Rassegna stampa 2 aprile

 

Giustizia: il "decreto sicurezza" incontra la stroncatura del Csm

di Francesco Scommi

 

Aprile on-line, 2 aprile 2009

 

Il Consiglio Superiore della Magistratura, in un parere della Sesta Commissione in procinto di essere esaminato dal plenum, boccia l’istituzione delle ronde: "Una deroga rischiosa" e l’aumento da due a sei mesi della detenzione nei Cie: "Viola le norme europee". Perplessità sul carcere obbligatorio (previsto finora solo per i mafiosi) a chi è accusato di stupro. Bene le misure contro lo stalking.

Critiche alle ronde e a una parte del pacchetto anti - immigrazione clandestina, perplessità giuridiche sul carcere obbligatorio agli stupratori, bene le norme contro lo stalking. È quanto esprime il Consiglio superiore della magistratura nel parere, redatto dalla sesta Commissione, sul decreto legge del governo. Il documento deve ora passare all’esame del plenum.

Ronde. Si esprimono "perplessità", innanzitutto sulla scelta di "derogare al principio che assegna all’autorità pubblica l’esercizio delle competenze in materia di tutela della sicurezza". Si evidenzia inoltre il pericolo che la "genericità delle previsioni contenute nel decreto legge può determinare il rischio del determinarsi di incidenti, e nei casi più gravi della commissione di reati", comportando "un aggravio sia per le forze dell’ordine" (che sarebbero distolte "dal perseguimento del fine di garantire un efficace controllo del territorio"), "sia per l’esercizio delle funzione giurisdizionale da parte della magistratura".

Nel parere si evidenzia poi come nel testo del governo sulle ronde ci siano troppe "discrezionalità" e "lacune", come la "mancata previsione" che le associazioni di volontari "non debbano avere né natura né finalità di ordine politico". Inoltre si rileva "l’assenza di ogni requisito negativo, preclusivo della partecipazione alle associazioni, come quelli di essere stati condannati per reati di violenza o per il compimento di atti di discriminazione"; e la "doverosa precisazione che i cittadini debbano essere non armati" non fuga "ogni dubbio sull’utilizzazione di strumenti, non definibili armi in senso proprio, ma comunque atti a compiere atti di coercizione fisica". Non ci sarebbe, secondo il parere, neppure un "effettivo controllo sull’attività realmente svolta dalle associazioni" .

Norme anti - violenza sessuale e stalking. Secondo la sesta Commissione del Csm, il decreto in via di conversione alla Camera "mira positivamente a rafforzare gli strumenti per contrastare tutte le forme di aggressione sessuale". Al di là delle perplessità sulle ronde, nel parere del Csm sul testo governativo si "condivide" la scelta di ammettere l’incidente probatorio, "in assenza dei requisiti ordinariamente previsti", nei casi di violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia, come pure il gratuito patrocinio per tutte le vittime , e l’introduzione del reato di stalking, che "colma una profonda lacuna normativa".

Il parere mostra però "perplessità" sul carcere obbligatorio per i responsabili di violenza sessuale: "La costruzione normativa demanda una eccentrica valutazione del fatto - reato, al momento della notizia criminis - si legge nel parere - a soggetti, la polizia giudiziaria nella fase dell’arresto e il pm nella fase della contestazione iniziale del reato per la richiesta della misura coercitiva, non in grado, anche per limitatezza del materiale probatorio, di effettuarla". Infine, la "presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare" per i reati a sfondo sessuale è oggi prevista solo per i delitti mafiosi e, ricorda il Csm, "ha superato il vaglio di costituzionalità soltanto con riferimento all’area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso".

Detenzione semestrale nei Cie. Riserve del Csm sulla norma che estende a 6 mesi (era contenuta nel decreto sicurezza ma il Parlamento la bocciò costringendo il governo a trovargli una collocazione in un altro decreto) il termine massimo per trattenere gli stranieri irregolari nei Centri di identificazione e di espulsione. "La privazione della libertà personale, che è bene di primaria rilevanza costituzionale - si legge nel parere - impone che si attui un procedimento di controllo del titolo che legittima la detenzione amministrativa assolutamente rigoroso". E trattandosi di una materia così delicata "meglio sarebbe investire il tribunale ordinario" piuttosto che i giudici di pace.

La norma voluta dalla Lega nord, inoltre, viola la direttiva europea 115/2008, considerata la pietra angolare i materia. La suddetta direttiva consente il "trattenimento in caso di resistenza, da parte dell’immigrato, all’identificazione", ma in caso di difficoltà nell’ottenere documenti dai Paesi terzi, consente soltanto "il prolungamento della permanenza".

Nel decreto governativo, invece, questi due presupposti (resistenza all’identificazione e difficoltà nell’ottenere i documenti) vengono equiparati e questo, rileva la Sesta Commissione di Palazzo dei Marescialli, porta al fatto che "potrebbe verificarsi una vera e propria detenzione amministrativa basata su una semplice difficoltà nell’accertamento dell’identità legale del soggetto o nell’acquisizione della documentazione di corredo malgrado la sua piena disponibilità alla preparazione del rimpatrio".

Giustizia: facciamo la conta delle vittime dell’allarme-sicurezza

di Salvatore Geraci (Presidente Società Italiana Medicina delle Migrazioni)

 

Aprile on-line, 2 aprile 2009

 

Giorgina Yaboah; Felix Omolido: Storie vecchie, persone di cui ricordiamo il nome perché dietro gli slogan esistono donne e uomini. Partendo dalle loro drammatiche vicende l’Italia, nel tempo, si è data leggi e politiche che hanno cercato di non escludere nessuno dal diritto alla salute. Fino all’oggi: Joy Johnson a marzo muore di tubercolosi perché si tiene lontano da una sanità che teme le sia ostile. Kante, clandestina della Costa d’Avorio, partorisce al Fatebenefratelli di Napoli, ma i medici la denunciano. La contestata legge voluta dalla Lega nel pacchetto sicurezza non è ancora in vigore, ma c’è chi l’ha già applicata

Giorgina Yaboah, ragazza ghanese, è morta per gestosi (una complicanza della gravidanza certamente curabile) all’inizio del 1995. Era venuta in Italia per raggiungere il marito, falegname nell’opulento nord est, ma lei non aveva il permesso di soggiorno; per paura di essere denunciata e di esporre anche il marito all’espulsione, pur sentendosi male, non va in ospedale, non chiama il medico, non dice nulla nemmeno al marito ... e poi è troppo tardi.

Felix Omolido, filippina di 42 anni, in Italia per lavorare e poter sostenere il marito e i due figlioletti nel suo paese quando nel 1985 muore per un’ulcera complicata non curata dice la cronaca, per paura di perdere il lavoro ed esser rimandata a casa da "sconfitta" dicono gli amici.

Storie vecchie, riprese da giornali ingialliti, persone di cui ho voluto ricordare il nome per sottolineare come dietro slogan, sigle, etichette esistono donne e uomini che sperano, sognano, soffrono. Partendo da questi fatti drammatici l’Italia nel tempo si è data leggi e politiche che hanno cercato di non escludere nessuno dal diritto alla salute.

La cronaca attuale: Joy Johnson, giovane nigeriana irregolare di 24 anni, sognando una vita migliore ma calata in un oggi di sfruttamento e dannazione (faceva la prostituta), all’inizio del marzo 2009 muore in Italia di tubercolosi perché, probabilmente per paura, si tiene lontano da una sanità "nascosta" da polemiche e notizie contrastanti.

E ancora, la storia di Kante, vedova di un uomo ucciso, quattro anni fa, dalla guerra civile che dilania la Costa d’Avorio e la sua città di Abidjan. Rifugiatasi in Italia nel 2007, inoltra subito richiesta di asilo politico, che le viene negato due volte (attualmente pende il ricorso innanzi al Tribunale di Roma contro quella bocciatura). Intanto, stabilitasi a Napoli, Kante si innamora di un falegname di Costa d’Avorio, resta incinta, si fa curare la gravidanza difficile presso l’ospedale San Paolo, con sé porta sempre alcuni documenti e la fotocopia del passaporto, trattenuto in questura per un’istanza parallela di permesso di soggiorno, non ancora risolta. Quando - il 5 marzo scorso - Kante arriva all’ospedale Fatebenefratelli per partorire il suo bimbo ("al San Paolo non c’era un posto"), dal presidio sanitario scatta un fax verso il commissariato di polizia di Posillipo che chiede "un urgente interessamento per l’identificazione di una signora di Costa d’Avorio". Ovvero: la denuncia.

Esattamente ciò che la norma - voluta dalla Lega nell’ambito del pacchetto sicurezza, e già approvata al Senato - chiede. Forse è la prima volta in Italia in cui una norma viene applicata prima ancora di diventare tale.

Quelli che vi ho proposto sono casi estremi, certo, ma che testimoniano dei sentimenti di migliaia di immigrati, donne, adulti e bambini, malati più o meno gravi, che non saranno curati, anzi che, paradossalmente, non vorranno essere curati per paura.

