilevante: punto". E ricorda di "aver collaborato attivamente da ministro dell’Interno al ddl Mastella che era un’ottima soluzione, senza impedire ai Magistrati le intercettazioni su un ampio ventaglio di reati, ivi compresi quelli nella Pubblica Amministrazione". Giustizia: Bruti Liberati (Anm); no alle soluzioni impraticabili
Apcom, 5 dicembre 2008
No alle soluzioni impraticabili. Edmondo Bruti Liberati, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, risponde così alla proposta del Pd di istituire un collegio di tre giudici che decida sulle scarcerazioni. In un’intervista a La Stampa il magistrato spiega che "una simile riforma per centinaia di piccoli tribunali è impossibile, bloccherebbe l’attività. Premesso che ogni maggiore garanzia sulle libertà personali è positiva, occorrono soluzioni praticabili". Che Bruti Liberati elenca: "Si potrebbe attribuire la competenza sulle carcerazioni a una sezione del tribunale, come l’attuale riesame, con la possibilità di ricorso in Cassazione. Inoltre può essere questa l’occasione per accorpare finalmente un centinaio di tribunali minori". Bruti Liberati sottolinea che dai magistrati "non ci sono solo no; da parte dell’Anm ci sono molti sì, c’è una sollecitazione alla politica a fare riforme sui temi più urgenti". Nella fattispecie "lo snellimento delle procedure". Il magistrato poi ricorda che "il dialogo spetta alle forze politiche", ma "i magistrati hanno il diritto e il dovere di esprimere, pubblicamente, la loro opinione" sulle riforme. Giustizia: Baccini; riforme necessarie, dopo 15 anni di impasse
Il Velino, 5 dicembre 2008
"L’appello del presidente Napolitano non solo è stato molto opportuno ma è un monito importantissimo per dare il via al processo riforme di cui necessita il Paese. Bisogna cambiare marcia. Sono quindici anni che l’Italia attende questi cambiamenti strutturali". Così Mario Baccini, presidente della Federazione dei Cristiano Popolari-Pdl, risponde durante l’intervista in onda sul Gr Parlamento in merito al cambiamento di clima tra i due poli dopo l’appello di fine anno del capo dello Stato. Incalzato dal giornalista sulla necessità di avviare una ciclo di riforme condivise il presidente dei Cristiano popolari aggiunge: "Se il Parlamento riuscirà a riassumere in sé autorità e autorevolezza, come deve naturalmente avvenire in una Repubblica parlamentare e democratica come la nostra, ci sarà l’opportunità per maggioranza ed opposizione di poter sviluppare un confronto serio sui grandi temi delle riforme, per unirsi sotto un comune denominatore che è il raggiungimento del bene comune per tutti i cittadini. In fondo il compito della politica, e quindi quello del Parlamento, è quello di governare le riforme e l’economia e non lasciarsi governare". In merito alla riforma della giustizia penale, dopo i fatti di Potenza e Pescara e della soluzione Tenaglia, Baccini giudica possibile una convergenza tra maggioranza e opposizione "perché i fatti di cronaca giudiziaria degli ultimi periodi - spiega il deputato - hanno leso la dignità del cittadino utente. Le riforme vanno fatte per i cittadini, per chi ha sete giustizia in tutti i campi. Questo, dunque, vale per la sanità, i trasporti, l’economia e non solo per la giustizia". Alla domanda su un’ingerenza della magistratura sulla politica Baccini risponde: "I magistrati hanno tentato di cambiare forma al governo del Paese ma fortunatamente le Istituzioni hanno trovato soluzioni giuste, di volta in volta, per rimettere a posto le situazioni, riportando i poteri dello stato sotto le giuste competenze e assicurando equità e governabilità"; e sollecitato sul caso Mastella dichiara: "Il presidente Mastella è l’emblema di ciò non deve capitare: prima è stato osannato come un campione e poi è divenuto una persona da evitare. Questo non può accadere in un sistema democratico e garantista come il nostro". "Le riforme, dunque - conclude Baccini nell’ultima domanda dell’intervista - devono servire a raggiungere il bene comune. Riformare il Sistema Paese e le sue norme significa non alimentare desideri ma soddisfare bisogni dei cittadini". Giustizia: così i mafiosi recuperano tutti i loro beni sequestrati di Salvo Palazzolo
La Repubblica, 5 dicembre 2008
I boss di Cosa nostra puntano adesso ad aggirare le aste giudiziarie per recuperare i beni travolti dal fallimento delle loro società tartassate dalle indagini. Così, Salvatore Lo Cricchio, facoltoso esattore del pizzo legato al clan di Resuttana-San Lorenzo, era ritornato in possesso di un grande appezzamento di terreno a Partinico: chi se l’era aggiudicato nel 1993 all’asta giudiziaria era un insospettabile imprenditore, in realtà imparentato alla lontana proprio con i mafiosi di Resuttana, i Di Trapani. Nel 2002, l’imprenditore ha venduto il terreno al figlio di Lo Cricchio (ufficialmente nullatenente e residente ancora a casa della madre), naturalmente per una cifra simbolica. L’ultima indagine del centro operativo Dia di Palermo, che ha portato al sequestro di beni per 2 milioni e mezzo di euro, svela le nuove strategie dei boss per salvare i propri patrimoni. Lo Cricchio si era affidato anche a un insospettabile prestanome in Umbria, Paolo Faraone, per mettere al riparo dalle indagini due attività in cui avrebbe investito i suoi soldi e quelli del clan di Resuttana: il supermercato "Fuori orario market", a Terni, e il ristorante "La vecchia fattoria", nella vicina Narni. Sono stati sequestrati assieme a una palazzina, due magazzini e un box, anche questi in provincia di Terni. Fra Palermo e Partinico, a Lo Cricchio sono stati invece sottratti tre terreni e un appartamento. Così ha deciso la sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo. E adesso, il prestanome di Terni, un palermitano trapiantato da anni in Umbria, risulta indagato. Non ci sarebbe stato soltanto lui al servizio dei boss. "Lo Cricchio - dice la Dia - si è avvalso della collaborazione di soggetti esterni a Cosa nostra, in possesso di conoscenze qualificate". L’operazione della Direzione investigativa antimafia, che è stata coordinata dai pm Ingroia, Gozzo, Paci e Scaletta, riapre il dibattito sull’uso dei beni confiscati. Tonino Russo, parlamentare del Pd, denuncia: "Non si riesce a capire perché il governo abbia deciso di smontare un pilastro portante della lotta alla mafia destinando i soldi dei beni confiscati, un miliardo di euro, alle spese correnti. È sempre un fatto importante - ribadisce Russo, che è anche vicesegretario del Pd siciliano - quando lo Stato dimostra di saper restituire il maltolto al territorio che ne era stato illecitamente depredato". Ancora la Dia ha sequestrato beni per 500mila euro a Leonardo Baucina, boss di Partinico, la cittadina del palermitano attraversata da una faida che ha fatto già diversi omicidi negli ultimi mesi. Giustizia: un'ordinanza al giorno contro il "degrado urbano" di Paolo Beltramin
