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Giustizia: Uil; situazione carceri è grave, dossier a Berlusconi
Il Velino, 26 aprile 2009
Sette plichi contenenti un voluminoso, quanto dettagliato, dossier sulle gravi e critiche condizioni in cui versa il sistema penitenziario italiano sono stati spediti dalla segreteria nazionale della Uil Pa Penitenziari al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al sottosegretario Gianni Letta e ai presidenti delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato Bongiorno e Berselli. Anche i leader dei partiti di opposizione Franceschini, Casini e Di Pietro sono tra i destinatari dell’iniziativa. "Con questa spedizione dei dossier si conclude la fase di sensibilizzazione rispetto ad una delle questioni sociali più gravi in atto nel Paese che è l’emergenza penitenziaria - dichiara Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Penitenziari - ora è tempo delle analisi, delle proposte e delle risposte. Per questo ci predisponiamo ad un periodo di silenzio, terminato il quale valuteremo il da farsi". Il "nostro - spiega Sarno - è un tentativo di creare una coscienza politica e sociale sul problema prima che la situazione precipiti e diventi ancor più ingestibile di quanto non lo sia ora. È ben noto che le condizioni detentive sfiorano l’inciviltà e offendono la dignità umana rasentando persino l’illegittimità". In dodici mesi, ricorda il sindacalista, ben 670 agenti sono stati feriti a seguito da aggressioni da parte dei detenuti e "il 60% dei poliziotti penitenziari - aggiunge Sarno - potrebbe non godere delle ferie e sarebbe estremamente utile se già da giugno si rendessero disponibili i circa 300 allievi oggi impegnati nel percorso formativo presso la Scuole dell’Amministrazione Penitenziaria" Per la Uil Penitenziari il solo piano carceri non è sufficiente ad affrontare l’emergenza in atto: "riconosciamo al ministro Alfano un certo impegno sul versante penitenziario che occorre tramutare in risposte concrete. Il piano carceri, però, è una soluzione a medio - lungo termine e da solo non è sufficiente. Le criticità attuali, invece, presuppongono risposte immediate". Giustizia: Osapp; chiedere le carceri "in prestito" ad altri stati
Ansa, 26 aprile 2009
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano chieda in prestito le strutture carcerarie ai Paesi confinanti: è questa l’unica soluzione possibile, assieme al ricorso a caserme e edifici non più in uso,al problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari, secondo l’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria). Un’idea di non facile attuazione, riconosce il sindacato, visti gli ostacoli d’ordine pratico e soprattutto giuridico; ma comunque meno onerosa delle strategie messe in campo finora dal Guardasigilli e dal nuovo commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Ionta. L’Osapp è molto critico soprattutto nei confronti di Ionta di cui ha chiesto nei giorni scorsi le dimissioni: ci domandiamo quanto lo Stato dovrà sborsare per il piano carceri che il commissario presenterà a breve al fine di risolvere l’annoso problema del sovraffollamento e se il conto non sarà più salato di quello che stiamo già pagando per il tour di conferenze che Ionta sta portando avanti in tutta Italia. Emilia Romagna: le carceri hanno debiti per 8,8 milioni di euro
Agi, 26 aprile 2009
L’Emilia Romagna, a livello nazionale, è la regione in cui più si fa sentire il problema del sovraffollamento delle carceri rapportato alla carenza di personale di polizia penitenziaria. L’allarme è stato lanciato, questa mattina, dai dirigenti del sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), durante una conferenza stampa tenuta all’interno del carcere circondariale di Bologna della Dozza alla quale ha partecipato anche il presidente della Commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, in visita nella prigione del capoluogo emiliano nell’ambito di un’indagine conoscitiva parlamentare sullo stato di salute dei detenuti. In Emilia Romagna, infatti, secondo i dati