Rassegna stampa 9 dicembre

 

Giustizia: contro l’ergastolo, che toglie ogni contenuto alla vita

di Adriano Sofri

 

www.rassegna.it, 9 dicembre 2009

 

È in questi giorni in libreria il volume Contro l’ergastolo (curatori Stefano Anastasia e Franco Corleone), frutto della collaborazione tra Ediesse e Società della Ragione, organismo che ha come finalità lo studio e una diversa consapevolezza intorno ai temi della giustizia e del diritto penale minimo. Pubblichiamo di seguito il saggio di Adriano Sofri, che a partire dal titolo ("Io comincio a capire cosa è la detenzione"), ripercorre la lezione di Aldo Moro sul rapporto tra pena e reato e sulla crudeltà dell’ergastolo.

"Quando pubblicai un libro su Aldo Moro, nel 1991 (ma l’avevo scritto molti anni prima), non potevo conoscere il testo delle Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale tenute dal professor Moro nel 1976 nella facoltà romana di Scienze politiche, raccolte e curate da Francesco Tritto ed edite nel 2005. Se l’avessi conosciuto, in particolare la seconda sezione, intitolata alla "Funzione della pena", ne avrei fatto gran conto per i paragrafi del libro dedicati al rapporto fra Moro e il carcere, alla luce dei 55 giorni di "prigione del popolo" (...).

Al buio di quei 55 giorni - il mio libro si intitolava L’ombra di Moro. Ero stato colpito dalla frase, un semplice inciso in una lettera indirizzata a Cossiga: "io comincio a capire che cos’è la detenzione". Moro la insinua in un brano sulla possibilità di uno scambio fra l’ostaggio inerme che lui è ora e qualche detenuto delle Brigate Rosse: "[…] il grado di pericolosità della situazione non si è d’altra parte accresciuto, trattandosi di persone provate da lunga detenzione, meritevoli di un qualche riconoscimento sul piano umano (io comincio a capire che cos’è la detenzione) e infine neutralizzati dal fatto di essere dislocati in territorio straniero […]".

Un inciso troppo sobrio, troppo fra parentesi per non far pensare. Moro tiene a svolgere la tesi che è stata sua, e lo ribadisce, ben prima della impensata reclusione in cui ora si trova: che la salvezza di vite minacciate giustifica e impone un prezzo provvisorio da parte della società e delle istituzioni. Gli preme serbare alla sua argomentazione un andamento lucido e obiettivo: non la sua angosciosa condizione,ma un interesse comune e razionalmente dimostrabile lo ispira, e i suoi interlocutori devono persuadersene. I suoi interlocutori, amici di partito e personali, che invece stanno decretando dettati dai sequestratori o dalla viltà i suoi messaggi. "Nella mia più sincera valutazione, e a prescindere dal mio caso, anche se doloroso, sono convinto che oggi esiste un interesse politico obiettivo, non di una sola parte, per praticare questa strada".

A prescindere dal mio caso, dice. Anche rivolgendosi a chi è stato finora suo amico o seguace o cliente, deve adesso sorvegliarsi, guardarsi, non tradirsi: non chiamare in causa la propria sofferenza (solo la concessione pudica dell’accenno, "anche se doloroso"), tenere a bada le proprie emozioni. C’è un intero mondo, appena fuori dalla sua segreta, pronto a espropriarlo delle sue parole e a leggervi la prova del suo cedimento fisico e morale a un dominio che lo spoglia di sé, a invalidarlo pubblicamente e privatamente.

Vorrebbe - chi non vorrebbe al suo posto - dire l’offesa e la pena della propria condizione, ma deve reprimersi: censurarsi per non essere censurato dai suoi carcerieri di dentro, e per non essere interdetto da amici e colleghi di fuori. In questo sforzo di oggettività e distanza - un uomo rapito, umiliato, condannato a morte da un tribunale autonominato, spinto a "prescindere dal suo caso" - scivola tuttavia quella frase incidentale, io comincio a capire che cos’è la detenzione. Come inavvertitamente, in una fessura di distrazione attraverso cui "il suo caso" avverte della propria esistenza. O piuttosto avvertitamente, come se quel lapsus leggero e prosciugato fosse lasciato lì di proposito, e incaricasse l’interlocutore di estrarlo e maneggiarlo: un cenno soltanto, lo spiraglio in cui fissare lo sguardo, e figurarsi come Moro stia davvero nel fondo buio della sua ostentata obiettività. (Non è la sola volta dell’espressione "io comincio", in quelle lettere: "comincio a capire che cos’è la detenzione"; "ho capito solo in questi giorni che vuol dire soffrire con Cristo".) Eppure Moro aveva una fitta esperienza di visitatore di carceri.

Un brano della sua biografia pubblicata nel 1969, nove anni prima, da Corrado Pizzinelli (è Sciascia a citarlo nell’Affaire Moro) acquistava, riletto ora, il senso perturbante di un presagio.

Pizzinelli scriveva del Moro ministro di Grazia e Giustizia nel 1955-57: "come Guardasigilli mette in eccezionale rilievo tutti i suoi difetti. È pignolo, minuzioso, lento e meticoloso fino all’eccesso […]. Intanto a che cosa dedica la sua maggior attenzione?

Sorpresa, alle carceri e ai carcerati, cui fa lunghe, lunghissime visite […]. Le sue esplorazioni in questo sottofondo della vita sociale italiana sono continue e minuziose. Vien voglia di chiedere a uno psicanalista quali potrebbero essere le motivazioni segrete della curiosa propensione per le galere e i galeotti che ha l’uomo cui, non dimentichiamolo, piacciono tanto le cravatte e i loro nodi". Più di vent’anni dopo, l’ex ministro della Giustizia, e minuzioso ispettore delle carceri e dei carcerati, si trova sanguinosamente imprigionato, e scrive: "Io comincio a capire che cos’è la detenzione". Sarebbe bene, commentavo, che leggessero e rileggessero queste parole i tanti che parlano ex professo o en amateur dell’altrui galera.

In un’altra lettera, una delle più ondeggianti e demoralizzate, ma per questo più impressionante, Moro arriverà a invidiare e auspicare per sé la stessa prigionia che subiscono i detenuti brigatisti. "Ritengo invocare la umanitaria comprensione delle due Assemblee e dei loro presidenti […] [per] una legge straordinaria e urgente del Parlamento, la quale mi conferisca lo status di detenuto in condizioni del tutto analoghe, anche come modalità di vita, a quelle proprie dei prigionieri politici delle Brigate Rosse […]". Un’invidia, un auspicio dell’ora d’aria! "In una prigione comune, per quanto severa, io avrei delle migliori possibilità ambientali, qualche informazione ed istruzione, assistenza farmaceutica e medica ed un contatto, almeno saltuario, con la famiglia". Ecco l’invocazione: una prigione comune, per quanto severa. In quelle lezioni sulla funzione della pena, tenute solo due anni prima, Moro insiste sull’ancoraggio della pena, e del diritto in genere, all’idea della persona dotata della libertà, cioè della capacità di scegliere e di essere responsabile. Rifiutando una concezione neutrale, naturalistica o meccanica, del diritto, Moro parla del proprio tempo - siamo nel 1976 - come di "un’epoca in movimento verso grandi attuazioni di giustizia e di civiltà umana, un’epoca nella quale l’uomo è chiamato a dare prova di sé con le sue scelte coraggiose nel senso della giustizia, della libertà e della dignità umana".

Anche il reato, dice, è un atto di libertà, benché sia l’atto di libertà che conduce a una scelta negativa. Dunque la pena dev’essere personale, e legale - non dettata dall’arbitrio di chi giudica, ma dall’universalità della legge - e proporzionata. E la Costituzione stabilisce che la pena non possa mai consistere in trattamenti crudeli e disumani. "Vuol dire - spiega - trattamenti, vuol dire interventi, vuol dire atti di incidenza del potere pubblico sulla persona, che vadano al di là della necessità di limitare la libertà - infliggendo con ciò una sofferenza importante e sufficiente - che vadano a toccare la libertà umana". La pena "è privazione della libertà, ma è soltanto privazione della libertà, non più di questo: è soltanto privazione della libertà". Di qui l’inaccettabilità della pena di morte: "come si potrebbe ricondurre la pena capitale nell’ambito di interventi che non siano crudeli e disumani […].

