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Giustizia: rapporto fra carcere e società segnato dal fallimento di Roberto Merlo
Social News, 18 dicembre 2009
Il fallimento dell’interazione fra carcere e società è dovuto alla scarsità di interventi per ridurre le recidive, alla poca attenzione nei processi di risocializzazione, alla residualità del sistema di pene "alternative". Il mio contributo vuole porre l’attenzione su tre questioni pragmatiche che rendono, a volte, fallimentare la volontà di costruire un’interazione tra carcere e società finalizzata al reinserimento in quest’ultima. Ci sono ben altre questioni che coinvolgono l’esistenza stessa, nella forma attuale, del sistema di espiazione della pena, le condizioni proibitive di vita in carcere, e così via. Non le sottovaluto, certo. Semplicemente, le considero più importanti di queste tre, ma, sostanzialmente, bloccate nella loro possibilità di produrre, per ora, proposte fattibili. Le tre questioni che voglio sottolineare sono le seguenti: la scarsità di interventi sul versante della modifica della rappresentazione sociale del carcere, del carcerato, della pena ecc. e il fatto che tutto ciò produca difficoltà sul versante della risocializzazione e della diminuzione delle recidive; la poca attenzione che viene posta, nei processi di risocializzazione, al complesso di competenze e capacità che i singoli detenuti possiedono per affrontare con successo quel processo per loro così importante e difficile; la residualità, ancora oggi, del sistema di pene "alternative" alla detenzione, quale pratica attuativa del dettato costituzionale. Iniziamo dalla prima. L’immagine e il giudizio sul carcere (e ciò che rimanda a quello), nella società, è pessimo. Paura, rifiuto, indifferenza, recriminazione, e qualsiasi altro sentimento collettivo negativo la fanno da padrone. Il risultato è sotto l’occhio degli addetti ai lavori: difficoltà di ogni genere ad ottenere attenzione positiva, risorse, opportunità per le politiche e le pratiche di reinserimento sociale. I vari comitati Carcere e città e le tante cooperative sociali che si occupano di reinserimento e attenzione ai detenuti sono interlocutori quasi mai considerati dai mass media o, se lo sono, ciò accade quando qualche detenuto a loro affidato compie un reato, scappa, ecc. Come si fa a reinserire un soggetto in un contesto che non lo vuole e lo rifiuta? Ci si riesce solo se lo si fa senza che quel contesto se ne accorga. Di nascosto... alimentando così e confermando proprio quel rifiuto di quel contesto. Modificare una rappresentazione sociale è cosa molto difficile, ma, in questo caso, indispensabile. Si dovrebbe cominciare, tramite progetti ad hoc, a "far fare l’esperienza del carcere" ai cittadini, in particolare a quelli più giovani. Non è così difficile. Si tratta, ad esempio, di allestire una simulazione in una spazio appositamente destinato nella città, a cui il pubblico possa accedere in maniera guidata. Un percorso tipo "labirinto", all’interno del quale, attraverso l’applicazione della tecnica delle "differenze cognitive", si attivino emozioni e successive riflessioni in relazione all’esperienza carcere e a come la città, nella sua parte istituzionale e non, si relaziona o potrebbe relazionarsi. Si tratta di dar seguito a questo nella scuola e nel mondo associazionistico e religioso. Insomma, si tratta di mettere in atto una vera e propria strategia a medio e lungo periodo finalizzata al cambiamento dell’immagine e del giudizio e alla conoscenza della vera realtà della questione carcere. Esperienze di questo tipo si sono realizzate in ben poche città, ma con grande successo. Vediamo ora la seconda questione. Provate a fare la lista delle competenze e capacità che un detenuto deve possedere per avere una buona probabilità di performance in un processo di reinserimento sociale. Eliminate quelle che riguardano essenzialmente gli aspetti tecnici del processo in questione. Vi resterà una lista con item quali capacità di reggere la frustrazione, posticipare il piacere e la ricompensa, contenere gli acting out, rifarsi una rete sociale con soggetti completamente diversi da quelli di matrice deviante avuti in precedenza, saper mediare. Pensate ora alla composizione dell’attuale popolazione carceraria: tossicodipendenti che sicuramente posseggono la capacità innata di posticipare il piacere, extracomunitari con molta competenza nella mediazione, camorristi, ecc. con un’indubbia tensione alla costruzione di una rete di rapporti completamente diversa da quella di prima. Sono volutamente ironico poiché voglio sottolineare come non sia affatto sufficiente, per garantire il successo di un processo di socializzazione, l’acquisizione di un mestiere e l’appoggio di qualche volontario. Occorre, non solo lavorare sull’acquisizione di quelle capacità e competenze, ove non sufficientemente adeguate, ma anche presidiarle durante le prime fasi del processo. In questo senso, il tutoraggio deve uscire dalla logica del puro accompagnamento e diventare supporto vero e proprio al processo di risocializzazione, sia attraverso la costante elaborazione dei vissuti del soggetto, sia attraverso l’aiuto alla costruzione di una nuova rete sociale per il medesimo. L’intermediazione sociale mi pare una questione su cui riflettere e investire, se davvero si vuole realizzare il più pienamente possibile il dettato costituzionale. Veniamo ora alla terza questione. Tutto ciò che ho sin qui esposto resta parola residuale se non si affronta con decisione la questione delle pene alternative alla detenzione. Decenni di successo (incredibili nelle sue percentuali) della legge Gozzini e varianti successive non hanno ancora inciso su un approccio alla definizione della pena che veda la sua forma detentiva come una delle tante praticabili. Mi pare che tre sono le ragioni di questo stallo. La prima è da ricondurre al ritardo che deriva dall’eccessiva ideologizzazione della discussione. Se il dettato della carta costituzionale va rispettato, l’attivazione del massimo possibile delle pene alternative è il modo per farlo. Punto. Non è questione ideologica, è questione logica e basta. La seconda difficoltà risiede nella scarsezza di opportunità, risorse e tecnologie per attuarle. La vicenda del braccialetto elettronico è paradigmatica. La terza riguarda complessivamente il sistema giustizia e la sua lentezza e complicazione (ma su questo, altri meglio di me hanno già detto molto). V’è, infine, un’ultima questione, trasversale alle tre suddette: una concezione prevalente della pena ancorata ad una visione pre-carta costituzionale. Fino a quando la pena sarà intesa come deterrente al crimine, tramite il suo carattere di minaccia, espiazione o, come sistema rieducativo, finalizzato al cambiamento della tendenza a delinquere del detenuto o, addirittura, come vendetta sociale, ben difficilmente una cultura della cura come controllo e processo di risocializzazione avrà spazio. Se il fine del sistema resta "sorvegliare e punire", qualsiasi discorso e pratica di risocializzazione è vana. Per questo mi pare che la questione del cambiamento della rappresentazione sociale del carcere, del detenuto, della pena e di quant’altro ad essa legato sia prioritaria. Al di là, sia ben chiaro, di qualsiasi epistemologia maieutica o buonistica, ma anche al di là di ogni ingenuità giustizialista. Giustizia: quattro semplici motivi per avere un "buon carcere" di Luca Casadei
Social News, 18 dicembre 2009
Perché un carcere? E, soprattutto, perché un buon carcere? A volte, in periodi difficili, servono le domande semplici. La necessità di un buon carcere deriva da quattro motivi. Il primo motivo è banale, autoevidente. Ma non per questo meno importante. Il carcere serve per difendere la società da chi l’ha ferita e potrebbe ferirla nuovamente. Davanti a una persona che ha commesso un omicidio, un furto o un altro reato grave, esiste l’interesse legittimo, anzi il diritto, della società di proteggersi, affinché quella persona non perseveri nella sua condotta pericolosa. Basta un carcere? No, serve un buon carcere, capace di rendere impossibile l’azione criminale del reo anche quanto questi si trova in detenzione. Il secondo motivo è che il carcere è un deterrente. Se sbagli, caro cittadino, corri il rischio di vedere ridotta la tua libertà. In un mondo in cui si rispettano poco le regole, non ci si può solo affidare a suggerimenti, prediche e raccomandazioni per assicurarsi una convivenza civile. È necessaria la presenza di una pena certa per chi agisce conto le leggi, che possa almeno indurre a una qualche riflessione chi ha in testa cattivi propositi. Ci sono Paesi che portano avanti questo ragionamento: più dura è la pena, più forte è l’effetto deterrente. Si deve, quindi, ricorrere alla pena di morte per i reati più gravi. Questa equazione affrettata non considera che chi commette un reato presuppone di farla franca e porta, quale "effetto collaterale", un altro reato inaccettabile. Annulla, di fatto, gli altri due motivi per i quali serve un buon carcere: il ruolo pedagogico ed il recupero del reo. Chi sbaglia deve capire di avere sbagliato e deve capire che per ogni errore c’è un prezzo da pagare. Rendersi conto che, per il principio di causa ed effetto, alcune azioni possono fare la nostra fortuna ed altre possono condurre ad eventi a noi sgraditi è il primo passo fondamentale per evitare di ripetere le seconde, diventando persone responsabili. E migliori. Il quarto motivo per cui serve un buon carcere, come anticipato, è per favorire il recupero del reo. Per chi ha sbagliato, e ha pagato, arriva il giorno di tornare in società: l’esperienza del carcere deve preparare questo momento. Una persona che ritorna nella propria comunità con la volontà e gli strumenti per accettarne le regole costituisce un esempio di vittoria di tutti e ha maturato il requisito essenziale per affrontare l’impegnativa sfida della seconda possibilità. Giustizia: il naufragio del carcere… tra diritti e bisogni negati di Vincenzo Scalia
Social News, 18 dicembre 2009
Sovraffollamento, fatiscenza degli istituti di pena, mancata applicazione di leggi quali la Bindi e la Smuraglia, costante riduzione delle risorse destinate al trattamento e alla risocializzazione, calo del personale destinato a questi compiti, fanno delle carceri italiane dei luoghi di sofferenza. La tragica vicenda di Stefano Cucchi, il giovane morto dopo essere stato arrestato, ha riacceso l’interesse per il carcere da parte dell’opinione pubblica italiana. In particolare, in seguito al caso Cucchi, si sta assistendo al rovesciamento del senso comune, frutto di strumentalizzazioni mediatiche e supposizioni prive di riscontri, che vede le patrie galere come un grand hotel a cinque stelle, i cui ospiti stanno in panciolle a spese dello Stato. Le inchieste di associazioni come Antigone e Ristretti Orizzonti, supportate dalle ispezioni del Comitato di Prevenzione della Tortura (CPT) del Consiglio d’Europa, dimostrano esattamente il contrario. Sovraffollamento, fatiscenza degli istituti di pena, mancata applicazione di leggi quali la Bindi e la Smuraglia, costante riduzione delle risorse destinate al trattamento e alla risocializzazione, calo del personale destinato a questi compiti, fanno delle carceri italiane dei luoghi di sofferenza. L’articolo 27 della Costituzione italiana viene disatteso e il tragico rosario delle morti suggella le condizioni disumane in cui si trovano a vivere i 66.000 detenuti italiani. L’indulto del 2006 aveva solo temporaneamente risolto i problemi di una situazione carceraria afflitta da problemi di varia natura, in cui si intrecciano le trasformazioni sociali e i mutamenti politici che hanno interessato il nostro Paese negli ultimi trent’anni. La riforma penitenziaria del 1975, in seguito puntellata dalla legge Gozzini del 1986, aveva costituito un notevole passo avanti verso l’implementazione dell’articolo 27 della Carta, che afferma che le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato. Per la prima volta si riconosceva che il detenuto non smetteva di essere un soggetto titolare di diritti, e che la sua distanza dalla società andava gradualmente ridotta attraverso un reinserimento "a tappe", fatto di permessi, lavoro all’esterno, semilibertà, liberazione anticipata per buona condotta. La "Gozzini" aveva funzionato, tanto che nel 1990 le patrie galere ospitavano soltanto 25.000 detenuti. Da allora, si sono verificati cambiamenti significativi all’interno della società italiana, che hanno trasformato anche la sfera carceraria. In primo luogo, il fenomeno migratorio si è fatto sempre più consistente. Privi di qualsiasi rete di protezione sociale, afflitti da precarietà economica, esposti ad una maggiore visibilità da parte delle forze dell’ordine per via delle loro differenze somatiche e culturali, i migranti hanno finito per rappresentare il 35% dell’utenza penitenziaria italiana, con punte del 60% in alcune carceri del Centro-Nord. Queste cifre sono il prodotto di cause diverse: in primo luogo, i migranti non dispongono quasi mai di quella rete amicale e familiare che consente ai detenuti italiani di accedere alle misure alternative. In secondo luogo, la presenza massiccia di cittadini stranieri all’interno del circuito penale si pone simmetricamente alle legislazioni restrittive in materia di immigrazione che, dalla Martelli alla Bossi-Fini, passando per la Turco-Napolitano, i Governi italiani di diverso colore politico hanno implementato. Ciò non tanto in seguito ad una pericolosità reale del fenomeno migratorio, bensì in ragione del panico morale che, dall’inizio degli anni novanta, attraversa in misura crescente la società italiana, e che ha promosso la questione sicurezza ad argomento principe dell’agenda politica nazionale. La crisi politica susseguita a Tangentopoli e la precarietà economica scaturita dalla globalizzazione sono state tradotte da una società italiana disorientata in domanda di sicurezza, da mettere in pratica attraverso l’aumento dell’azione repressiva da parte della magistratura e delle forze dell’ordine. La sfera politica, scossa dalla crisi di legittimazione e preoccupata di riguadagnare rapidamente consensi, ha offerto una sponda significativa al panico morale che attraversava l’opinione pubblica italiana. La riproposizione costante del tema dell’insicurezza, di cui viene esagerata la gravità, è sfociata nel varo di alcuni significativi provvedimenti legislativi, che si sono rivelati a medio e lungo termine criminogeni, in quanto hanno contribuito in maniera non secondaria all’aumento registrato della popolazione detenuta. La prima di queste leggi è la Jervolino-Vassalli del 1990, varata sotto la spinta dell’allora leader del PSI Bettino Craxi. Riducendo la modica quantità, prevedendo l’adozione di misure repressive verso i consumatori di stupefacenti, questa legge si rivela criminogena per due ragioni: sia per l’aumento dei detenuti, sia