Rassegna stampa 10 dicembre

 

Giustizia: niente carcere per pene sotto 3 anni, prime aperture

di Alessio Antonini

 

Corriere della Sera, 10 dicembre 2009

 

Il sottosegretario Casellati e la proposta dei vescovi: "Parliamone, ma non generalizziamo".

"Le soluzioni per i problemi del sistema carcerario e per l’attuale situazione di sovraffollamento devono essere organiche. Non ha senso procedere per segmenti separati, anche se la proposta dei vescovi e della Caritas del Nord Est è da prendere in considerazione". Il sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Casellati giudica positivamente la proposta avanzata da Cet e Caritas di sostituire la pena detentiva, per le condanne inferiori ai tre anni, con altri percorsi obbligati di carattere riabilitativo e inclusivo.

"Ma non si può pensare di escludere la detenzione per tutti i reati la cui pena sia inferiore ai tre anni - continua il sottosegretario - Vanno riviste quelle per i crimini di minore allarme sociale". La situazione delle carceri venete, per il 60-70 per cento affollate da reclusi stranieri, spinge anche la Lega Nord a un’apertura verso possibili pene alternative. "Il sistema va rivisto - dice il parlamentare del Carroccio Massimo Bitonci - Una prima soluzione però deve essere l’applicazione di accordi bilaterali per far scontare la pena agli extracomunitari nei loro paesi d’origine. Poi pensiamo al resto".

Il ministro degli Interni Roberto Maroni avrebbe già iniziato a discutere di accordi bilaterali in sede europea. Per il momento, però, le proposte di pene alternative rimangono solo sulla carta. Il governo finora ha stanziato in Finanziaria una prima cifra da destinare all’edilizia carceraria per ampliare le strutture esistenti e crearne di nuove.

"La proposta di Cet e Caritas si può discutere a patto che riguardi i crimini più leggeri - aggiunge il deputato del Pd Andrea Martella - ma non credo che questo governo lo farà. Il centrodestra ha ampiamente dimostrato di contraddirsi su questo tema: enfatizza i reati e non è in grado di applicare le pene".

Una proposta di riforma del Codice Penale per trasformare le detenzioni leggere in pene alternative comunque è allo studio da mesi, "e sarebbe già un disegno di legge, se non fosse che questo governo è impegnato in lodi e leggi che servono solo ad ammazzare le sentenze", dice caustico il senatore del Pd Felice Casson, che ha firmato la prima bozza di riforma del Codice. "È ora di rivedere l’intero sistema delle pene - dice - vanno depenalizzati i reati che non costituiscono allarme sociale e per altri bisogna studiare percorsi alternativi. Io partirei dai detenuti che hanno già fatto gran parte del percorso riabilitativo: a Venezia per esempio potrebbero essere impiegati per la pulizia dei canali, che è un lavoro duro ma socialmente utile e permetterebbe loro di iniziare un percorso di reinserimento nel mondo del lavoro".

Giustizia: giornata per i diritti umani, ricordiamoci delle carceri

di Stefano Anastasia

 

Terra, 10 dicembre 2009

 

Il più preciso ci ha mandato la piantina: dettagliata, proporzionata, inappuntabile. Potrebbero prenderlo alla Direzione generale Beni e servizi, là dove con metro, calce e cazzuola si stanno preparando al varo del fantomatico "Piano carceri".

Da agosto a oggi, 932 detenuti ci hanno scritto per avere sostegno nella procedura di ricorso alla Corte europea dei diritti umani contro le condizioni di vita cui sono costretti nelle carceri italiane. Qualche settimana fa si sono aggiunti anche i Radicali e certamente molti stanno facendo ricorso assistiti dai propri legali di fiducia o - come è possibile nella fase preliminare del procedimento - rappresentandosi da soli. Migliaia di richieste di indennizzo contro lo Stato italiano per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, quello che vieta le torture e le pene inumane o degradanti.

Tocca ricordarle, queste cose, nella Giornata internazionale sui diritti umani, che si celebra oggi, in tutto il mondo, nell’anniversario della proclamazione della Dichiarazione universale delle Nazioni unite. Tocca ricordarle, altrimenti si continua a dare dei diritti umani e della loro reale o potenziale violazione un’immagine esotica, come quella di quell’autorevole (e progressista!) dirigente ministeriale che solo un anno prima del G8 di Genova commentava un convegno sulla tortura con aria contrita, ma sollevato dal fatto che - per quanto rilevante fosse il tema - riguardava quei Paesi incivili dove la tortura era prevista da leggi e codici, non certo il nostro dove non era ammessa.

Tocca ricordarle queste cose, altrimenti la tragica morte di Stefano Cucchi verrà rubricata come un accidente, tanto più inspiegabile quanto più le amministrazioni coinvolte continueranno ad autoassolversi preventivamente, invece di collaborare attivamente alla individuazione delle responsabilità e alla salvaguardia del prestigio delle istituzioni e della dignità professionale delle migliaia di operatori che si comportano altrimenti da coloro che hanno pestato Stefano o non gli hanno prestato le cure dovute.

Tocca ricordare che, mentre il governo si alambicca su come conciliare il populismo penale della Lega con la limitata capienza delle carceri italiane, la maggior parte dei circa 66mila detenuti sono costretti in condizioni peggiori di quelle già giudicate inumane o degradanti dalla Corte europea dei diritti umani con una sentenza del luglio scorso. Non mancherà la retorica sui giornali e nelle iniziative celebrative di oggi. Chi voglia liberarsene, potrà utilmente ricordare le immagini e la terribile storia di Stefano Cucchi e di quei 66mila uomini e donne stipati in carcere in condizioni di detenzione inumane o degradanti.