Capisco bene - aggiunge Moro, e viene in mente il vecchio e sconvolto Ugo La Malfa che nel giorno del suo rapimento si alzerà alla Camera a rivendicare la pena di morte per gli attentatori - che vi possono essere dei momenti di accesa passione popolare di fronte ad alcuni fatti gravi, gravissimi, che si verificano, di fronte all’evidente sprezzo della vita altrui che il delinquente manifesta. Ma il potere pubblico deve essere ben controllato, per non farsi condurre ad immaginare che la pena sia considerata come una vendetta […]. La vendetta è automatica, la vendetta è smodata, la vendetta è disumana; la pena, invece, è misurata, è umana nella sua manifestazione, nella sua finalità […].Questo dell’assassinio legale è una vergogna inimmaginabile in un regime di democrazia sociale e politica […]". Avrete letto con interesse ma senza troppa sorpresa queste definizioni e considerazioni.

Meno aspettato, e comunque meno conosciuto e commentato è il capitolo che segue nella lezione di Moro, dedicato alla "pena dell’ergastolo". "Un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non soltanto per la pena capitale che istantaneamente, puntualmente, elimina dal consorzio sociale la figura del reo, ma anche nei confronti della pena perpetua: l’ergastolo, che, priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento ed al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte". Continueremo subito nella citazione: salvo il breve intervallo sufficiente a osservare che questa convinzione, della crudeltà e disumanità dell’ergastolo equivalenti a quelle della pena capitale - se non peggiori, come vedremo fra poco - contrasta radicalmente con tutte le forme di ripudio della pena di morte che vogliono compensarlo con l’inflessibilità della reclusione a vita - argomento corrente soprattutto negli Stati Uniti.

Torniamo alle parole del professor Moro: "ed è, appunto, in corso nel nostro ordinamento - che conosce ancora la pena dell’ergastolo, anche se non conosce più la pena di morte - una riforma che tende a sostituire a questo fatto agghiacciante della pena perpetua - (non finirà mai, finirà con la tua vita questa pena!) - una lunga detenzione, se volete, una lunghissima detenzione,ma che non abbia le caratteristiche veramente pesanti della pena perpetua che conduce ad identificare la vita del soggetto con la vita priva di libertà. Questo, capite, quanto sia psicologicamente crudele e disumano".

Qualunque cambiamento nella vita di una persona, compreso il pentimento vero - "com’è pur possibile" - prosegue Moro, è irrilevante se la pena esaurisce la vita di quella persona. "Ci si può, anzi, domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con il sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua. Quando si dice pena perpetua si dice una cosa […] umanamente non accettabile".

Immagino che siate tutti, lettrici e lettori, impressionati dal Moro che enuncia questi concetti. Perfino eccessivi, in un certo senso, in questo finale argomentare - "forse" - la crudeltà maggiore dell’ergastolo rispetto alla pena di morte: convinzione non di rado pronunciata da ergastolani e simbolicamente efficace e significativa. Purché non si dimentichino le obiezioni dai suoi due versanti. Che se si chieda ai condannati a morte di scegliere fra l’esecuzione e la pena perpetua, sarà una minoranza a scegliere l’esecuzione. E che agli ergastolani che preferiscano la morte a quella loro vita dovrà restare pur sempre la scelta di togliersela, la vita.

Ciascuno può misurare quanta strada sia stata fatta da allora, da quel 1976, a oggi, fine di decennio del nuovo secolo e millennio: all’indietro. Proclama retorico sempre più pigro di una minoranza politica, il ripudio dell’ergastolo è affidato pressoché solo al grido di certi fondi di cella, e al coraggio di lotte isolatissime. Non allegherò commenti di troppo facile effetto sulla contraddizione fra le lezioni di Moro e il modo della sua cattura privata e della sua privata esecuzione. Finirò invece copiando le righe finali della lezione di cui abbiamo fin qui parlato: "Allora ci vediamo per la lezione di venerdì. Bisogna che mi diate i nomi perché ho dimenticato il libretto sul quale, poi, registrerò le presenze".

Giustizia: lettera al Papa, dagli ergastolani "in lotta per la vita"

di Susanna Marietti

 

www.linkontro.info, 9 dicembre 2009

 

Prosegue la campagna Mai dire mai per l’abolizione dell’ergastolo e delle carceri di massima sicurezza, che vede da anni gli ergastolani di tutta Italia organizzarsi tra loro - nonostante le difficoltà di comunicazione facilmente immaginabili - con l’aiuto esterno dell’associazione Liberarsi. Per il prossimo 10 dicembre, giornata dei diritti umani, è previsto uno sciopero nazionale della fame nelle carceri e nel territorio, che fa seguito a quello del primo dicembre scorso.

Gli ergastolani hanno nei giorni scorsi scritto una lettera a Papa Benedetto XVI veicolata dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, che da sempre è loro vicino. "Santo Padre", si legge, "siamo degli ergastolani, dei condannati a essere colpevoli e prigionieri per sempre, (…) molti di noi sono in carcere da 20, 30 anni, altri di più, senza mai essere usciti un solo giorno, senza mai un giorno di permesso con la propria famiglia. Molti di noi sono entrati da ragazzi adolescenti e ora sono quarantenni destinati ad invecchiare in carcere, altri erano giovani padri e ora sono nonni con i capelli bianchi. (…) avere l’ergastolo è come essere morti, ma sentirsi vivi; la pena dell’ergastolo è una pena del diavolo perché ti ammazza lasciandoti vivo; (…) la pena dell’ergastolo ti mangia l’amore, il cuore, e a volte anche l’anima; la vita senza promessa di libertà non potrà mai essere una vita. Santo Padre a cosa serve e a chi serve il carcere a vita?".

Nel maggio del 2007 ben 310 ergastolani firmarono una lettera al Presidente della Repubblica chiedendo provocatoriamente che la loro condanna venisse permutata in pena di morte. Sempre in quell’anno un migliaio di ergastolani, sostenuti da 10.000 persone fra amici e parenti, hanno fatto lo sciopero della fame a oltranza per sostenere la campagna Mai dire mai. Nel 2008 quasi ottocento ergastolani hanno inoltrato un ricorso alla Corte europea per chiedere l’abolizione dell’ergastolo. Dell’intera Europa, solo in Italia esiste l’ergastolo ostativo, quello che ti porta a non avere alcun beneficio e a scontare integralmente la sentenza carceraria. Ancora tra il 2008 e il 2009 un migliaio di ergastolani hanno fatto uno sciopero della fame a staffetta per l’abolizione dell’ergastolo, che si è concluso nel marzo 2009 con una giornata di mobilitazione nazionale. Gli ergastolani ostativi sono riusciti a dotarsi di un ulteriore strumento pacifico per comunicare all’esterno le loro idee e impressioni, il blog www.urladalsilenzio.com.

Oggi, un nuovo sciopero e una lettera al Pontefice. Speriamo che saprà ascoltare chi di voce ne ha molto poca. Sul sito della Comunità Papa Giovanni si può aderire all’appello degli ergastolani.

Giustizia: in permesso per due giorni... dopo 44 anni di carcere

 

Redattore Sociale - Dire, 9 dicembre 2009

 

Antonino Marano, entrato per scontare solo 16 mesi, ha ucciso ed è stato condannato all’ergastolo. Ora si trova all’Ucciardone di Palermo e grazie ai volontari dell’Asvope ha potuto incontrare la moglie.

Era da 44 anni, trascorsi in varie carceri d’Italia, che sperava che un giorno potesse arrivare questo momento: avere un permesso, anche se di due giorni, per potere stare con la moglie. In tutti questi anni (37 quelli di carcere duro) ad Antonino Marano è stato negata qualsiasi forma di permesso e, soltanto da quando si trova recluso presso il carcere dell’Ucciardone di Palermo, grazie all’accompagnamento e al sostegno psicologico dei volontari dell’Asvope, è riuscito ad ottenere un permesso di soli due giorni. La settimana scorsa, accompagnato da due operatori dell’Asvope, ha trascorso due giorni con la moglie, accolto nella comunità di laici comboniani "La zattera" di Palermo.

"In questi anni di permanenza presso il carcere palermitano - spiegano i volontari dell’Asvope - Antonino Marano è riuscito a studiare, conseguendo la licenza media, a dipingere e a dare piena dimostrazione di un suo reale cambiamento". "Si tratta di un uomo anziano, distrutto nel fisico e profondamente cambiato nell’animo - dice Giovanna Gioia, operatrice volontaria dell’Asvope - . I tanti anni di carcere duro lo hanno portato a riflettere, mantenendo la sua dignità di persona senza mortificare la sua intelligenza e le sue risorse interiori".

"Grazie al programma di recupero e di reinserimento sociale previsto dall’ordinamento penitenziario, ha potuto frequentare la scuola media, dedicarsi alla pittura e incontrare noi volontari - continua Giovanna Gioia -. Siamo contenti che proprio l’azione sinergica di tutti gli operatori abbia dato buoni frutti. Siamo soddisfatti di essere riusciti a fare esprimere ad Antonino Marano quanto di più positivo gli era nascosto".