forniti dal segretario regionale del Sappe, Vito Serra, sono detenute, attualmente, 4.350 persone (cifra in costante aumento) contro la capienza regolamentare complessiva fissata in 2.320 detenuti. A fronte di questo sovraffollamento non corrisponde un adeguato numero di personale di polizia penitenziaria; l’organico prevede una dotazione di 2401 unità mentre ammonta a sole 1.727 persone registrando, dunque, una carenza di 674 agenti. Il carcere di Bologna rappresenta l’esempio più drammatico di questa situazione di emergenza. "La presenza dei detenuti - ha spiegato il segretario provinciale del Sappe, Rocco Riggio - ha superato i livelli, già tragici, del periodo pre-indulto". Nella Casa Circondariale della Dozza, infatti, sono presenti più di 1.100 detenuti (di cui 753 senza una condanna definitiva) in una struttura ideata per soli 483 (a regime regolamentare) e 884 (a regime di massima tollerabilità). Il personale di polizia penitenziaria ammonta a soli 390 agenti a dispetto di una dotazione organica prevista per legge di 567 unità. "Estremamente preoccupante", ha denunciato ancora Riggio, è il sovraffollamento del reparto detentivo femminile dove sono in servizio appena 13 agenti e si registra la presenza di 65 detenute, 10 delle quali in regime di alta sicurezza. Altro aspetto emerso durante la conferenza stampa riguarda il bilancio in rosso delle varie prigioni emiliano romagnole. Secondo i dati riferiti al senatore Berselli dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Nello Cesari, il debito complessivo delle Case Circondariali dell’Emilia Romagna ammonta a 8,8 milioni di euro, 7,3 milioni dei quali si riferiscono al pagamento delle utenze (luce, gas, acqua). "Una contabilità creativa - ha detto Berselli che ha poi rimarcato la gravità del problema - poiché nessuno potrà mai togliere acqua, luce e gas alle strutture carcerarie". Bologna: alla Dozza l'agonia continua, mancano soldi e agenti
Il Bologna, 26 aprile 2009
Le risorse sono sempre più al lumicino, furgoni con i detenuti si fermano in strada per mancanza di carburante mentre il Provveditore regionale è costretto a non pagare le bollette di luce, acqua e gas pur di non dichiarare bancarotta. Carenza di personale, strutture sovraffollate, aggressioni da parte dei detenuti, furgoni con i detenuti che si fermano per strada ma anche una buona dose di fantasia come quella messa in atto dal Provveditore regionale Nello Cesari, per evitare la "bancarotta". È questo quello rimane del carcere bolognese della Dozza, "un penitenziario - hanno detto i sindacati senza tanti giri di parole - al collasso". Come tutto il sistema carcerario nazionale. Numeri emersi nell’incontro di venerdì mattina all’interno del carcere - al quale hanno partecipato i massimi esponenti sindacali del Sappe regionale e nazionale, il presidente della Commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli e della neodirettrice Ione Toccafondi, sono inquietanti: 1.100 detenuti attualmente ospitati di cu 753 imputati, in una struttura ideata e realizzata per soli 483 detenuti a regime regolamentare e 884 a regime di massima tollerabilità. Un esubero di 200 carcerati peri quali il senatore ha la sua personale ricetta. "Bisognerebbe fare uscire dal carcere i detenuti, eccetto i casi più gravi, in attesa di una sentenza definitiva in quanto deve funzionare l’esercizio della presunzione d’innocenza - ha detto il senatore - ma allo stesso tempo è necessario ristabilire la certezza della pena per chi invece è stato condannato con tre gradi di giudizio". Non meno grave lo stato di salute del personale: 390 gli agenti in servizio contro i 567 previsti dal regolamento. "Una situazione - ha fatto sapere il segretario generale aggiunto, Giovanni Durante - sempre più pericolosa". Da Piacenza Forlì, da Bologna a Rimini, da Modena a Reggio Emilia, infatti, il numero delle aggressioni agli agenti cresce pericolosamente. "A questo vada aggiunta la mancanza di risorse - aggiunge il segretario regionale del Sappe, Vito Serra - e spesso non ci sono nemmeno i buoni carburante sufficienti