Il 5 febbraio 2009, il Senato ha approvato un emendamento che toglie il divieto di segnalazione da parte degli operatori sanitari nei confronti di immigrati irregolari presenti in ambulatorio o in ospedale, in altre parole uno straniero non in regola con il permesso di soggiorno che si reca in una struttura di cura "deve" essere segnalato ed espulso.

Questo "rischio" (che nel caso di Kante si è rivelato come una prematura certezza) sta allontanando dai percorsi di cura migliaia di persone malate e, se approvato (il cosiddetto "pacchetto sicurezza" è in discussione in questi giorni alla Camera), renderà inaccessibile da questa specifica popolazione, il sistema sanitario.

Ciò confligge con il mandato costituzionale dell’articolo 32: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. ..." ed è in contraddizione con l’etica professionale di ogni operatore che ha scelto di lavorare nelle professioni d’aiuto (medico, infermiere, psicologo, assistente sociale ...). "... tutto quello che durante la cura ed anche all’infuori di essa avrò visto e avrò ascoltato sulla vita comune delle persone e che non dovrà essere divulgato, tacerò come cosa sacra ...": è il giuramento di Ippocrate che ogni nuovo medico si impegna a rispettare così come è tenuto, ai sensi dell’articolo 3 del Codice di Deontologia Medica "alla tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzione di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali e sociali nelle quali opera".

Non è un caso che unanimemente tutti gli ordini professionali, le più importanti società medico-scientifiche, le associazioni di aiuto ed assistenza, molti gruppi della così detta "società civile", abbiano espresso dissenso e preoccupazione per il conflitto deontologico e per le problematiche di sanità pubblica che si verrebbero a creare. Infatti la paura di essere denunciati non farà accedere gli immigrati ai servizi e forse si faranno curare solo in situazioni di urgenza indifferibile (magari utilizzando percorsi paralleli e clandestini), e ciò avrà anche ripercussione sulla salute collettiva con il rischio di diffusione di eventuali focolai di malattie trasmissibili a causa dei ritardi nelle terapie e la probabile irreperibilità dei destinatari di interventi di prevenzione.

La salute è un bene indivisibile ed un diritto inalienabile, non è concepibile che ci siano fasce di popolazione escluse dai servizi e dalle tutele: e questo per la dignità e per la sicurezza di ogni persona.

Giustizia: Alfano; il modello antimafia italiano interessa agli Usa

 

www.giustizia.it, 2 aprile 2009

 

Il Fondo Unico Giustizia varato dal governo per far confluire i beni sequestrati o confiscati ai mafiosi può diventare un modello antimafia anche per gli Stati Uniti. Dopo che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano - da martedì negli Stati Uniti - lo aveva illustrato al collega Usa Eric Holder, esperti americani si sono successivamente incontrati all’ambasciata d’Italia con la delegazione italiana per capire meglio in cosa consista il fondo unico e come funzioni dal punto di vista tecnico.

Negli Stati Uniti quella del fondo pare essere "una buona idea" come l’ha definita il ministro Holder, vale la pena di approfondirla. Perchè nella lotta al crimine organizzato sono necessari modelli di contrasto che siano esportabili.

Quello italiano del Fondo Unico può esserlo. Non a caso il ministro Alfano lo proporrà al G8 "e - ha detto - speriamo che trovi consensi, perché per combattere la mafia a livello mondiale occorrono strumenti che operino a livello mondiale". Agli esperti del Brookings Institute Alfano ha spiegato come e perché il governo Berlusconi abbia deciso di varare la legge che costituisce il Fondo Unico Giustizia.

"Il Fondo - ha detto il ministro - deriva da un’intuizione di Giovanni Falcone e si basa su questo assunto: i mafiosi temono più la confisca dei loro patrimoni che non l’arresto". Se si trovano meccanismi legali per confiscare loro i beni, ecco che l’azione di contrasto alle loro attività può avere effetti capaci davvero di "fare male". La nuova legge offre questi meccanismi. Due su tutti: 1) la confisca dei beni mafiosi prevede il sequestro anche agli eredi; 2) può essere effettuata una confisca "per equivalente".

"Significa - ha spiegato Alfano - che quando un criminale fa sparire beni di chiara provenienza illecita, il magistrato ha il potere di sequestrargli comunque beni per un valore equivalente, anche se sono legittimi". Il nuovo programma, varato poco dopo l’insediamento del governo Berlusconi, "in pochi mesi ha già portato nel Fondo 350 milioni di euro". Secondo il ministro, una valutazione "verosimile" dei beni mafiosi sequestrabili e confiscabili può arrivare in Italia intorno ai 2 miliardi di euro, ma può avere dimensioni ben superiori se il fondo venisse applicato a livello internazionale.

Perché i beni confiscati vanno a finanziare giustizia e sicurezza, "e in questo modo il tesoro criminale diventa salvadanaio della legalità" ha concluso. Nel corso dell’incontro è stato affrontata anche la questione Guantanamo. Gli esperti americani hanno ribadito la ratio simbolica della decisione dell’amministrazione Obama di procedere alla chiusura del carcere, rilevando però come essa comporti ora difficoltà complesse nella gestione tecnica dei prigionieri.

Per esempio, dei 240 detenuti attuali, solo due sarebbero al momento estradabili in Italia, perché già coinvolti in inchieste italiane. L’Italia dal suo punto di vista ha ribadito di condividere la posizione americana su Guantanamo e l’impegno ad adoperarsi affinché siano trovate modalità di collaborazione a livello europeo. Alfano lo ribadirà oggi a Ottawa anche al ministro della Giustizia canadese, Robert Douglas Nicholson.

Giustizia: certezza della pena? manca certezza della condanna!

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 2 aprile 2009

 

Lo slogan: "In Italia manca la certezza della pena!". Non solo un slogan ripetuto dalla politica. Ma anche uno slogan che distrae dal reale problema: la certezza della condanna. Ovvero la certezza che con una condanna sia stato punito il reale colpevole di un certo reato. Una certezza che oggi non abbiamo più. La questione oggi non è dunque la certezza della pena, ma la certezza del colpevole.

Troppo spesso, infatti, assistiamo a condanne, o all’applicazione di misure cautelari in carcere, che non sono basate su elementi di prova certi, ma su sospetti, su congetture. Su ipotesi accusatorie non confermate da riscontri precisi. Anzi spesso accade il contrario. Quando emergono in un procedimento penale prove inconfutabili, queste sono quasi sempre a discarico, ovvero a favore dell’accusato.

Pappalardi, Lumumba, Racz e Loyos, sono solo esempi noti. Quelli che conosciamo. Casi in cui il carcere è stato certo, ma incerti gli elementi su cui si basava l’incarcerazione. Casi noti, di cui conosciamo l’ingiusta detenzione, che fanno sorgere la domanda: quanti detenuti senza nome, detenuti ignoti, subiscono la stessa ingiustizia? C’è da avere paura. E che nessuno si senta immune. Neanche chi è abituato a dire: colpevole! Lo stesso che, una volta accusato, diventa innocentista.

Inutile girarci intorno. Serve un processo sì veloce, ma anche giusto. Un processo che finisca con una condanna basata su prove certe. Un processo dove il Giudice non abbia paura di prosciogliere. Perché temere l’assoluzione è il primo passo verso l’errore giudiziario.

Giustizia: avvocati e magistrati... possono unirsi per le riforme?

di Giovanni Di Cagno

 

www.radiocarcere.com, 2 aprile 2009

 

Ci risiamo. Nuovo sciopero delle Camere Penali (sempre per la separazione delle carriere, essenzialmente) e sdegnate reazioni dell’Associazione Magistrati. Come Harvey Keitel e Keith Carradine, i "duellanti" di Ridley Scott che attraversano l’era napoleonica battendosi senza posa, così avvocati penalisti e magistrati si danno battaglia sugli stessi temi ormai da vent’anni. E poco importa chi abbia cominciato.

Quel che conta, è che il duello non interessa più nessuno. Anche perché l’oggetto del contendere è in gran parte venuto meno: la separazione delle carriere, ormai, nei fatti c’è già. Intanto, i reali problemi della giustizia penale scolorano sempre più in una generale assuefazione, senza che gli attori riescano a proporre soluzioni condivise e senza che nessuno rinunci ad interpretare sempre lo stesso ruolo in commedia.

A Cagliari, i dipendenti delle ditte che assicurano la stenotipia nei processi penali da mesi non vengono pagati, e così da gennaio interrompono il servizio. Ebbene, i penalisti locali si sono ben guardati dal proclamare uno sciopero, essendo evidentemente contenti del rinvio dei processi che avvicina la prescrizione.

A Roma, da più di un mese i funzionari amministrativi stanno attuando una sorta di "sciopero bianco", che rende impossibile agli avvocati tutelare decentemente i cittadini. Eppure, nessun Capo degli uffici giudiziari ha ritenuto di segnalare la vicenda alla Commissione di Garanzia sullo sciopero, Autorità deputata a valutare la legittimità della protesta.

È come se ognuno si preoccupasse soltanto di tirare acqua al proprio mulino, infischiandosene della funzionalità della Giustizia. E infischiandosene se l’Italia è collocata al 156° posto su 181 nella graduatoria stilata dalla Banca Mondiale sulla durata dei processi, dopo Angola e Gabon; eppure, pensiamo a cosa succederebbe se la Nazionale di calcio fosse al 156° posto nella classifica Fifa, o se perdesse con il Gabon.