per la crescita dei suicidi in carcere da parte di persone che non avevano compiuto alcuna azione lesiva della convivenza civile e si trovavano costretti ad affrontare un processo penale e una detenzione, con le conseguenze del caso per le loro relazioni sociali, affettive e professionali. Gli effetti della Jervolino-Vassalli (e della Fini-Giovanardi del 2006, sua diretta filiazione) sulle carceri italiane, vanno al di là dei suicidi e dei pestaggi. Ad analizzare le statistiche penitenziarie, balza subito all’occhio come un terzo dei detenuti debba la privazione della libertà alla violazione delle leggi sugli stupefacenti. Se contassimo anche i carcerati arrestati in seguito a reati contro la proprietà legati alla necessità di acquistare le sostanze stupefacenti, probabilmente questa percentuale aumenterebbe considerevolmente. Inoltre, un decimo dei detenuti risulta essere sieropositivo, e si trova dentro sia perché non tutti i giudici di sorveglianza sono disposti ad accordare il differimento della pena, sia perché spesso questa categoria di detenuti non dispone di alloggi, famiglie, amici disposti ad accoglierli. Siamo di fronte ad un’ulteriore pagina nera delle carceri italiane, che testimonia come i problemi sociali, come la sieropositività, oggi vengano affrontati attraverso la sfera penale. Ad aggravare la situazione delle carceri italiane ci ha pensato anche il conflitto di interessi, a riprova della strumentalità politica che spesso investe la questione carceraria. Nel 2005, l’allora governo Berlusconi II, per far accettare dall’opinione pubblica la legge ex-Cirielli, inserì un comma che prevedeva la negazione dei benefici della Gozzini (permessi di fine settimana, lavoro esterno, semilibertà, liberazione anticipata) per i detenuti recidivi. Ne conseguì un ulteriore sovraffollamento delle prigioni italiane, che spinse nel 2006 il governo Prodi ad approvare l’indulto per porre riparo ad una situazione che si andava facendo sempre più esplosiva, al pari di quella odierna. Da notare che l’approvazione dell’indulto fu caldeggiata da segmenti importanti della polizia penitenziaria, a cui la situazione dentro le prigioni cominciava a sfuggire di mano. L’effetto dell’indulto sarebbe stato temporaneo. La mancata riforma delle leggi sull’immigrazione e sul consumo di stupefacenti, l’ascesa di una nuova maggioranza sempre più caratterizzata da slanci securitari, il varo di nuove leggi "criminogene", come quella dell’estate scorsa, che introduce il reato di clandestinità, hanno riportato la situazione carceraria in condizioni analoghe, se non peggiori, a quelle del 2006. In questo contesto di disagio e repressione, il taglio della spesa pubblica gioca la sua parte, rendendo vano il dettato costituzionale e le leggi che tendono ad un’umanizzazione della pena. Ad esempio, la legge Bindi (1996), che prevede l’assorbimento della sanità penitenziaria all’interno del sistema sanitario nazionale, tarda ad entrare in vigore, soprattutto perché i medici penitenziari chiedono l’adeguamento salariale attraverso il riconoscimento di un’indennità di rischio che le ridotte risorse finanziarie rendono difficile concedere. Altre considerazioni vanno svolte in merito alla legge Smuraglia (1998), che prevede agevolazioni fiscali per le imprese che assumono detenuti o che trasferiscono in carcere parte delle loro attività. In questo caso, sono la crisi economica e la segmentazione del mercato del lavoro a renderne difficile l’implementazione. Per concludere, ci sembra opportuno fare un cenno alle leggi sul carcere che non sono state approvate, e che faciliterebbero notevolmente l’umanizzazione degli istituti di pena italiani. La prima riguarda l’introduzione del difensore civico per i detenuti, già istituito in molti Paesi europei, e che l’Unione Europea inserisce tra i requisiti che i Paesi candidati all’adesione debbono soddisfare. Nelle legislature precedenti è stato affossato da veti incrociati di natura politica e propagandistica da entrambi gli schieramenti. Al momento, non è neppure in discussione. La seconda legge riguarda l’introduzione del reato di tortura, che permetterebbe di fare luce su molti abusi compiuti dalle forze dell’ordine ai danni dei cittadini. Una legge di questo tipo, se approvata, permetterebbe di indagare su fatti che vanno dai pestaggi del carcere di Sassari, avvenuti nel 2000, alla morte di Stefano Cucchi, passando per le Scuole Diaz, Marcello Lonzi ed Aldo Bianzino. Nel 2005 ci si era riusciti, salvo incorrere in un emendamento della Lega Nord, che considerava la tortura reato solo se reiterata. Anche di questa legge si sono perse le tracce. Voltaire diceva che la civiltà di un Paese si misura dalle carceri. Per l’Italia vorremmo tanto che non fosse vero. Purtroppo, la realtà smentisce questo nostro desiderio. Giustizia: sul carcere le conseguenze dei "Pacchetti sicurezza" di Daniele Farina
Social News, 18 dicembre 2009
Verrebbe ottimisticamente da dire che, da tempo, le carceri hanno cessato, almeno in Italia, di essere lo specchio o il termometro della civiltà del Paese. Ovvero, si potrebbe pensare che il clima culturale e le condizioni della nostra comunità nazionale siano assai migliori dello stato di degrado ed abbandono in cui versano 65.000 detenuti (al 30 settembre) e, per altro versante, decine di migliaia di operatori penitenziari. Certo, si potrebbe dire. Ma guardando all’imbarbarimento della vita pubblica e del dibattito politico, forse vale la pena tenere ancora in conto la massima illuminista. Oggi, il circuito degli istituti penitenziari è tornato a far notizia, a strappare qua e là il velo dell’informazione, a seguito, purtroppo, di frequenti e drammatici fatti di cronaca. Dietro i numeri ci sono storie e vite di cittadini, e il passaggio dai 39.157 detenuti del gennaio 2007 alle cifre di oggi racconta di un’escalation destinata verisimilmente a superare le 70.000 unità già nel primo semestre del prossimo anno. Nessun piano di edilizia carceraria predisposto dal Ministero di Grazia e Giustizia dispone dei tempi tecnici perché si possa intervenire concretamente su questa situazione. Né sembra politicamente praticabile la strada di un provvedimento clemenziale dopo l’orgia di strumentalità e polemiche intervenute a ridosso dell’ultimo indulto del 2006. Il quale, pur con le sue 27 cause di esclusione oggettiva, aveva riportato la popolazione detenuta sotto i termini della capienza regolamentare, attorno alle 43.000 unità. Le cause di questa tendenza all’incremento progressivo della popolazione detenuta, come noto, non risiedono in analoga e parallela tendenza alla commissione di reati, ma è largamente imputabile alle scelte del legislatore.Sotto la spinta di una continua campagna mediatica sulla sicurezza dei cittadini, complici alcuni specifici fatti di cronaca, il Parlamento ha agito con un progressivo inasprimento del carico penale su numerose fattispecie di reato, con un costante aumento dei massimali di pena e restrizione del campo di esercizio dei benefici di legge, quando non con l’introduzione di nuovi reati (ad esempio sull’immigrazione). L’efficacia reale di questa azione sugli obiettivi che dichiara di voler perseguire, per i dati oggi disponibili, è stata statisticamente assai poco rilevante. Ma cinque pacchetti sicurezza in tre anni, più altri provvedimenti specifici, danno bene l’idea dell’ampiezza dello spettro degli interventi. Guardando specificamente al risultato della lunga catena di montaggio politico-giudiziaria-securitaria, al contenuto delle carceri della Repubblica, cittadine e cittadini ristretti, risulta abbastanza evidente che la maggioranza di essi lo sono in relazione a due specifici testi unici: quello sull’immigrazione e quello sulle droghe, modificati in maniera significativa rispettivamente nel 2002 e nel 2006. Due testi normativi la cui incidenza nella prevenzione dei fenomeni cui si riferiscono è stata, nella migliore delle ipotesi, assai modesta. Addirittura, in parte, controproducente. Due testi normativi che hanno, però, avuto il sicuro effetto di sovraccaricare il circuito penale. Appare evidente che, a distanza di anni, bisognerebbe avere il coraggio di trarne un bilancio, con deciso cambio di rotta. Ma il dibattito sulla "riforma della giustizia", che appare periodicamente con maggiore o minore urgenza e rilievo mediatico in una qualche relazione alle vicende processuali dell’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri, svolge ben altri temi e si concentra prevalentemente sull’ordinamento giudiziario. E non vi è, a mio avviso, alcun elemento per pensare che volga ad una qualche diversa direzione. In concreto, ciò significa che la situazione nelle carceri va verso un progressivo aggravamento e che i fatti drammatici che le hanno riportate in evidenza sono purtroppo destinati a moltiplicarsi. Che il clima culturale degli ultimi anni sia molto distante dalle previsioni dell’Art. 27 della Carta costituzionale è un fatto incontestabile. Ciononostante, mi sembra ineludibile il fatto che, di fronte ad una riforma della giustizia di una qualche ampiezza, il tema di un provvedimento clemenziale di amnistia e indulto vada riproposto con forza, ricordando magari ai tribuni della "certezza della pena" che, a giudicare dalle carceri, per alcune categorie di cittadini italiani e stranieri la pena è, nei fatti, certissima, in stretta relazione con le condizioni economico sociali e l’effettiva possibilità di esercitare compiutamente il diritto alla difesa. Giustizia: i costi di un sistema "economicamente insostenibile" di Rosario Tortorella
Social News, 18 dicembre 2009
È come se lo Stato avesse deciso l’auto fallimento sul fronte del sistema penitenziario, aumentando il livello di carcerizzazione e dandosi delle regole che non è in grado di rispettare. Nel corso degli ultimi 5 anni lo Stato ha pagato circa 213 milioni di euro di risarcimento, la quasi totalità per ingiusta detenzione cautelare, rilevantemente meno per gli errori giudiziari. I direttori penitenziari e gli altri operatori penitenziari tentano da sempre di richiamare l’attenzione del mondo politico ed istituzionale sulla necessità che il carcere non sia dimenticato. Richiedono interventi ed attenzione progettuale su diversi aspetti essenziali per la promozione e lo sviluppo di un sistema penitenziario effettivamente capace di rispondere alle esigenze di sicurezza della società ed a quelle di reinserimento sociale dei detenuti (che poi, così distanti dalle prime non sono, in una logica avveduta di prevenzione) e, più in generale a quelle di umanizzazione della pena e rispetto della dignità dell’uomo detenuto e dei diritti ad esso riconosciuti dalla normativa internazionale, dalla Costituzione Repubblicana e dall’ordinamento penitenziario. Gli interventi richiesti sono i seguenti: riduzione della cancerizzazione (tanto il ricorso alle pene detentive che alla custodia cautelare poiché il carcere deve essere l’extrema ratio per garantire la difesa sociale e per assicurare il colpevole all’accertamento processuale della verità); riduzione dei tempi processuali per giungere a sentenza; recupero strutturale degli spazi detentivi, risorse umane e finanziarie; impegno degli enti locali sul fronte delle misure di reinserimento sociale dei detenuti; formazione continua per tutto il personale (anche quello di base); strumenti adeguati di incentivazione al personale penitenziario per un lavoro che altri non saprebbero e non vorrebbero fare. Anche il ricorso alla carcerazione preventiva è un grave problema, che incide in modo rilevante sul sovraffollamento. Lo dicono i dati: i detenuti imputati sono oltre il 50%, mentre, negli ultimi 5 anni, per le procedure di risarcimento causa "ingiusta detenzione", lo Stato ha pagato circa 213 milioni di euro di risarcimento (la quasi totalità per ingiusta detenzione cautelare, in via residuale per gli errori giudiziari). Nel corso degli anni, abbiamo assistito ad una proliferazione normativa rivolta a perseguire obiettivi di sicurezza sociale più attraverso lo strumento della sanzione penale e del ricorso alla cancerizzazione che mediante interventi di prevenzione e sostegno sociale (per disincentivare il ricorso al reato come modalità di sostentamento). Abbiamo anche assistito ad un sistema di potenziamento assolutamente teorico della qualità degli istituti penitenziari e, conseguentemente, della "qualità" della detenzione e dei diritti (o presunti tali) riconosciuti alla persona detenuta, sovente inattuabili per le ragioni di depotenziamento progressivo dell’apparato amministrativo deputato a darne attuazione. È come se lo Stato avesse deciso l’auto fallimento sul fronte del sistema penitenziario, aumentando il livello di carcerizzazione e dandosi delle regole che non è in grado di rispettare. "Cronaca di una morte annunciata", mutuando l’espressione dal titolo del noto romanzo di Gabriel García Márquez, è la sentenza del 16.07.2009 della Corte di Giustizia Europea dei diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia al pagamento di mille euro per violazione dell’art. 3 della "Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali" (Cedu), non avendo garantito lo spazio minimo di mq 3 a Izet Sulejmanovic, detenuto extracomunitario della Bosnia-Erzegovina, il quale, per circa cinque mesi, dal novembre 2002 all’aprile 2003, aveva condiviso con altre cinque persone una cella di 16,2 metri quadri del carcere romano di Rebibbia, avendo così a propria disposizione in media solo 2,70 mq. Questa sentenza va ad aggiungersi ad altre condanne che la Corte europea ha inflitto all’Italia per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. Per Strasburgo, i processi penali che durano oltre 5 anni (per 3 gradi di giudizio) sono in contrasto con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848. Dall’esame della prassi giurisprudenziale di Strasburgo, risulta che solo nei procedimenti particolarmente complessi, e quindi in via eccezionale, la durata può arrivare fino a 8. D’altra parte, gli stessi giudici italiani, per effetto dell’art. 2 (Diritto all’equa riparazione) della cosiddetta Legge Pinto (L.24 marzo 2001, N.89), secondo la quale "Chi ha subíto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione", hanno dovuto liquidare, sino al 2008, circa 81 milioni di euro per risarcimento danni. Come recentemente dichiarato dallo stesso Ministro della Giustizia (ottobre 2009), il processo penale viaggia con un bagaglio di processi pendenti che ammontano a oltre 3.600.000. Per il primo grado si attendono in media 420 giorni, in appello se ne aspettano altri 73 per ottenere giustizia. Nel frattempo, a fronte di un limite di tollerabilità di 63.568 posti negli istituti penitenziari, l’ultima rilevazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria registra oltre 65.000 detenuti (65.225 al 02.11.2009), di cui 24.085 (circa il 37%) sono stranieri, mentre 31.346 (il 50% del totale) in attesa di giudizio. Una situazione