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Giustizia: Mauro Palma candidato per l'Europa dei diritti umani intervista di Patrizio Gonnella a Mauro Palma
www.linkontro.info, 27 aprile 2009
Mauro Palma è Presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura. Oggi è anche candidato alle elezioni europee del 6 e 7 giugno. Lui a Strasburgo c’è dal 2000, a occuparsi di diritti umani. È rientrato in questi giorni dalla Cecenia. Il Comitato è un organismo incaricato di monitorare e controllare il trattamento delle persone private della libertà attraverso un sistema di visite ai luoghi appunto dove la libertà è privata. Attualmente il suo campo di azione copre tutto il continente europeo con l’eccezione della Bielorussia che non è membro del Consiglio d’Europa in virtù del suo persistere nel dare esecuzione alle sentenze capitali. La sua è una candidatura nel segno dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Il sistema di ispezioni da lui diretto ha avuto risultati significativi; è quasi un unicum nel panorama internazionale. Nel settembre del 2008 è stata visitata anche l’Italia. Una Italia che oggi, soprattutto per come tratta gli immigrati, non è proprio terra di garanzie e di trattamenti umani. Nella Europa visitata dal Comitato presieduto da Mauro Palma il sovraffollamento carcerario è senza dubbio il problema più evidente che affligge il panorama detentivo. Si pensi che nella Federazione Russa vi è un tasso di detenzione pari a 6.3 detenuti ogni mille abitanti.
A Mauro Palma chiediamo se il suo Comitato aiuta a costruire un’Europa rispettosa dei diritti umani? Non è semplice rispondere. Una prima risposta è positiva. Nel senso che questo sistema rappresenta quanto di più avanzato l’Europa è riuscita a costruire, ben diversamente da altre realtà regionali che pure dovevano dare corpo alla comune Dichiarazione dei diritti fondamentali del 1948, traducendola in trattato. Una seconda risposta è più dubbiosa e riguarda l’efficacia delle azioni, rinviando alla domanda di quali siano gli strumenti disponibili ed efficaci per ottenere la tutela dei diritti fondamentali. Ovviamente le violazioni devono essere perseguite con gli strumenti del diritto interno, sia sul piano giudiziario che su quello amministrativo - per esempio, nel caso frequente di maltrattamenti più o meno gravi di persone private della libertà da parte dell’autorità pubblica, la richiesta di perseguire penalmente gli agenti responsabili di tali azioni e di provvedere anche con visibili e credibili sanzioni penali e disciplinari. Dove ciò non avviene, si apre la via alla prima possibile risposta sul piano sovranazionale, quella di chiamare lo stato a risponderne davanti a una istanza superiore: è questa la ratio della Corte europea di Strasburgo che, per l’Europa, può affermare in modo univoco l’eventuale violazione e, quindi, imporre allo stato un rimedio pecuniario. È anche la via della previsione di un tribunale penale internazionale che non riconosce competenza territoriale, né limiti geografici di intervento di fronte a reati che attaccano il fondamento della convivenza civile e della elementare umanità e che agisce rispetto ai singoli irrogando pene detentive con una potestà affidatagli dalla comunità internazionale. Le vie sovranazionali non possono andare più in là: l’imposizione del rispetto dei diritti non può spingersi oltre senza avventurarsi per vie che possono giungere a soluzioni estreme e inaccettabili. In nome della tutela di un senso di umanità si può altrimenti arrivare a giustificare interventi violenti, a definire "umanitarie" azioni di polizia internazionale e anche di guerra, come la storia recente dell’Europa recente insegna. La via alternativa, quella seguita dal Cpt e da analoghi comitati, è quella del pressante power of persuasion; è una via non giudiziale, che vuole stringere lo stato interessato verso l’adozione di misure in grado di evitare il proporsi di violazioni o il loro ripetersi o estendersi. Naturalmente un processo di questo tipo richiede alcuni presupposti. Il primo che si riconosca la legittimità degli interlocutori e, quindi, che ci si riconosca come partner di uno stesso patto, di una stessa azione, di una Convenzione, appunto. Il secondo è che le violazioni vengano riconosciute come sintomi di difficoltà, come problemi da risolvere e non come strumenti più efficaci per raggiungere uno scopo. Il terzo presupposto è che si riconosca un valore etico-politico alla propria azione di governo; valore che verrebbe fortemente leso se questa venisse stigmatizzata dall’esplicita condanna della comunità internazionale. Un public statement emesso nei confronti di uno stato membro del Consiglio d’Europa ha valore solo nella misura in cui lo stato interessato lo percepisce come riprovazione della comunità degli altri stati, quasi come un suo essere posto ai bordi di una convivenza civile e politica riconosciuta. Altrimenti non ha alcun valore e resta un debole strumento di intervento, inadeguato rispetto alla gravità della violazione riscontrata. Sono questi tre presupposti a ricevere gravi scossoni e forse a vacillare nei primi anni del nuovo millennio.
La sua esperienza a Strasburgo consente all’Italia di avere un ruolo di primo piano in seno agli organismi sovra-nazionali che si occupano di diritti umani. È questa una inversione di tendenza dopo anni di assenza dell’Italia dai ruoli di vertice di Onu e Consiglio di Europa? I diritti umani devono essere la cartina di tornasole della nostra politica estera. L’Italia deve riacquistare un ruolo di primo piano negli organismi internazionali. Mi auguro che in futuro possa avere una sua ulteriore espansione. La nostra cultura giuridica e democratica merita una rappresentanza ben più forte.
Esiste la tortura in Europa? Nessun Paese è mai esente dal rischio della tortura e dei trattamenti crudeli o degradanti. Con le immagini di Abu Ghraib la tortura è entrata massicciamente nelle case del cittadino qualsiasi e, grazie alla diffusione planetaria dei mezzi di informazione, si è resa visibile alle diverse latitudini del globo. Non si potrà più dire di non sapere; non si potrà più chiedere se la tortura esista ancora o se la pratichino soltanto regimi non democratici, chiusi all’occhiuta vigilanza degli organismi internazionali e delle organizzazioni non governative. Che maltrattamenti e torture siano ben vive anche nel nostro mondo democratico non è del resto cosa nuova per chi ha compiti di indagine e ispezione nei luoghi opachi della privazione della libertà: nelle celle delle polizie, nei primi interrogatori dopo l’arresto, nelle carceri, nei luoghi di detenzione degli immigrati irregolari. Ovviamente non si tratta di un comportamento ordinario - sarebbe un errore non vedere l’evoluzione che, per esempio, ha avuto in Europa la cultura delle forze dell’ordine - ma di un comportamento pronto a manifestarsi quando la situazione evolve verso quel rapporto totalizzante di inimicizia verso singoli, gruppi, minoranze.
La tortura è presente solo nei contesti di guerra? Il contesto bellico è certamente il fattore decisivo della sua persistenza. Ma il contesto non è solo quello degli eventi bellici. No, il contesto è piuttosto quello dell’aver stabilito una irriducibile negazione dell’altro; e ciò avviene anche in situazioni non formalmente conflittuali. Avviene quando non si è in grado di leggere in colui della cui libertà si è, seppur temporaneamente, responsabili e custodi, caratteristiche di somiglianza, o almeno di appartenenza allo stesso consorzio umano, ma si è portati a leggere soltanto un’irriducibile differenza.
In cosa consiste il lavoro del suo Comitato? È un lavoro duro ed entusiasmante. Visitiamo carceri, commissariati, caserme, ospedali, luoghi di internamento di immigrati. Facciamo raccomandazioni ai governi, chiediamo spiegazioni. Riceviamo risposte. Non siamo un tribunale. Siamo un organismo ispettivo con funzioni preventive. Un esempio. Dopo l’ultima visita in Italia del Comitato le autorità italiane hanno chiuso il centro per immigrati di Agrigento.
