Rassegna stampa 2 febbraio

 

Giustizia: se i magistrati ci raccontano di un’Italia "terrificante"

di Francesco Grignetti

 

La Stampa, 2 febbraio 2009

 

Un Paese pericolosamente pencolante verso il far-west, ecco che cosa raccontano le inaugurazioni dell’anno giudiziario. I magistrati indossano i loro ermellini e nella forma più solenne raccontano un’Italia terrificante. A Palermo aumentano gli omicidi "e non sono di mafia". A Bologna crescono i reati di "maggiore allarme sociale" come rapine, violenze sessuali ed estorsioni. La frase di maggior effetto la lancia il giudice milanese Giuseppe Grechi: "Siamo al primo posto in Europa per numero di reati gravi. Pari alla Bosnia per omicidi e reati di massima gravità". Addirittura la Bosnia. Un Paese che non è mai uscito con la testa dalla guerra civile.

Dove staziona da quattordici anni una missione militare internazionale. Dove la giustizia è di fatto appaltata al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja. Dove lo Stato è rappresentato da due entità semiautonome che restano sotto la tutela di un Alto rappresentante Onu. Dove l’elenco dei "most wanted" di Sarajevo viene aggiornato di continuo perché si continuano a scoprire passate atrocità e nuove organizzazioni criminali. In effetti si dice della Bosnia. E l’Italia della mafia e della camorra? Non ha nulla da invidiare al cuore nero dei Balcani. Anche l’Italia aggiorna di continuo la sua lista dei Trenta Latitanti più pericolosi.

Esiste un gruppo specializzato, che raccoglie i migliori investigatori di tutte le forze di polizia che lavora solo sulla cattura di questi terribili trenta. Tra loro c’è Attilio Cubeddu, sardo di Arzana (Nuoro) latitante dal 1997 e ricercato per sequestro di persona, omicidio e lesioni gravissime. Oppure Antonio Iovine, classe 1964, di San Cipriano D’Aversa (Caserta) ricercato dal 1996 per omicidio ed altro. O ancora l’imprendibile Matteo Messina Denaro, di Castelvetrano (Trapani) ricercato addirittura dal 1993, per associazione di tipo mafioso, omicidio, strage e devastazione. Sul fronte dei latitanti, le forze di polizia possono vantare di recente ottimi successi. Il latitante più famoso era Salvatore Lo Piccolo, ritenuto un possibile successore di Totò Riina. Preso un anno fa. E non è finita qui. "In agenda abbiamo diverse situazioni critiche, alle quali riserveremo una maggiore attenzione.

Intensifichiamo le attività, anche senza riflettori mediatici", diceva qualche giorno fa il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Il fatto è che ogni grande arresto comporta la disarticolazione di un gruppo criminale. Proprio nel caso del clan Lo Piccolo, all’arresto del boss è seguita una larga retata. E s’è scoperto un larghissimo giro di estorsioni che terrorizzava Palermo. Che il fenomeno del racket fosse in aumento esponenziale, gli investigatori l’avevano capito da tempo. Gli specialisti della Divisione investigativa antimafia, ad esempio, seguono con particolare attenzione gli episodi di danneggiamento che definiscono "classici reati-spia".

Ecco, per numero di denunce, a Palermo i danneggiamenti con incendio doloso nel 2007 sono stati 2.644. Erano poche centinaia solo cinque anni fa. Forse, proprio perché a Palermo c’è stata la cattura di Lo Piccolo, la mafia sembra ripartire a Trapani. "La situazione - diceva ieri il presidente della Corte d’Appello di Palermo, Armando D’Agati - nel Trapanese è preoccupante. Nonostante le serrate indagini in corso, continua la latitanza di Matteo Messina Denaro. E vanno progressivamente ricostituendosi le potenzialità "militari" di Cosa nostra in ragione del fatto che molti importanti appartenenti all’associazione vengono posti in libertà per aver ormai scontato le pene irrogate". E poi si dice Sarajevo: certo, il famoso Ratko Mladic, comandante militare dei serbi di Bosnia, si nasconde dal 1995. Ma Radovan Karadzic alla fine l’hanno preso e condannato.

Giustizia: "pacchetto sicurezza", in 10mila dicono no a Maroni

 

Liberazione, 2 febbraio 2009

 

La rabbia e la festa: questo il clima che si respirava l’altro ieri a Roma nel primo corteo auto organizzato contro il varo del "pacchetto sicurezza", che approderà nell’Aula del Senato mercoledì prossimo. La rabbia che si accumula offesa dopo offesa alla dignità delle cittadine e dei cittadini migranti, tanto sfruttati quanto clandestinizzati dalle politiche di potere e stigmatizzati dal razzismo che quelle politiche moltiplicano nella società italiana.

La rabbia delle lavoratrici e dei lavoratori senegalesi che nel corteo portano la notizia della rivolta delle sorelle e dei fratelli di Civitavecchia, dove nella mattinata di sabato un poliziotto italiano fuori servizio ma con precedenti ha, pare "per una lite di condominio", sparato con un fucile a pompa ad un loro connazionale, uccidendolo.

Ma anche la rabbia di quante e quanti, precarie e precari "indigeni", hanno appreso e coltivato condivisione con la popolazione migrante a Roma, in anni di lotte auto organizzate sui bisogni, a cominciare da quelle per il diritto all’abitare, così come in comuni percorsi di liberazione di desideri, in decine di spazi sociali autogestiti, altrettanto assediati. E così pure la rabbia delle donne, delle associazioni e delle reti femministe che denunciano ancora una volta la strumentalizzazione patriarcale e di Stato del corpo femminile con cui si cerca di giustificare la nuova emergenza securitaria e si sdogana l’odio razziale.

Dall’altra parte, la festa: quella di tutta questa rabbia che trova il modo di condividersi e di esprimersi in un comune bombardamento di senso, di riprendersi la piazza, di diventare 10mila differenti corpi, singolari e sociali, che dicono insieme un No liberatorio. Una festa che è una sfida totalmente auto organizzata, da una rete cittadina orizzontale che ha raccolto l’arco più ampio di possibile di movimenti di lotta e associazioni di migranti e precari e studenti, di case e centri occupati e autogestiti presenti nella sola grande metropoli italiana che è Roma. Una festa di rivolta civile, dislocata, con un corteo che comincia a Porta Maggiore all’ombra di quella Pantanella dove 19 anni fa la resistenza della prima occupazione intercomunitaria inaugurò le lotte migranti in Italia; e che finisce a Piazza Esquilino, a pochi passi da un Viminale protetto da uno spiegamento abnorme di polizia e carabinieri in assetto antisommossa, dopo aver attraversato il quartiere-simbolo della presenza migrante come della costruzione delle fobie.

Nessuna bandiera di partito né sindacale: soltanto qualche bandiera di Palestina accanto a quelle rosse senza alcun simbolo sui camion che sparano i sound system dei centri sociali, bandiere rosse e nere della Federazione anarchica italiana e di situazioni e individualità libertarie, e una bandiera rastafari che sventola a centro corteo. Organizzazioni politiche solo in fondo: Sinistra critica "del Pigneto" e a chiudere la delegazione della Federazione romana del Prc.

Tanti striscioni, invece. Quello unitario in testa, retto da un primo spezzone interamente di donne migranti che gridano inesauste "Libertà!", ammonisce: "No al pacchetto (in)sicurezza". Poi, appunto: "Attenzione, contiene (nel senso di imprigiona, ndr ) la libertà di tutte e di tutti". Un messaggio rilanciato sui muri dai writers, soggetto a rischio di galera secondo le nuove norme. Mentre lungo il percorso locandine contro il controllo finiscono incollate sulle lenti di diversi dispositivi di videosorveglianza e vengono affissi lenzuoli che avvertono: "Occhio non vede, cuore non duole".

Costante la denuncia femminista negli speakeraggi dei camion, dove si articola il messaggio sintetizzato dallo striscione "La violenza sulle donne non dipende dal passaporto. La fanno gli uomini". Donne, uomini e bimbi migranti si mescolano agli autoctoni negli spezzoni di Action e Coordinamento di lotta per la casa. Sfilano compatti i bengalesi di Dhuumcatu, uno striscione retto da nordafricani recita: "No ai lager, né a Lampedusa né in Libia né in qualsiasi posto". I senegalesi scorrono per la manifestazione cantando e ballando la loro ira, insieme a keniani che issano le marionette d’un Berlusconi malconcio in bandana che sfida la statura d’un Obama boxeur.

Conclusione a tappe: davanti alla basilica di Santa Maria Maggiore la squadra rugby degli All Reds, nata nel laboratorio Acrobax, improvvisa una partita in sfida rivendicata al tentativo di vietare le manifestazioni "davanti ai luoghi di culto". Da un camion qualcuno ricorda che "Cristo camminava scalzo, non con le scarpe di Prada di questo Papa": e diventa il solo motivo di commento del post-missino sindaco Alemanno come del piddino presidente della provincia Zingaretti.

Celere a presidiare Casa Pound, da dove i militanti neofascisti pensano bene di fare provocatoriamente capolino, scatenando la rabbia che si sfoga in lanci di petardi e fumogeni. Poi, per quanto la piazza d’armi inscenata da polizia e Cc lo blindi non può proteggere il Viminale dalle vibrazioni del concerto che conclude la prima tappa d’un nuovo ciclo di lotte. La prossima, mercoledì 4 davanti al Senato.

Giustizia: il vero pericolo è la criminalità economica impunita

di Vincenzo Donvito (Presidente Aduc)

 

Notiziario Aduc, 2 febbraio 2009

 

Le varie inaugurazioni dell’anno giudiziario stanno confermando ovunque, dopo quanto già detto ieri per la situazione nazionale, uno stato dell’amministrazione della giustizia da incubo. La "cenerentola" in assoluto è la giustizia civile, quella di cui il cittadino comune ne ha consapevolezza solo se in qualche modo ne ha avuto a che fare e che lo porta a non pronunciare mai più una frase tipica come "se non la smetti ti denuncio"...

Con una pletora di avvocati, personale amministrativo insufficiente, strutture inappropriate, carceri stracolme a cui il ministro vuol porre rimedio facendone costruire altri e ignorando quelle in costruzione e mai finite, etc.... il minimo che può capitare è ritrovarsi un Paese come il nostro: certezza del diritto e della pena vissuto come optional dei discorsi delle feste di partito e delle campagne elettorali.

La nostra esperienza di associazione è "limitata" per l’appunto alla giustizia civile a cui, volenti o nolenti, dobbiamo fare riferimento per risolvere quasi tutte le questioni che trattiamo: piccoli e grossi illeciti, spesso anche opera della pubblica amministrazione.

Con le conferme che ci vengono dagli amministratori della giustizia, c’è poco da stupirsi della diffusa e sempre crescente delinquenza economica presente in tutti i settori: dalle compravendite fra privati ai servizi di telefonia mobile e fissa, dalle multe "a go-go" dei Comuni sul codice della strada... ai gestori pubblici di servizi come quello idrico, dalle banche con gestioni criminali dei conti correnti... alle Poste che rifilano fregature finanziare ai pensionati, dai viaggiatori Alitalia trattati come merce per scambi sindacali e risanamento per le buone uscite da nababbi dei vari amministratori.... ai viaggiatori delle ferrovie trattati peggio delle già disastrate merci su rotaia, dai Sindaci che credono di essere legislatori e fomentano odio, violenza e sfascio delle istituzioni nei rapporti coi nuovi cittadini che vengono da altri continenti... alle Regioni che legiferano dimenticando Costituzione e diritto.... Insomma, crediamo di esserci spiegati.

Questa Italia esiste, in parte scrive a noi e ci chiede consigli e, allo stato dei fatti, non c’è motivo per cui non debba continuare e peggiorare, tanto, chi, ricevuto un torto, avrà mai il coraggio di poter dire a ragion veduta a chiunque "se non la smetti ti denuncio"?