che lo stesso Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, nel piano carceri annunciato, avrebbe definito da "emergenza nazionale", tanto da invitare il personale che opera nelle carceri, con una lettera inviata ai direttori penitenziari, a "mantenere i nervi saldi" e a "lavorare con lucidità". E mentre è annunciato il "piano carceri", che prevederebbe nel 2012 la creazione di 20 mila posti nuovi, si registra che tra il 2007 ed il 2010 le risorse finanziarie per il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria hanno subito un taglio pari a circa il 50%. A fronte di un fabbisogno di circa € 2.500.000, nel 2007 sono stati stanziati € 1.927.563 euro, nel 2008 1.687.000 e nel 2009 1.160.439. Per il 2010, pare sia stato previsto lo stanziamento di soli € 1.310.859. Tale situazione finanziaria deve però essere rapportata all’aumento della popolazione carceraria: dopo l’indulto, di cui alla Legge 31.07.2006, n. 241, si registrava la presenza di circa 40.000 persone. Negli anni successivi, i detenuti sono aumentati in maniera esponenziale, fino ai citati 65.000. Si aggiunga che gli organici di tutte le categorie professionali, compresi quelli della dirigenza penitenziaria, vanno incontro ad un progressivo ridimensionamento per effetto dei pensionamenti e della mancanza di nuove assunzioni. Di recente, è stata prevista addirittura la rideterminazione delle dotazioni organiche per effetto dell’art.74 della L. 06.08.2008 N. 133. Questa situazione, in assenza di spazi fisici ed adeguate risorse finanziarie e di personale, rischia di divenire ingestibile, al di là di qualunque sforzo che pure i direttori e gli altri operatori penitenziari di "trincea" mettono quotidianamente in campo. Divengono inoltre sempre più tangibili le preoccupazioni per l’ordine e la sicurezza pubblici, non solo in relazione alle manifestazioni di protesta dell’estate appena trascorsa, da parte dei detenuti, ma anche alle aggressioni al personale di polizia penitenziaria: una situazione difficilissima che, in assenza di un’informazione corretta e completa, rischia addirittura di essere aggravata. La situazione è ben nota, sia ai mass media, sia alle forze politiche, tanto che numerosi parlamentari, nell’estate di quest’anno, hanno visitato le carceri italiane. Tuttavia, gli operatori penitenziari continuano ad essere soli e non si registra alcuna azione di positivo miglioramento sui diversi e concorrenti fronti auspicati. Questo alimenta uno stato di malessere grave del sistema, che di fatto si "scarica" sulle articolazioni periferiche dell’Amministrazione, gli Istituti penitenziari, gli operatori che in essi quotidianamente operano, i direttori penitenziari. I quali divengono gli unici interlocutori diretti sui quali si scagliano i fulmini prodotti dai diritti negati a monte e dalle risorse non assegnate. Le tensioni che si scaricano verso il basso colpiscono proprio la base operativa, che più delle altre componenti vorrebbe fare e soffre della propria impotenza costretta. In questo clima, si rivela fertile il terreno per coloro che, meno interessati alla soluzione dei problemi, appaiono più interessati a contrastare ideologicamente il carcere (del quale a tutt’oggi non pare però sia stato individuato un valido sostituto). Peggio, il sistema penitenziario italiano (il più avanzato e garantista nel panorama internazionale), enfatizzando episodi specifici e finendo, ancora una volta, per colpire gli operatori penitenziari. I quali, di fatto, vengono dipinti come irresponsabili, crudeli o, peggio ancora, responsabili dei diritti negati, se non, addirittura, complici di tali negazioni o finanche diretti sopraffattori. Gli operatori penitenziari operano con grande responsabilità ed impegno, anche in questo difficile momento e, come già altri hanno detto "se la situazione ancora non esplode è solo grazie al grande senso di responsabilità dei detenuti e allo spirito di servizio e l’abnegazione degli operatori penitenziari" (Desi Bruno, coordinatrice nazionale garanti e Garante diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna). Segno, aggiunge chi scrive, che lo sforzo continuo degli operatori penitenziari è costantemente rivolto a garantire le migliori condizioni di vita possibili nelle carceri e l’attivazione di ogni intervento diretto ad assicurare la tutela dei diritti o, quantomeno, la comprensione ed attenuazione dei disagi delle persone private della libertà personale, con spirito umano e pedagogico. Non c’è dubbio, infatti, che a nessuno stia più a cuore degli operatori penitenziari un carcere nel quale siano rispettati i principi loro affidati dalla legge e dalla Costituzione. Un penitenziario nel quale non si debba sperimentare la sofferenza ulteriore di spazi vivibili ridotti, di vite che non si è riusciti a salvare sotto il profilo rieducativo o, peggio, sotto quello della vita fisica. Un suicidio, infatti, è sempre vissuto da qualunque operatore penitenziario, poliziotto o educatore, comandante o direttore, come un fallimento, proprio e dell’istituzione. In qualche modo, come un lutto da elaborare. Se fosse possibile far respirare, a chi non crede, il clima di sofferenza che si respira nel penitenziario allorquando un detenuto rinuncia a vivere, costui scoprirebbe questo lutto, sentirebbe le mille domande che ciascuno degli operatori penitenziari si pone sull’evento, percepirebbe come gli operatori non riescono mai ad "assolversi", anche quando è stato acclarato che tutto il possibile hanno tentato perché la strada della vita e della speranza non si spezzasse. Il suicidio è un evento difficile da impedire e ancor più difficile da prevedere. Chi conosce veramente il carcere sa che il detenuto intenzionato a togliersi la vita riesce, purtroppo, a farlo comunque, sulla scelta di vivere, come per la partecipazione individuale all’opera di rieducazione, un ambito insopprimibile di autodeterminazione dell’individuo che nessun intervento professionale, di polizia o psico-pedagogico, può riuscire a condizionare. Si deve però dire che molti suicidi non sono morti provocate dalla sofferenza da privazione della libertà in carcere (sovente la sofferenza che li determina è causata da altri fattori, personali, sociali e familiari) e che l’impegno e la professionalità degli operatori penitenziari, quotidianamente, contribuisce a salvare molte vite umane: di questo si vorrebbe che si rendesse loro più merito. Purtroppo, i successi, anche numerosi, non fanno "audience". Non c’è dubbio che la morte di un uomo, ancorché detenuto, imponga e renda legittima una domanda di chiarezza. È però altrettanto indubbio che non è eticamente ammissibile che si costruiscano gogne mediatiche sul carcere e sui suoi operatori. Questo non aiuta gli operatori penitenziari nel loro difficile compito, né i detenuti a vivere meglio la loro carcerazione, né la società ad avere fiducia nelle istituzioni. Non si può criminalizzare un sistema. Significherebbe gettare via il bambino con l’acqua sporca. Occorre analizzare i problemi e cercare soluzioni possibili, compatibili con le reali possibilità. Per questo, occorre una riflessione seria, che valuti la situazione nella sua dimensione di realtà, anche sotto il profilo dei possibili interventi. Soprattutto in un momento difficilissimo, nel quale le risorse finanziarie sono sempre più scarse a causa della crisi economica internazionale. Soprattutto in un momento in cui registriamo un incremento notevole di extracomunitari in carcere, per l’assenza di fattive collaborazioni politiche internazionali volte a contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina nel nostro Paese, piattaforma di approdo facile e privilegiato nel Mediterraneo. Giustizia: donne in carcere; emarginazione e recupero difficile di Bianca La Rocca
Social News, 18 dicembre 2009
Il rapporto con il proprio corpo e lo stato di salute sono un grave problema della donna in stato di detenzione. In molte detenute sono riscontrabili i segni di disagi psichici e fisici di chi perde il controllo della propria fisicità. La detenzione, recidendo i contatti con le persone amate, provoca anche una sorta di disinteresse per la propria salute. Iniziamo con i numeri, tratti dal Dossier sulle carceri italiane curato dal Partito Radicale nell’agosto scorso. Sulle 215 case circondariali che hanno compilato il questionario, il numero delle donne detenute risulta essere di 2.689 unità su un totale di 62.377. Di queste, 488 sono tossicodipendenti, 146 in terapia metadonica e 114 sieropositive. Tra i detenuti stranieri, le donne sono 939 su un totale di 22.089. L’esiguo numero - sostanzialmente la popolazione detenuta femminile in Italia oscilla da sempre tra il 4% e il 5% del totale, non superando mai questa soglia - spiega, ma solo in parte, lo scarso interesse per la detenzione femminile. La maggior parte dei problemi che le donne si trovano ad affrontare, durante la detenzione e al momento del loro reingresso in società, è diretta conseguenza del cronico sovraffollamento di cui soffrono i sistemi penitenziari italiani. Questo è determinato, in massima parte, dalle presenze maschili ed è subito anche dalle donne, a causa della gestione amministrativa unitaria di prigioni e sezioni maschili e femminili. Le donne detenute ed ex detenute presentano problematiche peculiari, legate alla loro condizione di genere -prime fra tutte, ma non unicamente, quelle sanitarie e quelle legate alla maternità - per far fronte alle quali si rivelano inadeguati gli strumenti utilizzati per gli uomini. Dai pochi numeri a disposizione, ci rendiamo conto che tale stato riguarda prevalentemente i reati connessi agli stupefacenti, con pene in genere brevi, anche se recidive. Sia per le donne di nazionalità italiana, sia per quelle straniere (soprattutto di etnia rom), i reati connessi agli stupefacenti e le rapine si accompagnano all’esperienza della tossicodipendenza ed ai processi di marginalità che questa comporta. Spesso, le straniere in carcere per detenzione e spaccio sono in prevalenza corriere della droga, al primo impatto con la giustizia. Il tasso di recidività indica, inoltre, che la detenzione non riesce ad interrompere il precedente modus vivendi e non svolge alcuna funzione rieducativa. Le donne, mediamente, scontano pene di lunghezza molto inferiore a quelle degli uomini. La maggior parte non supera i cinque anni. Ci troviamo, quindi, di fronte a donne che passano in carcere periodi brevi, ma, purtroppo, ripetuti. L’ennesimo esempio del fallimento dell’esperienza carceraria in termini di rieducazione, dove la detenzione contribuisce ad acuire modalità di vita sempre al limite della legalità. Questo è più evidente se verifichiamo il numero delle donne lavoratrici. A fronte di una scarsità di possibilità lavorative, il numero delle donne impiegate è irrisorio: 78 su un totale di 793 detenuti lavoranti in carcere per conto di imprese e cooperative; 1 su un totale di 51 detenuti semiliberi che lavorano in proprio; 26 su un totale di 776 detenuti semiliberi che lavorano per datori di lavoro esterni; 650 su un totale di 10.850 detenuti dipendenti dall’amministrazione penitenziaria. Tale scarsità delle risorse lavorative rende ancora più difficile ottenere la concessione di misure alternative. L’accentuato turnover non permette la programmazione di una qualsiasi attività di recupero efficace. Ad aggravare la situazione, è l’esistenza di poche carceri femminili. Le donne detenute in Italia, infatti, si trovano assegnate in sette istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Rebibbia, Perugia, Empoli, Genova, Venezia) e in 62 sezioni all’interno di carceri maschili. Questo comporta che molte detenute, dopo il processo, siano trasferite in penitenziari lontani dal luogo di residenza della famiglia, con gravi conseguenze per i figli. Inoltre, la suddivisione delle detenute in unità molto piccole provoca una sostanziale mancata applicazione della legge che dovrebbe regolamentare la detenzione femminile. Attualmente, il carcere è, sia per quanta riguarda le strutture, sia per i regolamenti interni, identico per entrambi i sessi, senza alcuna tutela né della soggettività, né della necessità di tutelare i figli piccoli. Anche se pochissime donne detenute accettano di parlare dei problemi connessi alla maternità, risulta evidente che una tale situazione comporta un percorso di disagio e dolore di fronte ad un distacco che, nel tempo, diventa difficile recuperare. Altro problema è quello rappresentato dai bambini ospitati, anche se temporaneamente, in strutture penitenziarie (sono circa 70 i bambini al di sotto dei tre anni di età che si trovano in carcere con le loro madri, tanto in prigioni interamente femminili, quanto in sezioni ospitate all’interno di prigioni maschili). Appare, a tutti i livelli, una pratica inutile e contraria al rispetto dei diritti umani. Anche se può apparire secondario, ma non lo è, il rapporto con il proprio corpo e lo stato di salute sono un altro grave problema della donna in stato di detenzione. In molte detenute sono riscontrabili i segni di disagi psichici e fisici di chi perde il controllo della propria fisicità. La detenzione, recidendo i contatti con le persone amate, provoca anche una sorta di disinteresse per la propria salute. È un rifiuto di qualsiasi aiuto o assistenza necessaria. Come ha dichiarato a più riprese Angiolo Marroni, Garante dei diritti dei detenuti nel Lazio, anche se le ultime riforme hanno lievemente intaccato la secolare separatezza del carcere dalla società, quest’ultima è ancora troppo distante e non vuole farsi carico delle responsabilità che comporta il recupero del detenuto. Anzi, le ultime iniziative legislative tendono ad un’accentuazione del percorso penale che allontana ancor di più la realtà carceraria come realtà sociale. La politica penale e penitenziaria italiana, oggi, secondo la sociologa Tamar Pitch, oscillerebbe, purtroppo, verso un polo repressivo, chiedendo più carcere, e carcere duro, come risposta all’allarme della criminalità organizzata, o a forme di disagio sociale che nulla hanno a che vedere con il crimine in senso stretto (ultima, in ordine di tempo, il percorso penale che dovrebbe coinvolgere gli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno). Una bizzarria criticabile, tipica di una società che tende a far scomparire le linee di divisioni in nome di una fluidità economica, sociale, culturale ed ideologica. Una società liquida, come è stata definita da Zygmunt Bauman, dove l’integrato è chi si percepisce parte della modernità, in termini di consumismo e di totale perdita di sicurezza sociale, mentre il povero, non riuscendo ad essere accettato nel ruolo di consumatore compulsivo, tende a rigettare le proprie frustrazioni attraverso l’esclusione coatta del diverso (ladro, delinquente, pericoloso), detenendolo all’interno di gabbie fisiche e mentali. A pagare il prezzo più alto, come sempre, le donne, tossicodipendenti, straniere, delinquenti.