Giustizia: il Piano Carceri, il 41-bis e "l’idealismo pragmatico"

di Dimitri Buffa

 

Il Clandestino, 10 dicembre 2009

 

I Radicali saranno anche degli "idealisti", ma si tratta di un idealismo pragmatico. Per questo, ad esempio, Elisabetta Zamparutti ha fatto un’interrogazione parlamentare contro il 41 bis e contro il modo in cui viene applicato per il grande capo della mafia italiana, Bernardo Provenzano, che, molto malato, viene trascurato e la famiglia viene tenuta lontano da lui. Questo strumento carcerario si sta trasformando in una vera e propria fabbrica di pentiti, vedi caso Spatuzza, e, forse fra poco, anche quello dei fratelli Graviano.

Con il paradosso che poi per uscire dal carcere la cosa più facile da fare è pronunciare il nome magico di Silvio Berlusconi. I Radicali come Maurizio Turco dicono che se la lotta alla mafia è quella che si fa con la tortura dei 41 bis, a babbo morto, anzi a boss caduto o venduto dai complici nelle mani delle forze dell’ordine, serve ben a poco. Se non a farci condannare da Onu ed Europa. Le scorciatoie nella lotta alla criminalità organizzata producono vittime eccellenti fin dai tempi di Enzo Tortora. In quindici carceri italiane, c’è un’umanità dolente (che ricorda lo "spoon river" canoro" di De Andrè) che appoggia i pannelliani con lo sciopero della fame e con la battitura serale delle sbarre.

Ma i politici di maggioranza e opposizione dicono che "il carcere non è un Grand Hotel" riscuotendo applausi nei salotti televisivi. La lotta non violenta dei detenuti insieme ai leader radicali è invece silenziata da un regime che preferisce dibattere dei nulla, come il "piano carceri". Cioè una trovata burocratico-ministeriale che prevede di costruire entro tre anni (ma è già grasso che cola se in quel periodo saranno partiti i primi progetti e trovati i soldi relativi) nuove patrie galere per un totale di 20 mila posti, quando ne servirebbero 30 mila già oggi. Anzi ieri. Intanto siamo a quota 66 mila, contro una capienza da 43 mila, e ogni mese ci sono mille ingressi.

Naturalmente non si discute di leggi criminogene come la Bossi - Fini sull’immigrazione clandestina equiparata a reato, o la Fini- Giovanardi su droghe e non droghe, quali hashish e marijuana, cioè la "golden share" delle detenzioni con punte del 40% dell’intera popolazione carceraria. Come non si discute di un’amnistia in vista delle riforme sulla giustizia e previa riparazione del danno commesso, promossa da Marco Pannella per rimediare a quella "di fatto e di classe" rappresentata dai 500 processi al giorno che vanno in prescrizione senza che la vittima del reato ottenga alcunché.

Giustizia: Osapp; il Piano Carceri nascerà già vecchio e inutile

 

Ansa, 10 dicembre 2009

 

"Il ministro Alfano ha annunciato per l’ennesima volta ciò che va dicendo con scadenza periodica mensile da oltre un anno, e cioè che il piano carceri è imminente. Se finalmente vedrà la luce a Natale, sarà un piano già vecchio e inutile".

Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp), critica l’annuncio del ministro Alfano su nuovi fondi in finanziaria (500 milioni di euro) da destinare a nuovi padiglioni penitenziari e su altri "non meglio precisati stanziamenti" per l’assunzione di 2mila nuovi agenti.

"Considerato che ogni anno sono circa 900-1000 i poliziotti penitenziari che se ne vanno, le 2.000 unità in più sbandierate da Alfano serviranno a coprire i vuoti del 2009 e del 2010. Il nostro organico - spiega Beneduci - è fermo da anni, già ora siamo sotto di 5mila unità e nel frattempo la popolazione detenuta aumenta". In secondo luogo - prosegue il sindacalista dell’Osapp - "con i 500 milioni di euro previsti in finanziaria si potranno costruire appena 47 padiglioni nelle vecchie carceri, per un totale di 9.684 posti. Ben pochi, se si considera che attualmente i detenuti sono arrivati a oltre 66mila contro i circa 43mila posti regolamentari".

"Se poi le nuove strutture funzioneranno come quella di Rieti, allora siamo veramente freschi. Nell’avveniristica struttura reatina - conclude Beneduci - il sistema di videosorveglianza non funziona, per questo motivo i detenuti sono appena 70, e non i circa 300 previsti, mentre i poliziotti penitenziari sono 110. Non è paradossale che in un carcere nuovo di zecca ci siano più agenti che detenuti?".

Giustizia: giallo detenuto suicida; la moglie: pestato in carcere

di Cristina Marrone

 

Corriere della Sera, 10 dicembre 2009

 

La moglie del pentito di camorra Ciro Ruffo accusa: "Mio marito non è morto suicida in carcere, è stato picchiato". La procura di Alessandria apre un’inchiesta, il magistrato Riccardo Ghio interroga gli agenti di polizia penitenziaria che hanno seguito il detenuto nel trasferimento dal carcere di Ariano Irpino a quello di Alessandria. Nulla per ora porterebbe a pensare a un pestaggio, fanno trapelare gli investigatori. Sarà comunque l’autopsia disposta per oggi a chiarire se i lividi trovati sul corpo di Ruffo siano compatibili con un suicidio per impiccagione o un pestaggio.