È come se avvocati e magistrati avessero bisogno di un "terzo" che li facesse ragionare. Che spiegasse agli avvocati, ad esempio, quanto sia inutile lamentarsi della debordanza dei provvedimenti cautelari se poi ci si rifiuta di contribuire fattivamente a una maggiore celerità del processo penale.

E ai magistrati come la difesa dell’odierno assetto ordinamentale rischi di diventare conservazione corporativa, senza la consapevolezza di quanto alcuni vizi del governo autonomo influenzino negativamente l’efficienza del servizio. Insomma, servirebbe qualcuno che sollecitasse avvocati e magistrati a individuare almeno alcune soluzioni condivise alla crisi della Giustizia, puntando sui primi segnali di disponibilità (vedi le posizioni emerse al congresso di Magistratura Democratica, ovvero quella del Presidente delle Camere Penali sull’opportunità che gli avvocati-parlamentari si sospendano dall’esercizio della professione).

Qualche tempo fa Radiocarcere varò un documento in tema di giustizia penale che conteneva proposte senz’altro interessanti: esecutività della sentenza penale di primo grado, eliminazione dell’appello del Pm avverso la sentenza di proscioglimento, nuovo regime delle notificazioni, sanzioni amministrative agli editori per limitare la barbarie del processo mediatico. Si tratta di temi di cui la politica discute da anni senza costrutto, e su cui l’intesa parlamentare potrebbe essere agevolata da un "avviso comune" di avvocati e magistrati.

Può un giornale essere il "terzo" che favorisca una posizione comune degli attori della Giustizia? E può esserlo Il Riformista, quotidiano che ospita Radiocarcere? L’idea è senz’altro singolare, ma in tempi di emergenza tentare non nuocerebbe. O dobbiamo aspettare di essere superati anche dallo Sri Lanka?

Gustizia; il magistrato; sì a un confronto con le Camere penali

di Nicola Di Grazia

 

www.radiocarcere.com, 2 aprile 2009

 

Quando la casa comune brucia non dovrebbe esserci tempo da perdere per dividersi in discussioni sui massimi sistemi. C’è solo da rimboccarsi le maniche subito, per unire le forze e cercare di spegnere l’incendio.

Il dibattito sulla giustizia sembra voler ostinatamente sfuggire a questa regola di buon senso e anche il confronto tra l’Anm e l’Unione delle Camere Penali pare bloccato su ideologismi pregiudiziali che non portano risposte ai cittadini e al paese.

L’astensione dalle udienze proclamata per una intera settimana dall’Ucpi sembra collocata in questa prospettiva. Eppure tutti si dicono d’accordo sul fatto che c’è bisogno urgente di interventi diretti ad assicurare funzionalità ed efficacia al sistema giudiziario, perché i cittadini italiani hanno in primo luogo diritto ad ottenere decisioni in tempi ragionevoli.

Perché nel leggere i dati statistici tremendi sui ritardi e sul numero dei processi pendenti non bisogna mai dimenticare che dietro ad ogni numero c’è un cittadino e che questo fallimentare rapporto del singolo con il sistema-giustizia finirà con l’essere la "cifra" del grado di fiducia della intera collettività nei confronti dello Stato.

La questione del funzionamento del sistema giudiziario, quindi, non è un espediente tattico da utilizzare per evitare il dibattito sulle modifiche dell’assetto della magistratura; è invece una fondamentale questione democratica con la quale tutti devono misurarsi.

Non si comprende, allora, perché non sia possibile avviare una riflessione comune tra magistrati ed avvocati sui cambiamenti più urgenti necessari per accorciare i tempi del processo penale, concentrandosi su pochi immediati obiettivi condivisi da proporre alla politica. Discutere subito in modo costruttivo, ad esempio, di revisione delle circoscrizioni giudiziarie, di depenalizzazione dei reati minori, della introduzione di pene alternative al carcere, della eliminazione dal processo penale di alcuni formalismi inutili, dell’utilizzo generalizzato della posta elettronica certificata, potrebbe consentire l’elaborazione di proposte condivise. Proposte frutto di un consenso ragionato tra gli addetti ai lavori e perciò in grado di imporsi all’attenzione del mondo politico.

Sembra impossibile oggi pensare ad un confronto che si svolga con un metodo così diverso. Eppure basterebbe partire dal dialogo proficuo che in alcune importanti realtà giudiziarie già impegna insieme la magistratura e le Camere penali locali. Oppure pensare al significato della comune sensibilità critica dimostrata rispetto ad alcune iniziative legislative del governo, come quelle del pacchetto sicurezza o quella della custodia obbligatoria per lo stupro.

Segno evidente che quando si abbandona l’ideologia della contrapposizione a prescindere è possibile individuare un ambito di intesa almeno per interventi settoriali in grado di fornire risposte immediate ed efficaci. La dispersione del patrimonio culturale costituito dalla comune elaborazione del ceto forense - giudici e avvocati - al di là delle rispettive funzioni è un lusso che, di fronte allo sfascio della giustizia italiana, non ci possiamo permettere. A meno che non si pensi che la casa che brucia è solo affare di altri.

Giustizia: Unione europea dichiara guerra a moderne schiavitù

di Paolo Bozzacchi

 

Italia Oggi, 2 aprile 2009

 

Giro di vite dell’esecutivo europeo nella lotta alla moderna schiavitù e agli abusi sui minori. La Commissione ha adottato due nuove proposte di legge destinate a sostituire l’attuale normativa in vigore rispettivamente dal 2002 e dal 2004, con la manifesta intenzione di inasprire pene e sanzioni nei confronti di chi si rende responsabile di reati di schiavitù o abuso su minori. Grazie ai nuovi testi, saranno garantiti il pieno allineamento con le norme europee più avanzate, una migliore assistenza alle vittime e un’azione penale più dura contro gli autori del reato, tenendo conto anche della rapida trasformazione delle tecnologie nel ciberspazio.

Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, sono 1.225 milioni le persone nel mondo vittime della tratta a livello transnazionale o nei loro paesi, la maggior parte a fini di prostituzione (43%) o di lavoro (32%). Tra le vittime dello sfruttamento sessuale forzato a fini commerciali, la stragrande maggioranza (98%) è costituita da donne e ragazze.

I dati a disposizione lasciano supporre che ogni anno siano diverse centinaia di migliaia le persone vittime della tratta in direzione dell’Ue o all’interno dei confini comunitari. Gli studi indicano che in Europa una minoranza significativa di bambini, tra il 10% e il 20% secondo una stima scientifica documentata, è vittima di violenze sessuali nell’infanzia. Nel 2008 sono stati individuati più di mille siti internet commerciali e circa 500 non commerciali con contenuti pedopornografici, il 71% dei quali negli Stati Uniti.

Si calcola che il 20% circa dei siti pedopornografici sia di tipo non commerciale, prevalentemente "Peer-to-Peer". Secondo altre stime, il 20% circa in media degli autori di reati sessuali (con forti differenze tra i diversi profili) tendono a commettere nuovamente il reato dopo la condanna.

Le due proposte di decisione quadro del Consiglio imporrebbero ai paesi membri dell’Ue di agire su tre fronti: perseguire gli autori del reato, proteggere le vittime e prevenire i reati. La proposta relativa alla lotta contro la tratta degli esseri umani ravvicina tra loro le normative e le sanzioni penali nazionali e provvede affinché gli autori del reato siano perseguiti anche se hanno commesso il fatto all’estero.

La proposta permetterà alla polizia di disporre di strumenti investigativi (come le intercettazioni telefoniche), usati prevalentemente per combattere la criminalità organizzata. Le vittime riceveranno alloggio e cure mediche e, se necessario, protezione da parte della polizia, in modo che possano ristabilirsi e che non abbiano timore di testimoniare contro gli autori dei reati. Le vittime saranno poi protette da ulteriori traumi durante il procedimento penale derivanti, per esempio, dal ripetersi di audizioni sulla loro esperienza di vittime dello sfruttamento sessuale. E riceveranno consulenza giuridica gratuita nel corso dell’intero procedimento, anche ai fini di una domanda di indennizzo.

La proposta della Commissione incoraggia dunque l’introduzione di sanzioni contro i clienti delle persone costrette a offrire servizi sessuali e controllori di lavoro che sfruttano le vittime della tratta e istituisce organi indipendenti di monitoraggio incaricati di misurare i risultati delle azioni previste.

La proposta relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori agevola l’applicazione di sanzioni nei confronti degli autori del reato, rendendo penalmente perseguibili nuove forme di abuso come il cosiddetto grooming, ovvero l’adescamento di minori su internet a fini di abuso, il fatto di visionare materiale pedopornografico anche senza scaricare i file o di indurre un minore a posare in atteggiamenti sessualmente espliciti di fronte a una webcam.

I "turisti sessuali" che si recano all’estero per abusare di minori saranno perseguiti una volta tornati in patria. I bambini vittime di abusi potranno testimoniare senza doversi trovare di fronte all’autore del reato in tribunale, in modo da evitare traumi aggiuntivi, e riceveranno consulenza e assistenza legale gratuita.