le traduzioni dei detenuti presso le aule di giustizia". Una situazione che in alcune occasioni è arrivata a paradosso. "Recentemente continua - è capitato che due distinte traduzioni siano rimaste ferme per strada senza carburante e in una di queste aveva a bordo un detenuto ad alta sicurezza". Una situazione alla quale, il Provveditore, tenta di porre rimedio con quella che il presidente della Commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, non ha esitato a ribattezzare come una "contabilità creativa". Un giochetto semplice e tutto made in Italy: "non pago se non quando sono costretto". Dopo un rapido controllo del bilancio l’ingegnoso provveditore si rendeva conto che le entrate erano 8,8 milioni di euro mentre alla voce uscite ben 7,3 milioni erano destinati al pagamento di luce, acqua gas. Troppo. Pagare le bollette significava collasso certo. Così, fatti quattro calcoli, il provveditore decide di non pagare più le bollette. Almeno fino quando non arrivano le ingiunzioni. "Cerco solo di prendere tempo e quando arriva l’ingiunzione - sorride - pago una bolletta e tutto si blocca. Non credo che chiudano l’acqua o tolgano la luce al carcere. Che fanno? Mettono all’asta noi e i detenuti?". Chissà, con i tempi che corrono non ci sarebbe da meravigliarsi più di tanto! Mantova: detenuti nelle celle come sardine, rischio epidemia
La Gazzetta di Mantova, 26 aprile 2009
Al carcere di via Poma è rischio epidemia, risultato del la presenza di oltre 200 detenuti (il doppio della capienza prevista) e del verificarsi di qualche caso di tbc e malattie infettive. Anche l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere rischierebbe di scoppiare se andasse avanti il processo di trasformazione avviato un anno fa da un decreto del Governo. A dirlo è Antonio Calogero, direttore dell’Opg nonché dirigente del Poma per l’assistenza sanitaria nelle carceri. Assistenza passata di competenza dalla Giustizia alle Regioni: proprio questo il contenuto del decreto. Delle problematiche connesse a questo passaggio si è discusso lunedì in un convegno organizzato dalla Fp Cgil. Da una parte il problema della casa circondariale di via Poma, in cronico deficit di spazi come evidenziato anche da una recente ispezione dell’Asl. Dall’altra la questione più complessa dell’Opg che con il Dpcm è passato in via definitiva alla gestione regionale. "Ma l’allegato C - spiega Calogero - dispone anche il graduale superamento dell’assistenza in Opg col ricovero in strutture alternative come le comunità terapeutiche protette". Una trasformazione in tre fasi: "La prima prevede una diminuzione dei pazienti che impropriamente si trovano all’Opg: chi ad esempio è sotto osservazione psichiatrica per comportamenti avuti in carcere e dovrebbe essere di nuovo trasferito e curato. Ma anche le persone giudicate incapaci o semi-incapaci al momento del reato e che, al termine del ricovero disposto dal giudice, dovrebbero uscire dall’ospedale per continuare la cura sul territorio, sotto l’osservazione del Dipartimenti di sanità mentale. Purtroppo l’uscita dall’Opg non avviene, dice Calogero: mancano le strutture. Il risultato è che le misure di sicurezza durano più del previsto. Uno stato di cose che blocca la seconda fase del percorso: il ripristino del criterio territoriale nell’assistenza. Se prima, a seconda della disponibilità di posti, un lombardo poteva finire anche in Sicilia (difatti solo 70 su 220 si trovano a Castiglione) ora i pazienti di Liguria, Lombardia, Piemonte e Valle D’Aosta faranno tutti riferimento a Castiglione. "Si tratterebbe di quasi 350 persone, la nostra struttura non potrebbe mai contenerle", dice Calogero. In assenza di strutture che svuotino gli Opg, l’iter non prosegue. E anche il ritorno degli ex pazienti nella società resta solo sulla carta. Reggio Emilia: Opg, mancano i soldi anche per la carta igienica
La Gazzetta di Reggio, 26 aprile 2009