Tutto comincia lunedì quando Ciro Ruffo, alle 15.20 mette piede nel penitenziario "San Michele". Viene sistemato in una cella singola. Due ore dopo chiede l’autorizzazione per fare una telefonata e domanda a un agente di procurargli un accendino. Quando la guardia torna, una ventina di minuti dopo, intorno alle 18.40, lo trova impiccato con un lenzuolo alle sbarre della cella. Non aveva neppure disfatto il borsone con le sue cose e aveva rifiutato la cena.

Tocca alla direttrice del carcere Rosalia Marino dare la notizia alla moglie di Ruffo, sotto protezione in località segreta nel Nord Italia con i due figli piccoli. Lei va in obitorio e quasi non lo riconosce: "Ha il naso rotto, lividi sulla pancia, sulla schiena, sulla pancia. Ha perso sangue dagli occhi e dalle orecchie, non aveva nessun motivo per togliersi la vita perché mio marito era felice di trasferirsi finalmente vicino alla famiglia".

Oltre alla procura di Alessandria anche il provveditore per le carceri del Piemonte Aldo Fabozzi ha ordinato un’inchiesta interna: "Dalla dinamica che abbiamo ricostruito mi sento di escludere il pestaggio. Capisco il dramma familiare, ma arrivare a certe accuse è esagerato, non sono tutti casi Cucchi". Il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria è critico: "Basta attacchi alla nostra onorabilità o non esiteremo a querelare chi ci offende".

L’Osservatorio permanente sulle morti in carcere ricorda, in una nota, che il suicidio di Ruffo è il numero 67 dall’inizio dell’anno, il terzo nel carcere di Alessandria. "La morte di Ruffo - spiega l’Osservatorio - presenta analogie con quella avvenuta lo scorso 17 novembre nel carcere di Palmi, dove Giovanni Lorusso, 41 anni fu ritrovato cadavere con un sacchetto di plastica infilato in testa e riempito di gas: entrambi i detenuti arrivavano dal carcere di Ariano Irpino e e a detta dei familiari non avevano alcun motivo per suicidarsi". Sull’argomento Rita Bernardini, deputata dei Radicali-Pd ha presentato ieri una interrogazione al ministro della giustizia.

Alla Dda di Napoli i magistrati hanno accolto con stupore la notizia della morte di Ruffo, considerato un elemento di secondo piano del clan di Tella, legato a Francesco Schiavone, detto Sandokan. L’ultima volta era stato arrestato il 16 luglio scorso per estorsioni a imprenditori edili e commercianti nella zona di Carinaro (Caserta). Aveva appena finito il "verbale di rivelazioni", giudicate di basso livello da parte degli inquirenti. A breve avrebbe ottenuto gli arresti domiciliari, ma da qualche tempo - trapela dalla Dda di Napoli - era caduto in depressione. Una radiografia aveva rivelato una strana macchia, avrebbe dovuto fare altri accertamenti, ma lui era convinto di avere un tumore.

 

Ruffo trovato morto 3 ore dopo l’arrivo ad Alessandria

 

Sarebbe stato trovato impiccato in cella appena tre ore dopo il suo arrivo nel carcere di Alessandria Ciro Ruffo, il detenuto 35enne la cui moglie ha avanzato dubbi sulle circostanze della morte. Ruffo - secondo quanto si apprende in ambienti penitenziari - era stato trasferito sabato scorso dal carcere di Ariano Irpino, dove aveva cominciato a collaborare con la giustizia, in quello di Alessandria. Il suo arrivo è stato registrato alle ore 15.20 del 5 dicembre. Nel penitenziario San Michele era stato provvisoriamente destinato in una cella singola al piano terreno, nella sezione differenziata per i collaboratori di giustizia, in attesa che dalla Dda di Napoli arrivasse l’assenso a trasferirlo con i detenuti comuni, così come sembra sia stato richiesto dalla direzione del carcere di Alessandria.

Nei confronti di Ruffo non era stata disposta alcuna specifica misura di sicurezza, come ad esempio la sorveglianza a vista. Dopo un paio di ore trascorse in cella, Ruffo avrebbe chiesto di parlare con la sorveglianza generale per essere autorizzato a fare una telefonata. Nel frattempo aveva domandato all’unico agente penitenziario presente in sezione di procurargli un accendino perché voleva fumare.

L’agente - si è inoltre appreso - si sarebbe allontanato qualche minuto e, una volta tornato, avrebbe trovato Ruffo impiccato con le lenzuola alle sbarre della cella. Erano circa le 18.40. Il detenuto - e questo è una circostanza ritenuta per certi versi anomala in ambienti penitenziari - aveva il volto rivolto verso la grata alla quale si è impiccato e non, come generalmente accade, verso l’esterno.

Giustizia: morte Cucchi; testimone ha paura "hanno le pistole"

 

Apcom, 10 dicembre 2009

 

"Ha paura. Lui ha paura. È un teste che è stato intimidito. L’ha detto chiaramente in aula: ho paura per quando esco perché loro (gli agenti di polizia penitenziaria) hanno le pistole". Così ha affermato l’avvocato Fabio Anselmo, difensore della famiglia di Stefano Cucchi, lasciando la cittadella giudiziaria del tribunale di Roma. Oggi è stato ascoltato, in incidente probatorio, un altro testimone del pestaggio di cui sarebbe stato vittima Cucchi. "È un ragazzo albanese di 24 anni - ha detto il penalista - Le contraddizioni, rispetto a quanto dichiarato dall’altro detenuto, che era con Stefano la mattina del 16 ottobre, sono frutto secondo noi della paura".