In tutti questi anni la sua richiesta di avere un permesso per stare con la famiglia, non era sta mai presa in considerazione sebbene tanti altri detenuti avessero ottenuto permessi e semilibertà. La sua famiglia, (composta dalla moglie, 4 figli e 5 nipoti) durante tutti questi anni di reclusione, non lo ha mai abbandonato, garantendo le visite in tutte le carceri dove è stato recluso. Il figlio imbianchino, che sta a Friburgo in Svizzera, recentemente aveva percorso 2 mila chilometri per fargli conoscere i nipotini, ma non era riuscito a vederlo. Non fu concesso al detenuto nemmeno il saluto al fratello morente di cancro.

La storia di Antonino Marano, proveniente da un ambiente contadino della provincia di Catania, è molto particolare. 44 anni fa Marano era entrato in carcere per scontare solo 16 mesi. Ma nel carcere di Catania uccise un detenuto che lo aveva aggredito a coltellate mentre andava a colloquio dalla moglie, prendendo 27 anni. Da lì inizia un lungo calvario che lo vede coinvolto in altri delitti all’interno del carcere fino alla condanna all’ergastolo.

Marano negli anni di permanenza in carcere, ha ritrovato la fede religiosa diventando "il pittore del sacro". "Nei giorni più duri, mentre pensavo di morire di dolore in fondo a una cella ho ricordato le parole delle preghiere di quando ero piccolo - aveva riferito al quotidiano il Messaggero nel febbraio del 2005 -. Non ne parlavo con nessuno perché la fede è una cosa di cui avere pudore. Poi ho chiesto la carta e una matita e la fede l’ho disegnata. Quando mi hanno concesso anche i colori è stata una gioia. Adesso ogni mattina faccio cento flessioni e riordino la cella, poi mi metto a pensare alla mia vita e so che è vero quando dico che la violenza l’ho sempre odiata, potete credermi?".

"Sono in carcere da 42 anni, sono nella sezione speciale da 30 anni e qualche mese, lascio immaginare quello che ho e sto passando. Sono in questa fogna dell’Ucciardone da 4 anni e 2 mesi. È meglio l’Asinara del ‘77 che vivere in questo carcere. Non ci sono diritti, si vive come numero, non come un essere umano. Ho scritto a tutti e tutti sono d’accordo - aveva scritto ancora Marano in una lettera del febbraio del 2007 ad www.informacarcere.it -.

Pensa che il direttore non mi fa nemmeno uscire i disegni che faccio ai miei nipotini. Qui vado a scuola e non posso dare i disegni nemmeno alle professoresse. Io non mi sono suicidato perché il suicidio è un atto di supervigliaccheria e io sono un vero siciliano e questo non lo farò mai, mi devono uccidere loro. Sono l’unico in Italia che non è mai andato in permesso dopo 42 anni di carcere".

Giustizia: quasi cento bambini che passeranno Natale in carcere

 

Il Velino, 9 dicembre 2009

 

Questo Natale in Italia un centinaio di bambini al di sotto dei 3 anni lo passeranno con la loro mamma in carcere, mentre altri diecimila bambini figli di detenute saranno costretti a festeggiarlo senza di lei. Nell’anniversario della Dichiarazione universale dei Diritti umani Terre des hommes (Tdh) vuole puntare i riflettori su una grave mancanza dell’Italia nei confronti dei minori figli di detenute, che la legge obbliga a vivere in carcere da uno ai tre anni con la madre e che poi allontana, negando loro il diritto a godere di un rapporto diretto con la madre, come sancisce l’articolo 9 della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia.

"Tutto ciò nonostante la legge "Finocchiaro" preveda per queste donne, almeno sulla carta, il diritto agli arresti domiciliari - dichiara Federica Giannotta, responsabile Advocacy di Terre des hommes Italia -. Tuttavia la stragrande maggioranza delle mamme detenute non ha i requisiti necessari per accedervi. Per questo riteniamo indispensabile che si arrivi a una rapida approvazione della proposta di legge 18141 che prevede l’istituzione di Case famiglia protette dove scontarli, se possibile entro Natale".

In base all’attuale ordinamento i bambini dagli uno ai tre anni figli di detenute sono costretti a trascorrere gli anni più delicati della loro crescita in carcere, un ambiente certamente non adeguato al loro sviluppo. Inoltre sono destinati ad essere allontanati dal carcere e dall’affetto della madre al compimento del terzo anno di età.

Questo nonostante la legge n. 40/2001 (detta legge "Finocchiaro") preveda il diritto agli arresti domiciliari per le mamme detenute già condannate se non esiste il rischio di recidiva e se hanno già scontato un terzo della pena. Questi requisiti però la rendono praticamente inaccessibile alla stragrande maggioranza delle detenute, dato che moltissime non hanno un domicilio dove scontarli o sono ancora in attesa della pena definitiva o ancora, hanno commesso reati per i quali c’è un pericolo di recidiva (ad es. legati all’uso, spaccio di droga, prostituzione).

"Se il Disegno di legge 1814 venisse approvato queste mamme potrebbero essere accolte in apposite "Case Famiglie Protette" assicurando l’indispensabile protezione dei bambini che crescerebbero accanto alle madri, almeno fino ai dieci anni di età", prosegue Giannotta. Nonostante le dichiarazioni del Ministro Alfano e di molti esponenti del governo, il Disegno di legge1814 è fermo dal 2008 in commissione Giustizia della Camera. Terre des hommes, che da 50 anni opera per l’aiuto diretto all’infanzia sofferente e in tutte le sue attività si batte per il rispetto e la tutela dei diritti dei bambini secondo quanto stabilito dalla Convenzione Onu sui Diritti dell’infanzia, chiede al Parlamento di riprendere con urgenza l’esame della proposta di legge 1814. La sua rapida approvazione infatti permetterebbe finalmente a migliaia di bambini crescere accanto alla propria madre, lontano dal carcere, nel pieno rispetto di quanto previsto dalla Convenzione che il nostro paese ha ratificato nel 1991.

Terre des hommes (Tdh) Italia onlus è una organizzazione non governativa che si occupa di aiuto diretto all’infanzia in difficoltà nei Paesi in via di sviluppo, senza discriminazioni di ordine politico, etnico o religioso. Nata nel 1989 e diventata fondazione nel 1994, Tdh Italia oggi è presente in 22 paesi di tre continenti con quasi 90 progetti di aiuto umanitario d’emergenza e di cooperazione internazionale allo sviluppo, con programmi in settori quali salute di base e protezione materno-infantile, educazione di base, formazione professionale, protezione dei bambini di strada e in conflitto con la legge, promozione dei diritti umani, attività generatrici di reddito e sviluppo delle risorse naturali. Tdh Italia fa parte della Terre des hommes International federation (Tdhif), lavora in partnership con Echo ed è accreditata presso l’Unione europea e l’Onu. Nel 2009 Terre des hommes ha organizzato un congresso mondiale sulla Giustizia minorile a Lima.

Giustizia: Fincantieri; va avanti il progetto "carceri galleggianti"

di Angela Zoppo

 

Milano Finanza, 9 dicembre 2009

 

Prigioni all’ancora in otto città. Il costo per ciascuna piattaforma dovrebbe aggirarsi sui 90 milioni. Il governo ne ha stanziati 500 per i nuovi penitenziari. Per le sedi in lista Civitavecchia, Genova, Bari, Gioia Tauro, Livorno, Napoli, Palermo e Ravenna.

Pazienza se qualcuno continuerà a evocare il fantasma di Alcatraz. Il piano sull’emergenza carceraria è maturo per essere esaminato da uno dei prossimi consigli dei ministri e porterà avanti la discussa proposta delle carceri galleggianti. Sono già stati individuati persino i siti dove ancorare le chiatte. Si tratta di otto città portuali, nelle quali sono presenti aree dismesse, banchine inutilizzate ed ex arsenali militari: Bari, Civitavecchia, Genova, Gioia Tauro, Livorno, Napoli, Palermo e Ravenna. Ormai, infatti, non è più questione di se, ma solo di quando.

Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, incalzato dal commissario straordinario per l’edilizia carceraria, Franco Ionta, ha chiesto la corsia preferenziale e ha buone chance di ottenerla sull’onda dell’emergenza e dell’allarme lanciato dall’Istat, che conferma quanto le cronache raccontano con cadenza quasi quotidiana: le carceri italiane stanno scoppiando e il numero di suicidi sta esplodendo. Anzi, in molti casi sono già scoppiate: stando al rapporto Giustizia pubblicato a fine novembre dell’istituto di statistica, la capienza regolamentare "risulta ampiamente superata", ovunque, dalla Sicilia al Trentino, con il caso estremo dell’Emilia Romagna, dove ci sono 100 posti letto ogni 179 detenuti, e le sole eccezioni di

Umbria e Valle d’Aosta. Ce n’è a sufficienza, insomma, per non liquidare con una battuta il ricorso alle floating jail, una novità assoluta per l’Italia ma una realtà collaudata in altri Paesi industrializzati, come Usa e Olanda. Non si pensa a ferry boat riconvertiti, come quello ancorato nel 1987 a New York, nell’east River davanti a Rikers Island.