"Trans...itare" in carcere
Abbiamo avuto occasione di lavorare in una sezione carceraria dedicata all’accoglienza di omosessuali e transessuali. Abbiamo incontrato una realtà che "non si vede", che si muove ai margini della vita delle persone e che appare solo negli scandali, come un mondo separato, da frequentare di nascosto, e da lasciare nascosto. Il carcere è pieno di storie inenarrabili. Ma vogliamo provare a dire qualcosa. Nel lavoro in sezione, un laboratorio di auto ed etero percezione a mediazione corporea, abbiamo conosciuto persone che, con stupore ed interesse, accoglievano le nostre proposte e provavano a raccontarsi. E a raccontarci. Che cosa ne è emerso? Abbiamo trovato una grande voglia di comunicare, di ascoltare, di pensare a sé in una dimensione di "parità", da persone. Spaccati di vite difficili, percorsi alla ricerca di un’alternativa tra i quartieri degradati di città lontane (provengono spesso dal Brasile o dalla Bolivia), esperienze frequenti di violenze e di emarginazione. Il viaggio verso l’Europa è il viaggio alla ricerca di un’identità negata. Che però tale rimarrà. Spesso in carcere, perché non in regola con i permessi di soggiorno o per piccoli furti ai "clienti". In questo modo, perdono ogni possibilità di rinnovo dei permessi di soggiorno. In carcere hanno poche alternative. Possono partecipare solo a progetti pensati e realizzati per loro e rimangono nelle sezioni speciali con la consapevolezza che, al momento della scarcerazione, possono solo tornare nel loro Paese o nella clandestinità. Esistono pochissime comunità disposte ad accoglierli. Pochissime anche altre esperienze di integrazione. Tornare nel loro Paese significa ripiombare nelle relazioni violente ed emarginanti da cui sono scappate, ma rimanere qui equivale a ripercorrere la strada della prostituzione, della manipolazione del corpo nel tentativo di rimanere "oggetto di desideri inconfessabili". Per loro, la parola "futuro" è inquietante. Vivono nel quotidiano, "fantasticando" storie e soluzioni, consapevoli che non si realizzeranno. Che progetti possono fare? Quali soluzioni possono trovare all’esterno? Qualcuna ha provato a pensarci, ma ci ha rimandato tutta la sua disperazione. L’unica soluzione è "fare tanti soldi per poter tornare a casa e comperare così la stima della famiglia, l’ammirazione del quartiere". Abbiamo proposto di scrivere una lettera ad un’amica immaginaria. Una di loro ha scritto: "Cara Bia, voglio dirti che nella vita molte volte si sbaglia, ma la cosa più importante è non dimenticarsi dell’amore per noi stesse perché tu vali più dell’oro e del platino. Questo oggi mi è tornato in mente". Quando parliamo di "trans", se ci rendessimo conto anche solo di una minima parte, non ci chiederemmo solo chi "va con loro", ma chi sono loro, dove abitano, se coltivano sogni o sentono di aver diritto a sognare. È possibile che loro "rappresentino" tutte le nostre parti immature, perverse, a cui non rinunciare. Per questo le si incontra di nascosto, le si nega, non ci si prefigura la costruzione di strade verso la normalità, le si frequenta "clandestinamente". Al termine, ci siamo salutate con la consapevolezza di portare tutte a casa qualcosa di prezioso, un angolo di calore nel cuore, un saluto tra persone che si sono conosciute, ascoltate, fidate, stimate. Per loro e per noi è stata un’esperienza inconsueta e straordinaria. Sarebbe interessante se nelle interviste si provasse a lasciar perdere le domande "morbose", tese a definire un noi e un loro che, almeno apparentemente, ci tranquillizza. Per aiutarle a trovare strade nuove, sarebbe interessante se avessimo il coraggio di chiedere loro non quali clienti conoscono, ma quali sogni frequentano. Giustizia: il "Forum Salute" ed il sovraffollamento che ammala di Giovanna Dall’Ongaro
Galileo, 18 dicembre 2009
A un anno e mezzo dalla sua entrata in vigore, la riforma della sanità penitenziaria non decolla e in prigione ci si ammala più di prima. La denuncia del Forum Nazionale per il Diritto alla salute in Carcere. Un anno e mezzo fa in molti festeggiarono il passaggio della medicina penitenziaria dal Ministero di Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale. Il Dpcm del primo aprile 2008 stabiliva infatti un sacrosanto principio di uguaglianza tra tutti gli individui: i detenuti malati hanno diritto di usufruire delle stesse strutture e delle stesse cure dei cittadini liberi. Il che avrebbe dovuto significare anche un miglioramento dei servizi. È andata veramente così? A sentire le relazioni presentate ieri, 17 dicembre, a Roma al Convegno Nazionale del Forum per il Diritto alla Salute in Carcere - una onlus nata con l’intento di monitorare il funzionamento dell’assistenza sanitaria ai detenuti - sembrerebbe che la riforma si sia piuttosto fermata ai buoni propositi, mentre le nostre carceri sono sempre più affollate di malati cronici. Con le stesse percentuali più o meno del periodo pre-riforma: il 38 per cento dei detenuti affetto da epatite C, il 25 per cento positivo al test della Tbc, il 7 per cento sieropositivo. Qualcosa evidentemente non ha funzionato. Forse perché non ci si immaginava di dovere fare i conti con un sovraffollamento degli istituti penitenziari senza precedenti nella storia del nostro paese: 66.000 detenuti a fronte di una capienza massima di 40.000. "Il sovraffollamento - spiega Alessandro Margara membro del Direttivo del Forum - ha profonde conseguenze sulla salute dei detenuti e sull’organizzazione dei servizi. Basta pensare alle risorse idriche e a quelle energetiche che diventano insufficienti se gli utenti sono più del previsto. Il che significa meno acqua per l’igiene personale e per la pulizia dei locali, una riduzione del riscaldamento e dell’illuminazione con conseguenze sia sul fisico che sulla mente". E se è vero, come sostiene Bruno Benigni, presidente del Centro Basaglia di Arezzo e membro del Forum, che la popolazione carceraria cresce al ritmo di 800 nuovi ingressi al mese, la situazione non è destinata a migliorare. È chiaro quindi che finché in sette metri e mezzo resteranno stipate tre persone, come accade soprattutto nelle prigioni metropolitane, ammalarsi in carcere sarà sempre più facile. Non a caso, sia la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo sia il Comitato del Consiglio Europeo per la prevenzione della tortura hanno ufficialmente "disapprovato" la situazione delle nostre carceri. La soluzione? Costruire nuove carceri, dice il governo. Ma la proposta non piace a nessuno degli intervenuti al convegno. Non convince Bruno Benigni perché le nuove prigioni non sarebbero "territorializzate" e quindi incapaci di creare quel legame con la società utile al reinserimento del detenuto. E non fa presa neanche su Patrizio Gonnella di Associazione Antigone che ha in mente tutt’altra strada, fatta di misure alternative, depenalizzazione di alcuni reati, riforma del codice penale. Spingendosi a immaginare il ricorso alle liste di attesa penitenziarie, una garanzia giuridica che dovrebbe funzionare più o meno così: "Nessuno può essere incarcerato se non gli sono garantiti gli spazi fisici fissati dalle normative europee". Questo per quanto riguarda i lunghi periodi. A breve termine il Forum si aspetta però di chiudere almeno le due più urgenti questioni ancora irrisolte: il recepimento della riforma della sanità penitenziaria da parte delle regioni a statuto speciale e delle provincie autonome di Trento e Bolzano, e l’assegnazione delle risorse per finanziarie alle regioni previste per il 2009, per progetti di prevenzione della salute nelle carceri. Giustizia: i figli delle detenute straniere nella terra di nessuno di Gabriella Albieri e Donatella Piccioni
Social News, 18 dicembre 2009
Per qualunque madre e bambino il carcere è una condizione drammatica, ma per gli stranieri diventa tragica. Dove vanno i loro bambini? Chi se ne occupa? Chi li tutela? Ci sono persone che vivono in questo Paese come se fossero in una terra di nessuno. E così anche gli assistenti sociali dell’Amministrazione Penitenziaria si trovano ad operare in questi casi come se fossero in una terra di nessuno. In un incontro di supervisione ad un’equipe dell’Uepe, è stato discusso il drammatico caso di una straniera, madre di due figlie di dodici e due anni, con una condanna agli arresti domiciliari che non può essere eseguita. Il nucleo, infatti, è stato sfrattato e un tentativo di accoglienza in istituto, per lei e le sue bambine, è fallito perché né il pubblico, né il privato pare avessero una struttura idonea ad accoglierle. Al momento dell’arresto, la donna porta con sé la più piccola in carcere, mentre la maggiore sarebbe stata affidata a dei connazionali, sotto lo sguardo accondiscendente di un’assistente sociale "che non era neppure competente perché il nucleo familiare non era residente". Ben presto, della maggiore si perdono le tracce, mentre la minore, al compimento dei tre anni, deve trovare una collocazione al di fuori del carcere. Il caso descritto costituisce un’importante occasione per riflettere. Il percorso della presa in carico è stato contrassegnato da numerose difficoltà: la mancanza di risorse sul territorio, da attivarsi prima per l’intero nucleo familiare e poi per le due figlie, ma anche le correnti procedure burocratiche. Se, da un lato, servono a delimitare i campi di responsabilità reciproca tra operatori delle diverse Istituzioni coinvolte, penitenziaria e non, dall’altro possono costituire un ostacolo difficile. Questo può diventare devastante nelle situazioni di urgenza, in particolare quando si tratti di situazioni sociali di estrema fragilità, come nel caso di madri straniere, senza adeguata rete familiare o comunitaria, e dei loro figli minori, la cui tutela sembra non essere competenza definita di Nessuno. Il fatto evidenzia come la collaborazione ed il coordinamento, che dovrebbero guidare il sistema locale dei servizi, sia solo teorica. Nella quotidianità, la cultura dell’integrazione della Rete, soprattutto in emergenza, fatica ad esprimersi nell’operatività dei diversi servizi chiamati a svolgere azioni di sostegno e aiuto integrati. Un secondo importante elemento di riflessione è la complessità delle problematiche delle madri in carcere: chi è dentro, chi è fuori, chi sta sul confine e con quale ruolo, in casi come questo, in bilico fra due drammi, rottura di relazioni o bambino in carcere. Per qualunque madre e bambino è una condizione drammatica, ma per gli stranieri diventa tragica. Dove vanno i bambini? Chi se ne occupa? Chi li tutela? Ci sono persone che vivono in questo