Secondo quanto spiegato dall’avvocato Anselmo e dal suo collega Dario Piccioni, il giovane, che ha deposto davanti al gip Luigi Fiasconaro, dopo essere stato sentito dagli inquirenti della Procura di Roma, l’11 novembre scorso, venne avvicinato da alcuni agenti della penitenziaria, nel carcere di Velletri, dove era detenuto. "Ha spiegato, in aula, che venne convocato da un appuntato e poi da un comandante che gli chiesero informazioni rispetto alla vicenda. E questa cosa sarebbe avvenuta il giorno dopo che erano andato dai pm. Lui, comunque, nell’occasione, ha detto che avrebbe risposto solo in presenza di un avvocato".

La sorella di Stefano, Ilaria, ha aggiunto, rispetto al valore della testimonianza: "Tutto è utile per capire cosa è successo, sia in tribunale che altrove". In particolare l’immigrato ha spiegato di non aver visto Cucchi, ma una volta arrivato nei sotterranei di piazzale Clodio, nel corridoio delle celle, ha sentito una persona "piangere e lamentarsi, e che chiedeva di essere portato in ospedale". I difensori hanno cercato di capire "a quale ora collocare questo ricordo". L’albanese ha spiegato di non avere l’orologio ed ha fissato una forbice d’orario tra le 8.30 e le 12. "Troppo vago e in contrasto con quanto riferito dall’altro teste sentito in incidente probatorio", ha sottolineato uno dei difensori degli indagati.

Il gip Fiasconaro ha poi rigettato la richiesta di ascoltare anche il tunisino Tarek, del ‘65, che aveva firmato una lettera in cui in qualche modo indicava i carabinieri quali autori del pestaggio di Cucchi. L’uomo avrebbe spiegato ai pm non solo di non aver scritto la missiva, ma anche di averla dettata sotto pressione. I magistrati sono in attesa dei risultati definitivi dell’autopsia di Cucchi. Per la morte del giovane pusher sono sotto accusa tre agenti della penitenziaria, per il reato di omicidio preterintenzionale, e tre medici dell’ospedale Sandro Pertini, per omicidio colposo.

 

Antigone: tempi rapidi inchiesta per proteggere testimone

 

"Apprendiamo che un detenuto, testimone delle violenze subite da Stefano Cucchi, teme per la sua incolumità. La questione della protezione dei testimoni di pestaggi in carcere non è, purtroppo, nuova. Questo detenuto va protetto. E il modo migliore per farlo deve essere una inchiesta rapidissima, perché non si può proteggerlo per dieci anni?". Lo afferma ai microfoni di CNRmedia Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone. "Nelle carceri - continua Gonnella - i testimoni subiscono pressioni continue e nel caso di questo ragazzo albanese si tratta di un testimone-chiave. O si rompe il muro di omertà tra gli operatori del carcere, oppure bisogna affidarsi ai pochissimi testimoni coraggiosi. Questo detenuto va protetto. E il modo migliore per farlo deve essere una inchiesta rapidissima, perché non si può proteggerlo per dieci anni. E bisogna fare in fretta anche per questa nuova morte sospetta ad Alessandria, perché si trattava di un collaboratore di giustizia", conclude Gonnella.

Giustizia: caso di Aldo Bianzino, una morte da non insabbiare

di Patti Cirino

 

Il Manifesto, 10 dicembre 2009

 

"Ti sbattono in galera che sei una anima bella/diventi un corpo inanimato in cella/Ricordo Aldo Bianzino era un falegname/Nel suo casolare a chi faceva del male?" (Assalti Frontali, "Mappe della Libertà").

Nomi. Alberto Mercuriali, Nicola Tommasoni, Abdul Gibre, Riccardo Raisman. Nomi ostaggio di reticenze, impunità, ipocrisie. Nomi. Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Marcello Lonzi, Aldo Bianzino. Nomi che bussano alle porte della coscienza e della memoria collettiva. Nomi scritti su fredde richieste d’archiviazione. Nomi rinchiusi tra le carte degli scaffali degli uffici giudiziari. Nomi che non vogliamo dimenticare.

Nomi e storie di violenza proibizionista, indagini inquinate e istruttorie lacunose, verità insabbiate e circostanze anomale da approfondire, diritti negati e informazione tagliata. Storie imbastite di retorica securitaria, di proclami di guerra ai consumatori, di tolleranza zero. Storie di stato in attesa di veder chiariti, in ogni punto, i motivi, le dinamiche, le cause e le responsabilità di queste morti misteriose. Storie in attesa di verità e giustizia. Storie come quella di Aldo Bianzino, falegname residente a Pietralunga, arrestato per coltivazione e detenzione di marijuana e trovato morto, alle 8 di mattina del 14 ottobre 2007, nella cella numero 20 sezione 2B, presso la casa circondariale di Capanne, alla periferia di Perugia, dove era detenuto da meno di 48 ore.

Morto. Di carcere. Di aneurisma cerebrale. Di silenzio e impunità. Di allarme sociale. Di violenza. Di indagini lacunose. Di oltraggio fisico e morale. Nudo. Il 25 novembre scorso, all’udienza preliminare ordinaria il gip Marina De Robertis ha rinviato a giudizio per reiterata omissione di soccorso, omissione di atti di ufficio e falsificazione di registri l’agente di polizia penitenziaria addetto alla sorveglianza di Aldo.