Veniamo all’Italia. Distinguerei gli aspetti normativi da quelli pratici. Manca ancora il reato di tortura nel nostro ordinamento. Questa è una lacuna grave. Così come è importante che istituisca un organismo indipendente di controllo delle condizioni di vita nei luoghi di detenzione. Sarebbe un organismo che potrebbe lavorare in sinergia con il nostro Comitato. Per quanto riguarda la vita nelle carceri il sovraffollamento la rende durissima. È il momento di pensare a provvedimenti di depenalizzazione e di decarcerizzazione soprattutto su droghe e immigrati. Giustizia: Alfano; il "Piano Carceri" avrà il sostegno di privati
Apcom, 27 aprile 2009
Il nuovo "piano straordinario per le carceri" sarà presentato dal ministro della Giustizia Angelino Alfano ai primi di maggio. Lo ha detto lo stesso Guardasigilli, a margine dell’incontro istituzionale che lo ha visto oggi a Sciacca, nell’agrigentino, e attualmente è nel carcere della città saccente. "Nasce dalle norme contenute nel decreto di due mesi fa - spiega - e pensiamo che da quelle possa derivare una pianificazione capace di dare una razionale allocazione agli istituti di pena e alla creazione di circuiti differenti in modo tale che chi è in massima sicurezza non abbia a stare con chi in massima sicurezza non è". Ma il piano voluto da Alfano "consentirà il sostegno dei privati all’edilizia carceraria che è uno degli elementi di civiltà di un Paese". Giustizia: Sappe; siamo prossimi alla quota di 62.000 detenuti
Agi, 27 aprile 2009
L’emergenza carceri è sempre più in primo piano: ieri la capienza delle 206 strutture penitenziarie del Paese (161 case circondariali, 38 case di reclusione e 7 istituti per le misure di sicurezza) ha registrato la presenza di circa 61.700 detenuti. "È da tempo - rileva Donato Capece, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe - che richiamano l’attenzione delle istituzioni e del mondo della politica sulla grave situazione penitenziaria del Paese, a rischio di implosione da una settimana all’altra". La cifra di 61.700 detenuti, secondo il sindacalista, "in un paio di mesi non solo sarà sicuramente superata ma che ragionevolmente si eleverà all’allarmante numero di 70mila detenuti presenti nelle carceri italiane entro la fine di quest’anno, che potrebbero diventare 100mila in poco meno di tre anni, se non viene invertito il trend dei crescita dei ristretti". In particolare, ci sono regioni (Emilia Romagna, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta e Veneto) "in cui - spiega Capece - la popolazione detenuta presente è numericamente maggiore non solo della capienza regolamentare ma addirittura di quella tollerabile". L’attuale sovraffollamento, ribadisce quindi il Sappe, "va a discapito delle condizioni detentive in linea con il dettato costituzionale previsto dal terzo comma dell’articolo 27 e delle condizioni lavorative delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria che lavorano nella prima linea delle sezioni detentive. Un Corpo in cui si registrano carenze di organico pari a oltre 5.500 unità. A nostro avviso è necessario individuare risorse per prevedere nuove assunzioni nel Corpo - conclude Capece - e rimodulare il complessivo sistema sanzionatorio del Paese. La classe politica ha colpevolmente perso l’occasione dell’approvazione dell’indulto per porre interventi strutturali in materia penitenziaria. È sostanzialmente necessaria una nuova politica della pena che, differenziando arrestati e condannati a seconda del tipo di reato commesso in una logica di riorganizzazione dei circuiti penitenziari, preveda una maggiore espansione dell’esecuzione penale esterna e l’impiego della Polizia Penitenziaria all’interno degli Uffici di esecuzione penale esterna con compiti di controllo. Ulteriori insensibilità sulla grave situazione penitenziaria non si possono più tollerare". Giustizia: la Consulta "smonta" altro pezzo di legge Pecorella di Vittorio Grevi
Corriere della Sera, 27 aprile 2009
Continua, da parte della Corte costituzionale, l’opera di ripulitura del sistema processuale penale dalle peggiori scorie risalenti alla legge nota negli ambienti forensi come "legge Pecorella". Una legge che, approvata a colpi di maggioranza nel febbraio 2006, nonostante le fortissime perplessità sollevate (e recepite anche in un messaggio dell’allora presidente Ciampi) da molti dei suoi contenuti, era già stata ripetutamente "colpita" dalla medesima Corte, soprattutto nella parte in cui aveva sottratto al pubblico ministero la possibilità di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento emesse nel dibattimento o nel giudizio abbreviato. Tra le disposizioni più stravaganti di tale legge, vi era anche quella che imponeva al pubblico ministero di richiedere l’archiviazione - cioè di non esercitare l’azione penale - allorché la Corte di cassazione si fosse pronunciata sulla "insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza" riguardo ad un indagato sottoposto ad una misura cautelare (per esempio, a custodia carceraria). Sempre che "successivamente" non fossero stati acquisiti "ulteriori elementi a carico" dello stesso indagato. Era questa una disposizione che, in linea con un disegno politico non sottaciuto dal legislatore dell’epoca - nel senso di puntare su un forte ridimensionamento dei poteri del pubblico ministero - intendeva impedire che l’organo dell’accusa esercitasse "caparbiamente" l’azione penale, nonostante la ritenuta insussistenza degli indizi posti a fondamento di una misura cautelare restrittiva adottata nei confronti dell’indagato. Se non che, in tal modo, la suddetta disposizione (subito definita "in difficoltà di senso" da Glauco Giostra, uno dei più lucidi studiosi dell’argomento) confondeva inspiegabilmente il piano del procedimento relativo alle misure cautelari con il piano del processo principale, precludendo così senza ragionevole giustificazione al pubblico ministero l’adempimento dell’obbligo di esercitare l’azione penale. E proprio per ciò essa è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la recente sentenza numero 121 del 2009. La valutazione di irragionevolezza, sulla cui base la Corte costituzionale ha censurato la disposizione appena ricordata, si sviluppa su un triplice livello. Anzitutto la Corte ha posto l’accento sulla "diversità tra le regole di giudizio" che presiedono all’accertamento dei "gravi indizi di colpevolezza" ai fini delle misure cautelari, ovvero, rispettivamente, degli elementi che impongono di esercitare l’azione penale. Mentre nel primo caso, infatti, si presuppone già raggiunta una elevata probabilità di colpevolezza, ai fini dell’esercizio dell’azione penale è invece sufficiente che gli elementi probatori raccolti siano "idonei ha sostenere l’accusa in giudizio", anche alla luce delle ulteriori prove che potranno acquisirsi nella fase dibattimentale. In secondo luogo, è stato sottolineato che, in vista delle misure cautelari, il pubblico ministero può selezionare gli indizi da presentare al giudice (così da non rivelare tutti gli elementi a carico già acquisiti), mentre l’esercizio dell’azione penale avviene sulla scorta dell’intero materiale investigativo disponibile. E, da ultimo, sempre la Corte costituzionale non ha mancato di ricordare che la valutazione della Corte di cassazione in ordine alla "insussistenza" dei gravi indizi di colpevolezza viene operata non direttamente, ma in forma indiretta, attraverso il controllo sulla motivazione del provvedimento cautelare impugnato (che potrebbe essere anche difettosa o carente), e quindi non è di per sé sintomatica della oggettiva assenza di tali indizi. Argomenti forti, più che adeguati a dimostrare la incompatibilità costituzionale del vincolo che la disposizione in questione avrebbe voluto imporre al pm che d’ora in poi potrà esercitare l’azione penale con sue valutazioni tecniche, a prescindere delle misure cautelari nel frattempo applicate. Giustizia: Grasso; ddl sicurezza, riduce la capacità d’indagine
L’Unità, 27 aprile 2009
Il procuratore antimafia ospite di Fabio Fazio: "I mafiosi sono più sensibili al portafogli che alla galera. Ho spiegato in Parlamento che le norme in discussione riducono le possibilità di colpire i beni di origine eliminale". "Quando sono stato nominato procuratore nazionale antimafia mi sono state attribuite funzioni nuove. E Noi queste funzioni le abbiamo usate bene, c’è stato un incremento dei sequestri dei beni mafiosi, come ha riconosciuto lo stesso ministro Maroni". E poi? E poi, denuncia Pietro Grasso, ospite di "Che tempo che fa" in occasione dell’uscita del suo libro "Per non morire di mafia". "Ora è in discussione un nuovo Ddl sicurezza che limita le mie stesse possibilità di coordinamento", che limitale capacità di penetrazione nelle indagini patrimoniali, "perché il mafioso teme di più per il portafoglio che per il carcere" contro la criminalità organizzata. È la parte centrale dell’intervista del Procuratore che fa appello a una rivoluzione culturale per la legalità: "Perché l’abnegazione della polizia giudiziaria e la repressione dei fenomeni mafiosi non bastano. Ci vuole la collaborazione di tutte le istituzioni". E in primis della politica. La politica, secondo Pietro Grasso, deve rinunciare "alla scorciatoia del consenso rappresentato da chi porta un pacchetto di voti" e non candidare gli imputati per mafia. Li si annida il pericolo dell’interscambio clientelare: "In molte regioni, soprattutto nel Mezzogiorno, c’è ancora tanta gente in una condizione di necessità, per un ricovero in ospedale, per un lavoro". In queste condizioni di deficit di democrazia si sviluppa il sistema mafioso, che è essere in una situazione in cui il mafioso è in grado di dare ciò che lo Stato non dà. Si deve chiedere ai giovani di dire "no" e di andare avanti contando sui propri meriti. Ma occorre che realmente ci sia la possibilità di fare passi avanti grazie ai propri meriti. Mentre accade anche, "come in Calabria", anche il contrario, il politico che si rivolge alla criminalità per "liberarsi di un avversario". "Tutta la politica - sostiene il procuratore Grasso - deve dire no alle candidature di chi è imputato per mafia". Le mafie sono tante, aggiunge Pietro Grasso, Cosa nostra è in ginocchio in questo momento ma non si può abbassare la guardia, proprio perché fu Provenzano a scegliere la strategia del non apparire. Non abbassare la guardia nemmeno in Abruzzo o sull’Expo di Milano, perché dove vanno i soldi, lì va la criminalità organizzata. Giustizia: progetto per prevenire malattie infettive in carcere
Comunicato Simspe, 27 aprile 2009
Il progetto ProTest nasce con l’obiettivo di prevenire la diffusione delle malattie infettive all’interno degli istituti di pena.; per fare ciò, si è deciso di sviluppare, da parte di Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria), un insieme di iniziative che abbiano come target i "nuovi giunti" e i "detenuti", tra le quali riorganizzare l’accoglienza del detenuto nelle carceri e attuare piani di prevenzione su tematiche come Hiv, Hcv, Hbv, M.S.T. e Tbc. Riteniamo che la sensibilizzazione in merito alla diffusione delle malattie e l’attenzione verso lo svolgimento dei test preventivi unite alla formazione di Medici ed Operatori Penitenziari possano permettere un maggiore livello di prevenzione della trasmissione delle patologie infettive nelle carceri. Possiamo illustrare il progetto sulla base del seguente "principio" di cui deve essere fatta partecipe l’intera collettività dei medici così come decisori, detenuti ed organizzazioni sociali e di cittadinanza attiva: "il detenuto di oggi è il membro della comunità di domani". Riconoscere questo non porterà benefici alla sola persona detenuta, ma anche a tutta la comunità a cui farà ritorno una volta scarcerato. Ecco perché per l’attuazione di questo progetto è necessaria la compresenza di tutti i diversi attori coinvolti: Medici, Personale Amministrativo, Psicologi, Polizia Penitenziaria. Il progetto, come anticipato, si pone tra gli obiettivi anche l’incremento del numero degli accessi al test di screening per le malattie infettive, al fine di favorire la formulazione di piani coerenti d’intervento in termini di prevenzione e cura per le persone ivi residenti. Alla luce di esperienze già condotte, risultati incoraggianti sono stati ottenuti negli istituti nei quali si è sostenuto un programma di offerta del test.