Ogni colpevole dovrà sottoporsi a un esame individuale e avere accesso a un trattamento personalizzato onde evitare il rischio di recidiva. L’interdizione del condannato dall’esercizio di attività che comportino contatti con minori deve essere effettiva e applicata non solo nel paese in cui è stata pronunciatala condanna, ma in tutta l’Unione. Le due proposte saranno esaminate dal Consiglio dei ministri dell’Ue e, una volta approvate, dovranno essere recepite nelle normative nazionali.

Giustizia: Fp-Cgil; "no" alle agenti donne nelle sezioni maschili

 

Il Velino, 2 aprile 2009

 

"Ci risulta che l’amministrazione penitenziaria stia consentendo l’illegittimo impiego di personale di sesso femminile nelle sezioni maschili di taluni istituti penitenziari, in particolare della regione Emilia Romagna".

Lo dichiarano Rosa Ravanelli, segretaria nazionale Fp Cgil, e Francesco Quinti, responsabile nazionale comparto sicurezza. "La conferma - affermano - arriva da una nota ufficiale fatta pervenire dal provveditore regionale dell’Emilia Romagna che sulla questione sollevata dalla nostra struttura di Forlì interpreta a proprio modo la normativa vigente, riconoscendo che è illegittimo l’impiego di personale femminile nelle sezioni maschili, ma ritenendolo nientemeno che conforme ad un principio di carattere generale di pari opportunità.

Non è certo questa la nostra idea di pari opportunità. Al contrario, crediamo che una tale scelta, oltre ad aggravare le condizioni di forte disagio comprensibilmente avvertito dalle poliziotte, costrette ad operare in ambienti esclusivamente maschili, possa costituire anche un elemento che espone le poliziotte a condizioni operative di ulteriore pericolo, peggiorando la possibilità di tutela della loro sicurezza personale dentro l’ambiente di lavoro".

"Al di là dei tentativi surreali - continuano Ravanelli e Quinti - di spiegare in maniera diversa ciò che allo stato attuale non può essere messo in discussione, perché espressamente vietato dalla legge, esistono delle regole che lo Stato, prima ancora di esserne il garante, deve obbligatoriamente osservare. Al ministro della Giustizia Alfano chiediamo, considerata la drammatica condizione che sta attualmente caratterizzando il sistema penitenziario del paese, e che peraltro non ha affatto bisogno di ulteriori elementi di confusione, di farsi carico della presente denuncia nei confronti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Al ministro delle Pari opportunità Carfagna, sollecitiamo invece l’approfondimento della tematica e l’adozione degli interventi di competenza che saranno ritenuti necessari ad impedire che le predette poliziotte siano, nei fatti, costrette a patire le conseguenze di un sistema penitenziario che rischia seriamente, ogni giorno di più, di implodere".

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 2 aprile 2009

 

L’illegale carcere di Verona. Cara Radiocarcere, scriviamo per informarti che, a causa delle pessime condizioni di vita a cui siamo costretti qui nel carcere di Verona, abbiamo tutti noi detenuti promosso un periodo di sciopero della fame in segno pacifico di protesta.

Il carcere è sovraffollato. Siamo infatti circa 800 detenuti dentro una struttura che al massimo ne potrebbe contenere 600. Questo significa che siamo costretti a vivere in 4 detenuti dentro celle di 12 mq. Inoltre in ¾ delle celle manca sia la doccia che l’acqua calda.

Non vi è una adeguata assistenza sanitaria né, tantomeno, un numero sufficiente di educatori o assistenti sociali. Visto l’alto numero dei detenuti nel carcere di Verona, neanche i colloqui con i nostri familiari diventano u incubo. Familiari spesso costretti a fare lunghe file per poter parlare con noi.

Come se non bastasse il carcere di Verona cade a pezzi. Ogni giorno ci sono infiltrazioni d’acqua, o tubi che si rompono. Insomma il carcere di Verona è un carcere fuori legge, un carcere che così com’è non dovrebbe esistere i Italia. Non chiediamo la libertà o sconti di pena, ma chiediamo che Ministero della Giustizia e parlamento applichino le leggi vigenti in materia di detenzione e di misure alternative.

 

Un gruppo di detenuti del carcere Montorio di Verona

 

Paralizzato in una cella di Poggioreale. Caro compagno Riccardo, mi scuserai se ti chiamo compagno ma mi viene spontaneo.Ti scrivo da una cella del carcere Poggioreale di Napoli. Purtroppo sono completamente paralizzato e per questa ragione sono costretto a vivere su una sedia a rotelle. Devi sapere che la cella dove mi trovo non è adatta a un detenuto paralizzato… ed è difficile muoversi qui dentro con la carrozzina.

In questa cella, io detenuto paralizzato, sto insieme ad altri 6 detenuti. 6 detenuti dentro pochi metri quadri. È un inferno. Pensa che tre di loro sono paralizzati come me e come me sono costretti a stare sulla sedia a rotelle.

Due di loro hanno anche problemi con l’obesità e in tutto questo abbiamo solo l’aiuto di un piantone… ovvero di un detenuto che ci aiuta… forse un magistrato dovrebbe venire a vedere come siamo costretti a vivere… forse se un magistrato entrasse nella nostra celle e ci vedesse… beh forse applicherebbero al legge come si deve e magari ci aiuterebbero dandoci una misura alternativa.

Ma purtroppo non è così… i magistrati qui dentro non ci vengono e si affidano ai rapporti dei dirigenti sanitari… vorremo tanto che un deputato Radicale venisse a farci visita… che venisse a vedere come siamo costretti a vivere qui nei padiglioni Napoli e Milano del carcere di Poggioreale. Infine ti volevo chiedere: ma è vero che alla regione Campania esiste un ufficio per i detenuti? Ne abbiamo sentito parlare… anche se qui non si è mai visto nessuno.

 

Antonio, dal carcere Poggioreale di Napoli

Campania: audizione in Commissione su medicina penitenziaria

 

Ansa, 2 aprile 2009

 

L’offerta dei servizi sanitari nelle strutture penitenziarie campane. Sarà questo il tema della seduta d’audizione convocata per domani mattina, alle 11, dal presidente della Commissione Trasparenza del Consiglio Regionale della Campania Giuseppe Sagliocco.

La convocazione segue l’analoga seduta del 12 marzo scorso alla quale presero parte tra gli altri i vertici dell’Asl Napoli 1 (per i servizi sanitari erogati alle strutture penitenziarie di Poggioreale e Secondigliano), dell’Asl Caserta 2 (per le questioni attinenti la struttura di S. M. Capua Vetere e Carinola), nonché le rappresentanze sindacali regionali della Cisl.

"Una seduta dalla quale emerse - ricorda Sagliocco - una situazione a dir poco allarmate tanto in ordine al mancato rispetto del diritto alla salute dei detenuti, quanto in ordine ai relativi atti amministrativi e contabili. Insomma quanto è bastato perché accogliessimo la proposta lanciata dai sindacalisti Cisl di convocare un Tavolo di Verifica dell’insieme delle criticità, allargato a tutti i soggetti a diverso titolo chiamati al governo della materia".

Tra i convocati in audizione il giorno 3 aprile, il Commissario dell’Asl Na 1 Maria Grazia Falciatore, il Commissario dell’Asl Ce1-Ce 2 Mario Vasco, il Presidente del Forum Salute Carceri Campania Giuseppe Nese, il Segretario Generale della Cisl Campania Nino Di Maio, della Cisl Napoli Camillo De Lucia e della Cisl Caserta Vincenzo Margarita, il Garante regionale dei Diritti delle Persone Limitate Adriana Tocco, nonché il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) Tommaso Contestabile.

Oristano: progetto di agricoltura sociale, nel sistema carcerario

 

La Nuova Sardegna, 2 aprile 2009

 

Alcune decine di detenuti e ex detenuti saranno coinvolti, a partire dal prossimo mese di aprile nel progetto pilota su agricoltura sociale e sistema carcerario, promosso dall’Agenzia regionale Laore in collaborazione col Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria.

L’iniziativa è stata presentata nella Saletta Giudicale del Comune dal direttore generale di Laore, Giancarlo Rossi, dal provveditore del Prap, Francesco Massidda, e dal direttore della Casa circondariale di Oristano e della Colonia penale di Is Arenas, Pierluigi Farci, dall’assessore comunale Alessandro Lisini.

Il progetto si propone di valorizzazione del patrimonio agricolo (diverse migliaia di ettari di pertinenza delle quattro colonie penali esistenti in Sardegna) posseduto dall’Amministrazione penitenziaria, oltre al reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti. Il progetto coinvolgerà inizialmente la casa circondariale di Oristano, che curerà una serie di corsi di formazione agricola destinati ad alcuni suoi detenuti, e la colonia penale di Is Arenas, in territorio di Arbus.

In prospettiva - ha spiegato Massidda - l’obiettivo è quello di mettere sul mercato le produzioni agricole (in particolare olio, miele e formaggi) delle colonie penali. Si vogliono anche sostenere e rafforzare i modelli innovativi, l’insieme di esperienze e le "buone prassi" in termini di agricoltura sociale presenti nel territorio, che agiscono in stretto rapporto con la casa circondariale nei programmi di inserimento lavorativo e di reinserimento sociale per detenuti, per soggetti alle misure alternative alla detenzione e per ex detenuti, ovvero la comunità Il Samaritano e la coop Il Seme.