Né, tantomeno a fortini irraggiungibili e sinistri stile la celebre prigione nella baia di San Francisco, come teme il sindaco di Genova, Marta Vincenzi. Stando almeno all’unico progetto presentato finora al governo, firmato Fincantieri, le prigioni galleggianti ricorderanno semmai le placide chiatte ancorate nei canali di Amsterdam. Il dossier che il gruppo cantieristico guidato da Giuseppe Bono ha approntato in tempo record è tuttora l’unico in mano al guardasigilli Alfano e a Ionta, che è anche a capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazio-ne penitenziaria). Nel frattempo, ci sono stati ritocchi e aggiustamenti per prevenire i problemi riscontrati dalle strutture utilizzate negli altri Paesi, tanto che alla fine le previsioni di costo sono state viste al rialzo rispetto all’affrettata stima iniziale di 50 milioni per ogni floating jail. Adesso, secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza, si parla di una cifra tra 90 e 100 milioni, che moltiplicata per le otto strutture pensate dal piano Alfano porterebbe il conto finale intorno a 800 milioni. Ben oltre, perciò, i 500 milioni stanziati per ora dalla manovra alla voce edilizia carceraria. Ma già qualcosa.

In attesa del riscontro di Palazzo Chigi, Fincantieri tiene duro. Le commesse latitano e dopo il boom del 2007 quest’anno il settore della cantieristica deve misurarsi con un calo dell’81% nella domanda di nuove navi. Ovvio che la prospettiva di un ordine così importante sarebbe una boccata d’ossigeno per il gruppo, come hanno ben compreso i lavoratori dei cantieri liguri e la Cisl, ormai apertamente schierati a favore del progetto.

La proposta più aggiornata è quella cosiddetta a torre, con una capienza di 640 detenuti, divisi in 320 celle doppie di circa 14 metri quadri. La chiatta, o per dirla con i tecnici Fincantieri "la piattaforma perennemente ormeggiata a una banchina in un’area protetta dai flutti", avrà aule didattiche, laboratori, mense, sala d’aspetto con area giochi per i bambini, e spazi all’aperto, oltre al consueto corredo di uffici, sala colloqui, area accettazione e immatricolazione dei detenuti, e infermeria. E potrà essere riconvertita facilmente ad altri usi per la protezione civile.

"In analogia con la progettazione delle navi da crociera, sulle basi delle peculiari esigenze della reclusione e della gestione dei detenuti", si legge nel dossier presentato al governo. "Fincantieri ritiene possibile la realizzazione di strutture penitenziarie galleggianti in grado di rispondere in brevissimo tempo all’emergenza del sovraffollamento". Gli ingegneri del gruppo contano di poter ulteriormente accorciare i tempi di realizzazione, riducendoli da 24 a 20 mesi.

Giustizia: Alfano; il piano carceri, forse in Cdm prima di Natale

 

Apcom, 9 dicembre 2009

 

Il piano carceri? "Speriamo di portarlo in Consiglio dei ministri prima di Natale", ovvero "dopo che la Camera si sarà espressa sulla Finanziaria", in maniera da "essere tranquilli" sulle coperture finanziarie. Lo dice il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, in audizione alla Camera, ricordando che "la Finanziaria ora in discussione contiene già 500 milioni di finanziamento per nuove strutture carcerarie e i fondi per l’assunzione di 2mila agenti di Polizia penitenziaria". Il Guardasigilli ha spiegato di non aver portato prima il piano, di fatto già pronto, perché voleva avere la certezza delle risorse. I finanziamenti sarebbero stati già individuati e previsti dalla manovra che la Camera si appresta a votare. "Con concretezza porteremo in Consiglio dei Ministri un piano con tabelle allegate e con relativa copertura finanziaria".

Giustizia: Vitali (Pdl); assumeremo duemila agenti penitenziari

 

Il Velino, 9 dicembre 2009

 

"L’audizione del ministro della Giustizia in commissione, per altro ancora in corso, ha annunciato che il governo ha deciso l’assunzione per il 2010, di duemila agenti della polizia penitenziaria con una copertura economica contenuta nella legge Finanziaria in corso di discussione". È quanto ha dichiarato Luigi Vitali, responsabile nazionale Pdl dell’ordinamento penitenziario.

"È la prova più concreta - ha aggiunto - dell’attenzione e della sensibilità del ministro Alfano e del governo Berlusconi alla problematica del superaffollamento delle carceri. Ma è anche la risposta più consona a quanti, strumentalmente, accusavano l’esecutivo di scarso interesse sul problema e ai tanti corvi che si auguravano che la situazione implodesse.

Il ministro ha altresì annunciato che, dopo l’approvazione della Finanziaria, sarà varato anche il piano carceri, in quanto nella Finanziaria è contenuta la copertura di 500 milioni di euro, somma sufficiente a varare la prima fase di realizzazione di nuove strutture penitenziarie. Credo di poter dire - ha concluso -, che da oggi, si dimostra come si può passare dalle parole ai fatti".

Giustizia: Alfano; 645 i detenuti in regime di 41-bis è un record

 

Apcom, 9 dicembre 2009

 

Vincenzo Nicchi sarà il 645esimo detenuto a cui verrà applicato il carcere duro, ovvero il regime regolato dal 41-bis. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, in una conferenza stampa al Senato nella quale ha fatto il punto sui risultati conseguiti dal governo nella lotta alla criminalità organizzata. il Guardasigilli ha spiegato di aver firmato 167 41-bis in prima applicazione e 769 proroghe del regime detentivo durissimo, per un totale di 946 detenuti sottoposti a questa particolare misura detentiva.

"Con Nicchi - ha detto il ministro - arriveremo ad avere 645 detenuti sottoposti al regime 41-bis, che è il record da quando esiste questa detenzione. Firmerò il decreto di applicazione del 41-bis per Nicchi non appena me lo porteranno".

Giustizia: Radicali; Cucchi e Bianzino, vittime del proibizionismo

 

Agi, 9 dicembre 2009

 

C’è un filo rosso che lega il caso di Aldo Bianzino a quello di Stefano Cucchi, entrambi morti in carcere a causa del proibizionismo. Lo ha detto questa mattina il segretario nazionale dei Radicali italiani, Mario Staderini, a Perugia per presentare il presidio organizzato venerdì mattina davanti al tribunale della città umbra, cui prenderanno parte anche Emma Bonino e Ilaria Cucchi. La mobilitazione, fissata per le 8:30, è stata indetta per chiedere che non venga archiviato il fascicolo per omicidio volontario nel caso del falegname 40enne che fu trovato senza vita il 14 ottobre 2007 nel carcere perugino di Capanne.

"Bianzino - ha ricordato Staderini - fu arrestato per la detenzione di alcune piante di marijuana così come Cucchi è finito in carcere per un reato legato alla droga. Entrambi i casi dimostrano come il proibizionismo sia il vero crimine di questo paese perché affolla le carceri, crea vittime e lascia orfani come Rudra Bianzino che a 14 anni si è trovato il padre morto senza sapere perché". Sul caso Bianzino, Staderini vorrebbe che "questo caso locale diventasse nazionale per chiedere che si parli di proibizionismo, malagiustizia e sovraffollamento delle carceri" e ha ricordato come ci sia in Parlamento, in attesa di essere calendarizzata, una mozione dei Radicali che impegna il governo ad affrontare il tema carceri immediatamente.

Giustizia: Bernardini; conclusi tre giorni di visite in carceri Sicilia

di Daniela Dominici

 

Ristretti Orizzonti, 9 dicembre 2009

 

Primo giorno di visite

 

Appena concluso lo sciopero della fame, durato più di due settimane, per ottenere la calendarizzazione della sua mozione sulle carceri alla Camera che verrà discussa, finalmente, agli inizi di gennaio, l’on. Rita Bernardini, radicale eletta nelle liste del Pd, ha organizzato una tre-giorni in Sicilia per visitare alcuni centri d’accoglienza e alcune carceri per toccare con mano e avere quindi un quadro d’insieme veritiero della loro reale situazione.

Ieri siamo entrati con Rita Bernardini in due di questi luoghi in provincia di Messina: il Cara di Sant’Angelo di Brolo, dove la visita era programmata, e l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto in cui, invece, la deputata ha fatto uno dei suoi blitz.