Ha inoltre ritenuto ammissibile che l’associazione "Verità e giustizia per Aldo Bianzino" si costituisca parte civile al processo, nonostante il parere contrario ("carenza di legittimazione attiva") del pubblico ministero Giuseppe Petrazzini. Lo stesso magistrato inquirente che emise l’ordinanza di perquisizione della casa di Bianzino e ordinò e convalidò l’arresto di Aldo e della sua compagna Roberta; che decise l’autopsia, affidando le indagini al corpo di polizia penitenziaria, lo stesso corpo indagato per omissione di soccorso; lo stesso magistrato che ha richiesto l’archiviazione del fascicolo aperto per omicidio volontario contro ignoti.

Ma perché non si è prestato soccorso ad Aldo, perché si sono falsificati i registri del carcere per nascondere quanto è accaduto? Il pm Petrazzini sostiene che "le indagini non evidenziano, anche nella forma del minimo sospetto, l’esistenza di aggressioni né di occasioni in cui le stesse potessero essersi verificate". Eppure l’autopsia ha riscontrato una lesione epatica ed esiste una perizia medico legale che recita così: "La lacerazione epatica deve essere ritenuta conseguenza di un valido trauma occorso in vita e certamente non può essere ascrivibile al massaggio cardiaco, in riferimento al quale vi è prova certa che avvenne a cuore fermo". Si può dunque escludere che la lesione al fegato sua stata provocata dai tentativi di rianimazione di Bianzino, come invece ipotizza il pm per escludere l’aggressione.

Ci sono molti altri punti oscuri e lacune nelle indagini: la cella e gli oggetti ivi contenuti non sono stati sottoposti a sequestro; non sono state disposte l’ispezione e il sequestro della cella né sono state prese le impronte digitali; dai filmati delle videocamere dell’istituto di pena appare un individuo (in tuta mimetica) mai identificato. E ancora. Perché risulta che Aldo sia stato ricoverato in infermeria una sola volta quando un teste sostiene di averlo visto uscire dalla sua cella due volte?

Domani, venerdì 11 dicembre, ci sarà l’udienza per l’opposizione alla richiesta di archiviazione per l’accusa di omicidio di Aldo Bianzino a opera di ignoti. L’associazione sarà presente con un presidio davanti al tribunale di Perugia. "E quando ci incontriamo non c’è resa/e in strada ogni volta si rinnova l’intesa,/la libertà dove sta, la trovi nella mappa/non restare tra la gente distratta".

Firenze: detenuta bulgara 22enne tenta suicidio, viene salvata

 

Agi, 10 dicembre 2009

 

"L’immediato intervento dell’unica poliziotta penitenziaria in servizio presso la sezione femminile del carcere di Firenze Sollicciano, questa notte alle 3.15 circa, ha salvato la vita ad una 22enne detenuta bulgara che aveva posto in essere un tentativo di suicidio mediante impiccagione tramite un foulard in suo possesso".

A darne notizia è il Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno. "Credo - prosegue - che una qualche preoccupazione debba suscitare la condizione per la quale una sola agente è preposta, nel servizio notturno, alla sorveglianza di 107 detenute e 7 bambini. Una sola unità, infatti, deve sorvegliare la Sezione Giudiziaria, la Sezione Penale, l’asilo nido e la consolle transito.

Ciò è quanto capita non solo a Firenze. Ma a Roma, a Pozzuoli, a Milano, a Genova, a Trieste tanto per citare i casi più gravi di deficienze organiche di personale femminile. Tutto ciò mentre decine e decine di poliziotte sono impiegate nei palazzi del potere romano con compiti indefiniti. Risorse ed energie inopinatamente sottratte al servizio operativo di prima linea, su cui il Capo del Dap avrebbe il dovere morale di intervenire" Sul piano carceri e sul piano di assunzioni straordinarie annunciate dal Ministro della Giustizia, Sarno resta scettico e prudente.

"Troppe volte è stata annunciata a vuoto dal Ministro Alfano la presentazione del piano carceri. Ora pare che si voglia farlo prima di Natale, vedremo. In ogni caso restano velleitarie le intenzioni di risolvere le attuali criticità tirando su qualche muro in più. Intanto perché occorre investire anche sulle manutenzioni straordinarie dei tantissimi edifici penitenziari in evidente degrado e perché il tempo non concede tregua. A questi ritmi a fine anno avremmo toccato quota 68mila. Di contro anche gli annunci di assunzioni straordinarie trovano la nostra fredda e scettica attenzione.

Troppi gli annunci. Per questo non ci iscriviamo all’affollato coro dei gaudenti. Ci piacerebbe, e lo faremo, congratularci con il Ministro Alfano quando alle parole subentreranno atti e fatti. Nel frattempo - chiude Sarno - la polizia penitenziaria continua a gemere e soffrire pene del’inferno sommersa dalle emergenze, dalle criticità e dall’indifferenza della stessa Amministrazione Penitenziaria."

Ragusa: polizia penitenziaria protesta, astenendosi da mensa

 

Asca, 10 dicembre 2009

 

Da oggi il personale di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Ragusa inizia una seria di manifestazione a partire dall’astensione della Mensa di Servizio per 3 giorni. La scarsa attenzione e l’immobilismo dell’Amministrazione Penitenziaria, rispetto alle problematiche che investono il personale della Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Ragusa, hanno costretto le organizzazioni sindacali di categoria a denunciare, ancora una volta, questo stato di inerzia.

"Non è più accettabile - dicono - l’indifferenza politica ed amministrativa posta in essere da parte degli organi Istituzionali a vari livelli, che costringe il personale di Polizia Penitenziaria ad operare sotto organico nell’assoluta incertezza professionale, oltreché a subire continue vessazioni in ordine alla qualità del proprio vivere quotidiano.