L’iniziativa presentata ieri rappresenta un passaggio fondamentale per dare concretezza alle strategie avviate negli ultimi anni, in particolare attraverso i progetti Terra Madre e Colonia. All’iniziativa partecipa anche il Gal Montiferru e Sinis, che ha sposato la politica che si esplica progettando, promuovendo e organizzando reti di protezione sociale in stretta relazione con i programmi di sviluppo rurale e con la programmazione sociale presente nel territorio. E si parla di fattorie sociali e delle relative reti di servizio, anche creando le necessarie condizioni per utilizzare con efficacia le risorse dell’agricoltura sociale e l’insieme di risorse finanziarie comunitarie e nazionali che sono disponibili per la Sardegna nel periodo di programmazione 2007-2013.

Potenza: 250 detenuti; agenti aggrediti per dose psicofarmaco

 

Apcom, 2 aprile 2009

 

Nel carcere di Potenza un detenuto extracomunitario ha colpito a pugni e calci un ispettore e due agenti della polizia penitenziaria che sono dovuti ricorrere all’ospedale locale per le cure mediche. "Sembra che l’ira del detenuto - si legge in un comunicato del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) - sia scaturita da una richiesta al medico per ottenere ulteriori dosi di calmanti che sarebbero stati necessari per placare il suo stato di crisi".

"È l’ennesima aggressione nella Casa Circondariale ai danni del personale del Corpo - ha denunciato il segretario regionale del Sappe, Giuseppe Manniello. I diritti soggettivi degli agenti - ha continuato - non sono rispettati: il ricorso all’attività straordinaria è estremamente pesante e i carichi di lavoro individuali sono inaccettabili".

Alla base dei disagi, sostiene il sindacato, ci sarebbe il sovraffollamento: 250 detenuti a fronte di una capienza di 150, "una situazione che non può essere disattesa - ha concluso Manniello anche in vista della stagione estiva e del fisiologico aumento del numero dei detenuti".

Chieti: Antigone presenta il Rapporto sulla situazione carceraria

 

Comunicato stampa, 2 aprile 2009

 

Venerdì 3 aprile alle ore 17.30 presso la Sala de Consiglio Comunale di Chieti si terrà un incontro con il Dottor Patrizio Gonnella presidente nazionale dell’Associazione Antigone il quale presenterà il rapporto annuale sulla situazione carceraria in Italia.

Si affronterà l’intera problematica relativa alla condizione dei detenuti sia dal punto di vista sanitario nonché delle condizioni igieniche del carcere, dei trattamenti e maltrattamenti riservati ai detenuti stessi, della mancata tutela della loro salute e più in generale delle condizioni logistiche in cui sono costretti a vivere.

L’iniziativa è organizzata dall’Associazione Antigone, dall’Associazione Meridiani Paralleli in collaborazione con il gruppo consiliare di Rifondazione Comunista presso il Comune di Chieti. Nell’ambito dell’iniziativa verrà affrontato anche il tema relativo all’istituto del garante per il detenuto che in molte regioni è già previsto ma che a tutt’oggi nella regione Abruzzo non è stato preso in considerazione. Ci si augura un’ampia partecipazione da parte della cittadinanza.

Aosta: un Corso di formazione, per il volontariato penitenziario

 

Ansa, 2 aprile 2009

 

Aperte le iscrizioni per il corso di 9 incontri destinato ai volontari già attivi, agli aspiranti volontari ed a tutti coloro che desiderano conoscere ed approfondire la realtà del carcere di Brissogne.

L’Associazione Valdostana Volontariato Carcerario organizza, a partire dalla metà di aprile, un corso di 9 incontri destinato ai volontari già attivi, agli aspiranti volontari ed a tutti coloro che desiderano conoscere ed approfondire la realtà del carcere di Brissogne. Gli incontri si svolgeranno in orario pre-serale con cadenza settimanale presso la sede del Csv Onlus, a partire da mercoledì 15 aprile.

L’iniziativa è finalizzata a fornire gli strumenti conoscitivi ed operativi, le competenze e le metodologie utili a progettare, sviluppare e gestire interventi di sostegno, promozione ed integrazione sociale dei detenuti. Il programma completo del corso è pubblicato e consultabile sul sito dell’associazione all’indirizzo www.avvc.it oppure sul sito www.csv.vda.it. Al corso possono iscriversi anche le persone interessate ad uno solo o a più incontri.

Ferrara: un "forum" sul teatro e il carcere nell'Emilia Romagna

 

Comunicato stampa, 2 aprile 2009

 

"Forum teatro carcere in Emilia Romagna". Martedì 7 aprile 2009 ore 10.00 - Teatro Cortazar. Via Ricostruzione, 40 Pontelagoscuro, Ferrara.

A partire dalla fine degli anni Ottanta il teatro è stato ammesso fra le attività "trattamentali", finalizzate al reinserimento sociale dei detenuti. Da allora, gli istituti di pena hanno ospitato con una certa regolarità gli operatori teatrali e, occasionalmente, gli spettatori.

Il teatro in carcere ha dimostrato di poter abbattere lo statuto di invisibilità della popolazione carceraria, consentendo all’attore detenuto di rimpadronirsi della propria storia e della possibilità di raccontarla.

All’attività teatrale in carcere è riconosciuta una importante funzione di collegamento con la società, nella creazione di rapporti che consentano un miglioramento delle condizioni di vita e al superamento di pregiudizi. Con delibera n. 653 del 12 maggio 2008 l’Assessorato alle Politiche Sociali della Regione Emilia-Romagna ha finanziato al Comune di Ferrara il progetto "Teatro in Carcere" che si propone di integrare all’attività teatrale svolta nella Casa Circondariale di Ferrara un’azione di censimento e di monitoraggio delle esperienze teatrali nelle carceri della nostra Regione.

In Emilia Romagna sono otto i laboratori di teatro carcere attivi attualmente negli istituti di detenzione per adulti. Una quarantina gli spettacoli realizzati complessivamente in questi anni, una trentina dei quali presentati di fronte a pubblico esterno, che hanno coinvolto un centinaio di detenuti.

A Bologna, Castelfranco Emilia, Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Parma, Rimini, società civile e società reclusa si sono incontrate, condividendo un insieme assai diversificato di occasioni teatrali e incrociando sguardi inediti fra scena e platea. Gli spettatori hanno imparato che è possibile riconoscere l’attore senza dimenticare il detenuto. Gli attori hanno scoperto nel confronto con gli spettatori che una diversa rappresentazione di sé è possibile.

Si tratta di realtà molto diverse tra loro, perché diversi sono i presupposti e gli obiettivi che le animano. Vi sono elementi che uniscono ed elementi che separano. C’è chi intende il teatro nella sua valenza riabilitativa, in stretta connessione con le attività trattamentali.

C’è chi invece privilegia percorsi e contenuti artistici, valorizzando gli esiti di spettacolo e le opportunità di professionalizzazione per gli attori detenuti. L’impatto del lavoro teatrale in carcere può porre di volta in volta l’accento sulla relazione fra i detenuti, o fra questi e l’istituzione, o ancora fra il carcere e la società civile.

Molto resta ancora da fare. Il Teatro/carcere è un’attività di frontiera che coinvolge la società, la cultura, la formazione, l’educazione, il lavoro. Uno spettacolo teatrale creato in carcere con detenuti attori necessita del supporto di tutti questi settori, perché a tutti offre una risposta concreta, operativa ed efficace.

Risulta prioritario, perciò, garantire la continuità delle esperienze e l’accesso a programmi che coinvolgano tutti, comunità reclusa e cittadini, il dentro e il fuori, nella prospettiva di una possibile integrazione sociale a fine pena.

Agire insieme. Agire in rete. La storia di queste esperienze è spesso la storia di un’azione concertata da parte di ciascuno e insieme agli altri. Operatori e gruppi teatrali, enti locali, istituzioni della Giustizia, società civile: nessuno deve sentirsi estraneo, perché nessuno lo è. E il teatro può farsi ponte fra luoghi normalmente separati e veicolo di conoscenza.

Iglesias (Ca): un incontro-dibattito sul tema "Sport e Legalità"

 

La Nuova Sardegna, 2 aprile 2009

 

L’incontro-dibattito sul tema "Sport e Legalità" organizzato da "Libera" Sardegna Solidale e dal Baudi di Vesme, svoltosi giorni fa nella Sala Lepori di via Isonzo, fa parte di un progetto complesso che mira sensibilizzare i giovani verso una corretta prospettiva dell’attività sportiva e delle regole sociali in generale.

"L’iniziativa - ha spiegato la referente del progetto per la scuola, la professoressa Elena Giacobbe - è stato ideato 2 anni fa, e finanziato dalla Regione per l’anno scolastico in corso. Ha preso il via a marzo proprio per promuovere la cultura della legalità attraverso una migliore diffusione delle informazioni e dell’etica sportiva. Esso si propone anche di avvicinare i ragazzi della nostra scuola alle istituzioni, e di avere con esse un contatto diverso dal solito: più semplice, diretto ed insieme anche giocoso e gioioso".