Paese come se fossero in una terra di nessuno. Così, anche gli assistenti sociali dell’Amministrazione Penitenziaria si trovano ad operare in questi casi come se fossero in una terra di nessuno. I loro sforzi s’imbattono sempre nelle stesse risposte "di non competenza". Quella descritta è una delle tante situazioni al "confine" della nostra competenza, situazione di forte impatto emotivo che evoca l’indignazione tra gli operatori coinvolti. La parola che prende forma tra loro è scandalo, la cui definizione per Devoto-Oli è: rivelazione di clamorose responsabilità a carico di persone o di istituzioni legate all’interesse pubblico, con ripercussioni notevoli sulla pubblica opinione. Per gli operatori, è subito chiaro che non rileva capire di chi è la responsabilità nel caso trattato. Anche perché, dicono, in senso etico, abbiamo tutti responsabilità di "farci carico". È importante, invece, riflettere sull’interesse pubblico del quale gli operatori rappresentanti di istituzioni pubbliche (nazionali, locali...) devono farsi agenti. La distanza tra la terra di nessuno, dove talvolta si colloca anche il Carcere, e la cittadinanza è enorme. Soprattutto, quando certi tragici destini ci sfiorano. Invisibili. Come può la tutela di un bambino, indipendentemente dall’appartenenza, non essere una questione di pubblico interesse? Come può trovare posto nell’interesse pubblico la tutela di casi drammatici come questi, quando negli ultimi lustri è diventata così marcata l’assenza di un pensiero strategico nella Polis sul tema della tutela dell’infanzia? Serve ben più delle vaccinazioni e dei programmi didattici stilati dal Ministero dell’Istruzione per garantire che i bambini crescano sani. Ma questo, oggi, non sembra un tema di interesse politico. E ne lasciamo all’immaginazione i motivi. Una giovane tirocinante nel gruppo di supervisione dice: "dov’è finita quella bambina? una bambina-donna, come qualcuno ha deciso per lei... una situazione al "confine" della nostra Competenza... che brutta parola! A volte usata per ribadire una supremazia, altre per una negazione, è sempre un voler determinare confini di separatezza. Vorrei vedere la competenza e il confine come esperienza che unisce, come possibilità di connessione e dialogo. Gli Uepe sono contenitori di frontiera: penale e sociale, legale e illegale, connazionale e straniero...Per contenere con uno sguardo più allargato la complessità e mettere in relazione le differenze, la necessità principale diventa il confronto, l’uscire dai confini, il comunicare, il connettere, l’osare". Ci sono operatori nei Carceri che hanno voglia di prendersi uno spazio in questa terra di nessuno e creare con i Servizi del territorio connessioni alternative, frutto di valori e metodi concretamente condivisi, invece di essere diligenti esecutori di procedure formali di organizzazioni spesso troppo burocratizzate. Giustizia: generazione di giovani stranieri rinchiusa in carcere di Paola Cigarini
Social News, 18 dicembre 2009
Da un estremo all’altro: o non se ne parla proprio o se ne parla assai!! Di cosa? Del carcere ovviamente, di quel luogo lontano ove si tende a mettere le persone che "danno fastidio", "gli indesiderati" e soprattutto si tende a dimenticarli lì. Poi accade il fatto eclatante, e un altro, un altro ancora... e se ne parla ogni giorno, si scopre che la situazione è "esplosiva", che il grado di inciviltà delle patrie galere è inaccettabile, che è disumano il trattamento di chi vive "dentro". Gli ingressi di politici, amministratori, di chi vuole vedere le gabbie piene, sono ormai quotidiani, e tutti hanno pronta una soluzione. Un piano per risolverla definitivamente è stato messo a punto, ma tutto è ancora come prima, anzi peggio di prima e per tenere i riflettori accesi su questa miseria, ancora morti, sofferenza e rabbia. Ma dove siamo, in quale Paese viviamo se ci lasciamo prendere in giro così?! Se accettiamo che lacrime di coccodrillo siano piante anche da chi prima produce il danno (leggi che producono galera e solo galera, clima di paura e insofferenza) e poi finge di accorgersi che c’è un problema di "dignità umana", ma di chi? Certo, dentro non si vive, si cerca solo di sopravvivere. Sono lontani i tempi in cui il volontariato chiedeva per le persone recluse il riconoscimento di diritti umani quali l’affettività, più relazioni con la società esterna, lo studio, il lavoro, una possibilità di reinserimento e soprattutto un aiuto a cambiare strada, ad intraprendere nuovi percorsi di consapevolezza e responsabilità. In sostanza il diritto ad avere un futuro, il diritto alla speranza che dà la forza per accettare anche le miserie, le sofferenze, le delusioni dell’oggi. Perché stupirsi allora se "dentro" c’è rabbia, se aumentano a dismisura l’autolesionismo e i gesti di ribellione, gli episodi di sopraffazione e le chiusure. Le speranze, anche le nostre di cittadini volontari, sembrano oggi cancellate alla luce di un sistema giustizia ormai esploso ed imploso, dove si fa il possibile, ma il possibile è poco, troppo poco. Il senso della pena si è rinchiuso sulla punizione e sulla vendetta, nella miope illusione che possa servire anche a me, cittadino per bene e di "buona condotta". È oggi rinchiusa nelle carceri una generazione di giovani provenienti da tutto il mondo (oltre che dal nostro paese), giovani in carne ed ossa, con berrettino girato all’indietro, scarpe da ginnastica, la felpa con cappuccio ed i jeans (solo e sempre quelli con i quali sono entrati). Li vediamo alla ricerca disperata di una sigaretta che possono solo chiedere come un assetato chiede un bicchiere d’acqua nel deserto, elemosinarla perché non hanno soldi per comperarsela. A questi giovani spesso nei discorsi affidiamo il futuro, ma non esitiamo ad allontanarli se non rispondono al nostro ideale e, se in mille modi ci dicono che dentro a questo modello non riescono a stare, giungiamo fino a chiuderli e ad abbandonarli, senza accorgerci che forse in questo modo diamo corpo al nostro fallimento di adulti. Che dire alla fine? Si resiste alla sofferenza e all’ignoranza, perché consapevoli che non c’è fuga possibile dall’oggi in cui viviamo, con le sue contraddizioni, le sue paure, i suoi pochi valori. È in questa situazione che ci troviamo ad operare ed è qui, guardando onestamente e coraggiosamente il problema della giustizia e della pena in Italia, che tentiamo di offrire il nostro contributo come volontari, per tenere aperto un futuro capace di includere e non escludere le persone, anche quelle diverse da noi. Giustizia: nelle carceri 150 morti ogni anno, dramma nascosto di Massimiliano Fanni Canelles
Social News, 18 dicembre 2009
Negli istituti penitenziari italiani, ogni anno muoiono oltre 150 detenuti. Raramente i giornali ne danno notizia. A volte, il decesso è dovuto a patologie cardiovascolari; altre volte, segna l’epilogo di una malattia cronica o di uno sciopero della fame o addirittura si tratta di suicidio, che in carcere ha una frequenza 19 volte superiore. Altre morti, invece, sono sospette di maltrattamento ad opera del personale in servizio o di violenza da parte di altri detenuti. Il drammatico caso di Stefano Cucchi è solo l’ultimo di una serie che trae origine negli anni passati. La Magistratura si sta già occupando delle morti di Luigi Acquaviva, Giuliano Costantini, Francesco Romeo, Mauro Fedele. È plausibile l’ipotesi di omicidio, ma, in attesa degli esiti dell’inchiesta giudiziaria, queste morti sono comunque catalogate come "da cause naturali". Spesso questi drammi si collocano in strutture fatiscenti, con poche attività rieducative, dove è scarso anche il volontariato. A queste carenze si aggiungono i tagli alla sanità penitenziaria e la diminuzione del personale. Al detenuto non vengono così garantiti i diritti alla salute e alla dignità. Proprio quest’ultima è annientata nelle persone carcerate in attesa di processo. Oggi basta un avviso di garanzia perché giornali e televisioni distruggano la vita della persona indagata, senza tenere in alcun conto la presunzione d’innocenza, garantita dalle leggi e dallo Stato, fino a sentenza definitiva. Persone indagate, che nel 50% dei casi saranno poi assolte... Ma ormai il loro nome è stato associato a vicende criminali ed è questo che rimane impresso nella memoria della gente. Non la sentenza d’assoluzione o il trafiletto di correzione nei giornali. Altro versante critico è quello del reinserimento nella società, al termine della pena. Esistono degli organi preposti al sostegno delle persone scarcerate, i Consigli d’Aiuto Sociale, imposti dalla legge di riforma penitenziaria del 1975. Ci sono poi gli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna, con la duplice funzione di controllo e sostegno durante l’esecuzione delle misure alternative. Ma spesso, tutto rimane sulla carta. La pena resta solo punizione, la rieducazione è disattesa. Ne consegue che il tossicodipendente tornerà a drogarsi, il ladro a rubare, l’assassino ad uccidere. Certo, le soluzioni non escono magicamente dal cilindro. Ma si potrebbero incentivare progetti di prevenzione dei suicidi e degli autolesionismi, monitorare - avvalendosi anche delle associazioni e dei giornali carcerari - le morti negli istituti di pena, consentire l’accesso ad operatori sanitari volontari, che affianchino il personale medico in servizio. I detenuti stranieri, sempre più numerosi, richiederebbero poi interventi mirati: educazione sanitaria, mediazione socio-culturale... In questo panorama desolante, diventano emblematiche, e drammaticamente attuali, le parole di Adriano Sofri scritte nel 1999 ne "il Foglio": "Vorrei tornare su questa vergogna delle evasioni. Nell’ultimo mese sono evasi tre da Rebibbia e uno da Milano Opera. Gente all’antica, con lenzuoli annodati... Ma la forma di evasione più diffusa e subdola, perché si maschera in modo da essere ignorata nelle statistiche criminali, è il suicidio. Un centinaio di delinquenti all’anno se ne vanno così, a volte anche loro con le lenzuola dell’Amministrazione. È ora di dire: basta!". Giustizia: Nessuno tocchi Caino; Osservatorio morti in carcere
Agi, 18 dicembre 2009