Il Giornale, 5 dicembre 2008
A Rimini è vietato farsi fare un massaggio alla schiena sulla spiaggia. A Campobasso non si può più dare da mangiare ai cani randagi. A Verona un vigile ha multato un bimbo di 4 anni perché si stava mangiando un panino davanti al Municipio. I giornali messi in archivio nel 2008 raccontano mille storie di agenti inflessibili e regolamenti severissimi. Ormai i sindaci hanno imparato il trucco: basta un divieto bizzarro per far finire in prima pagina anche un Comune di mille abitanti. Ma i dati del ministero dell’Interno raccontano anche un’altra verità: se i reati sono scesi del 10%, con punte del meno 20% in grandi città come Roma e Milano, è merito pure delle "ordinanze per la sicurezza" varate dalle giunte comunali. Amministrazioni di destra, di centro e (a sorpresa) soprattutto di sinistra. In un anno, da Nord a Sud sono stati approvati 315 "pacchetti sicurezza" locali, in 152 città. Quasi uno al giorno. Ecco come i nostri sindaci hanno saputo sfruttare le risorse e i poteri concessi dal tanto invocato "decreto Maroni". Prostituzione. "Via le lucciole dalle strade". In attesa che l’impegno del ministro Carfagna diventi legge dello Stato, molte città ci hanno pensato da sole. Con multe molto salate per i clienti: fino a 500 euro. Hanno iniziato Verona (centrodestra) e Padova (centrosinistra), seguite da decine di Comuni grandi e piccoli, da Milano a Roma, da Arezzo a Montecatini Terme. Primi risultati: il mestiere si sta spostando dalle tangenziali agli appartamenti, per selezionare l’offerta i clienti non vanno più in macchina ma in internet, e i bordelli legali del Canton Ticino fanno affari d’oro con migliaia di clienti in arrivo da tutto il Nord Italia. Ad Ardea, 40mila abitanti 30 chilometri a sud di Roma, i più tradizionalisti continuavano a cercare compagnia in strada, ma invece che in auto ci andavano in bicicletta. Così il sindaco, Carlo Eufemi, ha varato una nuova ordinanza: non è vietato solo accostare l’auto al marciapiede, ma più in generale "contattare soggetti dediti alla prostituzione", anche "solo per chiedere informazioni", pena un’ammenda di 166 euro. E a Silvi Marina, 15mila anime sul litorale abruzzese, per contrastare il mestiere più antico del mondo il sindaco Gaetano Vallescura ha chiesto pure l’intervento dell’esercito. Alcol. In prima fila nella battaglia contro gli ubriaconi ci sono i sindaci "sceriffi" di centrosinistra. Marta Vincenzi a Genova e Sergio Chiamparino a Torino hanno adottato la stessa misura: divieto assoluto di bere alcolici per strada, ma solo nei quartieri più degradati. Niente di male bersi una birra sotto la Mole, ma se ci provate nel quartiere di San Salvario rischiate una multa da 25 a 500 euro. E se lasciate la bottiglia vuota in giro, vi beccate pure una denuncia alla magistratura. A Bologna, Sergio Cofferati ha annunciato tra le priorità dei suoi ultimi mesi da sindaco "un’ordinanza anti-alcol durante le partite di calcio" e a novembre ha imposto la chiusura anticipata alle 22 per i locali "troppo rumorosi" del Pratello, storico quartiere della movida cittadina. A proposito: sempre a Bologna c’è pure un’ordinanza "contro i cani aggressivi". Sei mesi fa un vigile ha provato a sequestrare il minaccioso pastore tedesco di un punkabbestia, ma è stato morsicato. Dal padrone. Accattonaggio. Su questo fronte tra amministratori di destra e di sinistra la gara è aperta. Grazie all’ordinanza che concede la residenza solo a chi ha un reddito minimo di 5mila euro all’anno, il sindaco leghista di Cittadella Massimo Bitonci è diventato una celebrità ed è finito in Parlamento. Il primo cittadino di Adelfia (Bari) ha provato a superarlo vietando la residenza anche a chi ha precedenti penali per furto, rapina o spaccio di droga. Ad Adro, 7mila abitanti e 400 stranieri nel Bresciano, l’ordinanza per la sicurezza prevede pure un "premio di produzione", cioè una taglia di 500 euro per ogni clandestino scoperto dai vigili urbani. Ad Assisi è vietato chiedere la carità per "salvaguardare i luoghi di culto", a Cortina per "non molestare i turisti". A Voghera non ci si può sedere sulle panchine dopo le 23, a Novara non si può "sostare in parchi e giardini" in più di due persone. A Venezia il sindaco filosofo Massimo Cacciari per combattere i vù cumprà ha messo al bando i "borsoni in plastica" dove gli abusivi trasportano la mercanzia. E a Firenze l’assessore alla sicurezza Graziano Cioni, dopo aver minacciato il carcere per i lavavetri, ora ha vietato ai mendicanti di stare distesi perché "intralciano i passanti". Si può ancora chiedere la carità, ma solo stando in piedi. Giustizia: dopo assoluzione confessa il delitto, ma non è punibile di Marco Neirotti
La Stampa, 5 gennaio 2008