Il progetto prevede una serie di iniziative, tra le quali alcune conferenze-dibattito che vedranno gli studenti incontrare in vari momenti un rappresentante dei Carabinieri e della Polizia, il direttore della Casa Circondariale di Iglesias con un ex detenuto che racconti la propria esperienza di reinserimento nella società civile, un rappresentante di "Sardegna Solidale", associazione che opera nel campo del volontariato ed è attiva nel territorio.

E ancora un rappresentante ed un ospite della comunità di recupero per tossicodipendenti Casa Emmaus, oltre ad un esponente di "Libera" (associazione che opera contro le mafie) che illustrerà il fine dell’associazione e le relative strategie di intervento. Ovviamente il progetto non mira solo a fornire agli studenti un quadro rigoroso ed attento della società in cui essi vivono e della quale saranno un domani i principali protagonisti, ma li coinvolge anche in prima persona sotto l’aspetto più specificamente sportivo, utilizzando l’attività agonistica come veicolo per i messaggi etici, sociali e culturali che promuove: "La seconda fase dell’iniziativa - ha ricordato la docente della scuola diretta dal professor Giuseppe Melis - prevede lo svolgimento nel mese di maggio di un torneo di calcio a cinque che vedrà partecipare squadre di studenti, dei loro genitori, della Polizia di Stato, dei Carabinieri della compagnia di Iglesias, degli ospiti di Casa Emmaus e, se se ci saranno tutte le condizioni opportune un’amichevole con i detenuti della Casa Circondariale di Iglesias.

A marzo invece abbiamo potuto approfondire la tematica dell’etica sportiva con il dottor Marco Scorcu, medico sociale del Cagliari Calcio, che ha incontrato tre classi dell’istituto per spiegare ai ragazzi il fenomeno del doping sotto l’aspetto farmacologico e della salute dell’atleta, e con il professor Sandro Donati, che si è potuto rivolgere direttamente agli studenti di tutte le classi terze e quarte dell’istituto (oltre 250 alunni) per affrontare il problema del doping nello sport professionistico ma anche dilettantistico, amatoriale e giovanile". Ambedue gli incontri sono stati molto graditi dagli alunni, i quali hanno potuto soddisfare le loro curiosità e conoscere meglio un problema grave quale il doping, purtroppo assai più diffuso di quanto si sospetti anche fra gli ambienti frequentati dai nostri giovani.

Cinema: "Tutta colpa di Giuda" è stato girato in carcere Torino

di Maricla Tagliaferri

 

Secolo XIX, 2 aprile 2009

 

"Chi ha letto tutti i Vangeli alzi la mano" chiede il regista Davide Ferrario ai cronisti. "Uno solo eh? Lo sapevo. Se lo aveste fatto, avreste di Gesù un’immagine diversa da quella corrente. Era uno che faceva miracoli controvoglia, si arrabbiava con tutti, ossessionato dal dover salvare il mondo, sempre un po’ schizzato, molto più interessante, molto moderno". Soprattutto molto più simile alla visione che ne ha Kasia Smutniak, l’interprete del suo ultimo film, "Tutta colpa di Giuda", da venerdì 10 su una settantina di schermi.

Girato interamente nella Sezione VI, Blocco A, della Casa Circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino, meglio nota come Le Vallette, che ne ospiterà domani l’anteprima, è interpretato anche dagli attori Fabio Troiano, Gianluca Gobbi e la partecipazione amichevole di Luciana Littizzetto, nell’inedito ruolo di una suora. Con loro una ventina di veri detenuti e tre agenti di custodia. Più i musicisti Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, Cecco Signa e Paolo Ciarchi, nome storico della musica di ricerca, mobilitati insieme a Fabio Barovero per questo che l’autore di "Dopo mezzanotte" e "Tutti giù per terra" definisce: "Un film con musiche, dove la musica è più importante della sceneggiatura, un oggetto che detesto perché tende a esercitare una dittatura". La colonna sonora, fra l’altro, sarà da venerdì nei negozi e su iTunes.

Da lui scritto, diretto e prodotto, col sostanziale contributo della Warner Bros che lo distribuisce, "Tutta colpa di Giuda" racconta di una regista teatrale, molto teorica e sperimentale, chiamata in carcere dal cappellano per un’esperienza educativa, che culmina nella messa in scena di una Passione di Cristo alquanto bizzarra: senza Giuda, perché nessuno intende fare "l’infame", e quindi senza tribunale, né morte, né espiazione, né sacrificio.

Un bell’uovo di Pasqua, nel paese che ospita il Vaticano: "Io sono un ateo sereno e convinto" avverte Ferrario "rispetto le persone religiose, perché per molti la religione risponde alle grandi domande della vita e con la religiosità tutti in qualche modo facciamo i conti. Ma trovo assurdo che un signore, che magari abita al di là del Tevere, si svegli la mattina e parli, senza controprova, in nome di Dio". Lungi da lui la provocazione: "Non credo che qualcuno possa offendersi per quel che si dice nel film".

Da bravo torinese sornione, da bravo intellettuale, da bravo documentarista militante e imprevedibile, si limita a lanciare annotazioni collaterali: "Quando dovevamo girare una scena nella cappella del carcere, ci si pose il problema del permesso. Il sacerdote non c’era, decise la direttrice del carcere, dicendo che si trattava tutto sommato di una proprietà dello Stato, benché consacrata. Curioso come anche "dentro" si discuta di quel che si discute "fuori".

"Tutta colpa di Giuda" nasce da una lunga frequentazione del carcere: "Nel 2000 cominciai a San Vittore una serie di lezioni su montaggio e video-editor", ricorda Ferrario "doveva essere un episodio isolato, invece siamo andati avanti per quattro anni, realizzando anche lavori importanti come "Fine amore: mai", visto in alcuni festival. Poi, nel 2004, passai a Torino, in una situazione diversa, con detenuti per reati di piccolo calibro, meno criminalmente determinati di quelli milanesi".

In tutto questo tempo, l’idea che s’è fatto del carcere è questa: "È un luogo di mediazione, non di conflitto. Le Vallette è una piccola città, con 1.600 carcerati invece dei 900 che potrebbe ospitare, con un migliaio di agenti e personale di servizio. In un luogo così, si cerca la convivenza pacifica, non lo scontro. Del resto, quando escono in borghese, gli agenti somigliano ai parenti in visita, capisci che vengono dallo stesso ambiente sociale".

Diritti: Associazioni censiscono homeless; sono quasi centomila

di Claudia Fusani

 

www.unita.it, 2 aprile 2009

 

Sono per lo più italiani, hanno all’incirca 40 anni, il 30 per cento è diplomato e il 7 per cento laureato, il 13 per cento ha un lavoro fisso o comunque è attivo nel mercato del lavoro (74%), il 70 per cento legge un quotidiano. Eppure sono clochard, senza fissa dimora. Poveri barboni. Una volta, adesso non più.

Avrà molte sorprese il Viminale quando nel 2010 avrà il primo censimento nazionale dei cosiddetti barboni, così come stabilito dal disegno di legge sulla sicurezza già approvato al Senato e all’esame della Camera. A cominciare dal numero: le stime delle organizzazioni di volontariato parlano di un fenomeno che in Italia riguarda 70-100 mila persone, quasi lo 0,2 per cento della popolazione, una percentuale che ci affianca agli Stati Uniti dove gli homeless sono una realtà quasi "ordinaria".

Un primo assaggio di questa realtà arriva grazie allo studio di due ricercatori della Bocconi (Michela Braga e Lucia Corno) e della Fondazione De Benedetti che la notte del 14 gennaio 2008 (dati elaborati e diffusi nel gennaio 2009) hanno fatto il censimento di chi dormiva non in abitazioni proprie, quindi panchine, stazioni, sottopassi ma anche campi nomadi e strutture di volontariato.

La rilevazione ha fotografato una popolazione di circa 4mila adulti privi di una casa: 408 erano in strada, 1.152 nei dormitori e circa 2.300 in baraccopoli o edifici dismessi. Quattromila, quindi, nella sola città di Milano, un dato che proiettato a livello nazionale arriva a 70-100 mila. L’ultimo censimento disponibile - del 2001 - parlava di circa 17 mila persone su tutto il territorio nazionale, lo 0,03 della popolazione. Numeri che dicono da soli quanto il fenomeno sia cresciuto in meno di dieci anni.

La fotografia scattata dai ricercatori della Bocconi smonta pezzo dopo pezzo l’iconografia tradizionale del clochard come individuo che rifiuta il mondo e lontano dal tessuto delle reti sociali. A cominciare dalla nazionalità: gli stranieri sono la netta maggioranza (67%) nelle baraccopoli, diventano il 60 per cento nei dormitori e il 44 in strada. Per gli italiani è una scelta obbligata, sono diventati poveri per problemi legati al lavoro o alla famiglia (separazioni). Per gli stranieri, invece, è una "prosecuzione" naturale della loro condizione di immigrati.