Il Progetto
ProTest si pone lo scopo di migliorare la prevenzione delle malattie trasmissibili nel contesto carcerario unitamente alla formazione e qualificazione tecnico- metodologica su tali patologie da parte degli operatori dei centri coinvolti nel progetto con momenti di formazione in presenza e attività di comunicazione integrata. I dati epidemiologici, ad oggi disponibili, sottolineano la necessità di aumentare l’attenzione e di intervenire in modo concreto, serio e programmato sulla prevenzione, diagnosi e terapia delle malattie infettive più diffuse nelle comunità penitenziarie italiane. Le fasce sociali rappresentate dai detenuti, sono quelle che durante la vita nella comunità libera hanno meno accesso alle cure e ad una adeguata informazione in tema di salute. Da qui la considerazione che il periodo di detenzione possa costituire un’occasione unica per poter indirizzare nei loro confronti messaggi corretti in tema di prevenzione e cura delle infezioni. L’educazione sanitaria e il trattamento delle infezioni all’interno del carcere sono finalizzate al mantenimento di un buon livello di salute durante la detenzione e fino al momento del reinserimento dei reclusi nella comunità dei liberi, con la quale prima o poi si relazioneranno ed interagiranno. La Fase "A" del progetto riguarderà la Regione Lombardia ed i propri Istituti di Pena (18), in seguito, potrà essere allargato ad altre regioni e/o all’intero territorio nazionale. La scelta della Lombardia è legata al fatto che è la regione con il più elevato numero di detenuti presenti (oltre 7.000) secondo i dati del Ministero. Questo consentirà in 12 mesi di avere avuto l’opportunità di coinvolgere, formare e aggiornare, tutti gli Istituti di pena lombardi che rappresentano circa il 15% della intera popolazione detenuta in Italia. Il progetto si pone come uno degli obiettivi prioritari l’incremento del numero degli accessi al test per l’Hiv e per le infezioni da virus epatitici, delle Mst (in particolare della Sifilide) e della Tbc all’interno delle carceri, al fine di favorire e la formulazione di piani coerenti d’intervento in termini di prevenzione e cura per le persone ivi residenti. Per altre informazioni: www.progettoprotest.com. Alessandria: ergastolano, ex agente segreto, muore in carcere
Ansa, 27 aprile 2009
Presunto suicidio di Franco Fuschi, 63 anni ex agente segreto, detenuto nel carcere San Michele di Alessandria per scontare due ergastoli era condannato per 11 omicidi. Un criminale dalla vita misteriosa: aveva avuto a che fare con numerose aziende di armi e con l’estrema destra alla quale avrebbe fornito un arsenale, si era anche inspiegabilmente autoaccusato di aver partecipato alla strage di piazza Fontana, all’uccisione di Roberto Calvi e di altri omicidi alcuni dei quali sconosciuti alle forze dell’ordine. Confessò anche il coinvolgimento nella preparazione dei pacchi bomba Anti-Tav e soprattutto la sua relazione con gran parte dei movimenti eversivi da ValSusa Libera fino ai Lupi Grigi. Nei giorni precedenti manifestando preoccupazione per la sua vita aveva inoltrato richiesta di trasferimento nel carcere di Vercelli. Al momento gli inquirenti mantengono il più stretto riserbo sulle indagini inerenti alle circostanze che hanno causato la morte di Franco Fuschi.
Giallo sulla morte in cella di un pluriomicida
La Procura di Alessandria sta aprendo un fascicolo sulla misteriosa morte di Franco Fuschi, 63 anni, condannato all’ergastolo per 11 omicidi, ex agente segreto, avvenuta la scorsa notte nella sua cella nel carcere San Michele di Alessandria. Si parla di suicidio, ma per ora nulla trapela sulla modalità della sua morte. Fuschi era un personaggio molto misterioso e la sua morte sembra ricalcare la modalità della sua intera vita. Era nato a Mattie, sulle basse montagne della Val di Susa ed era entrato in contatto, negli anni, con i servizi segreti e con diverse aziende di armi, autoaccusandosi, tra l’altro, di aver ceduto veri e propri arsenali all’estrema destra. Con le armi aveva un rapporto fisico, le amava e se ne circondava: un giorno uccise un giovane per vedere come funzionava una pistola con il silenziatore. Nelle prossime ore verrà eseguita l’autopsia sul suo corpo e gli inquirenti stanno già sentendo in carcere alcuni suoi compagni e amici, oltre agli agenti che lo avevano in custodia. Aveva sicuramente ancora molti nemici. Negli anni confessò di tutto, anche molti reati non commessi, disse anche di aver partecipato all’assassinio di Roberto Calvi e alla strage di piazza Fontana. Padova: finite le brande… alcuni detenuti dormono per terra
Il Mattino di Padova, 27 aprile 2009
Stavolta abbiamo superato davvero il colmo. Alla Casa circondariale di Padova, dove sono ristretti i detenuti in atteso di giudizio, siamo arrivati a 228 ospiti, in una capienza che ne prevederebbe 90, con una tolleranza fino ad un massimo di 110 presenze. Eppure c’è di più e di peggio. Siamo arrivati al punto che non ci sono brande sufficienti. Così alcuni ospiti sono costretti a dormire nei materassi per terra, con problemi igienico-sanitari intuibili. Che fare? Il tentativo di dirottare il surplus di detenuti in altre strutture carcerarie è risultato vano, dal momento che sono stracolme anche tutte le altre Case circondariali del Triveneto. Quella padovana è occupata per l’85% da detenuti stranieri. E qui si pongono anche problemi tesi ad evitare di mettere assieme etnie che mal si sopportano, dosando le mescolanze. Tra magrebini e nigeriani non corre certo buon sangue, ma anche nello stesso ambito del Magreb i tunisini non sono ben visti da algerini e marocchini. Come i rumeni coi marocchini. Nonostante le precauzioni, i litigi sono all’ordine del giorno, favoriti dall’esiguità degli spazi. A proposito di tunisini, uno sta facendo mare e monti per farsi togliere dei pallini da caccia che ha in corpo da sei anni, ossia ancora da quando stava in Tunisia. Ora l’impallinato chiede di essere operato. Morale della favola: c’è anche chi sta scambiando il carcere per un ospedale. Ma al di là dei casi specifici, preoccupano soprattutto i potenziali rischi di una promiscuità così accentuata, con addirittura 8-10 detenuti per cella. C’è già qualche appartenente al Corpo della polizia penitenziaria che, sensibile al tasto della prevenzione, si chiede cosa potrà mai succedere nei mesi estivi, quando il caldo e l’afa renderanno quegli spazi insopportabili e potenziali veicoli infettivi, vista la situazione igienico-sanitaria venutasi a creare con tutte queste presenze. Presenze destinate a durare parecchio, vista la lungaggine dei processi. A livello nazionale, siamo arrivati ad un sovraffollamento superiore ai tempi del condono. E al Circondariale di Padova ancora di più. Parma: l’On. Berselli visita il carcere; un esempio per l’Italia
Lungo Parma, 27 aprile 2009
Il senatore Filippo Berselli, Presidente della Commissione Giustizia, si è recato in visita agli agenti della polizia penitenziaria e ai detenuti del carcere di Parma. Berselli, accompagnato dal candidato del centro destra alle elezioni provinciali di Parma, Giampaolo Lavagetto, ha visitato la struttura. Questo incontro, che avviene in periodo elettorale, è servito per constatare con mano quale sia la realtà della casa circondariale di Parma. Il senatore, al termine della visita, ha incontrato la stampa e ha spiegato: "Quella di Parma è una struttura d’eccellenza, un fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano. Mi auguro che carceri come questo in futuro diventino la norma". Berselli ha affrontato i problemi che caratterizzano gli edifici penitenziari italiani: dal sovraffollamento, al numero troppo esiguo degli agenti della polizia penitenziaria. Un problema che il senatore ha voluto sottolineare in modo particolare è quello che riguarda le custodie cautelari in carcere: "In Italia - ha spiegato - circa due terzi dei detenuti sono in attesa di giudizio e, dato che fino alla sentenza definitiva dovrebbe valere la presunzione d’innocenza prevista dalla costituzione, ma non viene rispettata, nelle carceri su cento detenuti solamente trenta sono stati condannati con una sentenza definitiva". Firenze: un sito per prodotti dei detenuti delle carceri toscane
Asca, 27 aprile 2009