Nei primi undici mesi del 2009, nelle carceri italiane sono morti 168 detenuti, 68 dei quali per suicidio. Solo a novembre, si sono verificati 17 decessi, 5 dei quali per suicidio, ma 6 dei quali per "cause ancora da accertare". Lo ha detto oggi Walter Vecellio, nella sua relazione al congresso dell’associazione Nessuno Tocchi Caino che Radio Radicale sta trasmettendo in diretta dal carcere circondariale di Padova. Secondo un altro relatore, Marco Boato "la situazione degli istituti penitenziari in Italia è spaventosa, con 66 mila detenuti complessivi, il 50 per cento in più del limite consentito dalle capacità delle strutture carcerarie". "Occorre un osservatorio di vigilanza sulla strage di detenuti che ogni anno muoiono dietro le sbarre". Questo il commento del segretario di Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia, nella giornata di apertura del quarto congresso dell’associazione organizzato nella Casa di Reclusione di Padova. La popolazione carceraria in questo momento è costituita in Italia da 66mila detenuti, ha ricordato D’Elia, quando la capienza massima sarebbe di 43mila. "Non si può continuare a far finta di niente - ha rilevato. È evidente perché quest’anno 68 persone si siano tolte la vita in carcere, in condizioni che definire disumane non è ancora abbastanza". "Siamo qui oggi e domani - ha aggiunto D’Elia - perché crediamo che proprio da esperienze come quelle della Casa di Reclusione di Padova si possa partire per immaginare una politica carceraria diversa, più umana e con il lavoro alla base del recupero delle persone detenute". Giustizia: morì a 22 anni in carcere, pm chiede l’archiviazione
Agi, 18 dicembre 2009
Il pm della procura di Genova Francesco Cardona Albini ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sulla morte di Manuel Eliantonio, il ragazzo di 22 anni di Pinerolo deceduto in una cella del carcere di Genova Marassi il 26 luglio del 2008 per una intossicazione da butano. Il fascicolo era stato aperto inizialmente per istigazione al suicidio. Una volta chiarito che non si trattò di suicidio, fu ipotizzato che Eliantonio fosse stato picchiato e quindi indotto ad aspirare butano da una bombola. Ma anche questa ipotesi investigativa non giunse a nulla. In sede di autopsia fu chiarito che le lesioni sul cadavere di Eliantonio erano state provocate dalla caduta dopo la perdita di sensi e dalla lunga permanenza a terra, con relativi depositi ematici. Giunta al termine l’inchiesta, il pm ha chiesto l’archiviazione del fascicolo. Sarà il gip Annalisa Giacalone a dover decidere, valutando anche un’opposizione all’archiviazione presentata dagli avvocati dei familiari del ragazzo che da sempre rigettano l’ipotesi della morte per intossicazione da butano. Secondo invece quanto stabilito dagli inquirenti il giovane aveva aspirato butano nel tentativo di stordirsi in assenza di droga. Eliantonio era stato fermato sull’autostrada mentre viaggiava con alcuni amici su un’auto rubata. I giovani erano fuggiti durante la verifica della polizia stradale. Per questo era stato tratto in arresto. Nell’agosto successivo alla sua morte sarebbe stato scarcerato. Giustizia: diritto alla salute, come per qualsiasi altro cittadino di Fiorentina Barbieri e Irene Salvi
www.linkontro.info, 18 dicembre 2009
"Diversione bilio-pancreatica", è questo il nome esatto dell’intervento operatorio comunemente noto come riduzione dello stomaco: è quello cui, nel carcere di Secondigliano si era sottoposto nel 1998 Giacomo, 42 anni, detenuto catanese. Quando era entrato in carcere, nel ‘92, pesava infatti oltre 240 kg. E adesso? Difficile dirlo con esattezza, visto che l’operazione ha comportato l’insorgere di una strana patologia, in pratica una sindrome "da malassorbimento", che non permette al suo corpo di assimilare le sostanze nutrienti e che di conseguenza lo fa deperire giorno dopo giorno. Per adesso ha già perso 150 chili. A giugno 2009 il legale di Giacomo ha presentato istanza al Tribunale di Sorveglianza, al fine di ottenere il trasferimento in una struttura sanitaria adeguata, ma la richiesta è stata rigettata sulla base del parere dei medici del carcere di Secondigliano, i quali ritengono che le cure necessarie possano essere disposte nel centro clinico dell’istituto, con il ricorso occasionale a strutture esterne. Con queste premesse è facile intuire il seguito della storia: Giacomo, malato, lontano dalla sua terra e soprattutto dalla sua famiglia, soffre ormai di una grave forma depressiva e da poco ha iniziato uno sciopero della fame. La sorella, sottoposta allo stesso intervento e vittima dello stesso male, ha presentato lo scorso agosto un appello direttamente al Ministro della giustizia Angelino Alfano e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma al momento non ha ancora ricevuto risposta. Le condizioni di Giacomo non richiedono soltanto la somministrazione di farmaci specifici, ma anche un’alimentazione particolare e la necessità che sia sottoposto a un monitoraggio continuo, in vista peraltro di un secondo intervento chirurgico che tenti di arginare le disastrose conseguenze del primo: a detta della sorella, che raccoglie il parere degli specialisti da lei consultati, questa sarebbe l’unica via per garantire a quest’uomo la possibilità di una vita normale. Come pretendere che un detenuto intraprenda un percorso di riabilitazione, che dovrebbe essere lo scopo di ogni pena, se gli viene negato il diritto primario, ossia quello di essere curato? Il diritto alla salute va visto all’interno di un quadro che comprende anche la possibilità di sostegno della famiglia, senza il quale è bene difficile affrontare la malattia. Non sappiamo su quanto tempo Giacomo possa ancora contare: speriamo solo sia sufficiente a chi di dovere per prendere coscienza del suo caso, e per attivare le azioni necessarie affinché lui possa ricevere le cure necessarie alla sua sopravvivenza. Come qualsiasi altro cittadino. Giustizia:
imprenditori Nordest; investire nel lavoro in carcere Ansa, 18 dicembre 2009 Parte
dal Carcere Due Palazzi di Padova l’appello agli imprenditori del Nordest ad
investire nel lavoro in carcere: convocati da Michele Bortoluzzi della Giunta
Nazionale di Radicali Italiani, gli imprenditori veneti più rappresentativi si
sono impegnati a far conoscere a tutti i vantaggi della “delocalizzazione in
carcere”. Una
scelta, è stato sottolineato oggi nel corso di un incontro svoltosi
all’interno del penitenziario, che premia per costo del lavoro, qualità e
tempistica. “Ci siamo mossi - spiega Bortoluzzi - su alcune parole chiave,
come “Sicurezza senza paure”, perché la vera sicurezza passa per la
riduzione della recidiva: nel caso di Padova è abbondantemente sotto il 3% per
chi lavora e continua un percorso all’esterno, contro quasi il 69% di recidiva
per chi non avrà mai un lavoro”. Il
presidente di Confindustria Padova Peghin, direttore di Morellato che ha
attualmente produzioni all’interno del penitenziario patavino, ha spiegato di
essere “rimasto sorpreso nel conoscere i dati e gli incentivi che sono
garantiti alle imprese che investono nel lavoro in carcere”. Luigi Rossi
Luciani, già presidente di Confindustria Veneto e presidente dei Parchi
Tecnologici di Venezia e Padova, ha ribadito che la sicurezza è un valore
aggiunto per le imprese: “se a questa sommiamo il valore dei risparmi - ha
detto - le imprese che si avvicinano al lavoro in carcere possono dire di fare
un affare: l’importante è che lo sappiano e che siano disponibili a
delocalizzare anche lavori di tipo intellettivo”. Il Direttore di Confindustria Belluno e il deputato imprenditore Massimo Calearo ritengono ora essenziale “portare a conoscenza delle imprese e delle associazioni i vantaggi del sub appalto dei lavori in carcere”. Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 18 dicembre 2009
Caro Arena, siamo tre detenuti del carcere di Treviso, tre detenuti che dividono la stessa piccola cella. Una cella non più grande di 6 mq, bagno compreso. Si tratta di una cella non solo piccola, ma anche molto rovinata. I muri infatti si sbriciolano solo a toccarli e il pavimento è in cemento grezzo che praticamente è impossibile da tenerlo pulito per quanta polvere c’è. Il bagno è piccolissimo e dentro c’è solo una tazza alla turca, senza bidè e un lavandino. Lavandino che quindi dobbiamo usare sia per la pulizia personale che per lavarci i vestiti. Dentro la cella dove viviamo, c’è molta umidità e soprattutto moriamo dal freddo. Infatti i termosifoni li accendono solo per due ore al giorno e a noi praticamente ci sembra di vivere in una grotta. Pensa che viviamo 24 ore su 24 sempre vestiti per proteggerci dal freddo. Abbiamo paura di prenderci un raffreddore, anche perché qui non ci sono neanche delle aspirine. Qui nel carcere di Trento non abbiamo nulla, né beni necessari come la carta igienica né l’assistenza degli educatori. Per il resto vi diciamo solo che due mesi fa qui è morto un detenuto. Era notte, si è sentito male e nessuno lo ha soccorso. Così si muore in carcere. Nell’indifferenza! Non chiediamo impunità, chiediamo solo di scontare la nostra pena in modo giusto e non come degli animali chiusi in gabbia.
Ramon, Roberto e Cristian, dal carcere di Treviso
Cara Radiocarcere, vi scrivo per informarvi su dei nuovi particolari relativi a quel detenuto picchiato nel carcere di Teramo. Pestaggio reso noto dalla famosa registrazione del comandante degli agenti. Prima di tutto qui in carcere si dice che l’agente che ha picchiato il detenuto ha dichiarato di essere stato a sua volta aggredito e poi si è preso un lungo periodo di ferie. L’agente avrebbe dichiarato di aver subito diverse lesioni, cosa strana visto che il detenuto picchiato è molto magro ed esile di costituzione. Il fatto è che il giorno in cui quel detenuto è stato picchiato circa dieci detenuti hanno visto tutto, ma per ovvie ragioni hanno preferito non parlare. Ora però io ho visto quel detenuto in infermeria. Ed ho visto con i miei occhi il segno degli anfibi sulla sua schiena e le costole inclinate di quel povero disgraziato. Ma ciò nonostante il comandante degli agenti ha dichiarato la sua innocenza e ha parlato di un malinteso. Davvero incredibile! Comunque sia sappi che qui nel carcere di Teramo stanno uscendo altre storie di violenza analoghe il che non è molto tranquillizzante. Per il resto nel carcere di Teramo siamo sempre più sovraffollati. Le celle sono strapiene e, chi è meno fortunato, è costretto a dormire per terra all’interno di stanze che non sono nemmeno delle celle.
Lorenzo, dal carcere di Teramo Teramo:
muore detenuto 23enne, testimone presunto pestaggio Ansa, 18 dicembre 2009 Il
detenuto morto nell’ospedale di Teramo, U.E., 23enne nigeriano, era stato
ascoltato in qualità di testimone dalla Procura di Teramo nell’ambito
dell’inchiesta relativa al presunto pestaggio di un altro detenuto avvenuto
nel carcere abruzzese. Secondo
quanto si è appreso, sulle cause della morte del detenuto nigeriano è stato
aperto un fascicolo dalla Procura di Teramo ed è stata disposta l’autopsia.