Il Cara (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) è una struttura per accogliere gli immigrati che arrivano in Italia, soprattutto dai paesi dell’Africa, con ogni mezzo di fortuna. In questo di Sant’Angelo di Brolo che abbiamo visitato ieri sono attualmente ospitate 149 persone di cui 123 uomini, 16 donne e 10 minori; ci sono anche 9 nuclei familiari senza bambini e 7 con bambini; nei giorni scorsi sono venuti alla luce 3 neonati. Questo centro è stato aperto il 16 settembre del 2008 ed è gestito dal consorzio di cooperative sociali "Sisifo", che amministra anche quello di Lampedusa in cui attualmente, per la cronaca, non ci sono immigrati ospiti. La maggioranza degli immigrati presenti è di etnia somala ed eritrea e c’è anche un gruppo dalla Nigeria.

Gli immigrati possono rimanere in questa struttura fino a un massimo di 6 mesi poi devono andare via dopo aver ottenuto il riconoscimento (più del 90% di loro lo ottengono). Abbiamo potuto constatare che la struttura ospitante è positiva sotto tutti i punti di vista; gli immigrati hanno spazi di socialità in cui possono consumare i pasti, guardare la televisione accesa sempre su un canale della loro nazione d’origine e praticare il proprio culto religioso (per gli islamici); c’è anche un ex immigrato che ha scelto di rimanere in veste di interprete, Ismail, di grande aiuto per coloro che gestiscono questo centro; per quel che riguarda le stanze in cui dormono, i dirigenti sono riusciti a creare camere singole per i gruppi familiari e cameroni con più letti per gli immigrati arrivati da soli.

Il centro è diretto da una psicologa coadiuvata da altre tre colleghe, ci sono anche un medico e un infermiere che vivono all’interno della struttura per un settimana ininterrotta per poi dare il cambio ad altri colleghi garantendo così la presenza continua di un’assistenza medica. Anche le forze dell’ordine vigilano costantemente e discretamente sulla vita di questo centro in cui, come ci ha dichiarato l’amministratore e confermato la direttrice, non si sono mai avuti, fino a oggi, episodi di violenza o di autolesionismo.

Vogliamo concludere questo breve resoconto sul Cara di Sant’Angelo di Brolo con una frase un po’ amara detta dall’avv. Carmen Cordaro, responsabile Arci nazionale di frontiere e centri accoglienza, che assiste, col gratuito patrocinio, questi immigrati: "è un posto tranquillo dove però accadono ordinarie ingiustizie".

Siamo poi entrati, non attesi e quindi contando sull’effetto sorpresa, nel Ospedale Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Sin dall’inizio, nonostante appunto non fossimo attesi, siamo stati accolti dagli agenti di polizia penitenziaria con molta cortesia e calore; hanno subito chiamato sia la loro dirigente che il direttore della struttura che hanno risposto con dovizia di particolari e infinita ed estrema gentilezza a tutte le domande poste dall’on. Bernardini per poi farci visitare i vari settori di questa struttura. Entrambi i dirigenti hanno lamentato la forte carenza di personale e, per contrasto, l’aumento del numero dei ricoverati passato da 190 a 320 perché molti vengono mandati a Barcellona dagli altri Opg italiani.

Il direttore di questa struttura è uno psichiatra, l’unico tra tutti i direttori, come ci ha dichiarato, con questa laurea specifica e consona al tipo di detenzione di persone con problemi mentali. Abbiamo positivamente notato con quanta attenzione e ascolto sia i due dirigenti che gli agenti di polizia penitenziari si pongono verso queste persone; all’interno della struttura ci sono spazi di socialità "sotto i portici", come ci ha detto il direttore, e sono stati creati anche luoghi "verdi" in mezzo agli alberi di agrumi per dare la possibilità di colloqui privati con i familiari. Una buona parte degli edifici è in ristrutturazione, si sta creando anche un reparto femminile perché è previsto l’arrivo di una decina di detenute malate.

Concludo con una frase che il direttore mi ha detto, all’esterno dell’Opg, quando gli ho fatto i miei complimenti per come lui e i suoi collaboratori gestiscono questo ospedale: "Grazie ma è dura, davvero dura". Oggi con l’on. Bernardini visiteremo un altro centro di accoglienza e un carcere in provincia di Siracusa di cui vi darò il resoconto.

 

Secondo giorno di visite

 

Anche oggi abbiamo accompagnato l’on. Rita Bernardini, deputata radicale eletta alla Camera nelle liste del Pd, in due visite in provincia di Siracusa: in mattinata a un altro centro Cara a Solarino, ispezione programmata e preparata in accordo con la Prefettura, e nel pomeriggio al carcere di Augusta ma questa visita è stata un blitz senza preavviso.

La struttura d’accoglienza di Solarino è un ex convitto domenicano esclusivamente per donne e bambini; in passato ha accolto anche una sessantina di immigrati ma in questo momento ne ospita solo nove, sei donne e tre bambini di nazionalità somala ed eritrea.

Dobbiamo dire che ci è sembrata una struttura assolutamente all’altezza sia per sistemazione delle camere che per lo spazio-giochi per i bambini che per la zona cucine e refettorio. Le persone che gestiscono questo centro ci sono sembrate molto motivate, dedicate con attenzione e affetto a questi "soggetti vulnerabili" che, comunque, si lamentano di qualche carenza, soprattutto di pocket money, che hanno posto all’attenzione dell’on. Bernardini.

Nel pomeriggio, come dicevamo, blitz ispettivo al carcere di Augusta; dopo un primo comprensibile momento d’incertezza (dobbiamo considerare il giorno festivo e l’orario non proprio consono) da parte degli agenti di polizia penitenziaria, ci hanno poi accolti, con molta cortesia, amabilità e disponibilità a rispondere a tutte le domande dell’on. Bernardini, un ispettore e il commissario che ci hanno poi portato a visitare quasi tutti gli spazi a disposizione dei detenuti: la palestra, la farmacia, l’ambulatorio, la sala colloqui, lo spazio verde per i bambini; e ci hanno fatto poi visitare alcune sezioni, anche due delle più "riservate" del carcere, e l’on. Bernardini si è fermata a lungo a parlare con moltissimi detenuti ascoltandone le tante problematiche.

La più diffusa tra le denunce denunciata è la scarsità d’acqua in genere e di quella calda in particolare per le docce; un’altra lamentela che riguarda i detenuti extracomunitari (più della metà della popolazione detenuta in questo carcere) è quella che riguarda il voler finire di scontare la pena nel paese d’origine per stare più vicini alle famiglie. Naturalmente l’on. Bernardini ha preso nota di tutto ciò che le è stato richiesto e si è mostrata disponibile a fare tutto il possibile per continuare ad aiutare, con la sua azione politica, queste persone che vivono una "vita ristretta".

 

Terzo giorno di visite

 

L’on. Bernardini, deputata radicale eletta alla Camera nelle liste del Pd, ha voluto concludere le sue visite ispettive nei centri accoglienza e nelle strutture penitenziarie della Sicilia orientale con la visita-blitz, questa mattina, al carcere catanese di piazza Lanza e anche in questa occasione siamo entrati con lei.

In questa struttura detentiva il problema del sovraffollamento dei detenuti e della diminuzione, inversamente proporzionale, del numero degli agenti di polizia penitenziaria è ancora più evidente che in altri istituti simili.

Anche se molto è stato fatto, come ha dichiarato l’on. Bernardini, dall’ultima visita ispettiva da lei qui compiuta un anno fa e che è giusto sottolineare, per esempio le docce in ogni cella che prima non c’erano, c’è ancora molto da fare perché la situazione è difficilmente gestibile.

Abbiamo visto con i nostri occhi che quasi in ogni cella ci sono da 7 a 9 persone rinchiuse 20 ore al giorno eccetto le ore d’aria: le attività trattamentali che dovrebbero, secondo l’art 27 della nostra Costituzione, tendere al recupero, alla rieducazione del detenuto in vista del suo reinserimento nella società, non esistono per problemi sicuramente logistici di mancanza di personale.

Abbiamo visto che l’ora d’aria viene fatta in uno spazio assolutamente insufficiente per il numero di detenuti che a ogni turno può usufruirne e senza un solo albero o una panchina, niente, solo alte mura scrostate e nient’altro; oggi un gruppo di queste persone si sono fermate a parlare con noi per esporci alcuni dei tanti problemi ma anche per parlare positivamente degli agenti che si comportano discretamente con loro, che non hanno colpe di questa situazione esplosiva.

L’on. Bernardini ha preso nota, come nelle altre quattro visite di domenica al Cara di Sant’Angelo di Brolo e all’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto e lunedì al Cara di Solarino e al carcere di Augusta, di tutto quello che abbiamo visto, in positivo e in negativo, e ne ha fatto un ampio resoconto alla conferenza stampa conclusiva che si è tenuta poche ore all’hotel Excelsior di Catania e a cui ha preso parte anche la sottoscritta.