La crisi colpisce anche l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. "Non abbiamo nemmeno i soldi per comprare la carta igienica", è la denuncia che Rosa Alba Casella, direttrice della struttura, si è trovata costretta a fare attraverso una lettera inviata alle associazioni di volontariato della provincia a cui ha chiesto aiuto per raccogliere i materiali di prima necessità, fondamentali per garantire l’igiene dei circa 300 ospiti detenuti nell’Opg. Sono sempre esistite disposizioni ministeriali per la razionalizzazione della carta igienica, ma la situazione è molto più grave: a causa della crisi generale, infatti, sono stati tagliati i fondi che coprivano le spese per l’acquisto di generi di prima necessità, tra cui anche i detersivi e i detergenti per l’igiene personale. Monica Franzoni, che opera all’interno dell’Opg per conto della Uisp, dice che spesso mancano le lampadine, nella pizzeria interna hanno finito le posate di plastica e i pazienti sono rimasti per due settimane senza zucchero. Per questo la direttrice si è rivolta al volontariato: perché si possa assicurare pulizia, decoro e cura. Gli operatori chiedono poi un sostegno nelle attività ricreative, di cruciale importanza per i malati. Pavia: all'Uepe mancano gli assistenti sociali interviene il Prap
La Provincia Pavese, 26 aprile 2009
Dopo l’allarme lanciato dalla Cgil sulla mancanza di personale nell’Uepe di Pavia, l’Ufficio esecuzione penale esterna (gli ex Centri di servizio sociale per adulti), arrivano le prime risposte. Il provveditore regionale dei carceri della Lombardia, Luigi Pagano, ha scritto una lettera al Ministero della Giustizia e al sindacato. Si unisce alle difficoltà degli assistenti sociali che a Pavia lavorano in 6 sui 21 previsti in organico, ma che coprono tutti i comuni della provincia più 22 del milanese. "Si deve anche richiamare l’attenzione sull’aumento del carico di lavoro - scrive Luigi Pagano - infatti dopo una flessione conseguente l’indulto, sono sensibilmente aumentate le misure alternative: gli affidamenti seguiti sono passati da 66 nel 2007 a 132 nel 2008, e le detenzioni domiciliari sono passate da 29 a 45". Pagani si è detto pronto a incontrare il sindacato. "In ambito regionale non è possibile sopperire alle carenze registrate nell’Uepe di Pavia attingendo a risorse regionali - spiega - perché tutti gli Uepe della Regione registrano uno scostamento del 40% rispetto agli organici previsti". Una possibilità potrebbe esserci: ricorrere alle graduatorie di mobilità. "È stata fatta una graduatoria nazionale di mobilità da altri enti, come Asl e Comune - spiega Massimiliano Preti, Cgil - Qui ci sono in giacenza 3-4 domande di assistenti sociali". Potrebbero essere un primo aiuto. Aosta: tenta suicidio in carcere tedesco che abbandonò bimbi
Ansa, 26 aprile 2009
Era in carcere da poco più di 17 ore. Non molte, ma abbastanza per cedere alla disperazione e tentare un gesto estremo. Ha cercato di suicidarsi nella sua cella della casa circondariale di Brissogne (Aosta) il tedesco Sascha Schmidt, di 24 anni, che domenica ha abbandonato con la compagna i figli di lei al tavolo di una pizzeria di Aosta. Le guardie carcerarie lo hanno trovato (probabilmente dopo pochi istanti) alle 9.40 con il collo intrappolato da un cappio, fatto con una sottile cintura in suo possesso, legata, a circa un metro e mezzo da terra, alla grata del bagno della sua cella singola del reparto transito. Il giovane, ché è alto circa 2 metri, per compiere il gesto si è lasciato scivolare a terra. Schmidt si trova, piantonato da agenti di Polizia penitenziaria, nel reparto di rianimazione dell’Ospedale Parini di Aosta. È in prognosi riservata: gli hanno diagnosticato un’ipossia, ma è fuori pericolo ed è sottoposto a una blanda sedazione. La sua compagna Ina Caterina Remhof, di 26 anni, che si trova ad Aosta in una comunità protetta dei servizi sociali regionali non sa ancora nulla di quanto è accaduto oggi. "Non é ancora il momento di sottoporla a questo prova - spiega chi si sta occupando della sua assistenza - è ancora provata da quanto è accaduto negli ultimi giorni". Ieri sono partiti da Aosta in Germania, affidati ai servizi sociali tedeschi, i suoi tre bambini di 7 mesi, 2 e 4 