Accordo a tre per la creazione e la gestione di una piattaforma web per promuovere e vendere i prodotti dei detenuti delle carceri toscane. La Regione Toscana si è impegnata a finanziare e realizzare la piattaforma, l’Uncem a farsi carico della sua gestione, Rifondazione Comunista a stabilire i contatti con i detenuti. La decisione è stata presa questa mattina all’interno della Mostra dell’Artigianato che conta anche su uno stand dei prodotti dei detenuti di alcune carceri toscane, da Federico Gelli, vice-presidente della Regione Toscana, Oreste Giurlani, presidente di Uncem Toscana, e dai consiglieri regionali di Rifondazione Comunista (la capogruppo Monica Sgherri, i consiglieri Aldo Manetti e Carlo Bartoloni). L’iniziativa è nata dopo aver constatato il successo che ottengono i prodotti dei detenuti toscani che vengono esposti alla Mostra dell’Artigianato ormai da tre anni (due dei quali in collaborazione con la Regione Toscana). Non solo la piattaforma, ma Sgherri e Manetti ipotizzano anche l’apertura di un punto-vendita a Firenze di tali prodotti, oltre ad istituzionalizzare la presenza nella Mostra dell’Artigianato. Abbiamo visto prodotti artigianali (dipinti, tessuti lavorati, tappeti, etc.) di alcune Carceri toscane, tra cui Volterra, IP Minorile, Porto Azzurro, Gorgona, Pisa e Livorno, nonché le bambole prodotte dalle detenute del laboratorio interno/esterno di Sollicciano. "Nella previsione che i detenuti, una volta scontata la pena, torneranno alla vita e quindi avranno l’esigenza di guadagnarsi da vivere - ha detto Manetti -aiutarli oggi è un atto di grande umanità e rispetto sociale oltre a favorire il contatto con i cittadini". Busto Arsizio: detenuti hanno fatto la "colletta" per l’Abruzzo
Varese News, 27 aprile 2009
Le persone in carcere hanno donato tre euro a testa. Andrea, un redattore del giornale curato e pubblicato dai carcerati dell’istituto, ci spiega il perché dell’iniziativa. Quelli del carcere sono nostri lettori "filtrati" dalla carta. Non sono gli unici, tanti ci leggono attraverso varie rassegne stampa, ma la loro resta una condizione un po’ "speciale". Nella casa circondariale di Busto ai detenuti non è consentito navigare in internet. Le ragioni sono ovvie e non rispondono a logiche punitive, quanto di sicurezza. Ogni comunicazione con l’esterno deve esser autorizzata. Alcuni detenuti del carcere stanno facendo un corso di giornalismo e da alcuni mesi pubblicano un giornale. Un’iniziativa importante perché spezza delle catene fatte di stereotipi e luoghi comuni, ma soprattutto abbatte mura, cancelli, sbarre e fa volare il pensiero, le idee, le emozioni. Per questa ragione abbiamo lasciato loro la terza apertura di Varese News e lo faremo ogni volta che ci forniranno dei contributi. Anche loro sono nostri lettori, anche loro hanno cose da raccontarci. E quella di oggi merita davvero attenzione e riflessione. Un gesto concreto di solidarietà è arrivato anche da chi "meno ti aspetti". Le persone detenute nel carcere di Busto Arsizio hanno, infatti, deciso di donare anch’esse un contributo per aiutare chi, in una notte, ha perso tutto. I fatti, ormai, li conosciamo tutti. Nella notte fra il 4 e il 5 aprile 2009 la terra trema in Abruzzo, nella zona dell’Aquila. Il triste bilancio di quei giorni in termini sia di vittime che di abitazioni, palazzi pubblici e patrimonio culturale distrutti è altissimo. Ma anche la condizione di chi si è salvato, ma ha perso la casa, il luogo di lavoro e tutti i punti di riferimento della sua quotidianità è apparsa fin dall’inizio difficile. Il Paese si è però mobilitato subito e, oltre al lavoro della protezione civile, del 118 e di tutti quelli che operano nelle zone terremotate, c’è stata una vera e propria corsa ad inviare aiuti materiali ed economici. Anche le persone detenute nella Casa Circondariale di Busto, spinte da sentimenti di solidarietà con la popolazione abruzzese, hanno voluto dare un aiuto concreto. Tutte le sezioni che compongono l’istituto - cinque in totale: 1, 2, 3, 4 e quella dei tossicodipendenti - hanno fatto una colletta e raccolto tre euro a testa. Potrà sembrare una cifra piccola, ma per noi è invece significativa e per raccoglierla abbiamo rinunciato a qualche piccolo sfizio pasquale. Qui siamo in più di quattrocento: è difficile sapere quanti hanno dato un contributo, ma se anche solo la metà ha partecipato è già un bel risultato. Abbiamo nominato nostro "emissario" presso i terremotati il cappellano dell’istituto, Don Silvano Brambilla, che si è impegnato a versare la somma su un conto corrente appositamente creato per l’emergenza. Questa iniziativa, però, per noi è importante anche per un altro motivo. Ci permette infatti di trasmettere un messaggio al di fuori di queste mura, anche a chi non conosce la nostra realtà o ne sa solo per "sentito dire". Con questo gesto possiamo dire "ci siamo anche noi, anche noi siamo parte della società italiana quando soffre, spera e gioisce". Questa donazione è quindi un ulteriore passo in avanti per chi attraversa questo momento difficile e, per noi, è un punto in più verso la società civile.
Andrea, redattore di Mezzo Busto Roma: quando la "musica solidale" entra anche a Regina Coeli di Sandro Podda
Liberazione, 27 aprile 2009
"No, lei signorina non può entrare". Con un accento del sud e un po’ di imbarazzo, la guardia carceraria comunica alla ragazza che è venuta con me per fare le foto che all’ultimo minuto le è stato negato l’accesso. Siamo all’accettazione del carcere di Regina Coeli e da dietro un vetro la guardia carceraria che ci parla è l’unica a darci un po’ retta e qualche risposta dialogante. Il suo non è l’unico accento meridionale. Quasi tutti gli agenti nel gabbiotto si scambiano battute in marcati accenti del sud d’Italia. Alcuni hanno uno sguardo vagamente ostile, diffidente. Un po’ come quello dei tanti Padre Pio appesi quasi sopra a due timidi Cristi in croce. Altri, i più anziani, sembrano invece rassegnati alle lungaggini burocratiche e al fatto che dietro a quello che c’è scritto in quelle mille carte spesso non ci sia alcuna ragione di "sicurezza", ma un accenno neanche tanto velato all’idea di "punizione". In carcere niente è o deve essere semplice sembrano dire quelle carte. Neanche venire, come abbiamo fatto noi - a questo punto solo io - a vedere uno spettacolo fatto dai detenuti per i detenuti e per i "liberi", quelli che stanno fuori, a cui magari non è mai capitato di vedere cosa ci sia oltre quelle mura che si trovano un livello più in basso del Lungotevere in uno dei posti più cantati dalla tradizione popolare trasteverina e romana: Regina Coeli. "La signorina ha delle segnalazioni e quindi le è stato revocato il permesso di entrare". "Segnalazioni? Ma non doveva essere tutto cancellato? Come fa a risultarvi una cosa che non dovrebbe esserci e che tra l’altro risale a dieci anni fa?". Tant’è che invece risulta, che non è stata cancellata e che non può entrare. Anzi, la macchina fotografica può, perché è stata autorizzata. La fotografa, no. E neanche il mio registratore portatile che deve restare insieme al cellulare dentro un armadietto. Senza la cortesia di Dino Centonze che fotografa e riprende questi spettacoli da tempo non avremmo avuto immagini. L’agente mi fa entrare e mi scorta lungo un corridoio bianco sul quale si affacciano diversi quadri che raccontano la lunga tradizione delle guardie carcerarie attraverso una storia delle loro divise. Arriviamo ad un cancellone in ferro battuto dipinto di nero dove altri agenti formano un piccolo capannello. Il mio accompagnatore fa un cenno e un’altra guardia che fa scivolare una grossa chiave nella serratura aprendo la sala. Mi vengono incontro Angelo Litti e Antonio Pappadà. Sono i due ragazzi (qualcosa di più anagraficamente, ma non nello spirito) che una ventina di giorni fa sono venuti in redazione a raccontare quello che fanno da qualche anno. Vengono dal Salento, hanno una passione coltivata per la pizzica, il teatro e le tradizioni popolari. Nel 2004 hanno iniziato un’esperienza nella Casa Circondariale di Perugia tramite "Ora d’aria" dell’Arci per "attivare uno scambio alla pari", come dice Angelo e da allora hanno tenacemente dato seguito a quella idea di mettere in comunicazione l’"esterno" e l’"interno" attraverso la musica e il teatro. "Noi portiamo la nostra musica, loro quello che hanno da mettere a disposizione. Canzoni, scritti, idee. Dopo sei al massimo sette incontri si mette in scena uno spettacolo con dodici-quindici detenuti per gli altri detenuti e qualche persona che riusciamo a fare entrare come pubblico. Tra le difficoltà di chi magari esce, chi invece viene trasferito o chi si vede alla fine rifiutato il permesso di partecipare". Hanno chiamato questa piccola creatura "Canto Libero, scambio di vite in corso d’opera". Dopo Perugia sono stati nelle carceri di Orvieto, Bolzano e due volte a Spoleto e infine, mercoledì scorso, a Regina Coeli. Ciascuna di queste situazioni presenta delle differenze, a seconda del tipo di carcere, e delle analogie. La più profonda di queste è l’effetto immortalato nelle foto di un libro che Angelo e Antonio mi mostrano. L’effetto prima e dopo, si potrebbe chiamare. Le facce lunghe dei primi incontri e la gioia che ogni tanto esplode nei visi durante gli spettacoli o nelle prove. Libera. Dal peso della memoria di trovarsi dentro un carcere. Per un momento, per un paio d’ore, anche se guardati a vista, anche se per la durata di una canzone o poco più da cantare come se si fosse all’aperto, tra amici e affetti. Hanno deciso di chiamare questo spettacolo a Regina Coeli "La carrozza", per sottolineare la natura itinerante di questo progetto che intendono proseguire. Dopo essermi venuti incontro corrono a prepararsi. Una responsabile li rimbrotta: "Sbrigatevi che sennò sforiamo". E ricorda a tutti che, finito lo spettacolo, si