Alessandria: muore detenuto 35enne, per moglie non è suicidio

di Sandro De Riccardis

 

La Repubblica, 9 dicembre 2009

 

Sabato aveva chiamato la moglie dal carcere di Ariano Irpinio, provincia di Avellino. "Devo darti una bella notizia. Sono arrivate le carte del trasferimento, le aspettavo da quindici giorni. Da lunedì sono più vicino a te, ci vedremo più spesso". Ma Ciro Ruffo, 35 anni, pentito del clan Di Tella, sottogruppo dei casalesi operanti nel comune di Carinaro, provincia di Caserta, è stato trovato morto ieri nella casa circondariale San Michele di Alessandria.

Una morte in carcere che si tinge di giallo. "La direttrice mi ha comunicato che lo hanno trovato impiccato, ma non è vero" accusa la moglie, D. B., che insieme ai due figli - una bambina di 11 anni e un bimbo di 7 - è sotto protezione in Piemonte dalla fine di luglio. "Ho visto il corpo all'obitorio del cimitero di Alessandria - continua in lacrime - ha il naso rotto, un livido sotto l'occhio destro, tanti altri lividi sulla schiena, sulla pancia, in faccia. Ha perso sangue dagli occhi e dalle orecchie. È stato pestato".

Ciro Ruffo era legato alla camorra del boss Francesco Schiavone, Sandokan, da oltre dieci anni in carcere. Quei clan che a colpi di agguati, omicidi ed estorsioni avevano il controllo assoluto del territorio.

Finisce dentro lo scorso 16 luglio insieme ad altri sei presunti affiliati, ritenuti responsabili di estorsioni a imprenditori edili e commercianti della zona. Le accuse per loro sono di associazione a delinquere di stampo mafioso ed estorsione. Ciro Ruffo è un gregario. Su di lui non emergono reati di sangue. Una settimana dopo l'arresto, Ruffo decide di dissociarsi e diventare un collaboratore di giustizia. Mentre la moglie e i due figli vengono trasferiti in una località segreta del Nord, lui inizia a ricostruire con gli investigatori della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, gli organigrammi dell'organizzazione criminale e a chiarire episodi di minacce e richieste di tangenti.

Nei 180 giorni previsti dalla legge, Ruffo finisce di redigere il verbale illustrativo, il primo atto di un pentito. Ora avrebbe dovuto superare la prova del dibattimento in aula e confermare accuse e ricostruzioni. "Ho una moglie, due figli. Lo faccio per loro. Voglio dargli un futuro diverso" spiega al pm della dda Catello Maresca. Così lui, la moglie e i due figli entrano nel programma di protezione previsto dalla legge, mentre il resto delle due famiglie sembra non condividere la scelta e rimane a Carinaro.

Dopo cinque mesi di reclusione Ruffo riesce finalmente ad avvicinarsi alla famiglia. Un desiderio che ha da tempo. E anche per questo, oltre che per le ferite viste e denunciate dalla moglie, nulla della versione ufficiale convince i familiari. "Non aveva problemi di salute e non si sarebbe mai fatto del male" dice il fratello Ciro. "Sabato, al telefono, mi aveva spiegato bene cosa fare per le visite e i colloqui - ricorda la moglie - Finora, nel carcere di Ariano Irpino, potevamo vederci solo una volta ogni quindici giorni, o una volta al mese. "Fatti fare i colloqui permanenti di quattro ore alla settimana. Non ti dimenticare", mi diceva. "Stai attenta ai bambini e non ti dimenticare di me"".

Invece, dopo poche ore di permanenza nel carcere di Alessandra, dove sarebbe arrivato alle 17 di lunedì pomeriggio, Ruffo è stato trovato senza vita. Cadavere, secondo l'amministrazione penitenziaria, per suicidio. "Anche il carabiniere che mi ha accompagnato a vedere il corpo mi ha detto di non crederci" dice ancora la moglie. Sarà l'autopsia, in programma oggi, a chiarire il giallo e spiegare se Ciro Ruffo si è tolto la vita o è morto per altre cause, e a cosa siano dovuti il sangue e i lividi presenti sul corpo.

Iglesias (Ca): detenuto tossicodipendente, è a rischio di suicidio

 

Agi, 9 dicembre 2009

 

"Un detenuto del carcere di Iglesias, affetto da depressione maggiore, sta attraversando un momento di gravissima difficoltà con pericoli per la sua incolumità". Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", raccontando il caso di Fabrizio Loddo, 37 anni, cagliaritano, detenuto dal febbraio 2007 per associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti dapprima a Buoncammino e, dallo scorso maggio, a Iglesias. Dal 2008, proprio a causa della depressione del detenuto, il suo avvocato ha chiesto l’assegnazione agli arresti domiciliari in una Comunità terapeutica, ma l’istanza non è stata accolta.

Nel frattempo Loddo, che ha avuto problemi di tossicodipendenza ed è padre di due figli minorenni, rifiuta i colloqui con i familiari e con il suo legale. "Non effettua le telefonate settimanali", racconta Caligaris. "Le condizioni sono peggiorate in seguito al rigetto del richiesta dei domiciliari in una comunità terapeutica. I familiari sono molto preoccupati anche perché si tratta di una persona emotivamente labile, autolesionista, che ha manifestato purtroppo nel recente passato tendenze suicide con due tentativi, per fortuna, scongiurati. Loddo ha due figli minori che non vede da quasi un anno e il trasferimento a Iglesias, dove peraltro non c’è un centro clinico, ha determinato alla moglie maggiori difficoltà per i colloqui".

"Non si comprende perché - ha sottolineato Caligaris - sia stata negata a un detenuto, condannato a 8 anni e 2 mesi (di cui 3 già scontati), non definitivo, la possibilità di risolvere i problemi di tossicodipendenza, all’origine del reato contestatogli. Ciò nonostante abbia manifestato, insieme alla famiglia, la volontà di sottoporsi a un programma terapeutico in una struttura idonea, che è pronta ad accoglierlo. Una comunità in grado di salvaguardare le esigenze cautelari".

Rieti: Osapp; il nuovo carcere, appena aperto, cade già a pezzi

 

Apcom, 9 dicembre 2009

 

Il nuovo carcere di Rieti "per il quale sono stati spesi più di 80 milioni di euro, in grado di contenere dai 300 ai 500 detenuti e che doveva essere aperto entro ottobre, è già a pezzi con soli 70 detenuti". A denunciarlo è il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria) Leo Beneduci. "Malgrado impianti nuovissimi - aggiunge - la ditta costruttrice non sarebbe in grado da mesi di rendere funzionante il sistema di video-sorveglianza e all’interno il personale deve comunque chiudere a mano i cancelli automatizzati".

"Ma questa è una situazione - continua - che contraddistingue, da sempre, le nuove opere penitenziarie, visto che problemi consimili ci sono stati a suo tempo per gli istituti di Milano-Opera e di Milano-Bollate e, oggi, caratterizzerebbero quelli di nuova realizzazione. Gli aggiustamenti a lavori già conclusi costano almeno il doppio e se non bastassero gli sprechi degli anni precedenti, data l’assenza di risultati per la collettività, questa è la riprova ulteriore che nonostante i 66mila detenuti odierni per soli 41mila posti, in Italia non conviene costruire nuove carceri ma semmai occorre agire sulle misure alternative per i reati di minore allarme, per cui anche i 500 milioni della nuova legge finanziaria è opportuno che vadano alle assunzioni di Personale più che alle nuove infrastrutture".

Roma: i detenuti di Rebibbia fanno gli spazzini al Foro di Cesare

 

Ansa, 9 dicembre 2009

 

Sono 59 i detenuti del carcere di Rebibbia che ieri hanno ripulito il Foro di Cesare e il Parco della Caffarella a Roma. Frutto di un Protocollo di intesa, firmato il 5 agosto scorso, da Ama (l’azienda del decoro urbano), Comune di Roma e ministero della Giustizia, l’iniziativa ha coinvolto 48 uomini e 11 donne che, dopo una formazione di quattro ore, oggi sono stati messi al lavoro sotto la sorveglianza della polizia penitenziaria e con la supervisione di 14 operatori dell’ufficio decoro urbano.

L’iniziativa è gemella di quella che lo scorso 15 agosto ha coinvolto 19 detenuti nei giardini di via Valpadana e davanti alla stazione S. Maria del Soccorso della Linea B della metropolitana. Ama ha fornito quattro furgoni con cassone scarrabile, un minicompattatore per i rifiuti e due carri officina oltre che lo smaltimento finale di quanto raccolto; il costo dell’operazione, a carico del Comune di Roma, è stato di 8.800 euro.