Il detenuto extracomunitario era stato testimone negli accertamenti relativi al
presunto pestaggio avvenuto recentemente nel carcere di Teramo e per il quale il
capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva ordinato la
sospensione del comandante di reparto del carcere abruzzese. Secondo quanto si
è appreso, tuttavia, il nigeriano non sarebbe il testimone-chiave di cui si
parla nel colloquio tra alcuni agenti che raccontavano l’episodio,
verificatosi alla presenza di altri detenuti. Secondo una prima ricostruzione effettuata negli ambienti della struttura penitenziaria, il giovane straniero ha accusato forti dolori addominali in mattinata ed è stato trattenuto in osservazione nel reparto infermeria del carcere: dopo qualche tempo si è però aggravato ed è stato necessario il suo trasporto al vicino ospedale dove però è morto. Secondo i medici del nosocomio teramano la morte sarebbe stata provocata da cause naturali. Padova: 96 posti 254 detenuti, rivolta nel carcere sovraffollato di Giovanni Viafora
Corriere della Sera, 18 dicembre 2009
L’altra notte, tra mercoledì e giovedì scorsi, la Casa circondariale di Padova ha rischiato di esplodere. La struttura, sull’orlo del collasso con 254 detenuti ospiti, a fronte di una capienza massima di 96 posti, è stata teatro di una drammatica contestazione durata fino all’alba. La rivolta è stata quietata alle 4.30 del mattino, ma è stato necessario l’intervento esterno di carabinieri e polizia. Secondo la testimonianza di Giampietro Pegoraro, coordinatore sindacale degli agenti penitenziari per la Cgil, il primo focolaio di protesta si è acceso attorno a mezzanotte, quando dalle celle è partita la cosiddetta "battitura", ossia lo sbattere sulle sbarre da parte dei detenuti con pentolame e altri attrezzi metallici. La situazione è degenerata poco dopo, specie nell’area dell’ex settore femminile. In una cella, in particolare, i carcerati hanno dato vita ad una contestazione veemente: in otto, tutti stranieri, hanno cominciato a dare fuoco alle lenzuola e a devastare sanitari e impianti idraulici. L’acqua si è immediatamente sparsa ovunque, mentre anche letti e armadi venivano completamente divelti. "Fortunatamente non si è verificata alcuna colluttazione tra agenti e detenuti - ha spiegato la direttrice della Casa circondariale, Antonella Reale - E, alla fine, sono rimasti solo i danni: una stanza distrutta, tubi rotti, pavimenti allagati". Placata la contestazione, gli otto rivoltosi sono stati trasferiti verso altre strutture di detenzione. "È da tempo che denunciamo questo dramma - ha dichiarato il sindacalista Pegoraro - È insostenibile. Qui non si riesce più a vivere". I numeri sono spaventosi. A Padova, nella Casa circondariale, che è il luogo dove vengono fatte scontare le pene più brevi o dove sono portati gli imputati in attesa di giudizio, ormai si trovano otto-dieci carcerati per ogni cella da 12 metri quadri. I detenuti, quasi tutti extracomunitari (sono il 90% della popolazione carceraria), dormono per terra, nei bagni, in condizioni igienico-sanitarie precarie. "Bisogna trovare una soluzione in breve tempo" ha chiuso Pegoraro. Che questa sera, intanto, si confronterà nella sala Anziani di Palazzo Moroni con i volontari e gli educatori di "Ristretti Orizzonti" e "Antigone", due associazioni che operano nel carcere. Perché la situazione è vicina al collasso. Bologna: i detenuti sono poverissimi... hanno "bisogno di tutto"
Dire, 18 dicembre 2009
Allarme povertà al carcere della Dozza: i detenuti hanno "bisogno di tutto" e, sempre più spesso, chiedono di poter lavorare perché non hanno i soldi nemmeno per fare una telefonata. Una situazione su cui hanno deciso di richiamare l’attenzione, a pochi giorni dalle festività natalizie, l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Bologna, Luisa Lazzaroni e la garante delle persone private della libertà personale, Desi Bruno. In una nota congiunta, Lazzaroni e Bruno scrivono: la "gran parte delle persone ospitate nel carcere di Bologna (dove i numeri attualmente si attestano attorno alle 1.200 unità di cui due terzi stranieri) è poverissima e bisognevole di generi di prima necessità che vanno dal vestiario, passando per il francobollo sino ad arrivare ai prodotti per l’igiene personale". La situazione di "estrema povertà" si inserisce in un "contesto di tagli sensibili e progressivi alle risorse finanziarie destinate alla remunerazione dei detenuti impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria". È per questo, spiegano Lazzaroni e Bruno, che in carcere "si lavora sempre meno". Tra "lavori domestici di ordinaria gestione, manutenzione e pulizia", si legge nella nota, è impiegato solo il 10% dei detenuti e succede sempre più spesso che "la persona chieda di poter lavorare anche perché non ha i soldi per fare una telefonata ai propri familiari". Se "in carcere c’è bisogno di tutto", Lazzaroni e Bruno non dimenticano di ringraziare la "società civile" che ha risposto positivamente agli appelli del Garante a forme di solidarietà per la Dozza". Tra questi, Afm, Coop Adriatica; Conad, Mop, il Lions Club ‘Dante Alighierì di Ravenna, l’editore Giuffrè e lo studio legale Manca-Mannironi, di Nuoro, che ha donato "libri in lingua araba". Oristano: corso di formazione interno-esterno per 18 detenuti
La Nuova Sardegna, 18 dicembre 2009
L’obiettivo è il reinserimento di coloro che sono stati in carcere. Così diciotto detenuti del carcere di piazza Manno hanno partecipato a due corsi di formazione organizzati in collaborazione stretta tra la Casa Circondariale, Laore, e la comunità "Il Seme" di Corte Baccas. Proprio ieri la cerimonia conclusiva del percorso formativo, consistito in due principali azioni di formazione integrata. La prima di tipo teorico (con due corsi formativi), durata tre mesi, è stata realizzata all’interno del carcere di piazza Mannu. La seconda di tipo pratico presso la fattoria sociale della comunità "Il Seme". L’iniziativa, considerata fra le più importanti in Italia, rappresenta la prima parte di un percorso innovativo di attività finalizzate a costruire opportunità a favore dell’inclusione sociale e dell’inserimento lavorativo delle persone detenute attraverso l’agricoltura sociale, con la collaborazione delle comunità "Il Samaritano" e "Il Seme" e il loro Consorzio Terra Madre. L’iniziativa punta insomma a favorire la nascita di concrete opportunità di formazione e reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti, anche creando le necessarie condizioni per utilizzare con efficacia le risorse dell’agricoltura sociale e l’insieme di risorse comunitarie e nazionali. Bollate: nel carcere scoperti telefonini, documenti falsi e droga
Agi, 18 dicembre 2009
Un’operazione condotta dal personale di Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere di Milano Bollate ha portato al rinvenimento, nelle celle dei detenuti ammessi al lavoro all’esterno disciplinato dall’articolo 21 della Legge penitenziaria, di ben 8 telefoni cellulari, svariate carte d’identità false e una certa quantità di sostanza stupefacente (hascisc). Ne dà notizia il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe, rilevando che ciò dimostra "il fallimento di certe politiche risocializzanti a tutto campo" e che "in carcere certi lupi perdono il pelo ma non il vizio". Per il segretario del sindacato, Donato Capece, "il carcere milanese di Bollate è spesso portato ad esempio per le tante iniziative di trattamento rieducativo dei detenuti. Ma oggi si è dimostrato clamorosamente che vi è chi, in carcere, non intende affatto cambiare ed anzi pensa a delinquere anche lì. Questo deve necessariamente comportare un’inversione di tendenza: pensare più alla sicurezza e scegliere meglio i detenuti ai quali permettere un percorso rieducativo e trattamentale come il lavoro all’esterno previsto dall’articolo 21 della Legge penitenziaria". A Bollate, in cui la capienza regolamentare è pari a 967 posti letto, sono detenute 1.044 persone, 50 donne e 994 uomini, e circa il 30% sono gli stranieri.152 sono gli imputati e 892 i condannati. Mancano inoltre ben 144 agenti di Polizia Penitenziaria in organico: oggi ve ne sono in servizio circa 390. Libro: "Banditi e schiave", l’infernale mondo dei clan albanesi
Agi, 18 dicembre 2009
Donne ridotte in schiavitù, arsenali svuotati di armi micidiali, intere valli coltivate a canapa indiana e intensi rapporti con i mammasantissima della ‘ndrangheta: il libro "Banditi e schiave" di Arcangelo Badolati e Giovanni Pastore, rispettivamente caposervizio e vice caposervizio del quotidiano Gazzetta del Sud, racconta l’infernale mondo delle cosche albanesi. Un mondo governato da un antico codice, il "Kanun", che pone la figura maschile al centro della famiglia patriarcale relegando la donna a livello di una serva, priva di qualsiasi diritto. Persino in occasione dei funerali le femmine albanesi non possono piangere i loro morti come fanno gli uomini La famiglia diventa consorteria criminale ed esercita alcuni diritti, sanciti dal "Kanun", che fanno paura: per esempio quello di compiere le vendette, e di uccidere chi si macchia di adulterio. Il volume, edito dalla "Pellegrini" di Cosenza, svela per la prima volta, attraverso documenti giudiziari e le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, i legami intessuti dalle gang provenienti dal Paese delle Aquile con le cosche della ‘ndrangheta. Legami cimentati dalla costante fornitura di droga e kalashnikov che gli schipetari garantiscono a boss e picciotti calabresi. "Banditi e schiave" contiene pure le agghiaccianti testimonianze di due giovani ragazze costrette a prostituirsi in varie zone d’Italia attraverso indicibili torture come, per esempio, l’immersione in una vasca da bagno piena di ghiaccio. Una delle due vittime rimane addirittura incinta e le viene proposto di vendere il bambino. Gli autori hanno ricostruito la mappa del traffico di essere umani dall’Est europeo verso la Calabria, dimostrando inoltre come i fucili mitragliatori usati in provincia di Cosenza per compiere efferati omicidi di mafia, tra il 1999 e il 2009, siano stati forniti dagli albanesi. Nel libro, inoltre, vengono rivelati i nomi dei più importanti malavitosi d’Oltreadriatico che gestiscono gli affari sporchi in combutta con malavitosi calabresi, siciliani e campani. Per sfuggire ai controlli antidroga, gli schipetari hanno fatto ricorso - come rivela il volume di Badolati e Pastore - anche a corrieri insospettabili. Si tratta di Liliana Kondakci, celebre cantante albanese, nota come la "Mina d’Albania" e tuttora ricercata in campo internazionale per traffico di cocaina; e di Patrizia Germanese, sovrintendente della polizia penitenziaria, già appartenente al reparto speciale dei Gom, arrestata lo scorso anno nel Cosentino con otto chili di eroina, e poi morta suicida nel carcere di Castrovillari. Nel volume è contenuto pure un eloquente contributo del magistrato di origine albanese, Francesco Minisci, pm presso la Procura di Roma; la prefazione è stata invece curata dal giornalista e scrittore Antonio Nicaso che ha spiegato quanto le consorterie albanesi siano diventati potenti anche negli Usa, mentre una significativa testimonianza è stata data dal giornalista e scrittore Attilio Sabato, direttore della rete televisiva calabrese Ten. In appendice è infine pubblicata la relazione del servizio segreto civile italiano sulla criminalità albanese e la sua pericolosissima pervasività. Immigrazione: dal Cie di Gradisca 200 espulsioni su 2.500 ospiti di Gaetano Proto
Bora.La, 18 dicembre 2009
Ciò che conosciamo sul Cie (Centro di identificazione ed Espulsione) di Gradisca d’Isonzo è davvero poca cosa, e meno si sa, meglio si riesce a far accettare la sua presenza, ormai considerata tanto indispensabile quanto sgradita. Nel 2006 il ministro dell’interno Giuliano Amato aveva istituito una commissione per studiare costi e funzionalità del modello di gestione dei flussi migratori. Era presieduta da un rappresentante delle Nazioni unite, lo svedese Staffan De Mistura, e composta da personale del Viminale ed esponenti del mondo delle associazioni. Quello di Gradisca, il secondo d’Italia dopo Roma per numero di posti, risultò un centro di permanenza modello anche se migliorabile architettonicamente con l’eliminazione delle alte recinzioni metalliche interne che lo facevano sembrare una struttura di massima sicurezza. De Mistura però al termine dell’indagine conoscitiva affermò: "Non sarei sorpreso se ci fossero delle valutazioni fatte sull’utilità di alcuni centri e sul rafforzamento di altri, in un’ottica di gestione. Costi e operatività possono giustificare il rafforzamento di alcuni e forse la chiusura di altri. Il sistema non funziona e quindi bisogna trarne le conclusioni adeguate". I costi del sistema dei Cpta (Centri di Permanenza Temporanea Assistita così si chiamavano allora) non sono assolutamente proporzionati alla loro efficacia. Il progetto di svuotamento di alcuni centri si poteva fare evitando il trattenimento a diverse categorie di immigrati (ex carcerati, vittime della tratta), per destinare a queste strutture soltanto le persone che rifiutano di collaborare e di farsi identificare non aderendo così alle proposte di rimpatrio assistito. Nei Cie c’è un’altissima percentuale di stranieri appena usciti di carcere, non si possono identificare mentre scontano la pena, perché il ministero della giustizia e quello degli interni non collaborano. Il governo Prodi emanò una circolare che disponeva l’identificazione in carcere per chi avesse commesso un delitto e l’espulsione a fine pena. Ma quella circolare è inapplicata. E così dopo la reclusione scatta una pena extra di altri sei mesi. Il più delle volte inutile, perché solo una parte dei detenuti nei Cie viene effettivamente espulsa, i respingimenti indiscriminati sono solo spot elettorali. Elham, per esempio, il marocchino che a gradisca è stato in sciopero della fame per due mesi ha vinto il ricorso ed è stato finalmente liberato, ma dopo una permanenza che costa 42 € al giorno, e a cui vanno aggiunte le spese processuali per l’udienza di convalida con avvocato d’ufficio. Nel 2007 ammontava a 120 milioni di euro lo stanziamento per mettere in piedi tutto il sistema, a questi si devono aggiungere 6 milioni in media per la costruzione di ogni centro e 1,3 milioni l’anno per la gestione, oltre 18 milioni € se si moltiplica per i 14 Cpta. In base ai dati forniti dall’ufficio immigrazione di Crotone per rimpatriare 32 persone (su 320, appena il 10%) si sono spesi 500mila €, ossia più di 15mila € ciascuno, Crotone infatti si trova lontano dalle rotte internazionali che partono dagli aeroporti di Roma o Milano (lo stesso succede da Gradisca, dove molti nordafricani partono da Milano) e bisogna