torna tutti dentro. E qualcuno fuori, con il sapore che a volte è stato solo il caso o la vita a scegliere diversi destini e che sempre il caso o la vita potrebbero un giorno portare chiunque a vivere la negazione fisica e psicologica della libertà. La prima delle sensazioni con cui impatto è questa. I visi, gli scherzi, le battute, le persone sono le stesse con cui sei cresciuto. Sono te. E sono gli stessi degli agenti che girano intorno alla sala. Nessun segno di vera differenza. Tranne il ruolo da cui è difficilissimo uscire: "la guardia", "il ladro", "l’operatore", "il visitatore". La sala in cui si svolge tutto è la "Prima Rotonda", un ampio dodecagono su cui si affacciano i cancelloni neri di quattro bracci e quello del corridoio. Tre piani con buie porte dalle finestre oscurate corrono verso il soffitto a cupola interrotti da altri cancelloni attraverso cui non si può vedere nient’altro che ombre a causa di alcuni fogli di cellophane messi tra le sbarre. Su una di queste piccole porticine si legge "Biblioteca". Nella Rotonda il clima è sinceramente piacevole e più sereno di quello respirato all’ingresso. Su un piccolo palco gli attori si preparano, ripassano la parte, i tempi. Ad assistere siamo in una cinquantina, tra detenuti e un piccolo gruppetto di "visitatori", più operatori e operatrici e una decina di guardie. Seduti su sedioline da scuola, sulla mia destra quattro ragazzi si scambiano abbracci e piccoli gesti di confidenza. Scherzano, ridono, si danno dei buffetti e si raccontano piccoli episodi della vita fuori. Più in là c’è un ragazzo che sembra un po’ più grande per i capelli bianchi che stridono con un volto ancora giovane. Sembra più malinconico. Le guardie e qualcuno affianco lo chiamo "Er poeta". Non è difficile capire come si sia guadagnato il soprannome. Mentre aspettiamo l’inizio dello spettacolo, chiama l’agente che gli ronza dietro e attacca: "Senti, questa mi è venuta su così, de panza come se dice a Roma: Vedo tutta sta gente che se riunisce/ e un pensiero me sortisce/ Tutto me possono levà/ Tranne che la libertà de pensà". Qualcuno grida "I cantanti li stamo ad aspettà dall’ottavo". Penso che sia l’inizio di una serie di lazzi e battute che prenderanno di mira i poveretti che si trovano sul palco. Invece il loro ingresso è salutato con un caldo applauso che scalda tutti. Il palco e il pubblico sono tutt’uno. Anche i più pensierosi si lasciano andare a un gesto di partecipazione che via via si fa più coinvolgente. Alla mia sinistra due ragazzetti nordafricani che erano un po’ meno coinvolti non si trattengono e scattano in piedi quando Omar, un ragazzo brasiliano, e Marco, un ragazzo rumeno, mettono in scena un’ottima capoeira. Canti corali con "Lella" - specialmente nella parte "nun lo dì a nessuno, tiettelo pè te" - interpretata dal gemello mancato di Claudio Amendola, Alberto, sul palco grazie a un miracolo visto che all’inizio aveva un "divieto d’incontro". Lo djembé suonato da Mohammed ed Abdelleh e le percussioni di Marian rimbombano nella sala e sembrano lacerare le pareti. È un’illusione, alla quale in pochi resistono e un momento in cui anche i più "duri" si lasciano andare al ritmo battendo sulle gambe. Un attore nato, Alessandro, sottolinea alcuni passaggi nascosto dietro le quinte con balletti e movimenti che strappano risate a chi lo vede. Canterà due stornelli della storia dei romani e di Regina Coeli: quello che elargisce la patente di romanità ad una condizione - "A Reggina Coeli ce sta ‘no scalino,chi nun salisce quelo nun è romano, manco ‘n trasteverino" - il celebre "Le mantellate". Anche la sua è una storia particolare. Poteva essere fuori in permesso, ma ha deciso di restare per partecipare allo spettacolo. I canti popolari salentini portati da Angelo e Antonio riscuotono successo e una pizzica sorretta dalla sola voce di Angelo (veramente una bellissima voce) diventa spunto per un improvvisato e apprezzato ballo tra Antonio e una ragazza riccia venuta con loro. Nonostante si tratti di un carcere maschile, nessuno fa commenti sull’avvenenza della ragazza omaggiata solo da una standing ovation per il bel momento offerto. Perché sembra di trovarsi ad una festa, se il termine non stridesse così tanto con il luogo. Con la chitarra di Mauro che canta accompagnato da tutti nel coro "Cuccurucucu Paloma". Con il suo cappello di paglia e l’abbigliamento di chi ha trovato il suo buen retiro in un paese sudamericano. Qualcuno legge i suoi pensieri e tocca le corde di molti quando accenna agli affetti lasciati oltre quelle sbarre. Ad un certo punto parte un base rap e la curiosità si fa stupore. Sul palco c’è uno del Truceklan, Armando, che tutti fuori conoscono con il suo soprannome. I più giovani lo riconoscono, gli altri, in molti, si fermano ad ascoltare quelle liriche cantate con rara determinazione. Ma qual è il brano che riscuote più successo attraversando le generazioni, le nazionalità di provenienza e i gusti personali? Neanche a dirlo, il ponte tra tutti è Robert Nesta Marley, Bob. Quando l’afro-californiano Michael attacca "No woman no cry" tutti si uniscono nel ritornello a dar man forte ad una interpretazione penalizzata all’inizio da un po’ di emozione. Solo "Porta Portese" di Baglioni aveva scaldato così tanto la parte più "romana de Roma". Ma Bob abbatte anche l’ultima forma di separazione. Lo spettacolo si allarga e si stringe e al di là della sua funzione sociale come si dice in questi casi ha anche un suo deciso valore artistico. Difficile distinguere tra chi sta sul palco e chi siede come "pubblico". Il risveglio arriva brutale alla fine, quando una guardia carceraria mi dice "Lei è un giornalista no? Venga da parte che li facciamo rientrare". Mi indicano di stare all’angolo mentre gli altri tornano dentro scambiandosi ancora qualche battuta. Solo allora vedo i lunghi bracci delle sezioni quando i cancelli si aprono per fare rientrare i detenuti. Angelo, Antonio e i loro amici raccolgono le loro cose e si scattano qualche foto. Un agente mi accompagna fuori, mentre una guardia li osserva e commenta: "Sono comunisti o qualcosa di simile. Si divertono così...". Viterbo: in mostra reportage su laboratorio teatrale detenuti
Adnkronos, 27 aprile 2009
Un reportage fotografico di Daniele Vita che racconta lo svolgersi di un laboratorio teatrale nella Casa Circondariale di Viterbo. Il risultato ha dato vita alla mostra inaugurata ieri presso l’ex chiesa di S. Carluccio, dal titolo "Strada San Salvatore 14/b: tante storie, un racconto". Dieci fotografie che sono la cronaca delle attività svolte nel laboratorio teatrale, che ha visto protagonisti i detenuti e i volontari del carcere. La mostra, che si svolge nell’ambito della manifestazione Resist, sarà aperta fino a domani lunedì 27 aprile, dalle 16.00 alle 20.00. Immigrazione: tragicommedia, che va in scena a Lampedusa di Gad Lerner
La Repubblica, 27 aprile 2009
La scena si ripete da giorni all’aeroporto di Lampedusa. A gruppi di quaranta o cinquanta, scortati dagli agenti di sorveglianza, giovani uomini dall’aspetto inconfondibilmente maghrebino - senza neppure un bagaglio a mano, perché approdati qui laceri e nullatenenti - vengono fatti salire su appositi velivoli che li attendono sulla pista. Indossano tute e scarpe da ginnastica. Nello sguardo quasi tutti hanno l’eccitazione per il primo viaggio aereo della loro vita. Vengono sparpagliati con la massima riservatezza in diverse città italiane, dove un interprete della locale Questura metterà in mano a ciascuno di loro il "Decreto di respingimento" e gli comunicherà che ha a disposizione cinque giorni per lasciare il territorio nazionale. Poi, chi si è visto si è visto. Alcuni hanno già in animo di raggiungere la Francia o la Scandinavia - spiegano i poliziotti - ma la maggioranza si fermerà tra noi in cerca del benessere finora mai conosciuto. Sono quasi tutti tunisini, più una quota minore di marocchini. Perché i nigeriani, i somali, gli eritrei cui potrebbe venir riconosciuto lo status di rifugiati politici erano già stati selezionati all’arrivo, destinati in altri centri d’accoglienza. Come pure le donne e i bambini. Il ponte aereo di Lampedusa si è ormai concluso quando il ministro dell’Interno, fra Roma e Varese, adopera il suo alto incarico per seminare allarme. Indicando la data fatidica del 26 aprile, cioè ieri, come quella in cui lo Stato sarà costretto a rilasciare di colpo "1038 clandestini, cui ne seguiranno altri 277 nelle due prossime settimane". Ciò per accusare una parte del Pdl di essersi alleata alla Camera col Pd. I leghisti definiscono addirittura "indulto mascherato" la mancata proroga da due a sei mesi del trattenimento nei Centri di Identificazione e Espulsione per gli stranieri privi di documenti in regola. Lamentano questa domenica di scadenza termini come la "Festa di Liberazione degli immigrati clandestini". Mentre La Padania fa il suo mestiere - cioè propaga la paura - il Cie lampedusano di contrada Imbriacola vive un raro momento di decongestione, dopo l’incendio e la rivolta dei mesi scorsi, quando il