"Vorrei confessarmi". Ma non è una chiesa, è la questura. Dica, allora. "Ho ucciso mia moglie". Che ha fatto? "Mia moglie... l’ho uccisa io". Quando? Dove? "Nella sua casa". Sì, ma quando? "Quattro anni fa". Quando?? "Gliel’ho detto. Quattro anni fa. Era novembre 2004". L’ispettore e l’agente si guardano. Ha un documento? Ecco il documento. Si chiama Denis Occhi, 33 anni, muratore. Aveva già confessato una volta la stessa cosa. Lei era stata massacrata nella casa dove viveva con il nuovo compagno e Denis aveva ammesso, era stato condannato a vent’anni, però aveva ritrattato, in appello era stato assolto per prove non sufficienti e al suo legale il personale della questura ha specificato: "Non più giudicabile", per ricorso non presentato o respinto. Assolto per sempre. In queste feste tra Natale e l’Epifania ci ha pensato su. Dopo Capodanno va alla polizia e dice: "Sono tormentato perché sono stato io". Dopodiché firma il verbale e torna a casa. "Coscienza" e "diritto" viaggiano su sentieri che si incontrano davanti alle uniformi ma non possono più incidere l’un sull’altro. In "nome del popolo italiano" è innocente. In nome suo è un altro paio di maniche. "Avvocato, mi crederanno?". Si costituisce un po’ in ritardo, in piene festività. Chiamano un legale di turno perché lo assista d’ufficio. Giovanni Montalto si sta occupando di arte e musica, organizza un concerto jazz, lascia tutto e corre da questo strano cliente. Stilano una pagina e mezzo di quello che vuole dichiarare: "Ci penserò su. Chissà se è un tormento o è un condizionamento della propria vita, del carcere che ha fatto, di reminiscenze confuse o se è qualcosa che gli ha lavorato dentro". Una cosa è certa: Denis Occhi non sapeva di essere "esente" dalla prigione. "Adesso verranno a prendermi?", ha chiesto. No, nessuno verrà a prenderti. "Come mai?". Alla spiegazione tecnica non ha reagito: "Davvero funziona così?". Quando si sa della confessione nuova è presto circondato dai giornalisti: "Non so che dire. Ci ho pensato tanto. Ultimamente ci pensavo sempre. Dovevo liberarmi". Giù flash e domande. Alla fine ha avuto una crisi d’ansia, come se liberarsi avesse scatenato un inferno più incontrollabile e grande di quello delle toghe e delle aule di giustizia. Ha negato la confessione appena fatta e si è fatto accompagnare in ospedale, con una crisi d’ansia: "Era una cosa mia". Il replay di allora: "Sì, va bene, lo ammetto. Sono entrato nella casa...". Era il 25 novembre 2004. Giada Anteghini, 27 anni, con una figlia di 6 anni, si era decisa a lasciare il marito ed era andata a vivere a Jolanda di Savoia col nuovo compagno. Quando uno sconosciuto entra in casa, la bimba dorme in una stanzetta, lei in un’altra. Quasi non si accorge dell’irruzione, subito un’infinità di colpi d’accetta su tutto il corpo e alla testa. La portano via ancora viva, rimane in coma, 14 mesi di agonia in ospedale. Muore il 23 gennaio 2006. Fin dall’inizio le indagini dei carabinieri si chiudono a circonferenza intorno all’ex marito. Arrivano gli uomini del Ris da Parma, si confrontano rilievi, testimonianze. E Denis cede, confessa ai carabinieri di Comacchio: "Sì, sono stato io". Lo sottopongono a una perizia psichiatrica, che rileva un disturbo di personalità border-line, che non significa automaticamente "incapacità di intendere e volere". Il 15 febbraio 2007, in primo grado, il pm Nicola Proto chiede - con il rito abbreviato - vent’anni di carcere. Il giudice per l’udienza preliminare Silvia Giorgi accoglie la richiesta: vent’anni, quattro da scontare in un istituto di cura, per omicidio volontario. Ma ci sono la ritrattazione e il ricorso in Corte d’appello, a Bologna. Dopo tre ore di camera di consiglio, il 27 febbraio 2008, il presidente Aldo Ranieri legge una sentenza che ribalta tutto: non ci sono prove a sufficienza. Ventiquattro ore dopo Occhi torna in libertà. È un po’ spaurito e disorientato, non sa bene come muoversi. Si presenta alla redazione del giornale locale, "La Nuova Ferrara": "Mi hanno assolto, dice. Però la gente ha paura di me, non mi crede. Aiutatemi a far capire che io non faccio del male a nessuno, voglio solo fare la mia vita di muratore". Fine della vicenda giudiziaria. Il muratore di Migliaro, altro piccolo centro del Ferrarese, riprende la sua quotidianità, un po’ discosto dagli altri e un po’ tra gli altri per scrutare se gli credono o no, se lo temono, se parlano quando si allontana. E che dicono? Dicono che è stato lui? Questi pensieri lo pungono, lo trafiggono, lo avvolgono quando arriva Natale. Per i detenuti era un assassino, per quelli di fuori anche. Lo è anche per se stesso? Si è convinto o si è solo pentito di aver negato? Si è pentito di essere stato assolto per qualcosa che ha fatto davvero? L’avvocato Montalto non entra nel merito della sentenza: "L’ho assistito per questa spontanea confessione". Tutto lì? "In verità no. Mi ha impressionato, mi sono anche un po’ preoccupato dopo che è tornato a casa e l’ho risentito. Subito era come non toccato dalla sorpresa, dal fatto che non sarebbe successo nulla. Ma non come uno che l’abbia messa in conto. Come uno che ha fatto quel che riteneva meglio per star bene, vero o falso che sia. Come legale preferisco discorsi tecnici alle confessioni". Pensa che possa aver mentito adesso? "Lo conosco troppo poco. Certo è che è un soggetto molto fragile, facile alla confusione, al convincimento". A lei hanno confermato che non è più perseguibile? "Sì. Esatto". Denis Occhi, ma allora perché l’hai fatto? "È stato quel momento". Avevi ritrattato: "Ma ora mi sono liberato. Ho detto la verità. Dovevo dirla". E, confuso, va all’ospedale col fiato che manca ma per questo assedio, per le domande, per i fotografi che lo cercano, non per il 25 novembre 2004. Giustizia: Grosso; anche questo è un principio di civiltà giuridica di Carlo Federico Grosso (Ordinario di Diritto Penale Università di Torino)
La Stampa, 5 gennaio 2008
La vicenda processuale che ha coinvolto Denis Occhi non è stata lineare. Inizialmente reo confesso, è stato condannato in primo grado, con rito abbreviato, a 16 anni di reclusione; è stato assolto in appello perché dagli atti non emergeva la prova certa della sua colpevolezza, la sentenza è quindi diventata definitiva. Due giorni fa il giovane ha nuovamente confessato l’omicidio. Se la confessione odierna è veritiera, nella sostanza aveva giudicato bene il giudice di primo grado. Ciò peraltro non significa automaticamente che la Corte di Appello avesse sbagliato, poiché è possibile che agli atti del processo non esistessero elementi sufficienti per fare emergere quella "prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio" che costituisce requisito della sentenza di condanna. Si deve precisare altresì, per completezza, che la confessione, pur essendo elemento indiziante di notevole peso, non costituisce, di per sé, prova certa di reità, e che, pertanto, potrebbe accadere che il giudice, valutate tutte le circostanze, assolva un imputato che ha confessato. A questo punto la gente si domanderà se