organizzare le scorte. Spesso poi diventa tutto inutile perché basta che gli stranieri da rimpatriare facciano un po’ di sceneggiata o fingano un malore a bordo dell’aereo di linea e il pilota si rifiuta di decollare, perso l’aereo si dovrà aspettare un’altra prenotazione. I dati di Gradisca non sono molto diversi: 200 espulsioni su 2500 ospiti in 24 mesi, meno del 10%. È di questi giorni la notizia che il consiglio europeo ha raggiunto un accordo con la Frontex, l’agenzia di controllo delle frontiere, per riportare gli immigrati irregolari nei paesi di origine con voli charter congiunti. A proposito delle scorte, prima dell’istituzione del reato di clandestinità i comandi di polizia non potevano giustificare, per soggetti rei di illeciti amministrativi, gli agenti di piantonamento per chi dal Cie veniva ricoverato in ospedale. Il degente che spesso fingeva malori inesistenti, prima di essere dimesso prendeva la fuga. A Firenze invece, sono stati rilasciati 7 stranieri perché in Toscana manca un centro di identificazione ed espulsione, l’ unico con posti liberi era a Bari, a quasi mille chilometri, i 7 non sono stati accompagnati per l’impossibilità di garantire l’ alloggiamento in trasferta ai poliziotti di scorta. Ogni volta che un’ospite del Cie di Gradisca va in audizione alla competente commissione territoriale per il riconoscimento di rifugiato deve essere scortato fino alla prefettura di Gorizia. All’indomani dell’entrata in vigore del decreto sicurezza del 2009, che ha introdotto il reato di clandestinità e portato da 2 a 6 mesi la permanenza massima all’interno dei Cie, non era difficile immaginare che questi diventassero delle vere e proprie appendici del sistema penitenziario nazionale. Fino al 8 agosto 2009, giorno di entrata in vigore del decreto, ai cittadini stranieri trovati sprovvisti di permesso di soggiorno era attribuito un illecito amministrativo, dopo la convalida del giudice di pace si trovavano in stato di fermo nei Cpta, con la finalità del rimpatrio, se non venivano identificati ed espulsi, dopo 2 mesi erano rilasciati con un’ordinanza di allontanamento entro 5 giorni, il mancato rispetto dell’ordine trasformava l’illecito da contravvenzione a reato, pena la reclusione fino a 5 anni. In realtà se ne tornavano a vivere in clandestinità. Poi lo scorso agosto, gli ospiti trattenuti all’interno dell’ex caserma Polonio da quasi 2 interminabili mesi, si sono sentiti dire che potevano essere ospitati fino a 6 mesi. Chi gli ha dato la notizia? Il ministro Maroni? Il prefetto? Ovviamente no, il compito ingrato è toccato agli operatori del consorzio Connecting People che giornalmente, armati unicamente di empatia, si confrontano con chi davvero non ha nulla da perdere. Le reazioni sono state delle più disparate, C’è chi ha inscenato un teatrino per far credere di essere psicolabile, c’è chi ha tentato la fuga, chi si è inflitto dei tagli per rimediare psicofarmaci in infermeria. Non sono mancati episodi di violenza nei confronti degli operatori, 120 immigrati sono saliti sui tetti, hanno danneggiato l’impianto elettrico, divelto porte di sicurezza ed estintori, infranto vetri antisfondamento e distrutto distributori automatici di bevande. Ma le insurrezioni non hanno migliorato la situazione, anzi sono state introdotte forme di restrizioni delle libertà personali. Al Cie gli stranieri sono tutti uguali senza distinzione tra delinquenti e lavoratori, ex carcerati, profughi, fumatori e non, tutti vivono in promiscuità e sovraffollamento. Ogni notte per loro potrebbe essere l’ultima in Italia, quando ancora è buio gli agenti si introducono nelle camere, senza preavviso, per eseguire il respingimento coatto, fanno spogliare completamente l’immigrato per una perquisizione accurata, una volta rivestito alla meno peggio, lo scortano fino in aeroporto. Spesso questo avviene in maniera piuttosto brutale e lesiva della dignità umana. Ma c’è pure chi vuol tornare al proprio Paese quanto prima ed è costretto ad attendere. È vero che a pensar male si fa peccato, ma è lecito chiedersi come mai in un centro di identificazione ed espulsione ci siano ospiti perfettamente identificati (cioè in possesso di documenti o che collaborano con l’ufficio immigrazione per non essere reclusi per 6 mesi) ma restano a lungo tempo nella struttura. Un possibile motivo potrebbe risiedere nei lunghi tempi di attesa per ottenere i colloqui con le ambasciate di origine. Per procedere all’espulsione forzata, infatti, occorre la collaborazione dei paesi di origine (che devono riconoscere la nazionalità dello straniero) e non si capisce perché, se viene negata nei primi 2 mesi potrebbe essere data nei 4 successivi. Stando alle scarse informazioni fornite dal ministero degli esteri e dalle prefetture, finora l’aumento dei tempi di detenzione non ha determinato un aumento delle espulsioni, di sicuro però lievitano i costi d’accoglienza. Forse lo spauracchio dei 6 mesi può funzionare da deterrente e convincere lo straniero a collaborare per il suo rimpatrio, fornendo identità e nazionalità, di sicuro non tiene conto della condizione psicologica di chi ha rischiato la vita per raggiungere l’Italia, in fuga dalla miseria o dal fanatismo politici-religioso. Per loro ogni giorno passato al Cie è interminabile. Droghe: bisogna trovare pene alternative ai tossicodipendenti di Tommaso Aspetta
www.linkontro.info, 18 dicembre 2009
Pare che anche Giovanardi si sia reso conto che per le persone tossicodipendenti in carcere è necessario definire un programma e una strategia comune che permetta di ridurre il sovraffollamento degli istituti di pena e, contestualmente, aumentare il ricorso alle misure alternative, mediante l’affidamento in comunità o l’applicazione di programmi terapeutici territoriali. Di questo, infatti, si è parlato in un incontro, che si è svolto oggi a Roma, presso la Presidenza del Consiglio, tra i rappresentanti delle associazioni che hanno promosso l’appello "Le carceri scoppiano, liberiamo i tossicodipendenti", e cioè: per Forum Droghe, Franco Corleone; per Antigone, Patrizio Gonnella e Alessio Scandurra; per il Gruppo Abele e Cnca Ioli Ghibaldi e il sottosegretario Giovanardi, insieme con il capo del Dipartimento antidroga Serpelloni e il procuratore della Repubblica di Pinerolo Giuseppe Amato. Nell’incontro sono state analizzate le possibili soluzioni giuridiche di miglioramento dell’attuale legislazione, nonché le soluzioni migliorative della prassi applicativa e organizzativa. Dall’incontro pare sia emersa l’intenzione di istituire, a breve, un tavolo di lavoro con tutte le organizzazioni e gli enti, comprese le Regioni, che si occupano di questioni legate alle tossicodipendenze in relazione alla detenzione e alle sanzioni penali ed amministrative connesse. L’obiettivo è quello di creare rapidamente un’analisi e uno studio di fattibilità in ordine ai problemi normativi, a quelli amministrativi e, infine, alla sostenibilità finanziaria, al fine di incrementare il ricorso alle misure alternative al carcere per i tossicodipendenti. Le premesse sembrano indicare che uno dei due firmatari della legge più repressiva sulle droghe che sia stata mai emanata nel nostro Paese, Giovanardi, che con Fini ha firmato il famigerato ‘Testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenzà, si stia rendendo conto che il citato T.U. presenta parecchi difetti e ha contribuito a riempire le carceri di tossicodipendenti che di tutto avrebbero bisogno, per non nuocere a se stessi e alla società, tranne che di essere sbattuti in carcere. Meglio tardi che mai. Staremo a vedere se Giovanardi darà seguito agli impegni presi oggi con le associazioni convocate, e proverà ad apportare almeno qualche minima miglioria alla sua pessima Legge. Usa: pena di morte; calano le condanne, crescono le esecuzioni
Vita, 18 dicembre 2009
Il numero di condanne a morte emesse nel 2009 negli Stati Uniti ha raggiunto il livello più basso degli ultimi 33 anni. Lo riferisce un rapporto del Death Penalty information Center (Dpic), secondo il quale quest’anno sono state comminate 106 sentenze capitali. Il livello più alto era stato raggiunto nel 1994 con 328 condanne a morte. Lo studio copre tutto l’arco di tempo a partire dal 1976, quando la pena capitale è stata reintrodotta nell’ordinamento degli Stati Uniti. Con i dati del 2009 si raggiunge il settimo anno consecutivo di riduzione delle condanne a morte, con un calo del 60% rispetto ai picchi degli anni novanta, ha sottolineato Richard Dieter, direttore del Dpic, nel presentare il rapporto. Nel corso di quest’anni il Nuovo Messico è diventato il 15esimo stato americano ad abolire la pena capitale e i dubbi sull’applicazione della condanna a morte sono aumentati nell’opinione pubblica. Solo quest’anno ben nove persone in attesa nel braccio della morte sono state riconosciute innocenti. E ieri un detenuto della Florida, James Bain, è stato scarcerato dopo 35 anni grazie alla prova del Dna che lo ha scagionato dall’accusa di rapimento e stupro di un bambino di nove anni. Bain non era stato condannato a morte, ma il suo caso contribuisce a sollevare dubbi su questa pena. Se nel 2009 vi sono state meno condanne, vi è stato tuttavia un aumento delle esecuzioni: 52 rispetto alle 37 dell’anno scorso (+40%). Si tratta comunque di un dato inferiore del 47% rispetto a dieci anni fa. La maggior parte delle esecuzioni (l’87%) sono avvenute nel sud degli Stati Uniti e oltre la metà in Texas. Ma anche in Texas e in Virginia, altro stato ad alto numero di condanne, la diminuzione è stata "notevole" secondo il Dpic. Negli anni novanta in Texas la media era di 34 esecuzioni annue e quest’anno sono state nove. In Virginia il calo è stato da sei a uno. Usa: detenuto accusato di stupro scagionato dna dopo 35 anni
Ansa, 18 dicembre 2009
Dopo 35 anni in carcere un uomo della Florida è stato scagionato ed è stato rimesso in libertà. James Bain era stato condannato all’ergastolo nel 1974 per rapimento e stupro di un bambino di nove anni. Aveva chiesto per anni la prova del Dna e l’aveva finalmente ottenuta dopo che l’organizzazione Project Innocence della Florida aveva preso in mano il caso. Dall’esame, i cui risultati sono stati resi noti la scorsa settimana, è risultato che Bain non aveva commesso il fatto. Ieri un giudice ne ha ordinato il rilascio e l’uomo, che ha 54 anni, è stato rilasciato. Nuova Guinea: fuga in massa dal carcere, evadono 73 detenuti
Adnkronos, 18 dicembre 2009
Fuga in massa da un carcere di Papua Nuova Guinea, dove 73 detenuti sono riusciti a evadere, utilizzando alcuni secondini come scudi umani. L’evasione è avvenuta durante le ore notturne nel carcere di Buimo in località Lae. Due evasi sono stati ricatturati poco dopo dalla polizia e un terzo è stato ucciso dagli agenti. Tre mesi fa altri 54 detenuti erano riusciti a scappare da un penitenziario vicino alla capital Port Moresby, approfittando di un ritardo nell’avvicendamento delle guardie e della partita di rugby della nazionale trasmessa in tv che aveva distratto i poliziotti. Libano: "12 Angry Lebanese", docu-film sul teatro dei detenuti
Il Velino, 18 dicembre 2009
A Beirut presso l’Unesco Palace, si terrà la premiere nazionale del film "12 Angry Lebanese" della regista Zeina Daccache, prodotto dall’associazione Catharsis in collaborazione con la Unità tecnica locale (Utl) della direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo (Dgcs) della Farnesina in Libano. Il film si è aggiudicato due premi al Dubai film festival: "Primo premio miglior documentario" e "Primo premio People Choice". Il documentario ha seguito per 15 mesi 45 detenuti del carcere di Roumieh, alcuni di loro quasi completamente analfabeti, mentre lavoravano insieme per presentare un adattamento della piece teatrale e successivo film di Sidney Lumet "12 angry men" (in Italia La parola ai giurati) del 1957, trasformandolo il "12 angry Lebanese". Il risultato è stato che questa esperienza ha dimostrato gli effetti positivi dell’arte terapia anche su alcuni elementi ostracizzati particolarmente dalla società. Il film è stato realizzato nell’ambito dell’iniziativa di "Assistenza sociale alla prigione di Roumieh", finanziato dal Programma italiano di emergenza Ross. La Dgcs di concerto con l’ambasciata d’Italia in Libano, ha contribuito alla produzione del film e della colonna sonora originale anch’essa interamente realizzata dai detenuti di Roumieh. Inoltre grazie al governo italiano 200 detenuti del carcere hanno frequentato per un intero anno corsi di "Drama therapy" all’interno della struttura detentiva, intraprendendo un percorso di recupero psico-attitudinale e partecipando alla realizzazione del film "12 angry Lebanese". L’anno si chiuderà con il seminario che Armando Punzo in questi giorni sta tenendo all’interno del carcere di Roumieh. Nelle università e scuole libanesi comincerà a gennaio anche una campagna di sensibilizzazione sulla condizione dei detenuti all’interno dei centri di detenzione in Libano, anch’essa finanziata dalla Dgcs. Nel corso del 2010, inoltre, il governo italiano destinerà ulteriori risorse per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti all’interno delle prigioni libanesi di Zahle e Roumieh. Armando Punzo lavora da 20 anni con i detenuti in Italia e ha formato la regista Zeina Daccache nel corso di due anni trascorsi collaborando insieme all’interno del Laboratorio teatrale nel carcere di Volterra. Questa esperienza italiana ha ispirato la regista, la quale ha voluto duplicare l’iniziativa nella prigione di Roumieh, considerato il carcere di massima sicurezza con il regime più duro in Libano. Da questa collaborazione è nato "12 angry Lebanese". La presentazione della pellicola, comunque, non chiude il progetto di "Drama therapy in prison: a new artistic platform". Il programma, infatti, è stato lanciato da Catharsis e dall’Utl a luglio del 2009 e durerà in tutto undici mesi. Il documentario, invece, verrà presentato durante un seminario sul "Teatro in prigione" tra il Libano e l’Italia, organizzato sotto l’alto patronato del ministero dell’Interno di Beirut e le municipalità di Ziad Baroud. L’evento sarà caratterizzato, oltre che dal dibattito e dalla proiezione (78 minuti), anche da una mostra fotografica sull’attività teatrale nel carcere di Volterra e a Roumieh e dall’ascolto della colonna sonora del film, scritta e composta interamente dai detenuti libanesi. In tutto hanno lavorato al progetto circa 150 reclusi, divisi in gruppo di 20. Alla presentazione interverranno la regista del film, Zeina Daccache; il ministro dell’Interno libanese, Ziad Baroud; l’ambasciatore italiano nel paese dei cedri, Gabriele Checchia; Marco Buselli, sindaco di Volterra, e Armando Punzo.
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