Giustizia: Pecorella (Pdl); nuove carceri inutili, meno detenuti!

 

Apcom, 2 febbraio 2009

 

"Costruire nuove carceri uguali a quelle odierne probabilmente servirà a poco perché continueremo a riempirle e poi alla fine ci ritroveremo con lo stesso problema. Bisogna ripensare completamente il sistema". È quanto ha affermato l’avvocato e deputato del Pdl, Gaetano Pecorella, in merito al problema del sovraffollamento delle carceri italiane, parlando a margine dell’inaugurazione dell’anno giudiziario al Tribunale di Milano.

Pecorella ha spiegato che "intanto va ridotto drasticamente il numero dei detenuti riducendo i casi di sanzioni penali detentive", evidenziando che "ci sono sanzioni alternative molto più efficaci di quelle detentive, come ad esempio togliere la patente per sempre o non consentire di far fare il medico a chi abbia esercitato male". Per l’esponente del Pdl bisogna inoltre "creare carceri alternative a quelle meramente detentive come in Inghilterra, dove c’è una specie di girone dantesco con carceri basate soltanto sulla restrizione fisica e su carceri che consentono di uscire a lavorare".

Giustizia: bimbi condannati al carcere 59 in cella con le madri

di Roberto Rizzo

 

Corriere della Sera, 2 febbraio 2009

 

I più fortunati, si fa per dire, hanno qualche giocattolo, magari anche un lettino vero, invece della branda dove dormire e una parete colorata. Gli altri, i più, sono trattati come gli adulti. Stanno dentro una cella, imparano il linguaggio carcerario ("Andare all’aria", "Arriva la matricola" sono frasi che presto diventano familiari), vivono secondo i tempi e i ritmi della prigione. Sono i bambini detenuti negli istituti di pena italiani.

Figli di madri finite dentro per reati che sono sempre gli stessi, furto o spaccio di droga. Piccoli che vanno dalla settimana di vita fino ai 3 anni. Poi, il giorno del loro terzo compleanno, spente le candeline, vengono tolti alle mamme (lo prevede la legge) e affidati alla famiglia, se c’è, oppure a qualche comunità che li ospiterà fino a quando la madre non avrà scontato la sua pena.

Il numero dei bambini detenuti, incredibile, non è certo: "Al momento dovrebbero essere 70, ma il dato è ufficioso. Quello ufficiale, fornito dal ministero della Giustizia e fermo al 30 giugno 2008, dice che sono 59", spiega Riccardo Arena, un avvocato romano che da sei anni ha abbandonato la professione per dedicarsi al mondo dei detenuti e conduttore di "Radiocarcere", programma di Radio Radicale oltre che rubrica sul quotidiano Il Riformista.

"Quei bambini sono pochi per interessare davvero a qualcuno".

Lo dice l’ex ministro delle Pari Opportunità Anna Finocchiaro, attuale capogruppo al Senato per il Partito Democratico, che nel 2001 fece approvare una legge a suo nome. Norma che prevede che "le condannate madri di prole di età non superiore ad anni 10, se non esiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti…", abbiano la possibilità di espiare la condanna in strutture che non siano il carcere. Intento lodevole, peccato che, otto anni dopo, la legge Finocchiaro non ha ancora trovato applicazione.

E i bimbi rimangono in carcere. Se n’è ricordato anche il ministro della Giustizia Angelino Alfano quando, recentemente, ha promesso: "Un bambino non può stare in cella. Approveremo una riforma dell’ordinamento carcerario che consenta di far scontare la pena alle mamme in strutture dalle quali non possano scappare ma che non facciano stare in carcere il bambino". Belle parole.

Peccato che in tutta Italia di queste strutture ce ne sia soltanto una, a Milano. Nell’attesa, i piccoli carcerati devono accontentarsi del Regolamento penitenziario che all’articolo 19 dice: "Presso gli istituti o sezioni dove sono ospitate madri con bambini sono organizzati, di norma, appositi reparti ostetrici e asili nido. Le camere dove sono ospitate madri con i bambini non devono essere chiuse affinché gli stessi possano spostarsi all’interno del reparto o della sezione. Sono assicurate ai bambini all’interno degli istituti attività ricreative e formative proprie della loro età". Sarà così? Non proprio. "In Italia sono solo sedici gli asili nido allestiti all’interno di istituti di pena - afferma Arena -. Ma siamo sempre dentro un carcere, tra ogni genere di detenute, urla e rumori. Non è certo l’ambiente adatto a dei bimbi, talvolta neonati".

Le storie di questi piccoli prigionieri sono tutte uguali. Per esempio, quella denunciata in questi giorni da Maria Grazia Caligaris, consigliere socialista della Regione Sardegna. È la storia di Josephine, una bimba nigeriana di un anno e dieci mesi "ancora dietro alle sbarre con la madre, incinta di 7 mesi e detenuta per droga, nel carcere Buoncammino di Cagliari".

"Non solo Josephine deve stare in prigione ma non ha neppure ottenuto il permesso di frequentare l’asilo", aggiunge Caligaris. "Il carcere riproduce le stesse disuguaglianze della società. I bambini restano in cella perché, nella maggior parte dei casi, sono figli di donne straniere che non hanno niente, nemmeno un avvocato che le tuteli", dice Anna Finocchiaro.

Secondo l’ex ministro, la soluzione sarebbe nelle mani dei Comuni: "Basterebbe pescare nel loro patrimonio immobiliare per creare centri di accoglienza dove far scontare a queste donne la pena ma permettendo loro di vivere con i figli in ambienti più simili a una casa che a una prigione".

Se per un adulto la detenzione può essere un trauma, immaginiamo quello che rappresenta per un bimbo. Lo racconta una donna italiana, trent’anni, di cui cinque trascorsi nel carcere romano di Rebibbia, uno degli istituti dotati di una sezione Nido, insieme a sua figlia Chiara: "Quando sono stata arrestata la bimba aveva solo cinque mesi. In prigione Chiara ha subito risentito dello spazio chiuso, della mancanza di un ambiente familiare. Ha smesso di sorridere e ha iniziato a piangere in continuazione.

È stata male diverse volte, ricoverata in ospedale sempre da sola perché noi mamme detenute non possiamo seguire i nostri piccoli in ospedale. È rimasta muta fino a due anni e mezzo". Fino a quando non è tornata ad essere una bambina libera. In mancanza delle istituzioni, proprio a Roma, a Rebibbia, è attivo da 15 anni il progetto "Crescere e giocare insieme". A portarlo avanti è un gruppo di volontari organizzato da Leda Colombini, femminista della prima ora, ex deputato Ds.

"Il giorno di Natale, quando abbiamo fatto la festa, c’erano 21 madri detenute con i loro figli: due africane, tre italiane e le altre di etnia rom. Vivono nella sezione nido, dove si è cercato di dare una condizione più attenuata del carcere, con un giardinetto e dei giochi. Ma è sempre un ambiente ristretto, sottoposto alle regole del penitenziario".

L’iniziativa principale del progetto della Colombini è "ogni sabato portare fuori, dal mattino alla sera, i bambini detenuti per far vivere ad ognuno di loro una giornata normale. D’estate al mare, d’inverno in montagna o in piscina. I piccoli hanno la possibilità di scatenarsi fisicamente, cosa che in carcere non è permessa. Rinunciano volentieri al sonnellino pomeridiano pur di non perdersi qualche ora di gioco".

L’altra attività dei volontari consiste nel portare i bimbi di Rebibbia all’asilo esterno: "Abbiamo ottenuto un pulmino dal Comune per portarli in tre nidi della zona. Sono bambini che fanno tenerezza, molto meno capricciosi dei loro coetanei". Di loro colpisce lo sguardo: "È diverso perché è uno sguardo che sbatte sempre contro un muro e, infatti, la creatività di questi bambini è molto limitata". Leda Colombini ha presentato una proposta di legge che ha consegnato in Parlamento. Per ora nessuna risposta.

 

Giocattoli, colori e coccole Milano, prove di vita normale

 

Le pareti sono dipinte di giallo, gli arredamenti sono etnici, i giocattoli sparsi ovunque. In cortile, in attesa della bella stagione, sono parcheggiate alcune automobiline a pedali e in un angolo c’è un cavallo a dondolo di plastica. "Tutto è stato studiato per trasmettere ai bambini un ambiente più caldo e familiare possibile", spiega l’ispettore Stefania Conte, una bella ragazza mora che arriva dal Sud Italia.

È lei che dirige l’Icam (acronimo che sta per Istituto a custodia attenuata per detenute madri) in via Macedonio Melloni a Milano, zona elegante e semicentrale nella parte est della città. Nato nell’aprile 2007 grazie a un progetto dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia, Provincia e Comune di Milano, l’Icam è l’unica struttura del genere in Italia.

Una prigione per madri detenute che non sembra un carcere. Qui gli agenti di polizia penitenziaria (13 tra uomini e donne) vigilano discreti in borghese. Per i corridoi non ci sono sbarre, così come non ce ne sono a chiudere le camere da letto (cinque). L’unica porta che rimane chiusa è quella d’ingresso.

Le protezioni sono solo alle finestre, in ferro battuto dai ghirigori tipici dei palazzi d’epoca, come si usa negli appartamenti che sono al pian terreno di un edifico. Più per proteggersi da intrusioni esterne che per impedire la fuga anche se, da aprile 2007 a oggi, un tentativo di evasione, riuscito, c’è stato. Ma dopo 24 ore la fuggitiva è rientrata spontaneamente. Al momento l’Icam ospita otto detenute e 9 bambini (la capienza massima è di 16 detenute e altrettanti piccoli. Il tempo di permanenza medio è di un anno e sei mesi). Cinque sono italiane di etnia rom, poi una tedesca, una romena e una marocchina.

"Cerchiamo di fare vivere i bambini e le loro madri come se fossero in una casa normale con una vita normale, cosa che tante di loro non hanno all’esterno", dice l’ispettore Conte. Al mattino la sveglia è alle 8. Entro le 9 i bimbi devono essere pronti, bagno e colazione, per essere portati (da volontari di Telefono Azzurro e altre associazioni) all’asilo nido. "Frequentano tutti la stessa scuola e per ora non ci sono stati problemi d’inserimento. In giugno, alla festa di fine anno, due detenute hanno avuto il permesso di parteciparvi".

Mentre i piccoli sono al nido, le madri si dedicano alle faccende domestiche: "Ogni donna si occupa della pulizia della propria stanza e, a turno, delle parti comuni". Che sono la sala tv, la ludoteca, la cucina, i bagni. Tutto è tirato a lucido e l’ambiente profuma di sapone come fosse una pubblicità. Per le detenute c’è anche la possibilità di seguire corsi scolastici o di pasticceria. "Alle 15.30 i bambini rientrano dall’asilo, un’ora dopo c’è la merenda, alle 18 la cena. La sera ogni mamma addormenta il suo bambino e spegne la luce quando crede.

L’assistenza medica è garantita tutti i giorni, il pediatra una volta la settimana se non ci sono urgenze. "Sono detenute che si trovano in una situazione privilegiata rispetto al resto d’Italia", dice don Gianfranco, il prete che visita quotidianamente l’Icam insieme a un ministro del culto dei Testimoni di Geova. "Infatti - continua don Gianfranco -, la loro preoccupazione principale non è per i bambini che stanno con loro qui dentro, che nel complesso vivono un’esistenza serena e quasi normale, ma per gli altri figli rimasti fuori".

Come Monica, una sinti di 30 anni del campo nomadi di Garbagnate (Milano), reclusa con Jessica di un anno e nove mesi. "Ma io penso agli altri tre miei bambini che ora vivono con i nonni". Monica è all’Icam da un mese, furto in abitazione. "Ma io sono innocente, lo giuro. Pago per mia sorella. Ai miei figli più grandi, che hanno 9 e 8 anni e vengono a trovarmi ogni domenica, ho detto che sono qui per lavorare".