Lo stato di agitazione dichiarato dal personale per i motivi già rappresentati, nasce soprattutto per i disattesi impegni da parte del Provveditore che in un primo momento assegnava due unità per un periodo di due mesi, prospettando inoltre la possibile chiusura di una Sezione detentiva con il recupero di altre sei unità, di converso però si apprendeva che la predetta Sezione (attualmente chiusa), sarà adibita alla detenzione di altra tipologia di detenuti, pertanto non verrà modificato lo stato di precarietà con cui si opera tutti i giorni.

E non è un pianto come spesso avviene per consuetudine, ma un dato di fatto, verificabile con la mancata applicazione dell’A.N.Q. (Accordo Nazionale Quadro), la mancata concessione dei riposi, la negazione del congedo ordinario, la mancata pianificazione dei turni di servizio che vengono quotidianamente modificati in ordine alle esigenze operative, l’eccessivo lavoro straordinario, etc. Tutto questo fa sì che la professionalità, l’abnegazione, l’attaccamento, lo zelo, che quotidianamente viene chiesto al personale va a scemare perché vi è una scarsa attenzione a quelle che sono di contro i diritti del lavoratore".

Immigrazione: il crimine di non avere il permesso di soggiorno

di Costanza Hermanin e Mario Staderini

 

Il Riformista, 10 dicembre 2009

 

Si arriva nei Cie con un fermo di polizia e si vede il giudice solo 48 ore dopo. Non un giudice ordinario, però: a confermare il fermo degli "immigrati clandestini" sono i giudici di pace. Del resto, la ragione per cui sono trattenuti l’80% dei 257 detenuti nel Centro d’identificazione ed espulsione di Ponte Galeria che abbiamo visitato insieme ai senatori Furio Colombo e Francesco Ferrante, non è un delitto.

Il loro "crimine" consiste nel loro "stato": non essere in possesso di un permesso di soggiorno. La nuova legge sulla sicurezza discrimina positivamente solo i pochi comunitari presenti nel Centro, riconoscendo loro il privilegio di essere fermati da un giudice ordinario. Per gli altri 245, extracomunitari e qualche Rom apolide, il principio di habeas corpus secondo cui ogni individuo ha diritto di ricorso per difendersi da un arresto illegittimo, è in bilico. D’altronde, la convenzione tra ministero dell’Interno e Croce Rossa Italiana, l’ente gestore di Ponte Galeria, esplicitamente non prevede l’assistenza legale.

Il destino è lo stesso per tutti, comunitari e non. Aspettare in celle senza riscaldamento, acqua calda e spesso neanche luce, in questo centro alle porte di Roma che è il più grande dei 13 attualmente operativi. Creato nel 1998 come Centro di permanenza temporanea dalla legge Turco Napolitano, trasformato in luogo di detenzione a tempo indeterminato per non-criminali dalle norme sulla sicurezza varate l’estate scorsa. Fino a sei mesi di sospensione del diritto, di attesa, poi puoi ritornare per strada con un ordine di espulsione, e se ti riacchiappano ritorni dentro. E dentro aspetti.

Al Cie non c’è nulla da fare. Non è un carcere: non vi sono attività programmate, il conforto di associazioni, scarsi contatti con l’esterno e niente che si possa ricevere dai famigliari. I minori, i figli che nella maggior parte dei casi sono nati in Italia e non hanno mai vissuto altrove, non possono entrare, anche se tra i detenuti ci indicano un minore. Le mogli si incontrano se si ha la fortuna di essere vicino casa, ma qui tanti vengono dal Nord o da Napoli e le famiglie non le vedono più, almeno per le settimane di attesa tra sbarre alte cinque metri e cemento.

Si aspetta per un tempo indefinito l’identificazione o l’espulsione. Prima aspetti che la polizia riesca a identificarti e a scoprire se veramente hai le carte in regola per essere là dentro, oppure se hai i figli minorenni come molti dichiarano mostrandoci il loro stato di famiglia timbrato e firmato dal comune di Campo San Martino, un documento di richiesta d’asilo, un bollettino del famoso censimento dei campi nomadi effettuato l’anno scorso.

Ma come mai devi essere identificato se hai dei documenti rilasciati dalla pubblica amministrazione in mano? E se hai un matrimonio celebrato in Italia e dei figli minori, una richiesta d’asilo in corso, secondo la legge, non hai alcun motivo di stare lì. Ma per confermarlo ci possono volere settimane, anche mesi, e intanto sei in gabbia. E la lista di avvocati che dovrebbe essere appesa nella sala colloqui non si trova. Né la Croce Rossa né l’ufficio immigrazione sanno spiegarci come i detenuti possano contattare dei legali. Nelle more dell’identificazione il giudice di pace prolunga il fermo. E l’habeas corpus è morto e sepolto.

Se ti confermano che sei passibile d’espulsione sai che hai un motivo per esser lì, attendere - non sai quanto - che ti mandino indietro. In carcere, almeno, a quanto ammonta la condanna lo si sa. Il periodo di detenzione nel Cie, invece, dipende dall’abilità dell’ufficio immigrazione a contattare la tua ambasciata e a convincerlo ad accettarti. Dipende anche dalla disponibilità dei posti su Alitalia, uno dei pochi vettori disponibili per l’espatrio. E Alitalia ha le sue condizioni: gli arabi, al contrario degli altri, non possono viaggiare da soli. Per loro non basta che si liberi un posto per il rimpatrio, ne occorrono almeno due in più per la scorta. E poco importa se questi arabi non sono sospettati di preparare stragi, ma solo privi di permesso di soggiorno.