Lo studio è stato presentato ieri in un convegno organizzato dall’Italia dei Valori. Nello Formisano e Ahmad Gianpiero Vincenzo, italiano convertito all’Islam e consulente per il partito di Di Pietro per gli affari sociali, hanno presentato un disegno di legge in due punti - utilizzo del miliardo e 300 milioni dei fondi Gescal; auto recupero tramite cooperative sociali dei 4 mila immobili confiscati alle mafie - che mette in primo piano il problema degli homeless. Una realtà, denuncia la Caritas, "che non più essere considerata marginale e che invece questo governo punta solo a controllare senza aiutare". Una fetta di popolazione "senza casa ma non per questo senza speranza".

Immigrazione: Fortress Europe; in marzo 316 emigranti morti

 

Redattore Sociale - Dire, 2 aprile 2009

 

Trecento vittime sulla rotta per Lampedusa. Una settimana prima della strage in Libia, un naufragio in Tunisia aveva fatto 67 vittime. Due morti nei porti italiani dell’Adriatico. Ancora sangue a Ceuta.

Sono almeno 316 le vittime dell’emigrazione lungo le frontiere europee nel mese di marzo, secondo l’ultimo bollettino mensile rilasciato dall’osservatorio Fortress Europe. Un dato basato sulle notizie riportate dalla stampa, e ancora incerto, perché le notizie che arrivano dalla Libia sono ancora contraddittorie. Mentre la Reuters cita fonti libiche che parlano di 100 cadaveri recuperati e 245 dispersi in mare, la missione a Tripoli dell’Oim parla di 20 morti e 210 dispersi.

Al di là delle cifre rimane una delle più gravi tragedie di sempre sulle rotte dell’emigrazione, della stessa portata del naufragio di Portopalo, che il 25 dicembre 1996 costò la vita a 283 persone. Secondo i dati di Fortress Europe, dal 1994 almeno 3.163 emigranti e rifugiati hanno perso la vita lungo la rotta per Lampedusa e le coste siciliane.

Restano altresì da chiarire le responsabilità della Guardia costiera libica, notoriamente priva di un numero sufficiente di mezzi per garantire un pronto intervento di salvataggio in mare, al punto che molti dei soccorsi in acque libiche sono spesso operati da unità italiane, secondo quanto dichiarato da funzionari della Sala operativa della Guardia costiera.

Già una settimana prima del naufragio di Janzur, il Canale di Sicilia aveva fatto 67 vittime, su una barca colata a picco al largo dell’isola Kerkennah, vicino Sfax, in Tunisia, sulla rotta per Lampedusa. In quel caso le autorità tunisine avevano recuperato 17 cadaveri e dato per disperse altre 50 persone, secondo le testimonianze raccolte tra i 33 tratti in salvo.

Sempre in Italia, nel mese di marzo si sono contate due morti nei porti dell’Adriatico. Il 29 marzo un irakeno è stato trovato morto ad Ancona, schiacciato dagli assi dell’autoarticolato sotto il quale si era nascosto, nel porto di Patrasso, in Grecia, per imbarcarsi su un traghetto diretto in Italia. E dalla Grecia proveniva anche il traghetto Hellenic Master, giunto nel porto di Venezia il 26 marzo. Nel semirimorchio di uno dei camion a bordo, è stato trovato il corpo senza vita di un richiedente asilo politico rimasto schiacciato da una balla di carta da macero.

La cronaca segnala infine tre vittime nello Stretto di Gibilterra, mentre a Ceuta - l’enclave spagnola in Marocco - si torna a morire. È successo la notte del 7 marzo. Una morte atroce. Un giovane sub-sahariano è rimasto impigliato nella doppia rete alta sei metri che sigilla la frontiera della città spagnola. Così penzoloni, è morto dissanguato a causa delle ferite riportate durante l’arrampicata. Quando sono arrivati i soccorsi era già troppo tardi.

Immigrazione: i superstiti di naufragio rinchiusi in carceri libiche

 

Redattore Sociale - Dire, 2 aprile 2009

 

Tripoli - Sono in carcere i 21 superstiti del naufragio che lunedì scorso ha fatto 230 vittime a poche miglia dalle coste libiche. Alcuni saranno presto rimpatriati, per altri invece si prospettano mesi e forse anni di detenzione.

La conferma arriva dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni, la cui missione a Tripoli è stata autorizzata dalle autorità libiche a visitare gli emigranti, nel centro di detenzione di Tuaisha, a Tripoli, in condizioni degradanti.

"Li abbiamo visitati ieri per la prima volta - ci ha detto al telefono Michele Bombassei (Oim) - e oggi stiamo tornando con un medico, perché alcuni di loro hanno problemi di stomaco e reni, a causa dell’acqua salata che hanno bevuto". Prima dell’arrivo dei soccorsi, infatti, i 21 sono rimasti aggrappati per otto ore ai legni di poppa del peschereccio semi affondato, fino alle 16:00. Tra i superstiti c’è anche una donna, che però è stata rilasciata per essere ricoverata in ospedale, viste le precarie condizioni di salute.

Per molti di loro sono già iniziate le pratiche di identificazione per il rimpatrio forzato. Le ambasciate più solerti sono state quelle dei paesi arabi coinvolti, nel gruppo infatti si contano 3 algerini, 4 egiziani e 2 tunisini. L’altra metà dei superstiti proviene invece dall’Africa subsahariana: Gambia, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio e Nigeria. Saranno loro ad avere i problemi maggiori.

In Libia infatti non esistono rappresentanze consolari della repubblica del Camerun e di quella del Gambia. Il che significa che i 3 gambiani e l’unico camerunese sopravvissuti alla strage in mare rischiano di passare mesi o anni nelle carceri libiche - note per le condizioni degradanti e inumane di detenzione - prima che abbiano inizio le pratiche di identificazione e rimpatrio. Senza un laissez passer dell’ambasciata è infatti impossibile procedere al rimpatrio. Casi simili sono già stati documentati in passato dall’osservatorio Fortress Europe che durante una visita in Libia aveva incontrato un gambiano detenuto a Khums da 5 mesi. Non si conosce invece dove si trovino i 350 passeggeri del peschereccio soccorso domenica scorsa dal rimorchiatore italiano Asso 22. L’unica cosa certa è che anche loro si trovino in detenzione, in attesa del rimpatrio.

Immigrazione: medici e obbligo denuncia; il primo caso a Napoli

 

Giuristi Democratici, 2 aprile 2009

 

Una mobilitazione per il caso di Kante, la donna ivoriana che è andata in ospedale a partorire e ha sperimentato in anteprima e in modo illegale cosa vuol dire dare al personale medico e paramedico la facoltà di denunciare i cittadini perché sospettati di non essere in regola con il permesso di soggiorno.

Kante è una rifugiata politica della Costa D’Avorio. Kante è una donna che ha scelto di partorire all’Ospedale Fatebenefratelli di Napoli, in un paese, l’Italia, in cui emergono forme di discriminazione sempre più gravi e preoccupanti. Kante è stata denunciata alla polizia con un fax dal Fatebenefratelli e il figlio neonato le è stato sottratto per quasi dieci giorni! In attesa "di una verifica sulla sua identità"...

Il permesso di soggiorno di Kante infatti è scaduto, mentre è in atto il suo ricorso per ottenere l’asilo politico. Ma non è questo il punto in questione: la denuncia di Kante nasce dalla vergognosa ansia di applicare le norme contenute nel cosiddetto "pacchetto sicurezza", come quella che annulla il divieto di segnalazione per i migranti irregolari che vanno a curarsi o, come nel suo caso, a partorire. Un provvedimento che fa a pezzi le regole base del giuramento di Ippocrate e della convivenza civile.

Un’iniziativa illegale, quella del Fatebenefratelli, perché il pacchetto sicurezza non è ancora legge dello Stato e quindi vige sempre il divieto di segnalazione. Ma anche un’iniziativa che dimostra la barbarie che ci aspetta se venisse approvato. In questo caso non solo per gli immigrati irregolari ci sarà il rischio di segnalazione ed espulsione per il solo fatto di ricorrere a cure mediche, ma sarà impossibile anche la registrazione anagrafica del bambino, con un’incredibile condanna preventiva alla clandestinità amministrativa per le nuove generazioni.

Non è un caso che questa prima applicazione illegittima del pacchetto sicurezza avvenga proprio sul corpo di una donna, le più esposte e ricattabili anche all’interno della difficile condizione dei migranti e dei rifugiati in Italia. Dobbiamo mobilitarci subito, per pretendere provvedimenti immediati contro i responsabili di quest’assurda iniziativa e per chiedere con forza che il "pacchetto sicurezza" non sia approvato. Diritti e dignità per tutte e tutti! Giovedì 2 aprile ore 16.30 - Presidio sotto l’Ospedale Fatebenefratelli (via Manzoni, a 500 metri dalla funicolare di Mergellina).

 

Associazione Giuristi Democratici di Napoli

Immigrazione: il trattato Italia-Libia sotto accusa, non basterà

di Carlo Marroni

 

Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2009

 

La consegna dei sei pattugliatori sarà a fine aprile, in un porto della Libia, con tanto di cerimonia ufficiale. Nel frattempo arriverà in Italia personale della marina libica per tre settimane di addestramento, mentre una squadra di finanzieri e poliziotti italiani andrà a Tripoli per chiudere gli ultimi dettagli. Tutto in vista del 15 maggio, quando scatterà l’avvio dei pattugliamenti delle coste per contrastare il traffico degli immigrati clandestini.