Anche se le pareti sono tinte di giallo e i mobili ricordano Paesi lontani, all’Icam la legge è uguale per tutti e lo spettro per ogni madre detenuta è lo stesso che in qualsiasi altro carcere italiano: essere separata dal proprio bambino. Succede, per legge, al compimento del terzo anno d’età del pargolo. La madre rimane dentro a scontare la pena, i piccoli vanno in affido all’esterno. Un trauma che il primo marzo vivrà Sara, in prigione per furto, il marito in carcere a San Vittore, quando festeggerà il terzo compleanno di sua figlia Monica: "Cerco di non pensarci ma ci penso sempre. Siamo qui insieme da un anno e sei mesi. Lei è serena, ma poi? Ogni tanto ho il permesso di mandarla il weekend dai nonni, ai quali verrà affidata. Deve abituarsi. Al contrario dei bimbi che hanno una vita normale, lei i nonni li conosce solo ai colloqui della domenica. Grazie a Dio io uscirò in giugno. Ho sbagliato, ho commesso un reato e sto pagando, ma la legge sa essere davvero molto crudele".

Giustizia: anatomia di un crimine, dal Ratto delle Sabine in poi

di Guido Ceronetti

 

La Stampa, 2 febbraio 2009

 

Ho inteso, dalla sua stessa voce, il Presidente del Consiglio associare ipoteticamente stupro a "bella ragazza", e faccio questa nota per inquadrare con meno imprecisione il fenomeno in questione, psicologicamente e criminologicamente tra i più complessi e inafferrabili.

Quando leggiamo, nella storia delle origini di Roma, del ratto delle Sabine, sarà bene toglierci la benda del pulito ricordo scolastico e degli svolazzi neoclassici. Fu un fattaccio turpe. Bande di bruti raccogliticci, chiamati da un Caino del Latium, sfuggiti ai castighi o scacciati dalle più antiche e civili città meridionali, tutti maschi esasperati dal bisogno di femmina (tentigine rupti), decidono di compiere spedizioni notturne nelle campagne abitate dai Sabini, a Sud delle loro tane da lupe (dove cuocevano all’aperto, per sé soli, polente di farro e pezzi di pecora), e seminano il terrore nei villaggi, stuprando bestialmente, prima che i loro uomini si radunassero, povere donne mal nutrite e mal lavate, una parte delle quali, per la vergogna e per sottomissione alla forza, li seguirono. Ne venne fuori un popolo che aveva nel sangue la violenza e la guerra, e la madre dei Gracchi, e il divino Cesare.

La storia dello stupro è infinita, e solo modernamente è entrato nelle legislazioni, che lo puniscono recalcitrando, quando non sia seguito da assassinio. In Italia è "reato contro la persona" solo da pochissimo tempo. Ma in nessun caso la bellezza della vittima ne è il movente, vorrebbe dire che lo stupratore, solitario o in branco, ci vede e fa una scelta. Lo stupratore è accecato dal sesso, non dal volto, di cui gli interessa esclusivamente quanto esprima terrore, ribrezzo, impotenza, sgomento, umiliazione.

Fortissima sempre in questi inconsci di guazzabuglio è la volontà di umiliare, di insozzare un santuario, di sfogare odio etnico, di far nascere figli di quest’odio (molto chiaro nelle guerre balcaniche di fine XX). La donna del nemico militare è sempre, nonostante i divieti (ma spesso con comandi complici) da umiliare sessualmente. Nelle giungle urbane d’oggi la legge primitiva della giungla coabita con le nostre regole etiche e politiche frantumate, e di notte negli spazi incustoditi, periferici, ferroviari, sotterranei, strappa un infame diritto di sopravvento. Là, qualsiasi donna diventa, per ogni anonimo passante, foemina simplex, una bambola fessurata, la connotazione individuale scompare nell’indistinzione della tenebra.

E una gran parte ha, posso dire sempre più avrà, la componente sadistica. L’aroma che più risveglia l’istinto di violenza è la debolezza, l’inermità, l’avere a tiro, da sbattere sull’asfalto o in un cesso, una creatura del tutto digiuna di karatè, anoressica, bruttina, con braccia esili, perduta. E tutto questo è al cento per cento sadismo - da manuale o, alla lettera, da Malheurs de la Vertu. Una ventina di anni fa seguivo a Parigi un corso della scuola teatrale di Grotowsky, che si teneva in un posto orripilante sul Quai de la Gare, al Tredicesimo, immenso ex deposito dei macelli del grande Ventre.

Al piano di sotto della nostra sala, tutta ben rifatta, c’era una batteria di decenza con decine di porte che stridevano sinistre e il vento sbatacchiava. Per scendere là sotto negli intervalli, tutte le ragazze chiedevano di essere accompagnate da qualcuno degli stagisti maschi. Non c’era ombra di maniaco sadico dietro quelle porte, ma il timore ancestrale dell’uomo in agguato in un luogo propizio, lugubre come un Dachau, spingeva le donne (non mi pare ce ne fosse qualcuna di distinta bellezza) a farsi proteggere da un altro uomo, fosse pure di muscolatura schiappona e di natura da straccio bianco.

Era bello e ci inorgogliva quel ruolo... La virilità è forza in sé, anche se non ci sono forze. Ancestrale anche quel ruolo di custodes. Contro l’uomo che offende, che non vede il volto ma è eccitato dal corpo indifeso, l’uomo che difende: due sicuri archetipi, due forme simboliche del pensiero - preistoria nel cuore sfinito della civiltà.

I marocchini hanno una risoluta fama di stupratori (pericolosissimi in guerra, nel ricordo storico le truppe coloniali al seguito di Franco, i marocchini della campagna d’Italia dei francesi di De Gaulle-Leclerc), ma nelle cronache recenti e nelle statistiche sono stati abbondantemente superati dai romeni, spesso in branco, talvolta omicidi.

Il loro numero è misurabile dalla quantità esorbitante di presenze fuori controllo, dall’oziosità abbrutente, tra bevute di birra senza cibo negli ondeggiamenti senza confini delle grandi periferie. Va ricordato che si tratta di figli dei ventri forzati a partorire da Ceausescu sotto stretta sorveglianza antiabortista della Securitate, cresciuti in condizioni prossime al randagismo canino. Il dono all’Italia di questi campioni di umanità degradata è stato fatto dai frenetici allargamenti a Est dell’Unione e dalla follia di Schengen.

Giustizia: Bernardini denuncia botte su violentatori; insultata

di Paolo Conti

 

Corriere della Sera, febbraio 2009

 

La deputata radicale ha denunciato le percosse sui romeni presi a Guidonia. Messaggi ricevuti da Rita Bernardini sulla mail della Camera: "Fai schifo, ti auguro di essere stuprata da un branco di merde come quelle li, ma magari ti piace perche a quanto sei brutta e fai schifo non ti s.... nessuno. Crepa". Ancora: "Spero veramente che un giorno le stuprino le sue figlie o qualche suo famigliare".

Il "lei" si usa, scrivendo a un deputato, anche per le atrocità: "Vorrei, cara onorevole, che una sera rientrando a casa, fosse stuprata e pestata a sangue da un branco di romeni, vorrei che le lasciassero segni indelebili nel corpo e nella mente, vorrei che ciò accadesse ai suoi figli se ne ha, vorrei che i suoi cari magari anziani fossero aggrediti in casa e malmenati con bastoni e seviziati con coltelli da un branco di extracomunitari feroci" Rita Bernardini, deputata radicale-Pd e membro della commissione Giustizia della Camera, dice che tutto ricorda "radio parolaccia, quando a Radio radicale, era metà degli anni Ottanta, lasciammo libertà assoluta. Uscì fuori la divisione Nord-Sud. E tanto sesso. Un vero spaccato dell’Italia".

Lo stesso succede ora, dopo la visita della Bernardini e di Sergio D’Elia ai sei romeni arrestati per la violenza di Guidonia. Il gesto ha dato via libera, sul suo sito come su Facebook, Tiscali e Wikio, a una rivolta. Forse è la stessa Italia espressa dall’atroce gesto di Nettuno, all’immigrato indiano aggredito e bruciato. "Hanno pubblicato il mio indirizzo e-mail e anche il mio telefonino, che comunque appare sul sito della Rosa nel pugno... Avviserò la questura. E pubblicheremo tutto sul sito www.radicali.it".

Massimo Landi promette che se qualcuno troverà l’indirizzo di casa Bernardini "se lo sai vò a trovarla, dal cognome ho paura che sia anche toscana". Elisa La Ferrera vuole la mail: "Adesso gliene invio una molto carina." Sandro Moretti: "Gli auguro caldamente di provare sulla propria pelle quello che ha provato la ragazza di Guidonia".

Va assai per le spicce Roberto Mosci: "La pena di morte per i criminali come questi è un atto dovuto, per la parlamentare è obbligo, non dobbiamo avere paura a tirare la catena dello sciacquone, è una questione d’igiene". Ma perché è andata in carcere dai romeni, Bernardini? "Non sono andata a offrire la mia solidarietà, sia chiaro.

Io e D’Elia ci siamo mossi dopo le segnalazioni sui pestaggi in carcere. Non mi risulta che ci sia una legge che lo permette". Ma se davvero toccasse a lei, a una persona cara? "Non so come reagirei umanamente. So che non potrei mai cedere su un punto. Cioè che un’istituzione non può imbarbarirsi comportandosi come i peggiori malviventi, cioè reagendo con una violenza illegale. Ma noi radicali siamo allenati a certe reazioni. Quando ci battevamo per l’aborto non ci arrivavano certo mazzi di fiori".

La pancia italiana ribolle. Mail spedita alla Camera: "Le forze dell’ordine in questo caso sono state superlative; unica nota negativa, non li hanno fatti toccare a nessuno; il popolo vorrebbe solo "divertirsi un po’". Su Facebook, Fabio Sias: "Dovevano lasciarli in mano alla folla, qui bastardi".

Paura, Bernardini? "No, sapevo benissimo di compiere un gesto difficile. Però provo molta amarezza. C’è ancora tanta strada da percorrere per far comprendere quanto sia importante il rispetto delle leggi da parte di tutti. Attaccano me e non D’Elia perché sono una donna. C’è un evidente aspetto legato a una sessualità repressa".

Sito della Camera: "Lei mi fa ribrezzo. Lei va a trovare i romeni in carcere ma non si preoccupa della ragazza violentata a turno dagli animali che è andata a trovare ". Già, perché non è andata dalla ragazza violentata? "Perché la vera solidarietà di un politico a chi ha ricevuto un danno gravissimo è battersi nelle sedi dovute perché quell’atrocità non capiti più. Una visita e via? Troppo facile".

Giustizia: Matone; la colpa anche di chi scarcera gli stupratori

di Francesco Grignetti

 

La Stampa, 2 febbraio 2009

 

I branchi giovanili, lei, li conosce bene, Simonetta Matone, per diciassette anni magistrato minorile con competenza su tutto il Lazio, in "prestito" al ministero delle Pari Opportunità come capogabinetto del ministro Mara Carfagna, l’ultima istruttoria che ha portato a termine riguardava appunto Latina.

"Un concentrato inaudito di violenza", racconta. "Commettevano soprattutto rapine e atti di intolleranza razziale. Curiosamente, però, nella banda c’erano italiani e zingari. Alleati contro gli immigrati, che percepivano come diversi e inferiori. Neanche a farlo apposta, ricordo che il primo dei reati, quello che ha dato il via a tutto il resto, fu l’aggressione ai danni di un immigrato indiano".

 

Che cosa accade nell’universo giovanile da quelle parti?

"Tolta la grande città, che merita un discorso a parte, nel sud pontino i reati del branco sono più diffusi che altrove. Non saprei spiegare le ragioni. Ma la procura minorile è in allarme da anni perché quella è una zona molto degradata".

 

Sempre più si parla del branco.