nei confronti di Denis Occhi si possa riaprire il processo penale chiuso. La risposta è sicuramente negativa. Il Codice di procedura penale stabilisce infatti con assoluta chiarezza che, se una sentenza penale è passata in giudicato, "l’imputato prosciolto o condannato non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per lo stesso fatto", e che "se ciononostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere". Esiste, è vero, una norma che prevede la revisione delle sentenze irrevocabili in casi determinati, fra i quali l’emergere di nuovi elementi, e pertanto di nuove prove. La revisione delle sentenze passate in giudicato, in ottemperanza al principio del favor rei, è prevista soltanto nei confronti delle sentenze di condanna. Denis Occhi, quantomeno sul terreno di nuove prospettive penali in ordine al reato del quale si è accusato, può pertanto dormire sonni tranquilli, come qualunque altro imputato definitivamente assolto che confessi. Potrà non convincere tutti, ma anche questo, in fondo, è un principio dì civiltà giuridica. Giustizia: parte da Pisa, la riforma della medicina penitenziaria
Il Tirreno, 5 gennaio 2008
Parte da Pisa la riforma della medicina penitenziaria italiana. Una svolta storica, dopo quasi 60 anni di giurisdizione del ministero di grazia e giustizia, questa delicata pratica medica, come da decenni avviene in gran parte dei paesi occidentali, torna sotto l’egida del ministero della sanità, o meglio agli assessorati regionali di competenza. Appena concluso il brindisi del nuovo anno ed ecco che la Regione Toscana, rompendo gli indugi ha già attivato da ieri mattina il primo dipartimento per la salute in carcere affidato alle competenze del prof. Francesco Ceraudo, presidente nazionale dell’associazione dei medici penitenziari italiani, una vita spesa principalmente nella guida del Centro Clinico Furci dentro il Don Bosco e che ora dovrà sovrintendere la salute dei circa 4.000 detenuti, di cui il 42% stranieri, presenti nei 20 istituti penitenziari toscani, di cui 1 della giustizia minorile. "Sono ben consapevole delle difficoltà del compito - dice Ceraudo - avverto la preoccupazione per la complessità dei problemi presenti e sento la responsabilità di cercare risposte nuove ai tanti bisogni di salute dei detenuti. La Regione Toscana si è messa alla guida di un progetto concreto ed ambizioso nello stesso tempo. Un progetto che trae origine e forza dalla carta costituzionale e dalle precise direttive emanate dal Consiglio d’Europa, per cui i detenuti, al pari dei cittadini in stato di libertà, hanno diritto alle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste nei livelli essenziali ed uniformi di assistenza. Per ottenere significativi risultati, sono necessarie adesso, scelte coraggiose e di urgente, profondo rinnovamento perché il carcere si configura sempre più come il luogo dove si depositano e cristallizzano limiti e fallimenti del nostro sistema di protezione sociale. In questa sorta di cimitero dei vivi vi sono stipati come animali da cortile soggetti devianti, emarginati e soprattutto negli ultimi tempi portatori di patologie tipiche del disagio: aids, tossicodipendenze, tbc, epatite virale cronica, malattie psichiatriche". Patologie che la dicono lunga su quanto la medicina penitenziaria sia di primaria importanza. Ad essa è affidata la vita di esseri umani costretti in condizioni a dir poco dure e difficili che però una volta scontata la pena, se non curati adeguatamente, ma anche reinseriti in un tessuto sociale degno di tale nome, vanno a costituire preoccupanti sacche di possibile contagio. "Obiettivo della Riforma - dice Ceraudo - è la promozione della salute anche nell’ambito dei programmi di medicina preventiva e di educazione sanitaria. Non dunque una medicina penitenziaria organizzata nell’attesa della domanda, sostanzialmente costruita sull’attesa, ma in grado di prevenire e saper individuare i bisogni e le criticità. La carta dei servizi sanitari e il polo di accoglienza per i detenuti nuovi-giunti sono i primi obiettivi da perseguire, una sorta di biglietto di visita prima di affrontare il grave problema della sessualità in carcere che merita un’attenta, schietta rivalutazione contro il silenzio della legge e contro l’indifferenza di tutti, anche in considerazione delle precise direttive formulate dal Consiglio d’Europa. Sono grato - conclude Ceraudo - per la fiducia che l’assessore regionale Rossi ha riposto in me". Giustizia: la medicina penitenziaria e la continuità assistenziale
Ristretti Orizzonti, 5 gennaio 2008
La Medicina Penitenziaria non è materia di studio universitario. Il carcere è un luogo di frontiera che si tende ad ignorare o a parlarne il meno possibile poiché raffigura il male morale della società. Tuttavia, è anche il luogo di lavoro di molta gente onesta. Bisogna sottolineare l’aggettivo onesta poiché a volte sembra che lavorare nel carcere sia un demerito quasi che la punizione del detenuto debba ricadere anche su chi lo deve gestire. Proprio a noi Operatori della Medicina Penitenziaria in molte occasioni c’è sembrato che questo lavoro non venisse riconosciuto come dovrebbe, ma anzi quasi censurato e penalizzato! Nel passaggio di gestione dal Ministero della Giustizia a quello della Salute, la Medicina Penitenziaria dovrebbe fare un salto di qualità. L’assicurazione di una buona continuità assistenziale ai detenuti dovrebbe essere maggiormente garantita. Eppure qualche oscura nube all’orizzonte pare si stia addensando. Si vocifera e si scrive (Regione Calabria) che vi siano delle incompatibilità con altri lavori. Non abbiamo ben chiaro questo concetto. Ossia, cosa vuol dire incompatibilità? Dovremmo forse lavorare esclusivamente per il carcere? E quale medico, infermiere o specialista accetterebbe di svolgere la propria professione in un ambiente così stressante e logorante senza altri stimoli? E poi nessuno di noi ha fatto domanda di assunzione nella polizia penitenziaria. Perché un rapporto così esclusivo comporterebbe diventare quasi delle guardie. Il Dpcm precisa in termini incontrovertibili che i Medici Penitenziari transitano nel Servizio Sanitario Nazionale tutelati dalla Legge 740/70 che contempla la piene