sovraffollamento lo aveva reso invivibile. Non vi restano più di duecento reclusi - al di là del nome si tratta di una prigione - perché gli africani sopravvissuti alla traversata del Canale di Sicilia possono essere accusati al massimo di un’infrazione. La legge consente di trattenerli per indagini (quasi impossibili) sulla loro identità, ma è impensabile che il loro reato giustifichi sei o diciotto mesi di carcere. In ogni caso, scaduto quel termine indicato come massimo da una direttiva del Parlamento europeo, solo per chi sia stato riconosciuto come elemento pericoloso è verosimile effettuare il dispendioso riaccompagnamento coatto in patria. Dunque il Cie di contrada Imbriacola, sorvegliato da forze di sicurezza in numero largamente superiore agli "ospiti", drammatizzato come ultima trincea della Fortezza Europa, era comunque destinato a un tale periodico svuotamento. Alla chetichella. Mentre dall’altra parte di Lampedusa sono già allestiti i prefabbricati del nuovo Cie nella caserma Loran che oggi ospita però solo una ventina di nigeriani sopravvissuti alla disavventura del mercantile Pinar. Li ho visti seguire un corso d’italiano: seguirà foglio di via anche per loro, che ricorderanno sempre Lampedusa come la porta della vita? Qualcuno crede davvero che dopo il coraggio dimostrato traversando il deserto e il mare, si faranno spaventare dalla "cattiveria" di Maroni? Di fronte a una crescita esponenziale degli sbarchi sulle coste italiane, dovuta non a complotti ma all’accentuarsi di un flusso migratorio epocale, il timore è che semmai la "cattiveria" non si manifesti solo come allarmismo ma più concretamente come disposizioni amministrative sui salvataggi. I lampedusani, ad esempio, sono stupiti del fatto che da qualche tempo i gommoni dei migranti giungano di nuovo fin sulle spiagge meridionali dell’isola. Possibile che vi sia una minore solerzia nell’andare a recuperarli in mezzo al mare, una volta individuati sul radar? Speriamo che questo rimanga solo un pensiero cattivo: la storia del Novecento ci rammenta che indurire l’animo di fronte alla sorte degli "altri" più sfortunati non aiuta a migliorare la propria. Semmai l’incomprensione di un evento così doloroso e complesso come l’emigrazione rischia di ottenebrarci, riducendo con il nostro buon senso anche le nostre difese. Il 26 aprile 2009 non verrà dunque ricordato né a Lampedusa, bellissima sentinella della nostra civiltà, né altrove più a Nord come la Festa della Liberazione degli immigrati clandestini. Per il semplice fatto che i Centri di Identificazione e Espulsione tratterranno i migranti irregolari due mesi o sei mesi, lo stabilirà il governo, e non è questione secondaria di civiltà giuridica visto che non si tratta di delinquenti. Ma poi, trascorsi due o sei mesi, in ogni caso dovranno rimetterli fuori. Una commedia utile solo a saziare l’opinione pubblica, dopo averla incoraggiata a considerare i disperati del mare come rifiuti da smaltire piuttosto che persone. Probabile che nel governo prevalga l’idea di replicare la commedia, anche se il copione non consente di espellere "per davvero" più di un irregolare ogni mille, come dimostrano le statistiche: la media è di 6 mila accompagnamenti alla frontiera annui. Che possa essere vantaggioso ai fini della sicurezza far emergere i senza documenti, indicando loro un percorso severo ma certo di regolarizzazione, non rientra nei programmi. Meglio strillare all’invasione che nel frattempo, com’è ovvio, proseguirà. Immigrazione: Pdl e Lega verso norma-lampo sui clandestini di Fiorenza Sarzanini
Corriere della Sera, 27 aprile 2009
Alla vigilia del vertice di maggioranza dicono di essere tutti d’accordo, lanciano segnali distensivi. Ma i capigruppo della Lega alla Camera e al Senato sanno bene che l’intesa è fragile, mostrano di non fidarsi fino in fondo. Perché i rappresentanti del Pdl già nelle scorse settimane avevano garantito che non ci sarebbero stati problemi e invece le norme che prolungano i tempi di permanenza nei Cie, i centri di identificazione ed espulsione, e introducono le ronde non sono state approvate. L’ultimatum del ministro dell’Interno Roberto Maroni agli alleati viene così 1.038 ripreso dai vertici del Carroccio: "Non accetteremo altri passi falsi". Roberto Cota, che guida i deputati leghisti, ha tessuto la tela delle trattative. E ha ottenuto la garanzia che sarà votato un provvedimento affinché gli stranieri possano stare fino a sei mesi nei Centri. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa si espone: "Faremo la legge in tempo record perché è giusto che ci sia tutto il tempo per identificare i clandestini da mandare a casa loro. C’è stato un incidente di cui siamo, Pdl e Lega, tutti colpevoli di leggerezza. Pensavamo di poter risolvere con un decreto, ma non è stato possibile e ora agiremo". Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl, arriva a ipotizzare "una legge che consenta di tenerli fino a 18 mesi". Ma i veri nodi da sciogliere sono alla Camera. Anche perché il Pd si appella al presidente Gianfranco Fini affinché "eviti un grave strappo istituzionale", come dichiara la capogruppo in commissione Giustizia, Donatella Ferranti: "Se, come ha anticipato il ministro Maroni, il governo riproporrà la norma sui Cie, compirà un grave attacco alle istituzioni perché la norma è stata bocciata dalla maggioranza della Camera e quindi non può rientrare per un accordo di governo stipulato al di fuori del Parlamento. È qualcosa che viola la rappresentatività di questa istituzione". Il vertice di maggioranza che dovrà individuare i provvedimenti prioritari, cioè da varare entro l’estate, è convocato per domani. Il vicepresidente dei senatori Gaetano Quagliariello assicura che "il disegno di legge sulla sicurezza è in cima alla lista". Lo stesso dice il vicepresidente dei deputati Italo Bocchino, secondo il quale "l’intesa è fatta, non ci sarà alcuna retromarcia". In realtà la discussione nel merito dei provvedimenti non sarà semplice, soprattutto per quanto riguarda le ronde. "Parliamo di volontari per la sicurezza - precisa Gasparri - e ricordiamo che tutto dovrà essere autorizzato dal prefetto ". Rassicurazioni che non convincono l’opposizione, e anche alcuni esponenti della maggioranza, decisa a fare muro pur di non far passare entrambe le norme. Immigrazione: con la Bossi-Fini sanzioni dure ma inapplicabili di Ennio Codini (Fondazione Ismu)
Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2009
La disciplina dell’immigrazione per lavoro è largamente disattesa. I lavoratori extracomunitari entrano clandestinamente o comunque senza rispettare le norme sull’immigrazione. Dopo di che restano per anni in Italia senza permesso di soggiorno. I decreti flussi, che dovrebbero governare gli ingressi, vengono utilizzati in realtà dai lavoratori stranieri presenti illegalmente per "mettersi in regola" facendo finta di arrivare in Italia dall’estero. Tutto questo è noto. Un po’ meno noto è il fatto che anche le sanzioni non vengono applicate se non sporadicamente. Le legge dice che dare lavoro a un immigrato senza permesso di soggiorno è reato. D’altra parte, i 65omila immigrati senza permesso presenti all’inizio del 2008 lavoravano e lavorano quasi rutti per un qualche datore: famiglie o piccole imprese. Ma queste centinaia di migliaia di datori di lavoro che per la legge sono dei criminali vengono perciò denunciati, processati e condannati? No. Non sono disponibili dati precisi ma i condannati per aver dato lavoro a immigrati senza permesso dovrebbero essere non più di qualche decina l’anno. C’è poi lo scandalo dei tempi per il rinnovo dei permessi di soggiorno. La legge dice che il rinnovo dovrebbe avvenire entro 20 giorni dalla domanda. Di fatto ci vogliono mesi e l’Italia è piena di immigrati con permesso scaduto in attesa di rinnovo. Perché succede tutto questo? Si possono trovare rimedi? In qualche caso la spiegazione è semplice e i rimedi sono banali. Da dove viene lo scandalo dei tempi per il rinnovo dei permessi? Dal semplice fatto che la nostra burocrazia non è in condizione di gestire ogni anno più di un milione di pratiche di rinnovo. E perché sono così tante le pratiche? Perché molti permessi durano un anno o al massimo due. Basterebbe prevedere una durata di almeno due o tre anni per migliorare nettamente la situazione. È stata la legge Bossi-Fini ad accorciare la durata dei permessi. L’esperimento è fallito: si voleva aumentare il "controllo", si sono solo ingolfati gli uffici. Basterebbe prenderne atto. In qualche altro caso la spiegazione è un po’ più tecnica e con risvolti contro intuitivi. Perché non si applicano le sanzioni? La risposta è: perché gli illeciti sono troppi per il tipo di sanzione previsto. Come sanno gli esperti, sanzioni "pesanti" come le penali o quelle tipo l’espulsione che comunque incidono sulla libertà personale possono essere applicate sistematicamente solo se gli illeciti sono relativamente pochi. Questo, in estrema sintesi, anzitutto perché le sanzioni pesanti sono "costose": ineludibili esigenze di