"Purtroppo, sì. È da una ventina di anni che la violenza di gruppo dei minorenni dilaga. Ormai sembra una moda: se non trasgredisci a tutti i costi, se non ti ubriachi, se non ti fai, non c’è divertimento. Sa cosa mi dicevano i ragazzi di Latina, quando gli chiedevo perché avevano aggredito e rapinato questo o quello? Perché m’ha imbruttito. M’ha guardato male. Tutto qui. Non siamo di fronte a persone raziocinanti".

 

Si è data una spiegazione?

"Non so. Il senso del limite scivola sempre più avanti. A mettersi insieme, poi, si trova il coraggio di fare quello che da soli non si farebbe mai. Mettiamoci poi il carburante delle droghe e dell’alcol e ne viene una miscela terribile".

 

Rimedi?

"Servirebbe una radicale inversione di marcia. Non so... Una grande campagna per entrare in contatto con questo mondo. Trovare un linguaggio per dialogare. Certo, però, che non mi meraviglia che l’aggressione di Nettuno venga subito dopo il provvedimento di scarcerazione per i due rumeni coinvolti nei fatti di Guidonia. C’è sempre una molla che fa scattare la brutalità. Certi colleghi non si rendono conto che i loro provvedimenti hanno immediate e indesiderate ricadute nella realtà. Una spirale pericolosa. Più si prendono provvedimenti del genere, più in certe fasce giovanili s’innestano fenomeni razzisti".

Giustizia: Maroni; certi magistrati liberano troppi delinquenti

di Vincenzo La Manna

 

Il Giornale, 2 febbraio 2009

 

Il ministro accusa certi magistrati: sono fuori dalla realtà, così vanificano il lavoro delle forze dell’ordine. "Grave in Inghilterra l’attacco ai lavoratori italiani. A Nettuno violenza cieca per abuso di alcol e droga".

 

"Sono preoccupato".

 

Per cosa, ministro Maroni?

"Per quanto sta avvenendo in Inghilterra.

 

Perché?

"Perché si rischia di far implodere il modello europeo definito a Lisbona nel 2000, quando si decise per la progressiva integrazione nel settore del welfare. E sarebbe un danno per tutti, la riposta peggiore da dare alla crisi economica".

 

Oltremanica non la pensano tutti così.

"Guardi, comprendo la preoccupazione degli operai inglesi, ma la loro reazione nei confronti dei lavoratori italiani non è accettabile. Si tratta di un comportamento che va condannato, perché se si condivide lo stare insieme, all’interno dell’Europa, non si può poi reagire così, rimettendo tutto in discussione. E poi...".

 

E poi?

"In questo caso non stiamo affrontando problemi legati alla sicurezza e al controllo delle frontiere, quanto la crisi interna europea del sistema di protezione sociale. Ecco perché sono davvero preoccupato. La vicenda non va sottovalutata e auspico un dialogo tra premier".

 

Intanto, c’è chi chiede l’immediata revisione del Trattato di Schengen.

"Sì, ma in questo caso specifico non c’entra nulla, perché l’Inghilterra non ne fa parte. Detto questo, il problema del controllo dei confini resta ed è sentito. Tanto che stiamo già lavorando, in sede Ue, ad un nuovo accordo, Schengen 2. Un passo importante, pure per l’Italia, visto che non può più controllare il suoi confini, divenuti permeabili".

 

Quali saranno le novità?

"La più importante sarà legata allo scambio di informazioni tra i Paesi aderenti, grazie all’accesso immediato alle singole banche dati. Ci sarà un maggior raccordo e si potrà conoscere la posizione di ogni extracomunitario fermato ai confini esterni, in modo da non far rientrare chi è stato magari già espulso. Sembra strano, ma adesso non esiste questa attività di coordinamento".

 

A proposito di immigrazione, negli ultimi giorni lei ha rilanciato l’ipotesi di una moratoria dei flussi per due anni. Quanto è concreta l’ipotesi?

"Premessa: l’emergenza immigrazione esiste e il governo da mesi sta compiendo una lotta quotidiana, con l’obiettivo di arrivare ad una svolta entro il 2009. La questione moratoria, iniziativa parlamentare della Lega al Senato, che condivido in pieno, nasce da una consapevolezza concreta".

 

Quale?

"Tenuto conto della crisi economica, che verosimilmente colpirà maggiormente le fasce più deboli, in primis extracomunitari, che senso ha farli entrare se poi perderebbero subito il lavoro e dovrebbero tornare al loro Paese? Quindi, aspettiamo un attimo: verifichiamo dove ci porterà questa congiuntura negativa e poi ne riparliamo. Semmai, invece di creare altri danni, con un mercato del lavoro già in sofferenza, sarebbe meglio garantire il reimpiego di chi sta già qui. Discorso a parte merita invece la questione dei lavoratori stagionali".

 

Cioè?

"Ho già avuto modo di parlarne con il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, con cui sto lavorando ad un decreto flussi, relativo al 2009, riservato solo ad ingressi stagionali, legati magari ai settori dell’agricoltura e del turismo. Bisogna essere prudenti e sappiamo, per esperienza, che queste categorie sono necessarie e perfettamente controllate. Il provvedimento potrebbe arrivare presto all’esame del Cdm".

 

Nel frattempo, da domani sarà in Libia per definire l’accordo bilaterale sul pattugliamento delle coste, siglato dal precedente governo ma mai applicato.

"Sarò in Libia da domani a giovedì. E sono sicuro che stavolta possa essere la volta buona. Anche perché, il contestuale via libera definitivo che arriverà dal Parlamento al Patto d’amicizia sottoscritto da Berlusconi e Gheddafi dovrebbe consentire una svolta. Ma oltre al capitolo Libia, ricordo che non siamo stati finora a guardare. E lo testimoniano gli accordi e gli impegni presi e da prendere con Tunisia, Egitto, Algeria...".

 

In Italia, però, non si placano le polemiche sui nuovi centri d’espulsione, a partire dal caso Lampedusa.

"La nostra azione è chiara: contrastare l’ingresso, accelerare e rendere più facili le espulsioni. Il resto è solo polemica inutile di una sinistra strabica".

 

Strabica?

"Sì, in Europa vota a favore dell’innalzamento da 2 a 18 mesi per la detenzione dei clandestini nei centri d’espulsione, in Italia vota contro e ci accusa di essere razzisti".

 

Situazione contraddittoria?

"Assolutamente sì. Ma ciò che importa è il "sì" al ddl sicurezza che presto - lo do già per scontato - arriverà dal nostro Parlamento. Tutto il resto è solo speculazione politica. Il buonismo nei confronti dei clandestini va respinto, a noi interessano le aspettative dei cittadini".

 

Dall’immigrazione alla sicurezza. Altra emergenza?

"No, al di là dell’allarme legato a recenti fatti di cronaca, non esiste un’emergenza sicurezza. Complessivamente, rispetto al 2007, lo scorso anno i reati sono diminuiti dell’11%, mentre le rapine, grazie ad un maggior controllo del territorio, sono calate del 12%. Il dato relativo ai reati sessuali, inoltre, segna un -9%. Ciò vuol dire che le norme del pacchetto sicurezza e l’uso dei militari nelle città hanno avuto successo".

 

Proprio in queste ore, però, si registra l’attacco del segretario del Pd, Walter Veltroni, convinto che dalle statistiche si evince che i reati sono in aumento.

"Veltroni non dice la verità. Basta leggere i dati reali, quelli del Viminale, per rendersi conto che le cose stanno diversamente".

 

Nessuna emergenza a Roma?

"Nella capitale, i reati sessuali sono scesi del 10%, più della media nazionale, grazie anche all’azione molto intensa del sindaco, Gianni Alemanno. È comunque vero, in generale, che la città vive in una situazione difficile, con una forte presenza di comunità rom, a causa della gestione della sinistra negli ultimi 15 anni, che ha determinato insicurezza e degrado. Quindi, Veltroni, per difendersi dice falsità. È da irresponsabili. E poi, sentir predicare e fare lezione chi ha votato l’indulto, mi fa ridere".

 

A Nettuno, ieri, è stato dato fuoco ad un indiano che dormiva su una panchina. Nuovo caso di intolleranza?

"Si tratta di una violenza inaudita e gratuita, provocata dall’abuso di alcol e droga, che sembra escludere la matrice razzista".

 

Ministro, la polemica sulle cosiddette "scarcerazioni facili" non si placa. Come giudica il fenomeno?

"Siamo dinanzi ad una situazione difficile da gestire. Perché da una parte si fa di tutto per prendere i delinquenti, mentre dall’altra i giudici spesso li rimettono in libertà. Evidentemente, c’è da parte della magistratura un atteggiamento incomprensibile, che faccio fatica a capire. Alcuni giudici non si rendono conto della realtà, portano avanti un’azione di assoluta benevolenza, cancellando tutto ciò di buono che ogni giorno fanno Polizia e Carabinieri. E non ditemi che è una questione di leggi, perché il problema semmai è la loro interpretazione, che spetta appunto ai magistrati".

 

Passiamo al caso Battisti.

"Innanzitutto, va detto che Battisti è tutto tranne che un prigioniero politico che possa vantare protezione. Si tratta di un normale criminale, pericoloso, che scarica su altri le proprie responsabilità. Ha goduto in Francia colpevolmente dell’appoggio di una sinistra caviale-champagne, che vive in un altro mondo. Per me è un serial killer, altro che rifugiato politico".

 

Riuscirete a farlo estradare dal Brasile?

"Il governo brasiliano sta commettendo un errore gravissimo, per colpa di un’illusione ottica del suo ministro della Giustizia. E non c’è cosa peggiore di non accorgersi di aver sbagliato. Se non ripara, sono a rischio i nostri rapporti bilaterali".

 

Berlusconi e Lula assicurano però che si manterranno saldi.

"Guardi, finora non sono entrato nella querelle, ma faccio notare: quando sarò chiamato a collaborare con il mio omologo, ad esempio, per contrastare il traffico della droga, è inevitabile che io abbia qualche imbarazzo nel guardare negli occhi un componente di un governo che ci considera un Paese con licenza di tortura. È inaccettabile. Ecco perché la vicenda non può che chiudersi con l’ingresso nelle nostre patrie galere del serial killer in questione. E di questo ho parlato pure con Berlusconi".

 

Cosa ha detto al premier?

"Se la questione non si risolve, gli ho chiesto di ripensare all’ingresso del Brasile nel G13. Insomma, devono riconoscere l’errore. Non chiediamo la testa di nessuno, men che meno del ministro Genro, ma non possono incaponirsi".

 

Intanto, c’è chi chiede di non far giocare l’incontro di calcio tra Italia e Brasile.

"La politica e il governo non devono entrare nelle vicende sportive. Però, visto che si tratta di un’amichevole, non cambia nulla se si fa o meno. E mi piacerebbe molto se fossero calciatori, Coni o Figc, a prendere la decisione magari di non scendere in campo. Sarebbe un bel segnale nei confronti di un governo che si permette di dubitare del nostro tasso di democrazia".

 

Quindi, partita persa a tavolino?

"L’auspicio è che si giochi: significherebbe caso chiuso prima del 10 febbraio. In caso contrario, chissà, diamogliela pure vinta 2-0 senza giocare...".

Giustizia: cercano "emozioni forti", danno fuoco ad homeless

di Fiorenza Sarzanini

 

Corriere della Sera, 2 febbraio 2009

 

Le loro serate le trascorrono tutte così, tra alcol e droga. Un sorso di vodka e una canna, una birra e un’altra canna. Sabato notte, le 4 erano passate da poco, hanno deciso di provare qualcosa di nuovo. Ora dicono che l’idea gli è venuta per caso. "Se semo inventati ‘sta goliardata" ha ripetuto ai carabinieri F.S., il sedicenne. Gli altri sono più grandi, Francesco B. ha 28 anni, Gianluca C. 19.