compatibilità. La legge è legge. La legge va rispettata in qualsiasi parte del territorio nazionale. La Regione Calabria non è il Far-West. L’Amapi presenterà in Calabria ricorso immediato al Tar. Altra voce vorrebbe affidare alla guardia medica territoriale la cura dei detenuti. Una scelta pazzesca per diverse ragioni. Innanzitutto la continuità assistenziale sul territorio è oramai affidata ai neolaureati e pensiamo che una maggiore esperienza nel carcere sia necessaria. Poi, comunque sia, nessun medico, anche se lavora in un altro carcere, e quindi conosce le problematiche degli Istituti, si prende la responsabilità di lasciare a domicilio un soggetto coatto che non può neanche interpellare successivamente per telefono. La scelta obbligata è quello dell’inviare al più vicino pronto soccorso con i relativi,gravissimi problemi della sicurezza. C’è anche da aggiungere che se si innesca il meccanismo di invii continui all’ospedale ce ne sarà più di uno che ne vorrà approfittare per prendere una boccata di ossigeno. No, pensarla così sarebbe un errore gravissimo. Il carcere non può essere una bottega per imparare un po’ il mestiere e poi mollare. Forse bisogna riflettere sull’ambiente, i soggetti e le dinamiche. Il carcere è una frontiera militare che non si può varcare con disinvoltura quando e come si vuole. La sicurezza è il cardine di ogni Istituto. Sicurezza significa anche selezionare il personale civile, creare con il tempo un rapporto di fiducia con la struttura carceraria e cercare di mantenerlo il più possibile. La sicurezza è anche una condizione nel nostro lavoro di medici che non si riscontra in altri ambienti. Come abbiamo su accennato inviare un paziente al pronto soccorso non comporta alcun pregiudizio in altri contesti. Può invece creare seri problemi se il paziente è un detenuto. La polizia penitenziaria è quasi sempre sotto organico. Specie di notte creare una scorta per accompagnare un detenuto all’ospedale può creare seri problemi di gestione dell’Istituto. Questo significa forse ignorare un’emergenza? No, vuol dire semplicemente avere in mano quella giusta competenza per decidere quando è il caso e quando no di far uscire un detenuto. Per un medico di primo pelo o anche di lungo carso che però non si è mai trovato di fronte a uno che si mangia lamette da barba, la tentazione di spedirlo all’ospedale viene di istinto. Ma un Medico di Medicina Penitenziaria con esperienza di anni nelle carceri, riesce a gestire una tale situazione senza necessariamente inviare al pronto soccorso. I detenuti non pensano e non agiscono come persone normali. La ristrettezza è una condizione innaturale che innesca strani meccanismi. L’autolesionismo, ad esempio, il procurarsi tagli multipli sul corpo è un fenomeno tipico di tanti detenuti. Il dovere del medico non è solo quello di ricucirlo, ma anche di ascoltarlo. Anche in questo caso la tentazione di una sedazione preventiva è forte. Invece, tante volte è proprio quello che andrebbe evitato. Si tratta di una richiesta di aiuto psicologico che devi sapere interpretare. E ciò lo comprendi solo dopo una lunga esperienza. E devo dire che tante volte sono gli infermieri, i quali hanno con i detenuti un rapporto più vicino e costante, a sapere come usare le giuste parole. Alludo a infermieri che per esperienza e specifica competenza conoscono il carcere come le loro tasche. I detenuti inoltre possono essere anche bugiardi. C’è in loro, specie nei tossicodipendenti, una forma di autodistruzione di cui neanche si rendono conto. La richiesta di un surplus di terapia è una costante in molti di loro. Pur di ottenere qualche goccia di sedativo in più inventano storie lacrimosissime. Il pietismo è un difetto in questi casi. Ma avere il coraggio di negare ciò che ai loro occhi può apparire una banale richiesta fa parte di un bagaglio culturale che un operatore del carcere può acquisire solo sul campo. Tutti noi, le prime volte, siamo caduti in queste trappole, siamo cioè: stati manipolati dai detenuti. Non ne parlo con disprezzo. Lo dico come semplice constatazione dei fatti. Aggiungo, per chiarire, l’uso anomalo di certi farmaci. Chi mai si sognerebbe che una certa medicina può essere trasformata in una sorta di sostanza stupefacente? È un dato questo che acquisisci solo in questo ambiente e dopo averci lavorato a lungo. Per cui quando ti avvedi che una certa richiesta è costante e concentrata in una sola cella sospendi il trattamento. Sto parlando di gestione quotidiana, di normale amministrazione. Attenzione però, normale per chi conosce le dinamiche de! carcere. Per me è improponibile affidare la salute dei detenuti a gente di passaggio. Si finirebbe nel caos più totale. Né si può pretendere che un professionista debba svolgere esclusivamente un lavoro in un ambiente così stressante e pericoloso. I detenuti non sono tutti tranquilli. Vi sono alcuni di elevata pericolosità sociale con cui tu comunque ti devi confrontare. Lavorare nel carcere è divenire a far parte di un meccanismo leonardesco: sei una puleggia, devi entrare in armonia con l’ambiente, agire in sincronia, muoverti in sinergia con l’ambiente. E poi devi avere "stomaco". Non sono pochi quelli che non hanno resistito più di un giorno. Si tratta infatti, come già ribadito, di un ambiente usurante e logorante oltre che deprimente. Buttare alle ortiche l’esperienza acquisita, cambiare personale di volta in volta significa ignorare le peculiarità dell’Istituto carcerarie: siamo in un ambiente delicato dove variazioni continue possono solo comportare disagi notevoli. Una semplice firma per la traduzione di un detenuto non può essere apposta da un sanitario capitato il giorno prima. La continuità assistenziale nelle carceri non può che essere affidato a personale già rodate, in sintonia con la polizia penitenziaria, che conosce le problematiche legate alla sicurezza e sa interpretare le mille esigenze che vengono dai pazienti detenuti. Se tutto questo viene vanificato a venire compromessa è la principale funzione del carcere: la sicurezza. Per la delicatezza e l’importanza delle funzioni professionali espletate, siamo fermamente convinti di andare a lavorare in carcere per essere premiati e non per essere penalizzati.