garanzia impongono infatti procedure complesse. Se ad esempio si vuole espellere un clandestino la cosa va sottoposta al vaglio di un giudice con tutte le garanzie del caso, poi bisogna individuare il paese di provenienza, organizzare il rimpatrio con il consenso delle autorità di quel Paese. Tempi relativamente lunghi, difficoltà molteplici, costi di migliaia di euro per ogni singolo caso. Impensabile colpire con una simile tecnica centinaia di migliaia di immigrati senza permesso (in un contesto nel quale già in generale la giustizia è in affanno e il potere politico continua a creare nuovi reati). C’è poi il problema del consenso sociale. Di fatto non è possibile colpire con sanzioni "pesanti" comportamenti diffusi e accettati a livello sociale. Emblematico il caso delle badanti senza permesso che assistono gli anziani. Non è pensabile processare i datori di lavoro. Perché qualunque cosa dica la legge per la gente si tratta di persone "per bene" che fanno fronte a una situazione difficile senza far del male a nessuno. E allora? E allora bisognerebbe andare al di là del senso comune e decidere di rispondere all’illegalità diffusa in materia di immigrazione anzitutto con sanzioni formalmente più lievi ma proprio per questo sistematicamente applicabili ad un gran numero di casi, riservando la sanzione penale e l’espulsione solo alle ipotesi più gravi. Si pensi a come in materia di circolazione stradale si riesce a fronteggiare con un altissimo numero di "multe" la forte propensione dei conducenti a violare le norme. Non si potrebbe fare lo stesso contro quei rapporti di lavoro che si associano pressoché sempre all’immigrazione illegale? Immigrazione: raid razzista ad Albenga; magrebino in coma di Lucia Marchiò
La Repubblica, 27 aprile 2009
Raid razzista di un gruppo di italiani ubriachi l’altra notte a Albenga, città dell’entroterra di Savona. Dopo una lite hanno dato fuoco a una palazzina del centro storico dove abitano alcuni immigrati. Un uomo di trent’anni, magrebino, immigrato con regolare permesso e bracciante in un’azienda agricola della zona, è finito all’ospedale San Martino di Genova, è in coma nel reparto di Rianimazione. È stato sorpreso nel sonno dall’incendio appiccato dal branco dei ragazzi italiani, otto in tutto, che cercavano vendetta dopo una rissa tra loro e i cugini del giovane, che abitano con lui. Questa brutta storia incomincia poco dopo la mezzanotte tra sabato e domenica, quando un gruppo di ragazzi italiani, studenti o disoccupati, tutti di Albenga, esce da un pub del Centro storico e si avvia verso casa passando per vicoli e piazzette della città vecchia. Hanno bevuto parecchio, parlano a voce alta, schiamazzano e urlano. Uno di loro si mette a orinare in un vaso di fiori della palazzina abitata dagli immigrati, che escono fuori e protestano. Dalla discussione si arriva presto alla rissa. Italiani e nordafricani si fronteggiano con coltelli e cocci di bottiglie. Quattro di loro, due italiani - uno di venti, l’altro di 18 anni - e due marocchini trentenni finiscono in ospedale e vengono poi arrestati per rissa aggravata. Sembra tutto finito. Ma alle 3.30 del mattino gli altri giovani del gruppo, che sono riusciti a filarsela dopo la rissa, tornano davanti all’abitazione dei marocchini con una tanica di benzina. Decisi a vendicare quello che secondo loro è un affronto subito. Appiccano il fuoco: ma all’interno, nella sua stanza al piano terra, c’è il giovane bracciante che dorme. Ignaro di quanto è accaduto poche ore prima. Incolpevole, in quella notte di bravate e vendette per cui adesso rischia la vita. Alla fine i carabinieri hanno fermato otto persone: di queste quattro italiani, uno solo maggiorenne, con l’accusa di tentato omicidio, incendio doloso, e con l’aggravante del motivo razziale. "L’ episodio è ingiustificabile, e ha come filo conduttore la stupidità dei protagonisti aggravata dall’alcol", commenta il capitano dei Carabinieri Sandro Colongo della compagnia di Albenga, intervenuto sul posto con i pm Granero e Ferro. L’ufficiale spiega: "Alcuni di loro nemmeno si sono resi conto dei guai in cui si sono infilati". Quando i quattro ragazzi italiani sono stati portati in caserma, continuavano nei loro atteggiamenti da bulli razzisti, chiamavano i marocchini "quei negri là", mentre i loro genitori erano affranti, increduli. Droghe: sempre di più i tossicodipendenti con disturbi mentali
Redattore Sociale - Dire, 27 aprile 2009
Ricerca Fict. Chi fa uso di sostanze presenta sempre più spesso problemi psichiatrici, ma solo il 5% delle comunità è attrezzato. Clerici: "Cannabinoidi e droghe chimiche sono più potenti e rischiano di provocare danni irreparabili". Aumenta il rischio di problemi psichiatrici fra chi fa uso di sostanze, soprattutto fra i giovani che assumono "nuove droghe". Il fenomeno della "doppia diagnosi", ovvero la compresenza di dipendenze e disturbi mentali, appare in aumento ed è al centro del convegno omonimo in programma oggi a Piacenza, promosso dall’associazione La ricerca onlus e dalla Comunità Terapeutica Emmaus. A fare il punto sulla doppia diagnosi è una ricerca condotta nei dipartimenti di salute mentale e nelle comunità terapeutiche dalle Università Bicocca di Milano e dagli atenei di Pavia e di Chieti in collaborazione con la Fict (Federazione italiana comunità terapeutiche). "I pericoli maggiori riguardano i ragazzi dai 10/11 ai 18/20 anni - spiega il professor Massimo Clerici, coordinatore dello studio -: l’uso di cannabinoidi con il 30% di Thc (molecola che agisce sul sistema nervoso centrale) e di sostanze chimiche come ecstasy e chetamine può causare seri danni in un’età in cui il cervello si sta ancora sviluppando". Non esistono dati per l’Italia, "ma a livello europeo - continua Clerici, che è anche presidente della Sip.dip (Società italiana della psichiatria delle dipendenze) - si può dire che 1 persona su 5 fa uso di sostanze, e fra questi 1 su 5 ha anche disturbi psichiatrici". Chi assume stupefacenti, e soprattutto chi fa uso delle "nuove droghe", presenta quindi un alto rischio di sviluppare problemi psichiatrici, "in particolare - aggiunge il professor Clerici - disturbi bipolari e schizofrenia". E i casi di doppia diagnosi sono destinati ad aumentare. "Le droghe di oggi sono molto più potenti - spiega il professor Clerici - e non ha più senso distinguere fra pesanti e leggere: se negli anni ‘60 i cannabinoidi avevano un 2% di Thc, oggi la percentuale si è alzata al 30%. Per non parlare dei danni provocati dalle sostanze create in laboratorio". Sono cambiati anche i comportamenti legati alle droghe: il contatto avviene a un’età più precoce e riguarda più sostanze contemporaneamente. "L’alcolista o il tossicodipendente di una volta - prosegue il ricercatore - avevano più probabilità di rimettersi in sesto, ma con le nuove sostanze i danni sono irreparabili: a 40 anni è già troppo tardi per intervenire". La ricerca coordinata dal professor Clerici mostra la diffusione della "doppia diagnosi" nelle comunità terapeutiche, studiando 226 utenti provenienti da 18 strutture. "Il dato più allarmante - spiega Clerici - riguarda le comunità di tipo tradizionale, sprovviste di competenze sulla salute mentale: eppure il 71,3% dei loro utenti presenta doppia diagnosi e il 30% di questi presenta un disturbo mentale grave". Per queste persone, che non dispongono di trattamenti adeguati, l’obiettivo del reinserimento diventa irraggiungibile. Le comunità che hanno avviato programmi specifici per la doppia diagnosi sono una minoranza e, secondo Clerici, "rappresentano il 5% del totale". Nel 2005 i ricercatori avevano già svolto lo stesso studio sul versante della salute mentale, indagando sugli utenti dei Dsm: il 3,89% di questi presentava doppia diagnosi. Il fenomeno è diventato rilevante nell’arco degli ultimi 15 anni, ma l’Italia ha una difficoltà in più rispetto agli altri paesi: "la separazione fra servizi per la salute mentale e servizi per le tossicodipendenze - spiega Clerici -, che in questo contesto rappresenta un problema". Tunisia: un paradiso per i turisti, ma un inferno per gli abitanti di Karim Metref
www.agoravox.it, 27 aprile 2009