Quando li hanno portati in caserma hanno cercato di fare i duri, di negare anche l’evidenza. "Teste vuote" li ha definiti uno degli investigatori che ha partecipato all’interrogatorio. Uno scherzo, "n’idea pè divertisse un po’", questo è stata l’aggressione al barbone indiano. Di idee sembrano averne davvero poche i tre ragazzi fermati a Nettuno.

E pare siano lontane dalla politica, da possibili derive razziste. Non hanno un lavoro fisso, non sono tifosi, non sembrano avere alcun vero interesse. Passano il tempo vagando in auto, spesso sbronzi, la testa annebbiata dal "fumo". Non hanno precedenti penali, ma fanno una vita da sbandati. L’altra sera erano stati notati dai giovani che frequentano il borgo vecchio proprio perché continuavano a bere, la targa della loro Peugeot 206 era finita tra le evidenze di una gazzella che faceva la ronda nella zona. I tre erano insieme come al solito, su di giri.

"Stavamo a cercà un’emozione forte, qualcuno che dorme per strada. Volevamo fà un gesto eclatante" ammette il ragazzino quando capisce che di lui e degli altri due sanno già tutto. La madre lo aspetta fuori, avrà meno di quarant’anni. Vivono ad Ardea, forse neanche lei sa spiegarsi come mai abbia amici così grandi. I genitori degli altri stanno in un angolo, parlottano con l’avvocato. Impiegati, operai, gente per bene che ai figli ha sempre cercato di non far mancare nulla. E loro alla fine si sono annoiati anche di questo. "Non c’è razzismo - afferma convinto il comandante provinciale dei carabinieri Vittorio Tomasone - ma solo stupidità e sballo che li ha portati a compiere un gesto atroce". Davanti agli investigatori il ragazzino è ormai inarrestabile, racconta anche i dettagli. "Avevamo bevuto tanto e c’eravamo fatti le canne. Era tardi e stavamo ancora girando in macchina. Cercavamo un barbone, non doveva essere per forza uno straniero. Se era romeno o negro non ci fregava niente. Siamo passati dalla stazione e abbiamo visto uno sulla panchina".

Entrano e cominciano a prenderlo in giro. "Dacce i soldi...". Lo insultano. Gli mettono anche le mani addosso. Pugni, qualche calcio. Poi se ne vanno, arrivano al benzinaio. E in quel momento la serata svolta. "Abbiamo riempito una bottiglia di benzina e abbiamo deciso di tornare indietro. Siamo entrati in due, la macchina aveva il motore acceso ". Lo spruzzo di vernice per accecare l’indiano, la benzina cosparsa addosso, la fiammella che si accende, i vestiti che prendono fuoco. Ammette il ragazzino, ma non mostra alcun segno di ravvedimento. Non sembra addirittura rendersi conto della gravità di quello che hanno fatto. "Volevamo vedere quanto durava, ma poi pensavamo di spegnerlo". Lo dice proprio così, come fosse un gioco. Crudeltà disumana e infatti non hanno fatto proprio nulla per aiutare il barbone, nonostante lui dica che hanno "cercato di spegnere le fiamme e invece c’è riuscito da solo". Non è vero. C’era un testimone che ha chiamato il 112 e poi ha soccorso l’indiano quando era riverso in terra. I tre erano già in fuga. Lontani, ma non troppo per i carabinieri di Frascati che neanche 12 ore dopo li avevano già individuati.

Giustizia: Sappe; troppe traduzioni? convocare tavolo tecnico

 

Comunicato Sappe, 2 febbraio 2009

 

Mi stupisco dello stupore del Capo dell’Amministrazione penitenziaria nonché Commissario straordinario per le carceri Franco Ionta che nei giorni scorsi, in una conferenza stampa a Milano, ha stigmatizzato l’eccessivo numero di detenuti tradotti nei vari Tribunali, istituti penitenziari e località varie. È da tempo che sollecitiamo - senza alcun riscontro - il Capo Dap e Commissario straordinario Ionta perché nomini un suo delegato nel Gruppo di Lavoro tecnico, insediato presso l’Amministrazione penitenziaria e composto da esponenti del mondo sindacale e istituzionale, per la revisione del modello organizzativo del servizio Traduzioni e Piantonamenti. E allora rinnoviamo il nostro auspicio che Ionta voglia provvedere quanto prima alla nomina di un proprio delegato cui demandare la titolarità degli incontri sulla materia e, quindi, si definisca in tempi rapidi il proseguimento dei lavori già iniziati.

È quanto dichiara Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. Le finalità del Gruppo di Lavoro sul servizio Traduzioni e Piantonamenti sono estremamente importanti, atteso che l’obiettivo congiunto di Amministrazione ed Organizzazioni Sindacali è certamente quello di elaborare un progetto funzionale e condiviso che possa meglio recepire le esigenze di servizio e quelle manifestate dal personale di Polizia Penitenziaria che vi opera.

I lavori del gruppo si sono da diversi mesi interrotti, poiché il Responsabile istituzionale delegato, l’allora vice Capo del Dap Armando D’Alterio, è stato destinato ad altro incarico. Il Sappe ritiene assolutamente urgente che vengano ripresi al più presto i lavori del citato tavolo tecnico, considerate anche le dichiarazioni del Capo Dap Ionta a Milano lo scorso 29 gennaio sull’aumento esponenziale del numero delle traduzioni che esegue la Polizia penitenziaria e - soprattutto - la necessità di intervenire e correggere quelle criticità non solo operative (tra le quali, ad esempio, la carenza di organico, le numerose missioni ancora non liquidate, i turni di servizio ordinari e straordinari articolati su molte ore che determinano uno scarso recupero psico-fisico, la difficoltà a fruire dei pasti durante il servizio) con le quali quotidianamente hanno a che fare le donne e gli uomini del Corpo impiegati nei Nuclei TT.PP. Per questo mi aspetto, ci aspettiamo tutti, che il presidente Ionta voglia nominare quanto prima un proprio delegato cui demandare la titolarità degli incontri sulla materia de quo e, quindi, si definisca in tempi rapidi il proseguimento dei lavori già iniziati.

Giustizia: Elisabetta Laganà, è il nuovo presidente della Cnvg

 

Vita, 2 febbraio 2009

 

La nuova guida, fino al 2012, della Conferenza nazionale volontariato giustizia è Elisabetta Laganà, già presidente del coordinamento di enti e associazioni Seac.

La Cnvg, Conferenza nazionale volontariato giustizia, ha un nuovo presidente. È Elisabetta Laganà, che ricoprirà la carica per il triennio che va dal 2009 al 2012, in sostituzione di Claudio Messina. Nel corso del Consiglio direttivo, svoltosi il 16 e il 17 gennaio 2009 a Roma, sono stati eletti come Vicepresidenti Luca Massari e Franco Uda.

Elisabetta Laganà, psicoterapeuta, si occupa da diversi anni con impegno e passione dei problemi del carcere e della giustizia; è stata tra i fondatori dell’ Associazione volontari carcere (A.Vo.C) di Bologna, di cui è stata Presidente fino al 1998. Nel 2000 è stata eletta nel Consiglio direttivo del Seac (Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario), dove è stata prima Vicepresidente fino al 2005, quindi Presidente Nazionale SEAC, incarico che mantiene tuttora. Luca Massari è coordinatore della Conferenza regionale Lombardia e Franco Uda è il rappresentante di Arci ora d’aria.

Il Consiglio ha anche apportato sostanziali modifiche allo statuto che è stato reso più adatto alla nuova realtà della Conferenza. La Cnvg nasce nel 1994 su impulso di quattro associazioni: Arci ora d’aria, Caritas italiana, Fivol e Seac, e viene costituita nel 1998 dopo un’assemblea a cui partecipano gran parte delle associazioni di volontariato nazionali e locali operanti nel campo della tutela dei diritti, della giustizia e del carcere (Antigone, Libera, Papa Giovanni XXIII, San Vincenzo de Paoli, Comitato per il Telefono Azzurro) e 18 Conferenze regionali, che riuniscono una rete di associazioni locali a coprire tutto il territorio nazionale. Le modifiche apportate allo Statuto sono intese a consentire una maggiore partecipazione e peso politico delle Conferenze regionali in seno all’organizzazione.

Campania: 5mila posti, 7mila detenuti; carceri al tutto esaurito

 

Apcom, 2 febbraio 2009

 

L’allarme sovraffollamento delle carceri in Campania è stato levato dal presidente reggente della Corte di Appello di Napoli, Luigi Martone, nel corso della sua relazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Nel periodo che va fino al 31 dicembre 2008, nei diciotto istituti penitenziari campani i detenuti erano 7.185 (di cui 2mila in regime di alta sicurezza) a fronte di una capienza regolamentare di 5.328 posti e una tollerabile di 7.031. Secondo Martone, quindi, gli effetti dell’indulto si sono "esauriti".

"Si è tornati a una situazione di emergenza, aggravata dalla carenza di organici e di personale rieducativi nonché - sottolinea il presidente - dai servizi aggiuntivi imposti al personale di polizia penitenziaria con effetti negativi sulla vigilanza intramuraria e sulla stessa opera di cura e rieducazione del detenuto secondo la riforma del 1990".

Sicilia: contributi agli ex detenuti per attività lavoro autonomo

 

Comunicato stampa, 2 febbraio 2009

 

Il Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale informa che è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana n. 2 del 9.01.2009 l’avviso pubblico per la concessione di sovvenzione economica a fondo perduto (L.R. 19 agosto 1999, n.16) in favore dei detenuti (presso istituti di pena o in forma alternativa al carcere) per l’avvio o la prosecuzione di una attività di lavoro autonomo professionale e imprenditoriale in qualunque settore (artigianale, commerciale, intellettuale ed artistico). Per maggiore informazioni circa l’oggetto dell’intervento, l’ammontare del contributo, i requisiti e le modalità di presentazione dell’istanza, i soggetti interessati possono consultare la Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana n. 2 del 9.01.2009 oppure il sito web del Garante www.garantedirittidetenutisicilia.it, o chiedere copia del bando e della relativa modulistica alle direzioni degli istituti penitenziari aventi sede in Sicilia. Inoltre, si possono ottenere informazioni via e-mail (info@garantedirittidetenutisicilia.it o garantedetenutisic@alice.it) o telefonando ai numeri 0917075477-420-422). Le domande dovranno pervenire a partire dalle ore 8.00 del giorno 9 febbraio 2009 e fino alle ore 14.00 del giorno 8 luglio 2009.

Le domande con i relativi allegati ed attestazioni possono essere inviate: tramite raccomandata con avviso di ricevimento indirizzata all’Ufficio del Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale, via Generale Magliocco n. 36 - 90141 Palermo; oppure consegnate all’ufficio ricezione della posta del Garante, all’indirizzo sopra citato, avendo cura che il latore sia in possesso di fotocopia della domanda sulla quale verrà apposto, quale ricevuta, apposito timbro dell’ufficio ricevente.

Treviso: detenuto per omicidio della moglie, tenta di suicidarsi

 

Il Gazzettino, 2 febbraio 2009

 

Daniele Battocchio, 49enne di Mestre residente a Marocco di Mogliano, detenuto per l’omicidio della moglie, ha tentato ieri di togliersi la vita impiccandosi. Il tentativo non gli è riuscito perché il personale del carcere di Santa Bona sapeva che c’era pericolo e teneva l’uomo sotto controllo: l’intervento per salvarlo è arrivato in tempo e ieri mattina è stata anche necessaria un’operazione chirurgica. Le condizioni dell’uomo sono state riportate alla normalità ma lui continua a ripetere che vuole morire e che tenterà finché ci riesce.

La tragedia era avvenuta tra l’11 e il 12 di questo mese, nella notte. La moglie era morta nel letto soffocata nel sonno con un cuscino, mentre il marito aveva tentato di impiccarsi nella cucina della casa in cui dormiva il figlio più giovane della coppia, di 11 anni. Cristina Prior aveva 45 anni, e da anni era in cura per il suo stato di depressione. Secondo quanto lo stesso Battocchio avrebbe confidato agli avvocati dopo il nuovo tentativo di suicidio, quando nella note tra l’11 e il 12 gennaio decise di farla finita, provò pietà per la compagna che sarebbe rimasta sola con il figlio, preda della depressione, ad affrontare il suicidio del suo compagno. Così decise di portarla con sé e di far cessare la sua sofferenza. Secondo quanto trapelato la decisione di suicidarsi sarebbe nata a seguito di una difficile situazione economica.