La tragedia dei giorni scorsi ha rimesso sotto i riflettori il problema-chiave della sponda sud e la necessità che l’accordo tra Italia e Libia vada a pieno regime. Il Governo italiano anche ieri ha avvertito Tripoli sul reale rispetto delle intese ("Non bisogna pensare che l’accordo con la Libia sia la panacea di tutti i mali" ha detto il ministro della Difesa, Ignazio la Russa), ma ufficialmente si confida nel fatto che il Trattato di amicizia del 30 agosto 2008 ratificato tra febbraio e marzo possa produrre concreti risultati ("Gli accordi avranno la prima concreta applicazione il 15 maggio con i pattugliamenti" ha detto il ministro degli Esteri, Franco Frattini).

La Libia assicura che la guardia non è stata mai abbassata: "La nostra polizia sta facendo un lavoro enorme, nei giorni scorsi sono state bloccate sulle coste 1.300 persone che stavano per salpare: i controlli sono in via di intensificazione" dice da Tripoli l’ambasciatore a Roma, Hafed Gaddur, uno degli artefici del Trattato.

Le basi per la collaborazione per la lotta all’immigrazione clandestina sono state gettate dal Governo Prodi e perfezionate nell’accordo del dicembre 2007 che portala firma dell’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato. Un’intesa recepita dal Trattato firmato da Berlusconi e Gheddafi a Bengasi, in cui è prevista formazione professionale per le forze di polizia, assistenza per il rimpatrio di immigrati illegali verso Paesi terzi, fornitura da parte dell’Italia di equipaggiamento e una più vasta collaborazione operativa nel campo dell’intelligence.

Ma il cuore è nel Protocollo aggiuntivo tecnico-operativo in cui si scende nel dettaglio. Le unità navali, della Guardia di Finanza, in via di consegna sono tre guardia-coste e tre vedette "V.5000", che saranno cedute temporaneamente alla Libia, senza naturalmente le insegne nazionali italiane. L’utilizzo sarà per operazioni di controllo, ricerca e salvataggio nei luoghi di imbarco delle "carrette del mare", sia in acque territoriali libiche sia internazionali.

Per i primi tre mesi il personale sarà misto italo-libico per garantire la formazione e la manutenzione, e successivamente sarà ridotta progressivamente la presenza italiana. Previsto anche l’impegno dell’Italia a cooperare con l’Ue per la fornitura (con finanziamento a carico del bilancio comunitario) di un sistema di controllo per le frontiere terrestri e marittime libiche, soprattutto per il confine sud con Niger e Ciad: il gruppo Finmeccanica sta perfezionando un sistema satellitare di controllo.

Russia: Ue; troppa detenzione preventiva e carceri inadeguate

 

Apcom, 2 aprile 2009

 

Condizioni delle carceri inadeguate in Russia, e tempi della giustizia troppo lunghi, soprattutto per la custodia cautelare. Le critiche della Pace, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Apce) vengono pronunciate oggi da Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, relatrice per la Commissione giuridica e i diritti umani dell’organismo europeo. Parlando in una conferenza stampa a Mosca, Leutheusser-Schnarrenberger ha detto che i termini di custodia sono un problema non tanto del diritto russo, quanto della sua applicazione. Chiedendo un più ampio utilizzo delle alternative alla detenzione in fase pre processuale. Per quanto riguarda le condizioni in cui i russi sono detenuti nei centri di detenzione preventiva e penitenziari, Leutheusser-Schnarrenberger ha affermato che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha emanato una serie di sentenze in materia: tali documenti dimostrano che la situazione non può essere definita positiva. Allo stesso tempo, ha lodato la buona dotazione finanziaria del sistema giudiziario russo: nella giusta direzione il reddito medio dei giudici, abbastanza buono in confronto con quelli del Regno Unito, Germania e Francia.

Iran: giornalista arrestata per l'acquisto di una bottiglia di vino

 

Ansa, 2 aprile 2009

 

Roxanna ha comperato una bottiglia di vino. Il guaio è che lo ha fatto in un market di Teheran, città dove è hokm, obbligo religioso, restare astemi. Era l’11 febbraio quando Roxanna Saberi, giornalista, 31 anni, è stata vista libera per l’ultima volta, con il suo hijab azzurro lasciato morbido sulla testa a fare immaginare tutto tranne che l’attaccatura dei capelli. "Non vi preoccupate, ne esco presto", aveva detto ai genitori nell’unica telefonata concessale. Da quel giorno, invece, è sparita, rinchiusa in una cella del braccio 209 del carcere di Evin, il più terribile della città.

Dalle sue finestre a sbarre si può vedere l’area speciale dove ancora, nel 2009, uomini e donne vengono seppelliti fino al collo e poi presi a sassate finché non muoiono, come prevede la legge di Allah. Un posto sicuramente insopportabile per una ragazza cresciuta in Nord-Dakota, dove nel 1997 era stata pure incoronata Miss. Un posto dove rimane trattenuta di certo non per quella singola bottiglia di vino.

Roxanna era la corrispondente per la rete radiofonica NPR e molte altre testate giornalistiche americane. Era arrivata a Tehran dagli Stati Uniti sette anni fa. Mezza americana e mezza iraniana, era una giornalista piuttosto conosciuta, e gradita perfino ai mullah. Per cui non ci si spiega proprio perché, a distanza di quasi due mesi, il regime non l’abbia ancora lasciata andare. Il padre di Roxanna è arrivato in città e sta cercando di capire che cosa sia capitato alla figlia.

Non è la prima volta che il Regime incarcera irano-americani senza motivo: nel 2007 vennero rinchiusi in quattro, tra cui il professor Haleh Esfandiari. Invece Zahra Kazemi, una giornalista iraniana canadese, venne picchiata e torturata in quel carcere nel 2003: morì all’ospedale Baghiatollah di Teheran. Era stata imprigionata per aver fotografato le famiglie dei detenuti davanti alla prigione dove ora è rinchiusa Roxanna. Pochi giorni fa, poi, è defunto lì il blogger Mir Sayyaf, arrestato per aver oltraggiato il capo supremo del regime, Ali Khamenei. Ce n’è abbastanza, insomma, per pensare che Roxanna non se la stia passando bene. Le associazioni per i diritti umani del mondo si stanno mobilitando ora per la ragazza.

Zimbabwe: filmato shock su carceri trasmesso da tv sudafricana

 

Apcom, 2 aprile 2009

 

Il governo di Harare chiede aiuto per quanti sono detenuti nelle prigioni dello Zimbabwe, mostrati in un documentario trasmesso martedì scorso dalla televisione sudafricana Sabc. Le immagini mostrano prigionieri emaciati, troppo deboli per stare in piedi, mentre mangiano come se potessero a malapena portare il cibo alla bocca. Attivisti per i diritti umani ed ex prigionieri hanno sempre denunciato condizioni orribili nelle carceri del Paese, ma finora non erano mai state disponibili prove.

Il governo di Harare chiede ora "l’aiuto dei donatori", dice alla Bbc il produttore, Johann Abrahams. "Chiedono aiuto umanitario, per dare cibo, vestiario e assistenza legale ai prigionieri - aggiunge - loro da soli non ce la fanno. Sanno di avere un grave problema. Ovviamente è il precedente governo che dovrebbe rispondere di questa situazione". Il governo di unità nazionale, insediatosi ad Harare lo scorso febbraio, non ha ancora commentato il filmato.

Il produttore Godknows Nare ha trascorso quattro mesi ad addestrare quanti hanno fatto le riprese nelle prigioni, poi montate nel documentario intitolato Hell Hole. In una scena si vede un uomo fermo in un cortile, con le costole e l’osso pelvico terribilmente sporgenti. In altre scene sono ripresi prigionieri emaciati, consumati da carenze vitaminiche, chiusi in celle dotate solo di coperte e di sottili materassi. Nare precisa che la prigioni forniscono solo una ciotola di minestra di cereali, che i detenuti mangiano molto lentamente, come se fossero troppo deboli anche per alimentarsi.

L’Associated Press non ha potuto stabilire in via indipendente se la debolezza dei prigionieri sia causata dalle condizioni di detenzione, oppure da malattie o malnutrizione. Annah Y. Moyo, un legale dello Zimbabwe che lavora con il Centro sudafricano per i sopravvissuti alla tortura, ha detto che le condizioni delle prigioni nello Zimbabwe sono "una forma di tortura". Moyo ha sottolineato come la grave crisi economica in cui versa da anni il Paese ha creato problemi agli approvvigionamenti alle carceri. La corruzione dei funzionari carcerari, ha aggiunto, aggrava le condizioni dei detenuti, perché spesso si appropriano del cibo per rivenderlo al mercato nero.

"Tutti sanno che se vieni mandato in prigione, le tue possibilità di uscirne vivo sono piuttosto esigue - ha detto Moyo - è una situazione piuttosto complessa. Non si può definirla solo economica o politica". Nelle carceri mancano anche assistenza legale e medica e negli ultimi mesi il Paese è stato colpito da un’epidemia di colera che ha ucciso oltre 4.000 persone libere.

 

 

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