Amapi - Settore Medici Sias Dr. Valerio Scrivo Lettere: qual è la differenza tra l’ergastolo e la pena di morte?
Liberazione, 5 gennaio 2008
Gli ergastolani in lotta per la vita d’Italia, che hanno inoltrato alla Corte Europea per l’abolizione dell’ergastolo, in sciopero della fame a staffetta dal primo dicembre 2008, per rivendicare una presa di posizione del Parlamento Europeo invitano le Camere penali a indire tre giorni di sciopero degli avvocati per solidarietà alla campagna "Mai dire Mai". Perché un cittadina in un giornale ha scritto: "Vorrei chiarire a tutti i lettori che in Italia l’ergastolo dura più o meno 26 anni, mentre gli ergastolani con l’ergastolo ostativo, perché condannati per reati di mafia, sono esclusi da qualsiasi beneficio se non collaborano con la giustizia, cioè se al loro posto non ci mettono qualche altro. Ci sono altre possibilità perché l’ergastolano con ergastolo ostativo possa uscire: collaborazione impossibile, ruolo marginale e relazione di sintesi extramuraria prima del 1992: Io da cittadino, libero, in virtù dell’articolo 27 della Costituzione, mi chiedo: come fa uno Stato a rieducare i suoi detenuti se pretende che siano questi a fare nomi, luoghi, ecc.?". Perché l’ergastolo è un crimine contro l’umanità, contro il diritto internazionale, contro il diritto comunitario e contro la Costituzione italiana. Perché non c’è nessuna differenza fra la pena di morte e la pena dell’ergastolo dato che uno lo seppelliscono morto e l’altro lo seppelliscono vivo. Perché la pena dell’ergastolo ti lascia il corpo e si prende l’anima. Perché più uno sta in carcere e più uno si stente innocente. Perché gli ergastolani con il reato ostativo non hanno diritto a sperare. Perché la Francia rivoluzionaria fece votare dalla sua Assemblea Costituente il mantenimento della condanna a morte e l’abolizione dell’ergastolo così nel codice penale, approvato il 28 settembre 1791, la condanna più alta non poteva superare i 24 anni. Perché la pena dell’ergastolo è peggiore della pena di morte poiché mentre con la morte la tua pena finisce con la pena dell’ergastolo la tua pena è sempre è sempre all’inizio. Perché sfocia nel sadismo dire che l’ergastolo è costituzionalmente legittimo perché esiste la possibilità di uscire tramite un miracolo se poi questo non accade non è colpa di nessuno è colpa di Dio. Perché "Mai" non compare in nessun calendario! Gli ergastolani in lotta per la vita, stanchi di non essere né morti né vivi, stanno mettendo in atto alcune iniziative per sensibilizzare sulla nostra condizione e chiedono solidarietà alla classe forense. Per saperne di più: www.informacarcere.it, sezione "Mai dire Mai", oppure si può scrivere all’Associazione Liberarsi: assliberarsi@tiscali.it.
Carmelo Musumeci e Giovanni Spada per gli ergastolani in lotta per la vita, Spoleto (Pg) Livorno: detenuto 23enne in coma profondo dopo lite in carcere
Ansa, 5 gennaio 2009
Un detenuto siciliano del carcere delle Sughere è ricoverato in coma a Livorno, per una caduta dopo una lite con un altro detenuto. L’episodio è avvenuto mentre i due stavano salendo le scale per tornare nella loro sezione dopo l’ora d’aria. La lite è avvenuta 2 mesi fa, ma la notizia è stata pubblicata oggi. Il detenuto, che secondo i medici rischia di rimanere in stato vegetativo,è Alfonso Maria Vizzini, di Niscemi (Caltanissetta), 23 anni, recluso per reati comuni. Napoli: detenuto semilibero ucciso mentre fa rientro nel carcere
Ansa, 5 gennaio 2009
Ucciso mentre rientrava in carcere. Salvatore Mignone, 37 anni, è stato ucciso da due sicari davanti all’ingresso del carcere di Secondigliano, a Napoli. L’uomo, che era in semilibertà e stava rientrando per la notte in carcere, appena sceso dalla sua macchina, una Fiat Multipla, è stato raggiunto da due sicari che hanno esploso diversi colpi di pistola. I sicari, in sella ad una moto e con il volto coperto dai caschi, si sono allontanati precipitosamente. Mignone, denunciato in passato per reati contro il patrimonio, era residente a Melito, comune che si trova a breve istanza dal carcere di Secondigliano. Mignone è stato soccorso e portato all’ospedale "San Giovanni Bosco", dove però i medici non hanno potuto fare altro che costatarne il decesso. Sono stati gli stessi agenti di guardia al portone a dare l’allarme. Sempre a Secondigliano, il 29 dicembre era stato ucciso, mentre era a bordo della sua auto, Antonio Pitirollo 41 anni. Pochi giorni prima, a cadere sotto i colpi dei killer era stato Carmine Guerriero, 26 anni, soprannominato Ronaldo, ucciso il 23 dicembre a Secondigliano. Quello di Mignone è il terzo omicidio in meno di due settimane: il timore di una nuova faida a nord di Napoli è più che concreto. Pistoia: laboratorio carpenteria modello di reinserimento sociale
Il Tirreno, 5 gennaio 2009
Con il contributo della Caritas nazionale attraverso l’otto per mille è stato possibile, nel corso del 2008, tenere aperto un laboratorio di carpenteria in ferro, a Pistoia in via Frosini, 40, di proprietà della Cooperativa Sociale In Cammino. In questo laboratorio sono transitati nell’anno complessivamente 33 persone svantaggiate in carico ai servizi socio sanitari del territorio. Mediamente le persone inserite in laboratorio hanno frequentato singolarmente le attività proposte per un periodo di 2/3 mesi, prevedendo l’accompagnamento di un operaio esperto (docente) e di un tutor. All’interno del laboratorio i soggetti sono stati coinvolti in attività prevalentemente pratiche sulla carpenteria in ferro, con l’utilizzo di saldatrici, troncatrici, mole, acquisendo gradualmente delle competenze professionali di base e delle competenze trasversali come capacità nel relazionarsi con gli altri compagni, saper