Quando il giudice Umberto Donà e i difensori Giuseppe Basso e Stefano Bof si recarono in ospedale a Montebelluna appena accaduta la tragedia, Battocchio aveva spiegato di non ricordare nulla; tantomeno ricordava di aver ucciso la moglie e di aver tentato di strangolarsi. Ancor oggi la memoria di Battocchio non è tornata, ma il suo migliorato stato di salute ha permesso la dimissione dell’uomo dall’ospedale e il suo trasferimento in carcere.

Daniele Battocchio è un 49enne veneziano, commerciante all’ingrosso di tessuti, titolare della Modantex srl con sede a Gardigiano di Scorzè; abitava a Marocco di Mogliano in piazza Sant’Antonio 14 ed era sposato con Cristina Prior da 25 anni. Se Battocchio arriverà al processo, verranno fatte eseguire dai suoi difensori accurate ricerche patrimoniali per cercare di spiegare le ragioni della tragedia; i soci hanno peraltro negato decisamente che l’azienda che avevano con Battocchio avesse mai lamentato problemi economici.

Trieste: tentò di impiccarsi in cella; processato, paghi le federe!

di Alessandra Longo

 

La Repubblica, 2 febbraio 2009

 

Disperato, senza orizzonti, solo con i suoi pensieri in quella cella. Il detenuto curdo decide di farla finita, riduce due federe a striscioline, si mette il cappio al collo. Ma ecco che le guardie del carcere triestino del Coroneo intuiscono la situazione, e all’ultimo momento lo salvano.

Storia a lieto fine? Sì, ma con multa. Lo Stato italiano rivuole i soldi delle federe. Sette euro. L’aspirante suicida, che nel frattempo è uscito di prigione e ha anche ottenuto asilo politico, rimborsa il dovuto e pensa che sia finita lì. E invece no. L’ingranaggio micidiale ormai si è messo in moto, come racconta Il Piccolo di Trieste. Sarà pure stato depresso e incline a lasciare questo mondo ma il curdo ha fatto a pezzi quelle due federe. Un magistrato lo rinvia a giudizio per danneggiamento aggravato. La motivazione è molto severa: "Con coscienza e volontà distruggeva un bene della Pubblica amministrazione".

In primo grado i giudici si convincono che non bastano i sette euro già risarciti, ci vuole una sanzione, deve rimanere agli atti che anche chi si suicida ha degli obblighi da rispettare, non può usare impunemente beni di proprietà altrui solo perché pressato dall’emergenza. Alla fine quantificano la multa: 30 euro.

Basta così? No, si va avanti. È storia di pochi giorni fa. Il difensore del curdo ricorre in appello e chiede, in sintonia con il rappresentante della Procura generale, che il suo cliente venga assolto. In fondo, la situazione in cui si è prodotto il reato, cioè il danneggiamento delle federe, era stata drammatica, il detenuto si trovava in uno stato di evidente prostrazione, aveva deciso di porre termine ai suoi giorni, si era guardato intorno e quelle due federe gli erano sembrate l’unico modo di attuare l’insano proposito.

Tre magistrati si riuniscono in Camera di consiglio e discutono fra di loro del caso. Consulto delicato, forse anche tormentato. L’arringa dell’avvocato e la disponibilità dell’accusa non fanno breccia. La legge è la legge. Il curdo non può essere assolto. Arriva una nuova condanna. Però una crepa si è aperta. In appello la multa viene ritoccata: invece di trenta euro, ne bastano, a saldare il conto, venticinque. È presto per conoscere le motivazioni della sentenza ma non appena arriverà non è affatto escluso che la faccenda delle federe approdi in Cassazione. E poi dicono che la giustizia non funziona.

Trieste: 60 detenuti sono malati gravi... è "dramma sanitario"

di Corrado Barbacini

 

Il Piccolo, 2 febbraio 2009

 

Li trasportano da Bari o da Padova, da Roma o anche dalla Sardegna fino a Trieste: al carcere del Coroneo stanno arrivando detenuti da tutta Italia, per lo più sono stranieri. In primis magrebini, albanesi e rumeni. "Li fanno arrivare a Trieste perché gli istituti delle altre città sono ormai strapieni", ammette il comandante della polizia penitenziaria Antonio Marrone. Gli ultimi reclusi trasferiti sono arrivati ieri mattina dal carcere di Poggioreale di Napoli. "Ma anche il Coroneo è oltre il livello di guardia. Stiamo annaspando", sottolinea ancora Marrone senza nascondere la sua preoccupazione soprattutto per quanto concerne la sicurezza interna.

Insomma, una vera e propria emergenza che a Trieste ripropone la situazione prima dell’indulto. Spiega il direttore del penitenziario Enrico Sbriglia: "La popolazione carceraria ha superato abbondantemente il numero di 200 unità con la capienza del Coroneo che è ben più bassa. La capacità regolamentare prevede al massimo 155 detenuti. E ora in alcune celle si dorme sui materassi appoggiati al pavimento".

Da fine settembre nel carcere sono invece rinchiuse mediamente ogni giorno dalle 190 alle 200 persone, il dieci per cento delle quali donne. Ma non basta. Negli spazi progettati per accogliere due o tre persone, oggi purtroppo già occupati da quattro, dovrebbero trovare posto ben sei detenuti.

A questa situazione si aggiunge quella sanitaria che a dir poco è drammatica. In carcere ci sono oltre sessanta ammalati gravi, ma dallo scorso anno l’assistenza sanitaria è praticamente cessata. "Dallo scorso mese di settembre l’assistenza ai detenuti - spiega Sbriglia - doveva essere presa in carico dalla Regione e di conseguenza dall’Azienda sanitaria. Ma il provvedimento non è ancora stato recepito.

Così l’unica assistenza ai detenuti è data da un gruppo di infermieri ex dipendenti che ci dà una mano. Da domani, per fortuna sarà in servizio un altro infermiere per una decina di giorni. È praticamente una goccia d’acqua in un deserto". Al Coroneo oggi sono effettivamente in servizio poco più di cento agenti su 128 virtuali, scritti ufficialmente sui ruolo delle presenze. Ma il numero fissato dal Ministero è ancora più alto: 159 poliziotti.

"I nostri agenti devono in primo luogo badare alla sicurezza e non possono sostituirsi agli psicologi, agli educatori, agli assistenti sociali" aveva spiegato pochi mesi fa il direttore del Coroneo, che sta facendo i miracoli per abbassare la tensione un tempo presente tra i detenuti, introducendo un totale proibizionismo nelle celle. Né vino, né birra. L’abolizione è stata proposta al magistrato di sorveglianza dagli operatori penitenziari, supportati da quelli dell’Azienda sanitaria. "Il clima si fa sempre più pesante. A volte abbiamo paura. Ci sono segnali che preoccupano", ha dichiarato qualche giorno fa un agente.

Grosseto: carcere "inagibile" dal 1997, ma ancora in funzione

di Claudio Bottinelli

 

Il Tirreno, 2 febbraio 2009

 

Sarà la volta buona? Riuscirà Grosseto ad avere un carcere nuovo, che sia degno di un paese civile? Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha presentato qualche giorno fa al governo un piano per poter ospitare nelle carceri italiane oltre 60.000 detenuti: 17.000 in più rispetto a quelli che, ufficialmente, potrebbero trovare posto oggi nelle carceri italiane. E per accelerare i tempi per la costruzione di nuove strutture carcerarie il ministro ha ipotizzato la possibilità di fare ricorso ai privati.

Ci sarà anche Grosseto nella mente del ministro, tenendo conto dello stato pietoso in cui versa il vecchio carcere di via Saffi da tanti anni? "Mi auguro che sia la volta buona". La dottoressa Cristina Morrone, direttrice delle carceri in provincia di Grosseto è la prima ad auspicare che nelle previsioni del ministro Alfano ci sia anche il nuovo carcere di Grosseto. "Al momento - chiarisce però la direttrice - non abbiamo avuto alcun segnale in questo senso, ma credo che sia presto per questo".

Cristina Morone ricorda che già nel 1997 l’allora ministro della giustizia, Flick, dichiarò il carcere di Grosseto inagibile. "Un carcere - riafferma, ora, la direttrice - non più idoneo ad ospitare detenuti, e non lo dico soltanto io: l’allora ministro Flick lo affermò in forma ufficiale". Da allora sono passati quasi dodici anni e i detenuti, a Grosseto, sono sempre in quell’edificio di via Saffi, inserito nel centro storico della città, proprio davanti ai monumenti storici più bello di Grosseto, la Fortezza Medicea e il Cassero Senese. Nonostante non ci siano spazi per far svolgere ai detenuti attività ricreativa, nota la dottoressa Morrone, nonostante che le celle siano anguste e talvolta zeppe di cinque o sei detenuti, come sottolinea il sindaco Emilio Bonifazi.

"Non ci sono spazi - ribadisce la direttrice -, per far svolgere lavori ai detenuti, non c’è sicurezza, né rispetto della privacy o delle normative della legge 626". Come struttura carceraria, insomma, l’edificio di via Saffi che sta cadendo a pezzi, non solo è obsoleto, è inaccettabile. Ma se le buone intenzioni finora c’erano state, non c’erano stati i soldi (si parlava di 30-40 milioni di euro per costruire il nuovo, al tempo del ministro Di Pietro). E a nulla sono serviti gli interessamenti dei prefetti che via via si sono succeduti, del presidente del Tribunale, del procuratore della Repubblica, che la dottoressa Morrone ritiene doveroso ringraziare per l’impegno e la disponibilità che hanno sempre dimostrato per questi problemi. "Da quando ho preso la direzione del carcere - aggiunge la dottoressa Cristina Morrone - ho sempre portato avanti questo problema, e mi auguro finalmente di essere ascoltata".

Attualmente la situazione all’interno della struttura di Grosseto è difficilissima: il carcere, pur non essendo idoneo a svolgere il servizio che gli viene richiesto, è superaffollato. Sarebbe abilitato al massimo per 35 detenuti, ma siamo sempre ben oltre questo numero. Non solo: mancano anche gli spazi per fare attività di rieducazione, come imporrebbe la normativa. La situazione è veramente al di là del limite sopportabile. Non solo, ma non ci sono neppure aree destinate ad ospitare le donne.

Il che significa che le detenute vanno trasportate o a Livorno o a Firenze. Cosa che crea disagi inimmaginabili, per non parlare dei costi. In provincia di Grosseto è aperta anche un’altra struttura carceraria, quella di Massa Marittima, ma è una realtà diversa essendo destinata a detenuti a fine pena. "Mi auguro però - dice la dottoressa Morrone - che sia rivista anche quella struttura perché, al momento, potrebbe ospitare al massimo 30-35 detenuti". "Comunque non potrà mai sostituire il carcere di Grosseto, ed è per questo - conclude - che mi auguro di avere presto a Grosseto un carcere che possa ospitare anche 150 detenuti. Speriamo che nell’agenda del governo ci sia anche il nuovo carcere di Grosseto, da costruire su quel terreno poco distante da via Serenissima, inserito, con questa destinazione, nel piano strutturale della città".

Lecce: una bimba di 2 anni e mezzo è "reclusa" con la mamma

 

Agi, 2 febbraio 2009

 

"Una bimba nigeriana, di appena due anni e mezzo, è da 18 mesi in carcere. L’assurda detenzione della piccola innocente, prima a Sassari e attualmente nella Casa Circondariale di Lecce, è legata a quella della mamma e del padre arrestati in Sardegna il 20 luglio del 2007 nell’ambito di una complessa inchiesta che vede coinvolte 26 persone di cui solo i genitori di Kimberly ed un altro imputato sono ancora reclusi". Lo denuncia la consigliera regionale socialista Maria Grazia Caligaris (Ps), che ha ricevuto una nuova lettera-appello del padre della bimba Jonas Uchechi Onwuchekwa, detenuto ora nel carcere di Badu ‘e Carros a Nuoro dopo essere stato recluso a Sassari.