Fin qui il racconto. Nei prossimi giorni analizzeremo i dati raccolti negli altri Centri d’Italia per valutare gli interventi più urgenti per garantire condizioni di vita dignitose e il rispetto dei diritti umani fondamentali, perché si superi questa visione distorta di "sicurezza".

Immigrazione: nei Cie, gli stranieri "imbottiti" di psicofarmaci

di Peppino Caldarola

 

Il Riformista, 10 dicembre 2009

 

C’è un inferno in terra e si chiama Cie, centro di identificazione e di espulsione. Qui vengono raccolti immigrati che non hanno commesso reati ma sono entrati clandestinamente nel nostro Paese. Una delegazione parlamentare, ci sono Savino Pezzotta dell’Udc e Furio Colombo del Pd, ha iniziato un viaggio in questi centri per verificare le condizioni di vita di questi diseredati abbandonati e vilipesi da tutti.

Ieri cera un articolo agghiacciante sul "Fatto quotidiano" in cui la cronista Chiara Paolin dava conto dell’abuso di psicofarmaci come terapia di detenzione. Un medico di Ponte Galena, dove sorge un Cie, Gianluca Consoli così racconta: "La somministrazione è organizzata in tre turni, diversi per uomini e donne. Di giorno Diazepam (Valium) e Lorazepam (Favor), di sera Lormentazepam (Minias)".

Così vengono "drogati" gli ospiti di questo inferno italiano costretti a vivere in un torpore perenne. La sera, scrive Chiara Paolin, le code dei disperati per ottenere i farmaci è più lunga delle code per la cena. C’è, dunque, un popolo dì drogati per forza che affolla le nostre periferie. Sono certo che la delegazione parlamentare farà bene il suo lavoro e denuncerà questi e altri episodi di disumanità. L’idea che vi siano aree del Paese in cui lo Stato ricorre allo strumento classico delle dittature - cioè trattare i diversi come pazzi - per contenere un fenomeno sociale drammatico fa semplicemente orrore. Di più lo fa un partito come la Lega che incita all’odio contro questi poveracci.

Immigrazione: ecco cosa ho visto nelle gabbie di Ponte Galeria

di Furio Colombo

 

Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2009

 

Si apre un immenso cancello scorrevole e al di là c’è un soldato che verifica e trattiene i documenti. Noi siamo deputati (Ferrante e io del Pd) o politici (l’iniziativa è del giovane segretario del Partito Radicale, Mario Staderini e di Rita Bernardini) e questo determina una curiosa estraneità, come una differenza di mondi. Passano veicoli militari nella striscia d’asfalto che separa il grande cancello dagli edifici del luogo in cui stiamo per entrare e che - da fuori e da lontano - sono lastroni di cemento senza aperture.

Avete visto il film "2012" sull’imminente fine del mondo, e il senso di condanna che incombe su strutture poderose e inutili? L’atmosfera è quella, minacciosa e allo stesso tempo non vera, come una cupa scena di Hollywood. Qui, alle porte di Roma, a Ponte Galeria, un contenitore di cemento e metallo grande e sigillato è stato preparato per chi viene catturato in un gioco perverso: il gioco dei clandestini. Gente che vive e lavora in Italia dopo essere sfuggita alla morte di guerra e alla traversata del mare, viene fermata, mentre porta i bambini a scuola o ha commesso l’imprudenza di andare in un ospedale, viene "catturata" mentre va o viene dal lavoro.

E - come in quei Paesi estranei alla democrazia - i catturati sono portati qui, nelle gabbie grandi all’aperto e in piccole stanze gelide con dodici o quindici letti sul fondo delle gabbie. In quelle stanze i catturati - che non sanno perché e per quanto saranno qui cercano di dormire, indossando tutti gli indumenti che possiedono, per non sapere la vita che stanno vivendo. Come sempre succede in questa Italia, non ci sono soldi, non ci sono Enti responsabili, non ci sono cure.

Qui un essere umano costa alla Repubblica Italiana 47 euro al giorno, quasi solo per piatti precotti con giorni di anticipo e che tutti uomini e donne, ucraini e africani, descrivono come immangiabili, un bel vantaggio per chi - Dio sa con quali regole - ha vinto l’appalto. La nostra visita non porta pace. I detenuti ci parlano con affanno e si capisce subito che non incontrano mai nessuno, che il giudice di pace, quando viene qui, non può che certificare che "mancano i documenti", "gli avvocati d’ufficio" scompaiono subito, dopo la prima formalità di finto processo.

I poliziotti, cercano di essere d’aiuto agli strani visitatori. Capisci al volo che sono precisi in quello che fanno, ma sono come l’equipaggio volenteroso di un’astronave sperduta. Il loro vero lavoro è fuori, per le strade a proteggere i cittadini. Quelli che incontriamo hanno l’aria di saperlo fare. Trasformati all’improvviso in secondini (insieme ai soldati che abbiamo visto all’esterno e che, quando sono in missione nel mondo, proteggono la stessa gente che qui è rinchiusa nelle gabbia) sembrano anch’essi sul punto di chiedere "perché siamo qui, che cosa è successo"? Invece correttamente ti spiegano tutti i passaggi della procedura arbitraria e assurda che porta qui, in detenzione e poi all’espulsione, lavoratori che erano in Italia da anni e che hanno famiglie italiane che li aspettavano, giovani madri che l’arresto ha separato di colpo da bambini piccoli, badanti sorprese un passo lontano dall’assistito e prive di "quel documento" (il permesso di soggiorno).