lavorare in gruppo, saper rispettare gli orari. Alla fine del corso, 13 degli allievi inseriti sono stati assunti da aziende del territorio pistoiese, 10 stanno proseguendo alcuni percorsi accompagnati da un tutor, che li segue dai primi colloqui iniziali fino al termine dell’inserimento lavorativo. La metodologia utilizzata rivolta a questa categoria di soggetti che nel modo di pensare comune non sono in grado di lavorare (persone con problemi di tossicodipendenza, alcolismo, giovani a rischio di devianza sociale, invalidi civili iscritti alle categorie protette, detenuti ammessi a le misure alternative alla pena detentiva), si contraddistingue da un semplice inserimento lavorativo e prevede: l’inserimento in laboratorio per un periodo massimo di tre mesi, l’inserimento in stage aziendale in ditte del territorio con un tutor e avendo come finalità quella di poter giungere ad un contratto di assunzione. Spiegano gli organizzatori: "Tutte queste persone hanno bisogno di colmare una "distanza" prima di poter essere inseriti pienamente in un contesto lavorativo. Ecco allora che un laboratorio dove la persona viene accolta, dove un operaio esperto in veste di docente cerca di trasmetterle alcune competenze lavorative, dove un tutor instaura un rapporto di conoscenza facilitando nel soggetto la ri/acquizisione di alcune competenze sociali, diventa uno strumento concreto capace di colmare tale distanza". "Va da sé poi che un lavoro è capace di diventare elemento propulsivo della propria vita - aggiungono - favorendo relazioni positive, riconsiderazioni di sé e obiettivi da raggiungere". Durante l’anno 2008 questo è stato possibile perché in molti hanno creduto alla validità di questo progetto contribuendo alla realizzazione: la Caritas nazionale e la Caritas diocesana, il Comune di Pistoia attraverso i servizi sociali; la Fondazione Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia, la Fondazione Un raggio di luce e gli istituti Raggruppati. "Noi siamo felici di aver gestito questo laboratorio - spiegano - e così perseguire lo scopo statutario che ci siamo dati come cooperativa sociale. L’inizio del 2009 ci vede impegnati a riprogrammare con gli stessi partner l’esperienza dell’anno appena trascorso". "Riteniamo valido questo strumento a favore di persone svantaggiate - concludono alla cooperativa - e ci auguriamo che queste modalità operative possano divenire strumenti usuali e consolidati anche per le istituzioni, che più di noi hanno mezzi per intervenire a favore di questa fascia di persone". Pesaro: Sappe; lettere dei detenuti su carenze igienico-sanitarie
Il Messaggero, 5 gennaio 2009
Ora le lettere dei detenuti potrebbero finire in Procura. È il segretario regionale del Sappe, Aldo Di Giacomo, che sta valutando l’ipotesi di chiedere alla Procura l’acquisizione delle lettere dei detenuti della casa circondariale di Villa Fastiggi, in cui denunciavano le precarie condizioni igienico-sanitarie in cui vivono. "Aspetterò ancora qualche giorno per riflettere - spiega Di Giacomo - poi se lo riterrò opportuno informerò la Procura di Pesaro, ammesso che non ne sia già al corrente, delle denunce dei detenuti di Villa Fastiggi, così che potrà essere fatta luce sulle reali condizioni detentive a cui sono sottoposti". Le condizioni "disumane" denunciate dagli "ospiti" del carcere pesarese hanno sollevato reazioni politiche e sindacali, ma ora la stessa Procura potrebbe essere chiamata in causa per mettere la parola fine alla polemica. Ieri il deputato della Lega, Luca Rodolfo Paolini, che qualche mese fa aveva visitato l’istituto pesarese, aveva parlato di una situazione non drammatica e che rientrava nella norma. Anche in questo caso il segretario Di Giacomo ha da ribattere. "Ho avuto un chiarimento con Paolini - continua Di Giacomo - ha ascoltato le mie parole e ha preso atto della forte carenza organica con cui tutti i giorni hanno a che fare gli agenti di polizia penitenziaria del carcere pesarese. Per quanto riguarda le condizioni dei detenuti lui è rimasto della sua idea ma ha anche assicurato che a breve tornerà a visitare la Casa Circondariale". Uno scambio di battute vivace, grazie al quale il sindacalista ed il parlamentare leghista hanno potuto chiarirsi. Empoli: è uscito l’ultimo numero della rivista "Ragazze fuori"
Il Tirreno, 5 gennaio 2009
"È un nuovo momento in divenire, una fine d’anno e un inizio del 2009 in piena trasformazione. Epocale, diremmo senza esagerare. Dopo oltre dieci anni di onorata attività, la Casa a Custodia Attenuata di Empoli, un progetto innovativo voluto a suo tempo da tutti gli organismi dell’Amministrazione Penitenziaria, chiude per accogliere un istituto dedicato a detenuti transessuali" così scrive il direttore del giornale, Barbara Antoni, nel suo editoriale che apre le pagine dell’ultimo numero dell’anno 2008. In questo numero il tema portante è stato appunto la "conversione" dell’istituto da femminile a maschile, il momento di incertezza delle quattro detenute rimaste all’interno della struttura con tante perplessità per non sapere molto su quanto sta cambiando. Di certo però non hanno voluto perdere l’opportunità di scrivere le loro ultime testimonianze, anche coloro che fino ad oggi non lo avevano ancora fatto. Nessuna delle donne dentro e fuori, degli operatori, ha paura del "nuovo" che arriverà. Tutt’altro. Il gruppo di lavoro della Casa Circondariale femminile a custodia attenuata di Empoli sarà in grado di svolgere al meglio il proprio lavoro, sulla scia dei risultati che quella struttura ha dato in questi dieci anni. Lo scrive il provveditore, Maria Pia Giuffrida, che vuole formulare il nuovo progetto per i transgender, sulla scia del programma della custodia attenuata. In un momento di cambiamento come questo, la rivista Ragazze Fuori si augura di poter continuare a essere la voce del nuovo gruppo di ospiti dell’istituto empolese. Svolgendo il ruolo che ha da dieci anni, con i soliti presupposti e mosso dalla stessa volontà: quella di comunicare all’esterno storie, aspirazioni, esperienze, sofferenze e sogni che sono i mattoni di quel ponte ideale fra dentro e fuori, come quel giornale ha fatto finora. Immigrazione: questore di Gorizia; allarmismi esagerati sul Cie