"L’uomo, che si proclama estraneo alla vicenda, ritiene - precisa la consigliera socialista - di essere vittima, con la moglie, di un comportamento discriminatorio in seguito anche a un errore, nella trascrizione delle intercettazioni telefoniche provocato dai diversi dialetti in uso in Nigeria. Lamenta che delle 26 persone coinvolte nell’inchiesta della magistratura sassarese soltanto lui, la moglie ed un altro imputato sono ancora in stato di detenzione mentre gli altri sono prevalentemente in libertà e alcuni usufruiscono di misure alternative al carcere. Tutte le richieste dell’avvocato difensore tendenti a modificare l’attuale condizione almeno della signora Mercy Lilian Osiesi sono state respinte finora respinte dai giudici isolani".

"A causa dell’assenza di strutture alternative, prima in Sardegna e ora in Puglia, la bimba ha già trascorso, nonostante le assicurazioni del ministro Alfano - sottolinea Caligaris - diciotto mesi in carcere e la detenzione è destinata, senza un intervento della Regione o di altre istituzioni locali, a protrarsi nel tempo. In questo caso specifico si registra l’aggravante che il padre è stato separato dalla moglie e dalla bambina rendendo ancora più difficili i loro rapporti anche epistolari".

"I giudici, nel respingere i ricorsi della difesa, hanno infatti ritenuto, nonostante siano trascorsi un anno e mezzo di indagini, di non dover tener conto della norma del codice di procedura penale secondo cui non può essere disposta la custodia in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputati siano donna incinta o madre di prole con età inferiore ai tre anni con lei convivente, osserva Caligaris. "È incomprensibile che una donna, in attesa di giudizio, con una bimba di due anni e mezzo sia costretta a stare ancora in carcere a prescindere dall’ipotesi di reato di cui è imputata".

Gorizia: carcere da tempo in "situazione di estremo degrado"

di Claudio Ernè

 

Il Piccolo, 2 febbraio 2009

 

Il caso Gorizia. L’inaugurazione dell’anno giudiziario, svoltasi l’altro ieri a Trieste, ha portato alla ribalta della cronaca non solo il drammatico problema delle morti per amianto e delle difficoltà della magistratura isontina ad affrontare, per carenza di organici, la gran mole di fascicoli collegati ai decessi per mesotelioma pleurico di centinaia di lavoratori dei cantieri di Monfalcone. Nell’aula della Corte d’assise è emersa anche la pesantissima situazione del carcere di Gorizia, già segnalata da molti anni ma rimasta sempre senza soluzione.

Il presidente della Corte d’appello, Carlo Dapelo, lo ha scritto a chiare lettere nella sua relazione "La sicurezza non è garantita, com’è dimostrato dall’evasione di tre detenuti avvenuta nel 2005 e da un tentativo di fuga sventato nel dicembre 2006. Tutto il carcere necessita di interventi quotidiani di manutenzione, sia ordinaria che straordinaria, in quanto mancano spazi idonei per gli uffici e per i servizi. mentre il personale amministrativo è sistemato in piccoli locali adiacenti alla portineria". Il carcere secondo il giudizio del presidente della Corte d’appello "è da tempo in una situazione di estremo degrado".

Il Provveditorato regionale di Padova proprio per questo degrado nello scorso maggio ha aveva deciso di chiudere parzialmente la struttura, mantenendo attiva una sola sezione in cui vengono rinchiusi attualmente gli arrestati che devono rimanere a disposizione dell’autorità giudiziaria. La capienza massima di questa sezione del carcere di Gorizia, è di trenta persone. "Il provvedimento di chiusura parziale - sostiene il presidente Carlo Dapelo - ha consentito una maggiore vivibilità sia per i detenuti che per i 44 agenti della polizia penitenziaria che prestano servizio nel carcere.

È comunque opportuno provvedere alla costruzione di un nuovo istituto carcerario, non essendo consentito mantenere in funzione una struttura fatiscente, del tutto inidonea al trattamento dei reclusi e non corrispondente alla normativa vigente in materia di sicurezza". Viene da chiedersi perché di fronte a un tale disastro e a condizioni di vita più che rischiose per chi è ristretto in cella, la magistratura non abbia ancora assunto l’unico provvedimento possibile. Del resto Gorizia non rappresenta un caso isolato nel Friuli Venezia Giulia.

Il carcere di Pordenone, - scrive ancora il presidente Carlo Dapelo "dislocato in una struttura risalente all’epoca medioevale, assolutamente inadeguata per mancanza di spazi idonei alle moderne esigenze carcerarie, ospita ben 75 detenuti, a fronte a una capienza prevista di 53 unità". Il sovraffollamento coinvolge anche le carceri di Trieste e di Udine.

Nel capoluogo regionale il livello di guardia è abbondantemente superato: dovrebbe ospitare al massimo delle sue possibilità 155 persone. Al contrario da mesi sono presenti nelle celle più di 200 detenuti. Alcuni sono costretti a dormine su materassi appoggiati sul pavimento. Inoltre il numero degli ammalati è molto alto: sessanta persone non ancora prese in carico dall’azienda sanitaria ma già scaricati dallo Stato. A Udine i detenuti sono 190 - il 70 per cento dei quali stranieri - e anche qui il sovraffollamento regna sovrano.

Teramo: muore per overdose, prima d’arrivare alla Comunità

 

Il Centro, 2 febbraio 2009

 

L’autopsia conferma: Gaetano Sorice è morto per overdose. Ma chi, due giorni fa, nel bagno della stazione di Giulianova, gli ha ceduto la dose mortale di droga ha lasciato un indizio. Accanto al corpo di Sorice, ex detenuto, appena uscito dal carcere di Castrogno, c’erano due siringhe sporche di sangue. Una era dell’amico-spacciatore che gli ha passato la dose killer.

L’anatomopatologo Giuseppe Sciarra ha eseguito, ieri pomeriggio l’autopsia su Serice, 38 anni, originario di Nocera Inferiore ma, fino a qualche tempo fa, residente a Corropoli con la moglie polacca. Venerdì pomeriggio era appena uscito dal carcere di Teramo e si accingeva a salire sul treno che lo avrebbe portato in una comunità di recupero per tossicodipendenti nel Viterbese. Ma alla stazione giuliese ha incontrato il misterioso amico-spacciatore sul cui nome indagano in queste ore gli uomini della squadra mobile guidati da Gennaro Capasso.

L’inchiesta, condotta dal pubblico ministero Davide Rosati cerca di ricostruire il giro di amici e conoscenti del salernitano, ex pizzaiolo, allontanato dalla famiglia proprio per quella maledetta droga che, in passato, lo aveva spinto a commettere reati per i quali è finito in carcere.

Teramo: detenuto malato di tbc; il personale avvisato in ritardo

 

Ansa, 2 febbraio 2009

 

Carenza di informazione e nello stesso tempo critiche per un tardivo intervento con provvedimenti di carattere sanitario, per il caso di Tbc di un detenuto rinchiuso nel carcere di Castrogno, sono stati denunciati dal segretario provinciale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), Giuseppe Pallini.

In una nota al direttore del carcere teramano, Giammaria, e al provveditore d’Abruzzo, Acerra, il sindacato rende noto che "soltanto da giovedì scorso è stato posto in isolamento un detenuto romeno affetto da Tbc e impartite regole di tutela sanitaria agli agenti e agli altri detenuti". "Ci chiediamo - aggiunge il Sappe - considerato che il detenuto è rinchiuso a Castrogno da mesi, da quando è noto alla direzione del carcere della malattia di cui è affetto? Perché soltanto in questi giorni sono stati adottati provvedimenti tesi a tutelare le altre persone che sono a contatto con lui ed evitare un probabile contagio?".

 

Carcere, resta in osservazione detenuto con Tbc

 

Resta ancora nel reparto di osservazione del carcere di Castrogno il detenuto rumeno 30enne affetto da tubercolosi, ricoverato giovedì per sospetta tubercolosi. Il sindacato autonomo di polizia penitenziaria si augura che al massimo entro oggi il detenuto venga trasferito in una struttura sanitaria più adeguata, dove possa essere curato in maniera specifica. Fortunatamente fino ad ora nessuno degli agenti penitenziari, né degli altri detenuti venuti a contatto con il rumeno nei giorni e nei mesi scorsi ha presentato sintomi che possano far pensare ad un altro caso di Tbc all’interno della casa circondariale teramana. Resta, comunque, alta l’attenzione.

Roma: aperto Centro Diurno per i minori con problemi penali

di Marta Rovagna

 

www.romasette.it, 2 febbraio 2009

 

Inaugurato a Centocelle il rinnovato centro diurno dei salesiani per accogliere i giovani disagiati, usciti dal carcere o che devono scontare provvedimenti alternativi alla detenzione.

"In ogni giovane c’è un punto accessibile al bene, è compito dell’educatore scoprirlo". Con queste parole San Giovanni Bosco spingeva, centocinquanta anni fa, ad accogliere i ragazzi più "difficili", realizzando una pedagogia della speranza ancora utilizzata in ogni centro salesiano, dall’Europa all’Africa. Sulla falsariga di questa antropologia cristiana venerdì mattina a Centocelle è stata inaugurata la nuova sede del centro di accoglienza ai minori della comunità educativo-pastorale Borgo Ragazzi Don Bosco, presente nel quartiere, alla periferia sud-est della Capitale, dal dopoguerra.

A parlare di promozione dei ragazzi in difficoltà, attraverso un’ottica di assunzione cosciente di responsabilità da parte del giovane emarginato, venerdì mattina erano presenti diversi ospiti: il presidente della Provincia Nicola Zingaretti; Donatella Caponetti, direttore del Centro per la Giustizia minorile di Roma e Lazio; Piero Lalla, direttore del Borgo salesiano; Alessandro Iannini, del Centro di Accoglienza Don Bosco e molti altri "amici" di Don Bosco.

Il centro inaugurato sarà diurno e polifunzionale per il recupero di minori a rischio, primi fra tutti i ragazzi usciti dal carcere o che sono stati sottoposti a provvedimenti penali alternativi alla detenzione. Graditi ospiti saranno poi coloro che per diversi motivi hanno abbandonato la scuola. Il Centro, convenzionato con il ministero della Giustizia e con il Comune, ha avviato dal 1997 un accordo per la certificazione dei percorsi di alfabetizzazione e per la licenza media degli ospiti della struttura. Il Borgo, come istituzione educativa è già vicina ai giovani che vivono in condizioni di seria emarginazione attraverso un centro di formazione professionale (aiuto meccanico, aiuto elettricista, ristorazione, tirocini formativi), un centro di orientamento scolastico, uno ricreativo permanente, un oratorio giovanile, un centro di accoglienza per minori, un movimento famiglie e un centro di ascolto psico-pedagogico per adolescenti.

"Dietro a processi di crisi e di difficoltà si innescano processi di emarginazione e di esclusione sociale - ha spiegato Zingaretti -; i salesiani hanno un potente mezzo per contrastare, correggere e alleviare i processi devastanti che portano ad un imbarbarimento della società". Roma, la città con il più alto numero di arresti di minori in Italia (circa 700 ingressi nell’ultimo anno) vive però secondo Caponetti un grave problema di risorse: "La scelta del percorso esterno alla prigione per il minore - ha ricordato nel suo intervento il direttore del Centro per la Giustizia minorile di Roma e Lazio - richiede un investimento di risorse, anche nel privato-sociale, come avviene nella Capitale, dove non abbiamo comunità di recupero del Comune". La denuncia della situazione in cui versano i detenuti minorenni da parte di Caponetti è continuata a tutto tondo: "Al momento - ha sottolineato - non abbiamo nemmeno i soldi per comprare il latte e i pannolini ai neonati, figli delle ragazzine che vengono fermate. Colpa dei tagli con l’accetta ai fondi per la giustizia minorile fatti dal governo".