I poliziotti ripetono, per chiarire, "così vuole la legge", come per separare la loro vita di uomini e donne normali da questa vicenda che farebbe venire il cuore in gola in un film. Il visitatore "politico" come me, come Ferrante, come deputati e dirigenti dei radicali italiani che hanno organizzato questo giorno di civiltà sanno già che molti, detenuti qui, non hanno mai commesso alcun reato e stavano lavorando in Italia. Qui ci sono anche persone, portate nelle gabbie dopo aver scontato anni nelle prigioni italiane. Sono i primi a dirtelo. Qui nessuno pensa di farti pena, nessuno implora, anche se il parlare delle madri che non sanno dove sono e con chi sono i bambini è concitato, nervoso.

L’emozione è difficile da controllare, anche se l’uomo che hanno portato via mentre tornava a casa dopo il lavoro per cenare con moglie e figli e raccontare la giornata e sentire le storie di casa, non può far finta di non piangere. Ma coloro che hanno scontato condanne te lo dicono. Ti dicono il reato. Ti dicono il luogo e il tempo. E ti raccontano il momento imprevisto e terribile. Famiglia e amici li aspettavano fuori insieme ai parenti degli altri scarcerati per fine pena. Ma loro non sono mai usciti. Li ha prelevati una polizia di frontiera che non avrebbe giurisdizione su territorio italiano.

E li ha portati qui, all’insaputa di tutti, senza avvocato, senza difesa, senza spiegazioni, senza diritti. A carico e a danno degli ex detenuti si verifica il fatto giuridicamente più illegale e umanamente più umiliante. Queste persone hanno subito un processo, spesso anche di appello, hanno scontato la pena. Il che vuol dire che la Repubblica Italiana sa chi sono, lo sanno la Polizia e i tribunali, c’è scritto nella sentenza e in prigione. Ma questo, Ponte Galeria, con i gabbioni all’aperto per muoversi, e le stanze gelide per dormire, è un "Centro di Identificazione ed Espulsione": dunque bisogna identificare, il resto non conta.

Dunque i detenuti aspettano nel vuoto del tempo e nello squallore del posto, dove nessuno ti difende, nessuno ti ascolta, nessuno ti cura. Ho già detto- e vorrei ripeterlo- che due medici della Croce Rossa (uno nero, uno bianco, il dottor Amos Dawodu è il responsabile) provvedono da soli e senza mezzi, come nell’avamposto assediato di una guerra. Infatti le Asl del Lazio di questi malati non ne vogliono sapere.

E non ci sono nomi o numeri di telefono per cercare l’aiuto di un avvocato. Ho già detto - e devo ripeterlo - che l’80%, di donne e uomini portati nelle gabbie, di Ponte Galeria non ha commesso alcun reato, non è accusato di nulla. Resta ti dicono ma rimangono detenuti in queste gabbie e in queste stanze tra 12 o 15 letti finché i poliziotti, che non dispongono di mezzi o connessioni internazionali, li avranno identificati.

Il momento più temuto sono due agenti che ti affiancano e ti portano all’aeroporto in qualunque momento per farti salire insieme a loro su un aereo diretto in un luogo che il più delle volte i deportati non conoscono perché tutto ciò che hanno, dai figli al lavoro, è in Italia. Una legge detta "il pacchetto sicurezza", che tratta tutti gli immigrati come criminali, li deporta fuori dal Paese che hanno arricchito con il loro lavoro (uso l’argomento dell’economista conservatore Milton Friedman), fuori dalla Costituzione Italiana, fuori dal corpo giuridico dei Paesi civili, lontano da ogni riferimento alla Carta dei Diritti dell’Uomo.

Perché tanti italiani tacciono? Il cardinale Tettamanzi, ha certo voluto dire che non lui bisogna difendere ma gli immigrati, le loro famiglie, le madri portate nelle gabbie di Ponte Galeria centinaia di chilometri lontani dai loro bambini, l’operaio che stava tornando dal lavoro nel solo Paese che conosce, mentre stava tornando dalla sola famiglia che ha e adesso gli spetta un volo a caso, verso un luogo che non lo riguarda, uno che non ha mai violato la legge. Fuori ci sono le camionette dell’esercito, ma qui non sono in missione di pace. È una strana missione incivile di cui o non sanno o cercano di non sapere. Soldati dell’Esercito Italiano col tricolore sul braccio sono agli ordini della Lega Nord per l’indipendenza della Padania.

Iran: Amnesty; in carceri stupri, violenze, esecuzioni sommarie

 

Ansa, 10 dicembre 2009

 

Nel 2009 le violazioni dei diritti umani registrate nelle carceri iraniane sono state le peggiori degli ultimi vent’anni. La denuncia parte da un comunicato del vicedirettore di Amnesty International per il nord Africa e il Medio Oriente, Hassiba Hadj Sahraoui.

Secondo l’organizzazione umanitaria, le proteste post-elettorali della scorsa estate hanno provocato la brutale reazione delle autorità. Stupri, torture ed esecuzioni sommarie nelle carceri hanno raggiunto livelli senza precedenti. "Le inchieste promosse per far luce su questi crimini hanno più lo scopo di coprire gli abusi che far emergere la verità" sostiene il comunicato di Sahraoui.

Amnesty International si appella direttamente alla Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, cui viene chiesto di autorizzare gli ispettori Onu a visitare il Paese per verificare le situazione dei diritti umani nelle carceri.

 

 

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