Messaggero Veneto, 5 gennaio 2009
No agli allarmismi: questo è stato il filo conduttore dei concetti espressi ieri mattina dal questore di Gorizia Antonio Tozzi che nell’ambito della conferenza stampa svoltasi a Gorizia ha fatto il punto della situazione anche per quanto riguarda lo stato delle cose nell’ex Cpt di Gradisca, in particolare in relazione alle ripetute fughe di clandestini e agli arrivi provenienti dal Centro di prima accoglienza di Lampedusa dove sono stati accolti, negli ultimi giorni del 2008, centinaia di immigrati sbarcati sulle coste dell’Italia meridionale. "La presenza del Cie nel nostro territorio è sicuramente "ingombrante" - ha sottolineato il questore di Gorizia -, ma non si può dire che crei chissà quali fastidi ai cittadini che vi risiedono nei pressi anche se mi rendo conto che tra gli abitanti dei dintorni c’è una particolare "sensibilità" verso il fenomeno". Secondo Tozzi il problema finisce, cioè, per essere sovra dimensionato, ingigantito nella percezione che ne hanno i cittadini gradicani, trattandosi forse di una sorta di "nervo scoperto". Il problema andrebbe invece ridimensionato anche considerando che gli immigrati che scappano poi non restano a Gradisca: "Le fughe dal Centro immigrati - sono le parole del questore - vanno considerate per quello che sono, allontanamenti arbitrari di persone che comunque non sono detenuti e che a ogni modo nel giro di qualche giorno sarebbero comunque fuori della struttura. Inoltre, si tratta di gente che poi non intende certo restare in loco, ma che scappa il più lontano possibile". "Direi - ha affermato ancora il questore - che queste fughe sono quasi un fatto naturale, del resto è gente che ha superato indicibili difficoltà, varcato confini naturali come mari e montagne, sopportato sfruttamenti e angherie. Così, quando si rendono conto che il loro sogno di trovare una vita migliore in Italia sta per sfumare e che sono destinati al rimpatrio cercano di scappare, di sottrarsi ai controlli. E, comunque, lo ripeto, non si tratta di detenuti, dunque non è possibile adottare nei loro confronti misure draconiane. Credo non lo vorrebbero neanche i comuni cittadini italiani". Per quanto riguarda l’attuale situazione nella struttura, secondo il questore "è sotto controllo, ma è chiaro - ha detto - che fino a quando continueranno gli sbarchi di clandestini a Lampedusa ci saranno ripercussioni anche per il Cie gradiscano". Almeno per il momento, peraltro, non sono previsti a Gradisca nuovi arrivi di clandestini da Lampedusa. L’ultimo trasferimento di immigrati alla struttura gradiscana dal centro di prima accoglienza e soccorso dell’isola risale alla giornata di domenica: da Lampedusa erano stati trasferiti con un ponte aereo a Gradisca trenta clandestini, sbarcati sulle coste italiane nei giorni precedenti. Al momento nel centro immigrati di via Udine sono ospitate 370 persone. Usa: a febbraio Obama dovrà decidere sui nemici combattenti
Apcom, 5 gennaio 2009
Una volta che il presidente eletto Barack Obama si sarà insediato alla Casa Bianca, il prossimo 20 gennaio, dovrà subito affrontare una quantità di questioni, economiche e di politica internazionale. Entro un mese dal giuramento dovrà inoltre comunicare la propria posizione su una delle richieste più controverse dall’amministrazione Bush, ovvero la possibilità di dare al presidente americano il diritto di decidere la detenzione di una persona sospettata di terrorismo a Guantanamo senza l’accusa formale per uno specifico crimine. Come riporta il New York Times, il rapporto della nuova amministrazione è atteso entro il 20 febbraio e potrebbe alienare a Obama il consenso di una parte dei suoi sostenitori, quella che ha auspicato una decisa presa di posizione contro la posizione del governo Bush sulla detenzione e gli interrogatori dei cosiddetti "nemici combattenti" trattenuti alla base navale di Guantanamo, a Cuba. Obama, che nel corso della campagna elettorale ha preso le distanze dalla posizione del suo predecessore, dovrà esprimersi su un caso specifico, quello di Ali al-Marri, uno studente del Qatar arrestato in Illinois nel dicembre 2001. Marri è stato accusato di affiliazione con l’organizzazione terroristica Al Qaida ed è l’unico "nemico combattente" attualmente detenuto in un carcere sul suolo americano, ma una decisione sul suo caso potrebbe influire sul destino di quasi 250 detenuti di Guantanamo. In una nota diffusa da un portavoce del presidente eletto si legge che "Obama prenderà una decisione su come gestire la situazione dei detenuti come presidente quando la sua squadra di governo per le questioni legali e di sicurezza sarà effettivamente operativa". Dalle pagine del quotidiano londinese Times, si è espresso proprio su questo tema anche Clive Stafford Smith, uno dei legali di Reprieve, l’associazione che rappresenta molti dei detenuti di Guantanamo, e che ha chiesto alla sua nazione di prendere una posizione decisa sulla vicenda. "La Gran Bretagna ha una scelta da fare: contribuire a chiudere la prigione o stare a guardare mentre le sorti dei prigionieri in tuta arancione suscitano rabbia in molti altri giovani".
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