Ieri mattina il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha fatto un sopralluogo ai Fori Imperlai insieme con il responsabile del Dipartimento penitenziario del Ministero della Giustizia, Sebastiano Ardita, il delegato comunale alla sicurezza, Giorgio Ciardi, l’amministratore delegato e il presidente di Ama, Franco Panzironi e Marco Daniele Clarke.

Per noi, iniziative del genere, sono molto importanti - ha spiegato il sindaco - perché si dà un segnale di pulizia e di lotta al degrado nella città e, dall’altro lato, si dimostra come sia possibile un reinserimento di detenuti o di persone che sono in semiliberta. Inoltre, questo lavoro, all’amministrazione costa meno di un normale lavoro esterno ma, il segnale più importante è che persone che hanno fatto 10-15 anni di carcere tornano a lavorare e ad essere utili per la società.

 

Alemanno: Alfano acceleri programma nuovi istituti

 

L’emergenza carceraria rimane. Credo che il ministro Alfano debba spingere molto rapidamente con il suo programma per costruire nuovi carceri e per poter così garantire condizioni di vivibilità a tutti i detenuti. Lo ha detto il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, a margine dell’iniziativa organizzata con l’Ama e con il ministro della Giustizia grazie alla quale 59 detenuti di Rebibbia sono diventati lavoratori del decoro urbano per un giorno.

Per il sindaco la vivibilità nelle carceri non si garantisce attraverso provvedimenti di clemenza come l’indulto o l’amnistia che non servono a nulla: per esempio il 70% di chi è uscito con l’indulto è nuovamente in carcere. I provvedimenti da colpi di spugna non servono a niente e sono anche negativi per i cittadini vittime di reati.

Al contrario bisogna creare un sistema carcerario efficiente che garantisca la certezza della pena. Poi, bisogna moltiplicare gli accordi con i Paesi esteri perché gli immigrati che commettono reati in Italia scontino le pene nel loro Paese.

 

A vaglio Campidoglio iniziative per lavoro detenuti

 

Per adesso sono solo proposte, momenti di confronto tra il Campidoglio, l’Ama (l’azienda di decoro urbano comunale) e il Dipartimento del’amministrazione penitenziario del Ministero della giustizia, ma potrebbero diventare iniziative concrete finalizzate al reinserimento lavorativo dei detenuti delle carceri romane. In occasione della seconda giornata di pulizia straordinaria di alcune aree della città, grazie al lavoro di chi sta in carcere, il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha potuto confrontarsi con il responsabile del dipartimento penitenziario del Ministero della giustizia, Sebastiano Ardita alla presenza dei vertici Ama.

Durante il confronto quello che è emerso è la volontà "di sviluppare - ha spiegato il sindaco - in modo sistematico iniziative di questo genere". In pratica si tratta di individuare, con un bando interno alle carceri, quanti siano i detenuti idonei al lavoro esterno che è previsto dalla legge: secondo Ardita "non solo molti, forse una trentina".

I detenuti che avranno i requisiti, divisi in squadre, potrebbero essere utilizzati per il decoro urbano per incrementare, secondo quanto detto dall’amministratore delegato di Ama, Franco Panzironi, "il numero degli addetti che oggi è di venti". Ma non solo. Il sindaco ha proposto anche "che siano utilizzati per lavori d’ufficio come ad esempio per smaltire le pratiche in giacenza all’anagrafe. In questo modo - ha concluso Alemanno - si raggiunge un doppio risultato sociale ed economico".

Como: in diminuzione i detenuti addetti a lavori pubblica utilità

di Paola Pioppi

 

Il Giorno, 9 dicembre 2009

 

Un’opportunità in calo: statistiche alla mano, il lavoro di pubblica utilità, alternativa al carcere per una ristretta rosa di situazioni e soggetti, non solo non è mai decollato, ma appare in evidente declino. I numeri parlano infatti di 5 casi nel 2004, quando sono partiti i primi progetti, saliti a 20 nel 2005, a 24 nel 2006. La battuta di arresto si è avuta l’anno successivo, nel 2007, quando i casi sono franati a 7, per poi diventare 5 nel 2008.

I progetti di lavoro di pubblica utilità, comportano la sospensione della condanna in caso di reati di competenza del giudice di pace, oppure di droga o di guida in stato di ebbrezza, subordinata a un periodo di affido a un’associazione o un ente pubblico convenzionati con il Tribunale attraverso l’iscrizione a una lista. Un’opportunità diventata strategica dopo la riforma del 2004, che impone un periodo di lavoro socialmente utile per poter usufruire della seconda sospensione condizionale: un caso esemplare è quello dell’ex assessore provinciale Francesco Cattaneo, che ha patteggiato la condanna per i rimborsi spese subordinata ad un periodo di lavoro alla Croce Rossa di Lomazzo.

La provincia di Como e il Comune capoluogo, che dovrebbero essere i primi promotori di queste iniziative, non figurano nell’elenco. Gli unici due enti pubblici al momento sono i Comuni di San Siro e Tremezzo, assieme a 12 associazioni di volontariato tra Como e provincia, coordinate dal Centro Servizi per il Volontariato, che recentemente ha presentato al Tribunale di Como un progetto - sottoscritto dal Presidente del Tribunale, Nicola Laudisio - per migliorare l’inserimento lavorativo e sociale "di soggetti in esecuzione penale interna ed esterna, ed ex detenuti". Il 9 novembre il Panathlon di Como ha organizzato un convegno dal titolo "Il lavoro di pubblica utilità all’interno dell’associazionismo sportivo dilettantistico: esperienze e prospettive applicate", risultato di due anni di studio su questo tema, nel quale è anche stata presentata la tesi di laurea realizzata da Giada Pavia, studentessa dell’Università dell’Insubria.

Il convegno dimostra la volontà, da parte del Panathlon di Como, di portare avanti una proposta di legge che possa facilitare l’utilizzo di questo strumento di reinserimento sociale, ma anche favorire l’adesione degli enti che possano farsi carico dei percorsi di pena alternativa, compresi quelli sportivi che ora sono esclusi dai percorsi, in quanto non rivolti al sociale: come nel caso dell’Albate Calcio, società dilettantistica di cui il presidente del Tribunale ha rigettato la richiesta di inserimento nell’albo degli enti convenzionati.

"I numeri così bassi sono indice di una mancanza di cultura da parte degli operatori del diritto - commenta Claudio Bocchietti, avvocato del foro comasco e presidente della commissione cultura di Panathlon Como - Spesso non si conosce lo strumento, oppure non viene applicato perché è complesso: occorre innanzi tutto che il reo ne faccia richiesta. Inoltre deve essere individuata una struttura adatta al soggetto, seguire il condannato e verificare se si applica a quanto concordato, perché in caso contrario entra in vigore la pena principale. Per questo Panathlon vuole impegnarsi per allargare la platea di soggetti. Il lavoro di pubblica utilità potrebbe diventare un istituto che riempie un vuoto".

Roma: teatro-carcere con progetto europeo "Movable Barres"

 

Ansa, 9 dicembre 2009

 

Da oggi a sabato, il Cetec (Centro Europeo Teatro e Carcere) insieme all’Università City College di Manchester, ospita a Roma il terzo incontro transnazionale del progetto biennale europeo "Movable Barres".

Artisti, esperti di teatro sociale e musicisti vedranno i sette Paesi in rete (Italia, Grecia, Inghilterra, Bulgaria, Irlanda del Nord, Norvegia, Danimarca) in un seminario al chiuso, al’Hotel Lancelot, proporre attività artistiche ed esperienze di buona pratica per tutti coloro che svolgono attività formativa, artistica e rieducativa all’interno della carceri. Inoltre domani, dalle 18, al Caffè Letterario di via Ostiense, prevista una no-stop di musica, video, presentazioni di esperienze artistiche nelle carceri europee.

Saranno presentate le più interessanti esperienze italiane con artisti e addetti ai lavori tra cui Laura Mazza, coreografa del film Tutta Colpa di Giuda, che presenterà un inedito back stage e l’associazione Liberi Onlus con "Liberi per sempre", film documentario - con la regia di Flavio Parente - girato negli istituti per minori italiani insieme al cantautore Alberto Mennini con la collaborazione del Dipartimento della Gioventù, del Ministero della Giustizia - Dipartimento per la Giustizia Minorile Direzione Generale per l’Attuazione dei Provvedimenti Giudiziari.

Verranno inoltre proiettati i video dei Presi per Caso, formazione musicale di alto livello composta da ex detenuti, e l’inedito videoclip del cantautore Alberto Mennini realizzato nel suo viaggio in molti istituti penali per minorenni in Italia. Si esibiranno infine alcuni musicisti e cantanti europei coinvolti nel progetto fra cui Gilberta Crispino, Niels Bak, Torbjorn Kristoffer Rodal, Luke Bowyer, Sally Elsbury.