Dall’esigenza di alleviare le sofferenze di questi giovani emarginati, già messi al confino da una società troppo distratta e cinica rispetto ai loro errori e alle loro sofferenze, nasce l’intervento dei salesiani: "Ci sentiamo impegnati - ha concluso Lalla - ad educare con il cuore di Don Bosco i giovani allo sviluppo integrale della loro vita, soprattutto dei più poveri e svantaggiati, promuovendo i loro diritti. Vogliamo essere testimoni di una società e di una Chiesa impegnate a valorizzare e includere".

Cinema: "L’ora d’amore", documentario dalle carceri italiane

 

Il Gazzettino, 2 febbraio 2009

 

Per parlare d’amore due registi trentaseienni hanno scelto il luogo emblematico del carcere. Un documentario breve, ma intenso, seguendo sofferenze, speranze, desideri e paure di una madre, una moglie, un trans. I registi Andrea Appetito e Christian Carmosino presentano il loro film-documentario "L’ora d’amore" oggi, alle 17.30, allo Spazio Paraggi; il pubblico potrà confrontarsi con gli autori per un dibattito.

"L’ora d’amore" è un film sulle chiusure, sulle barriere profonde che rendono impossibile una relazione amorosa. Per raccontarle abbiamo scelto un luogo dove queste barriere si fanno visibili, insormontabili, e dove l’amore sembra diventare impossibile: il carcere, hanno spiegato i due registi.

La separazione, la solitudine, l’istituzionalizzazione del vivere acuiscono la paura, le insicurezze, il bisogno, la dipendenza, la speranza, il ricatto, l’attesa e una lunga galleria di barriere che restringono e infine chiudono l’orizzonte di una relazione d’amore. I detenuti intervistati si chiamano Mauro, Fatima e Angelo e sono stati già condannati per i reati che hanno commesso. "La sottrazione della vita affettiva e della vita sentimentale sono pene aggiuntive, che nulla hanno a che fare con i loro crimini. Si è deciso di non specificare i reati, perché le classificazioni (detenuto per omicidio, detenuto per rapina, detenuto per...) sono soltanto un modo per soddisfare la nostra curiosità, e confermarci in una visione rassicurante del mondo, fatto di liberi "fuori" e detenuti "dentro"" hanno sottolineato Appetito e Carmosino. Così, ad esempio, Deborah, la compagna di Mauro, racconta che da quando lui è dentro anche la sua vita è reclusa.

Immigrazione: Napolitano; appello contro razzismo e violenza

 

Ansa, 2 febbraio 2009

 

Dopo la serie di episodi di inaudita violenza nei confronti di cittadini extracomunitari, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano interviene con durezza e lancia un forte appello alle istituzioni: "Siamo dinanzi a episodi raccapriccianti che vanno ormai considerati non come fatti isolati ma come sintomi allarmanti di tendenze diffuse che sono purtroppo venute crescendo. Rivolgo perciò un forte appello a quanti hanno responsabilità istituzionali, culturali, educative perché si impegnino fino in fondo per fermare qualsiasi manifestazione e rischio di xenofobia, di razzismo, di violenza".

Ha affermato, in una dichiarazione diffusa dal Quirinale, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con un riferimento indiretto alla vicenda dell’immigrato indiano gravemente ferito a Nettuno.

Immigrazione: Vicenza; arriva un "tetto" agli stranieri in classe

 

La Stampa, 2 febbraio 2009

 

Mai più di trenta stranieri ogni cento alunni; o anche, mai più di tre ogni dieci. La svolta delle quote calcolate, fissate e inderogabili per la scuola elementare non viene dalla Lega ma da una giunta di centrosinistra che si appoggia, per la sua decisione, al decreto Gelmini. È Vicenza - sindaco Achille Variati, Pd - a fare da apripista su una questione spinosa, che si ripropone ogni anno quando alle elementari e alle medie le prime classi vengono formate e i genitori italiani spesso finiscono in prima pagina con le loro proteste per l’elevato numero di bimbi stranieri in alcune sezioni.

Vicenza il problema lo ha affrontato proprio guardando a quanto accaduto lo scorso settembre; l’assessore alla Pubblica Istruzione Alessandra Moretti (che è anche vice di Variati, e avvocato) ha riunito intorno a un tavolo i dirigenti scolastici degli istituti di Vicenza e l’Ufficio scolastico provinciale. Ha messo al lavoro l’ufficio anagrafe, ha scoperto che il prossimo settembre in 49 prime elementari di 23 scuole, entreranno 1.045 bambini. E ha messo nero su bianco un provvedimento che ha raccolto il plauso del dirigente scolastico provinciale Carmela Palumbo.

"È chiaramente un provvedimento pensato a tutela dei bambini - spiega l’assessore Moretti -. Puntiamo a favorire l’integrazione, a non creare classi, o peggio ancora scuole ghetto".

Vicenza ha un numero elevato di stranieri residenti; moltissimi sono i filippini, ma non c’è Paese che non sia rappresentato. "Abbiamo notato che le famiglie straniere tendevano a puntare su una sola scuola: c’erano classi con un numero esagerato di bimbi stranieri, ma allora come è possibile parlare di vera integrazione? Finivano per stare sempre tra di loro".

Doppio il criterio che sarà seguito: praticamente, torna il vecchio stradario e i bambini dovranno essere iscritti nella scuola più vicina a casa. Se poi in quella scuola la quota degli stranieri supererà

il 30 per cento, saranno loro a dover cambiare scuola "sempre in accordo con le famiglie e con i dirigenti scolastici", per andare a fare media nella scuola più vicina a quella che gli spettava, ma che ha già raggiunto il tetto. Nel 2010, il provvedimento potrebbe essere esteso e toccare, con diverse percentuali, anche i bambini rom. Non solo: se funzionerà - e né Variati né Moretti lo dubitano - sarà applicato anche alle prime classi delle scuole medie.

Sul provvedimento, e sui consensi che riscuote, insorge la Lega veneta e in particolare finisce per essere chiamato in causa Gianpaolo Vallardi, già sindaco di Chiarano in provincia di Treviso e oggi senatore. Da primo cittadino, nel 2007, aveva proposto la stessa cosa: un tetto del 30 per cento nelle iscrizioni dei bimbi stranieri. Il Pd si era alzato in piedi compatto e aveva abbandonato l’aula gridando "è illegale". "Dalla sicurezza al federalismo, passando per l’immigrazione, questi sono sempre all’inseguimento - commenta oggi - ma non importa, va benissimo. Quel che conta è che alla fine su questi temi ci sia convergenza".

Per lo stesso direttore regionale Palumbo, quella della Lega era "un’idea di contenuto politico, non fattibile", mentre oggi approva e sottoscrive. "Perché non c’è niente in comune - assicurano da Vicenza -. Loro volevano classi ponte, isolamento. Noi pensiamo solo all’integrazione, ai vantaggi per gli alunni e a una nuova idea di scuola".

Droghe: positività narcotest non significa essere "sotto effetto"

di Pier Paolo Pani (Responsabile Medicina delle Tossicodipendenze, Cagliari)

 

Il Manifesto, 2 febbraio 2009

 

Ma davvero la positività a certi narcotest indica che il guidatore era sotto l’effetto di intossicazione da sostanze psicoattive? Prova a ragionarci Pier Paolo Pani.

Espianto d’organi per le ragazze, l’autista positivo per alcol e cannabis, 8 gennaio: questo il titolo di Repubblica in relazione ad un incidente d’auto con esiti mortali. È solo uno dei casi recenti di lutti sulla strada presentati dai media come effetto della guida sotto l’effetto della droga (Uomo ucciso da un bus, l’autista era drogato, 22 dicembre; Ecstasy e cocaina, giù dal ponte: quattro morti, 29 dicembre). Ma davvero la positività a certi narcotest indica che il guidatore era sotto l’effetto di intossicazione da sostanze psicoattive? Vediamo.

Queste sostanze alterano le funzioni necessarie per la corretta conduzione degli autoveicoli, agendo principalmente sul sistema nervoso: una volta introdotte nell’organismo (per via orale, intranasale, inalatoria, endovenosa), si diffondono nei vari organi e apparati, cervello incluso, attraverso la circolazione sanguigna. La durata degli effetti dipende dal tipo di sostanza. Considerando le più frequentemente utilizzate (alcol, cocaina, eroina e cannabis) si tratta di qualche ora (da una a otto). La durata d’azione dipende anche dalla dose: maggiore sarà la quantità di sostanza che arriva al cervello e più potenti e duraturi saranno gli effetti. Le sostanze vengono quindi eliminate, sempre per mezzo del sistema circolatorio, e parzialmente modificate, prevalentemente attraverso i reni con le urine e il fegato con le feci.

Eccetto che nel caso dell’alcol, la cui eliminazione è più rapida, la presenza delle sostanze o dei loro metaboliti (spesso inattivi) nell’organismo si rileva per lungo tempo dopo la cessazione degli effetti. Nelle urine, che vengono solitamente utilizzate per i controlli tossicologici, il metabolita della cocaina si trova per 2-4 giorni, quello dell’eroina per 3-5 giorni, i cannabinoidi fino a 4-6 settimane. Nei capelli, poi, è possibile rilevare la presenza di sostanze assunte nei mesi precedenti.

Urine e capelli non forniscono, tuttavia, indicazioni attendibili sulle capacità attentive, cognitive, sui tempi di reazione, etc. dell’individuo esposto agli effetti delle sostanze d’abuso. Per poter avere indicazioni valide sullo stato psicofisico della persona nell’arco di tempo nel quale le sostanze esplicano i loro effetti, il materiale biologico più utile è, infatti, il sangue. Ciò in quanto le concentrazioni ematiche delle sostanze d’abuso correlano molto meglio con quelle del cervello.

Nel caso dell’alcol, che è la sostanza più studiata, sono state costruite addirittura delle curve che descrivono l’entità della compromissione psicofisica e dell’aumento del rischio di incidenti per l’aumento delle concentrazioni dell’alcol nel sangue. Queste curve ci dicono, ad esempio, che con l’aumento della concentrazione nel sangue da 0,2 g/l (corrispondente all’incirca ad un bicchiere di vino) a 0,8 g/l, il rischio di incidenti aumenta di 3-5 volte. Sulla base di questi ragionamenti sono state stabilite le soglie legali per l’adozione delle sanzioni penali per chi guida sotto l’effetto dell’alcol.

L’utilizzo delle concentrazioni dell’alcol nel sangue, per valutare l’idoneità alla guida, è entrato nella pratica comune per almeno due ragioni: la prima è la facilità dell’esame, in quanto la concentrazione del sangue può essere determinata attraverso l’analisi dell’aria espirata (con la prova del "palloncino"); la seconda è che, trattandosi di una sostanza legale ampiamente diffusa, era fondamentale poter discriminare fra un uso consentito ed uno dannoso per la guida.

Per quanto riguarda le altre sostanze, la plausibilità scientifica dell’utilizzo delle concentrazioni ematiche quale indicatore dell’idoneità alla guida, non si è, per ora, tradotta nella disponibilità di metodiche e tecnologie attendibili di facile uso e di indicazioni normative conseguenti.

Frequentemente si continua, invece, a derivare la definizione di "drogato al volante" dalla presenza di metaboliti, spesso inattivi, rinvenuti nelle urine, che non ci permettono una conoscenza sul periodo di esposizione agli effetti della sostanza e sulla loro cessazione: finendo così per attribuire la responsabilità dell’incidente sulla base di esami che non sono in grado di gettare luce sulle reali condizioni psicofisiche della persona al momento della guida.

 

 

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