La Tunisia ha tutto per essere un paradiso. Ma mentre per gli amanti dell’abbronzatura offre un’illusione di luogo piacevolissimo, per i suoi stessi abitanti è molto spesso un vero e proprio inferno. Dichiarata indipendente nel 1956, la Tunisia abolisce velocemente la monarchia e sotto la guida dell’allora leader del partito nazionalista del Neo Doustour, Habib Bourguiba (1903-2000), il paese sembra camminare a passi sicuri verso la modernità. Modernizzazione delle istituzioni, generalizzazione della scolarizzazione adozione del Codice dello statuto personale (CSP), che equipara i diritti delle donne e degli uomini, abolisce la poligamia e vieta ogni forma di velo. Dal 1959 al 1970 la Tunisia entra in una fase socialista, pieno impiego, piena scolarizzazione, sanità garantita per tutti sono gli obiettivi seguiti dal governo del Primo ministro Socialista Ahmed Bensalah. Poi il presidente Bourguiba decide improvvisamente di cambiare rotta e di perseguitare la sinistra. Bensalah è arrestato e condannato a 10 anni di prigione. Cominciano anni di incertezza e di instabilità. I movimenti degli operai sono numerosi e molto intensi. Lo stato scatena una repressione spietata contro ogni forma di dissenso. La spirale della violenza trova il suo apice nel 1978 quando la repressione con le armi dei grandi scioperi che scuotono il paese da anni finisce in un bagno di sangue: centinaia di morti, migliaia di prigionieri, torture e violenze sistematiche. Il ciclo manifestazioni-repressione continua per tutta la fine del regno di Bourguiba ormai vecchio e malato. Mentre i movimenti di sinistra sono triturati dalla repressione, una nuova forza si profila all’orizzonte: gli Islamisti di Al-Nahda. Il 7 novembre 1984, sostenuto in primis dai servizi italiani, ma con il consenso della CIA e dei servizi francesi, il generale Zine El-Abidine Ben Ali prende il potere. Comincia l’era più oscura della storia della Tunisia. Il generale, sicuro dell’appoggio delle potenze mondiali, scatena una repressione senza precedenti. Tutti i Partiti non "satellitari" sono costretti alla clandestinità. I leader sono costretti all’esilio o alla latitanza. Oggi in Tunisia non si muove niente senza che la ferocissima polizia di Ben Ali si metta a sparare. Le forze dell’ordine sono diventate onnipotenti. Simbolico è stato l’arresto da parte della polizia politica di Hamma Hamami, leader del Partito Comunista degli Operai Tunisini (Pcot). Nel 2002, la giustizia aveva indetto un processo per contumacia contro il leader operaio costretto alla clandestinità da anni. Questo, ritenendo di non aver niente da rimproverarsi, decide di presentarsi in aula, a sorpresa. La Polizia politica spaventata dall’effetto mediatico possibile di tale colpo di teatro lo preleva dall’aula nonostante le proteste del giudice e della procura e lo porta in un luogo sconosciuto dove viene rinchiuso per mesi e mesi fino alla sua liberazione dovuta alla larga mobilitazione internazionale a suo favore. Le prigioni sono piene di oppositori, militanti dei diritti umani, sindacalisti, intellettuali non allineati... In Tunisia si può andare in prigione per il solo fatto di aver visitato un sito proibito (vedere la storia di un gruppo di giovani di Zarzis, in carcere da anni per aver curiosato su internet - http://www.zarzis.org/). A livello economico, la Tunisia di Ben Ali è diventata un paradiso ultra liberale. Bassi stipendi, pochi diritti sindacali, tasse basse... tante industrie di trasformazione, agro alimentare e tessili scelgono il paese Nord Africano per le delocalizzazioni. Il clan del presidente e la famiglia della sua seconda moglie si sono accaparrati di quasi tutta l’economia del paese. Negli ultimi anni, con l’ultima crisi e gli aumenti dei prezzi dei prodotti di prima utilità, la popolazione tunisina è allo stremo. I pochi giovani rimasti nel paese, vista la fortissima denatalità di cui soffre il paese, pensano solo a fuggire e affollano le carette del mare che dalla vicina Libia partono per l’Italia. Con l’aumento della differenza economica tra i turisti e gli autoctoni, si stanno sviluppando inquietanti fenomeni di turismo sessuale. La prostituzione sia femminile che maschile sta diventando una delle più grosse attrattive del paese. Nell’estate del 2008, la regione di Gafsa ha conosciuto delle importantissime mobilitazioni degli operai del bacino minerario. La selvaggia repressione della loro mobilitazione ha avuto per effetto di sollevare tutta la regione in solidarietà con loro. Ma come da ormai decine di anni, il sistema poliziesco di Zin El Abidine, sicuro del silenzio della comunità internazionale, ha scatenato la sua macchina da guerra. In questo momento centinaia di operai e di giovani sono ancora in carcere. I processi, celebrati secondo il rito arbitrario di tutte le dittature di questo mondo, hanno dato effetto a condanne molto pesanti. Molti detenuti hanno problemi di salute dovuti alle torture e alle pessime condizioni di detenzione. La Tunisia di oggi sta male. Il regime del generale Ben Ali sembra entrato in avanzato stato di putrefazione. La prospettiva della successione al dittatore vecchio e malato, comincia a creare forti tensioni dentro e fuori dal palazzo. L’opposizione è molto debole e fa fatica a trovare una linea comune di lotta per un nuovo ordine che assicuri a tutti libertà e diritti. Rimane che la speranza c’è. C’è ed è rappresentata dallo straordinario numero di attivisti giovani e non che continuano a prendere rischi enormi, a lottare, a scrivere, a protestare e camminare a testa alta, nonostante tutto. Cile: per l’incendio di una prigione, morti almeno 10 detenuti
Ansa, 27 aprile 2009
Almeno dieci persone hanno perso la vita in un incendio scoppiato ieri in una prigione alla periferia della capitale Santiago. Lo ha riferito il direttore delle forze di sicurezza penitenziaria. Altre tre persone sono rimaste gravemente ustionate dal fuoco, scoppiato dopo una rissa tra bande rivali di detenuti, ha detto Alejandro Jimenez, capo dei gendarmi cileni. "Abbiamo 10 (morti) confermati", ha detto alla radio. Spiegando che alcuni detenuti hanno gettato nella cella in cui erano radunati dei rivali del combustibile ricavato da piccoli fornelli che sono permessi nella prigione di Colina. E che l’incendio è stato domato. Usa: Casa Bianca decide pubblicazione foto abusi su detenuti
Apcom, 27 aprile 2009
Dopo i memorandum della Cia, la Casa Bianca ha deciso di rendere pubbliche anche 2.000 fotografie di presunti abusi sui prigionieri nelle carceri americane in Iraq e in Afghanistan. Le immagini, richieste come prove a carico in diverse cause intentate dall’American Civil Liberal Union, mostrano personale statunitense, soldati e guardie carcerarie, mentre umiliano e maltrattano i prigionieri e si riferiscono ad oltre 400 casi di abusi compiuti tra il 2001 e il 2005. L’amministrazione Obama prevedeva inizialmente di pubblicare solo le 21 fotografie richieste dall’Aclu, ma il generale David Petraeus ha preteso invece che venissero rese pubbliche tutte le 2.000 immagini per "eliminare una volta per tutte la questione", precisa oggi il quotidiano britannico Telegraph. "Queste immagini forniscono la prova visiva di come gli abusi sui prigionieri da parte del personale americano non fossero delle aberrazioni, ma fossero invece assolutamente diffuse e andassero ben oltre i muri di Abu Ghraib", sostiene uno dei legali dell’Aclu. Lo scorso 16 aprile Barack Obama ha deciso di pubblicare quattro memorandum segreti sulle tecniche di interrogatorio utilizzate dalla Cia, che costituiscono la base legale a cui il suo predecessore, l’ex presidente George W. Bush, è ricorso per giustificare l’utilizzo della tortura negli interrogatori dei sospetti di terrorismo. Ma anche di non perseguire i funzionari Cia che li hanno applicati, garantendo loro l’immunità; e questa decisione ha fatto scandalo negli ambienti liberal. Nel mirino adesso c’è la possibile istituzione di una commissione d’inchiesta sulla vicenda, che rischia di diventare un casus belli. Soprattutto per le conseguenze politiche che avrebbe. La Casa Bianca vuole tutelare i funzionari che hanno eseguito gli ordini, ma una commissione potrebbe attaccare i vertici politici da cui emanarono quegli ordini. Dall’ex segretario di Stato Condoleezza Rice, a quanto pare la prima a autorizzare le tecniche brutali, fino all’ex presidente George W. Bush. La Reunion: capo setta pedofila evade da carcere in elicottero
Ansa, 27 aprile 2009
Il capo di una setta pedofila, Juliano Verbard, condannato nel febbraio scorso a 15 anni di reclusione per abusi sessuali su bambini, è evaso a bordo di un elicottero da una prigione sull’isola francese della Reunion, nell’Oceano Indiano, a est del Madagascar. Lo riferiscono le autorità locali. L’uomo è riuscito a fuggire in compagnia di due adepti della setta, denominata "Cuori dolorosi e immacolati di Maria". Secondo quanto riferiscono i media locali, un commando armato avrebbe preso in ostaggio il pilota di un elicottero e lo avrebbe costretto a dirigersi verso la prigione di Domenjod. Una volta arrivati a destinazione, il commando avrebbe approfittato della passeggiata pomeridiana dei detenuti per far salire Verbard e altre due persone a bordo. Poi l’elicottero avrebbe ripreso il volo. Una volta a terra, i fuggitivi si sarebbero dileguati su un furgone. Le forze dell’ordine hanno subito allestito posti di blocco in tutta l’isola per bloccare la fuga. Juliano Verbard è stato condannato il 28 febbraio del 2008 a 15 anni di reclusione criminale per stupro e aggressioni sessuali su due bambini, i cui genitori erano membri della setta. La setta era stata creata nel 2002: il predicatore era riuscito a convincere centinaia di fedeli che la Madonna gli parlava l’ottavo giorno di ogni mese alle dieci di sera. I discepoli dovevano versare 20 euro per assistere alle apparizioni che il guru aveva seduto su una poltrona.
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