Roma: Radicali; domani delegazione consegna libri ai detenuti

 

Dire, 9 dicembre 2009

 

"Domani, alle 10.30, una delegazione di Radicali si recherà al carcere di Rebibbia per donare circa duecento libri ai detenuti. La cultura è fondamentale per coloro che, nel pieno rispetto della Costituzione, dovrebbero scontare una pena riabilitativa e non punitiva". È quanto afferma, in una nota, Massimiliano Iervolino, membro della giunta di Radicali. "Nell’anno della "rivolta gandhiana, sociale, politica e morale", continuando ad ispirarci a Camus, accompagneremo la nostra azione con una citazione del premio nobel franco algerino ("Quando saremo tutti colpevoli, sarà la democrazia") - continua Iervolino - perché la disastrosa bancarotta della giustizia italiana è una delle più gravi questioni sociali del nostro tempo, voluta ed imposta dalla partitocrazia. L’amnistia strisciante, non democratica, clandestina, di massa e di classe, praticata attraverso la sistematica prescrizione dei reati, sembra essere ormai lo strumento privilegiato di gestione del sistema giudiziario".

La delegazione sarà formata da Massimiliano Iervolino, Alessandro Massari, membro della direzione di Radicali Italiani Mauro Zanella, membro del comitato nazionale di Radicali Italiani, Emanuela Capodicasa, militante dell’associazione Radicali Roma.

Tolmezzo: solidarietà in musica, con l'Associazione Vita Nuova

 

Comunicato stampa, 9 dicembre 2009

 

Nel pomeriggio del 5 dicembre 2009 si è tenuto all’interno della Casa Circondariale di Tolmezzo un incontro a carattere ricreativo in favore dei detenuti di quel carcere organizzato dalla Associazione di volontariato penitenziario Vita Nuova di Tolmezzo. Trattasi di un momento di condivisione e solidarietà al quale hanno preso parte due cantanti locali provenienti da Udine, Enzo Azzarone e Domenico Piccirillo che si sono esibiti con alcuni brani e canzoni di Vasco Rossi, Frank Sinatra, Fabrizio De Andrè, Barry White, Louis Armstrong e Gigi D’Alessio.

Allo spettacolo di solidarietà è intervenuto con la sua consueta verve anche il comico carnico Romeo Patatti di Imponzo. Presenti un ottantina di detenuti che hanno potuto in questo modo trascorrere un momento di spensieratezza e di "evasione" in un contesto ambientale certamente non facile e che può contribuire a stemperare, come ha dichiarato Bruno Temil responsabile della Associazione Vita Nuova,

la tensione e le difficoltà che inevitabilmente si creano all’interno del carcere. Ha preso parte a questa significativa esperienza anche la Vice Sindaco e Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Tolmezzo, dott.ssa Cristiana Gallizia rimasta favorevolmente colpita dall’iniziativa di cui sopra. Un particolare ringraziamento alla Direzione del Carcere e agli Agenti di Polizia Penitenziaria e al suo Comandante per la disponibilità dimostrata.

 

Bruno Temil

Ass.ne di volontariato Vita Nuova

Immigrazione: questa la galera di Ponte Galeria, Cie di Roma

di Furio Colombo

 

Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2009

 

L’iniziativa è dei Radicali, visitare tutti i centri detti di "identificazione e di espulsione" che sono i lager degli immigrati. Quando vi partecipi, come è capitato a me l’8 dicembre, insieme con Staderini, nuovo segretario dei Radicali italiani e al deputato Pd Ferrante, ti domandi di cos’altro dovrebbe occuparsi la politica. Questo è un primo, breve resoconto.

Per prima cosa il freddo. Entri in una delle camerate del reparto donne, a Ponte Galeria, il centro di detenzione degli immigrati di Roma, e senti il freddo umido di un luogo che non è stato mai riscaldato. Voglio dire più freddo dentro che fuori. Le donne infatti, ucraine, russe, georgiane, nigeriane, rom qui sono a letto vestite, tentando di scaldarsi con le coperte che, se le tiri su, scoprono i piedi.

Da prima non parlano, fingono di dormire. Poi rompe il ghiaccio (si può dire così) una donna ucraina, forse una badante, ed è un fiume di storie, di racconti, di mamme giovani sorprese per strada a Napoli e portate chissà perché a Roma per la "identificazione" mentre cinque bambini sotto i 10 anni aspettano a casa. Russe e ucraine si traducono a vicenda. Ma prima di raccontare ti spiegano che nei bagni c’è solo acqua fredda e che, nel luogo assurdo in cui sono state portate, non c’è niente da fare, mai.

Solo aspettare, senza sapere cosa o chi o fino a quando. Ponte Galeria è come uno zoo quando era permesso essere crudeli con gli animali: tante gabbie di media grandezza con le sbarre altissime. Sul fondo delle gabbie si aprono le stanze gelide, alcune senza luce elettrica. Il personale è di due tipi, entrambi professionali e corretti: la polizia e la Croce Rossa. Alla polizia tocca soprattutto il compito impossibile delle identificazioni. E’ come mettere ordine nel mondo, dal Senegal alla Moldavia, dal Marocco all’Ucraina alla Cina.

La Croce Rossa, senza mezzi, come in un abbandonato fronte di guerra, si affida al volontariato di due medici e un infermiere che, come in guerra, fanno il possibile per trovare da soli le medicine. La Regione Lazio, infatti, ha tagliato ogni convenzione sanitaria. Gli uomini reclusi sono tutti giovani.

E appena li ascolti, ansiosi e concitati ti rendi conto del fatto più grave, che poi la direzione conferma: l’80 per cento dei detenuti in queste gabbie non ha commesso alcun reato. Sono qui, comprese le giovani donne rom, perché dichiarati "clandestini". Verso le 5 la voce del muezzin chiama gli uomini del lager alla preghiera in una stanza fredda e vuota in fondo alla gabbia detta "la moschea". Naturalmente non c’è il minareto.

E così nelle gabbie gelide in cui un muratore marocchino che ha lavorato per 10 anni a Modena mi racconta che non rivedrà mai più i suoi bambini emiliani, la civiltà è salva. Ma un uomo molto giovane che mi dice di essere laureato si china per sussurrare "Ma non si accorgono che qui preparano il terrorismo"?.

Usa: a Guantanamo, nel 2006, tre suicidi sospetti in un giorno

 

Agi, 9 dicembre 2009

 

Nuovo scandalo intorno al carcere di Guantanamo. Tre detenuti potrebbero essere stati uccisi simulando un loro suicidio. Nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 2006, racconta "The Huffington Post", tre prigionieri della base americana a Cuba morirono in circostanze poco chiare. Le conclusioni di uno studio degli allievi della facoltà di diritto della Seton Hall University, in New Jersey, avrebbero portato alla luce le contraddizioni della versione ufficiale e il sospetto che le indagini abbiano nascosto la verità. Dopo la morte dei tre prigionieri le autorità militari cacciarono i giornalisti e proibirono ai detenuti di vedere gli avvocati. Secondo Mark Denbeaux, il professore che ha diretto lo studio, ci sono solo due alternative: indagini incomplete o il tentativo di nascondere quanto è veramente accaduto quella notte. "I corpi dei tre detenuti - ha spiegato - furono trovati con le mani e i piedi legati, mentre secondo la versione ufficiale i presunti terroristi si erano impiccati appendendosi alla finestra della cella con delle lenzuola legale al collo".

Irlanda Nord: l’Ue lancia allarme per maltrattamenti a detenuti

 

Ansa, 9 dicembre 2009

 

Detenuti maltrattati, perquisizioni corporali e gravi episodi di violenza: è quanto ha riscontrato nel carcere di Maghaberry, nel Nord Irlanda, il Comitato per la prevenzione per la tortura (Cpt), organismo del Consiglio d’Europa incaricato di monitorare come i 47 Stati membri garantiscono il rispetto dei diritti umani a quanti sono privati della libertà, che oggi ha pubblicato il suo sesto rapporto sulla Gran Bretagna.

Se la situazione della prigione nord irlandese è quella che preoccupa maggiormente il Cpt nello stesso rapporto il Comitato denuncia anche le gravi conseguenze che sta avendo il sovraffollamento delle carceri, sommato con la politica dei tagli delle spese, sulla qualità di vita dei detenuti. Le autorità britanniche secondo il Cpt devono studiare alternative al carcere e lo stesso Comitato non ritiene che la soluzione possa essere la costruzione di "prigioni titaniche" come previsto dal governo di Sua Maestà.

 

 

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