anni dei quali è stata privata della patria potestà. Il dramma di questa mattina si aggiunge quindi al dramma di una settimana da dimenticare per Sascha e Ina. Dall’abbandono domenica scorsa dei figli di lei alla fuga durata quattro giorni, trascorsi a vagabondare nei dintorni di Aosta. Giovedì pomeriggio la polizia li ha trovati. La donna è stata denunciata a piede libero per abbandono di minori, così come Sascha che, però, è rimasto in stato di fermo nella Questura di Aosta in attesa di un mandato di cattura europeo per non essere rientrato in carcere in Germania. Ieri per lui si sono dunque aperte le porte della casa circondariale di Brissogne (Aosta). "Nulla aveva fatto presagire la possibilità che il detenuto potesse compiere un tentativo di suicidio", ha spiegato Aldo Fabozzi, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte e Valle d’Aosta. In questa direzione si muove anche l’inchiesta della Procura di Aosta. Il procuratore capo Marilinda Mineccia sta coordinando sull’accaduto un fascicolo ex modello 45, concernente "atti non costituenti reato"; per il momento non ci sono dunque indagati né ipotesi di reato. "Da quanto è emerso fino ad ora - spiega il magistrato - sembra che l’iter di accoglienza del detenuto e la sua sorveglianza abbiano rispettato le procedure previste". Prato: cerca di evadere segando le sbarre, ma viene scoperto
Il Tirreno, 26 aprile 2009
Non aveva molte speranze di farcela, ma ci ha provato lo stesso, alla vecchia maniera. Un detenuto del carcere di Prato ha tentato di segare le sbarre della sua cella con un seghetto artigianale, è stato scoperto quasi subito e ora ne pagherà le conseguenze in termini disciplinari e forse anche penali. Sull’episodio viene mantenuto un certo riserbo all’interno della casa circondariale, ma c’è la conferma che è realmente accaduto. Se n’è avuta notizia grazie a un biglietto che un altro detenuto è riuscito a far filtrare all’esterno e nel quale il tentativo di fuga viene ricostruito nei dettagli. Secondo questa ricostruzione, sono stati i due compagni di cella dell’aspirante fuggitivo ad avvertire la polizia penitenziaria dei suoi progetti. L’episodio è accaduto in una cella della prima sezione, quella dei detenuti comuni. Il recluso si è procurato in qualche maniera il seghetto (ma dalla Dogaia di Prato escludono che sia arrivato dall’esterno) e con quello, pazientemente, si è messo a segare una delle sbarre. Il più attempato dei suoi compagni si è preoccupato e avrebbe prima chiesto di essere trasferito in un’altra cella, per non pagare le conseguenze del gesto, poi lui o altri avrebbero avvertito gli agenti. La polizia penitenziaria ha accertato che una delle sbarre era stata effettivamente segata, ha individuato il responsabile e l’ha messo in isolamento. Non è finita, perché, secondo quanto riferisce un altro detenuto, il mattino successivo tutte le celle della prima sezione sono state perquisite a fondo e sono stati tolti tutti gli "arredi" piazzati dai detenuti, le mensoline, i poster, le foto dei familiari, i calendari, insomma tutte quelle cose che pur non ammesse sono solitamente tollerate per rendere le celle un po’ meno anonime. Il risultato è che l’autore del tentativo di fuga adesso non è molto "popolare" tra i suoi compagni. Anche perché è stata temporaneamente sospesa la "socialità", cioè la possibilità per i detenuti di andare su invito in altre celle, per due o tre ore, e così ammazzare il tempo. Quanto alle possibilità che il tentativo riuscisse, alla Dogaia dicono che erano praticamente pari a zero. Se anche il detenuto fosse riuscito a segare tutte le sbarre, avrebbe poi dovuto superare due cinte murarie ed eludere la sorveglianza. Padova: al Due Palazzi si attende la visita del ministro Alfano
Il Mattino di Padova, 26 aprile 2009
Il ministro della giustizia Angelino Alfano ha accettato l’invito di visitare il carcere di Padova per conoscere direttamente le attività della Cooperativa Giotto, (nata nel 1991) presieduta da Nicola Boscoletto. Alfano conta di verificare l’esperienza maturata da oltre cento detenuti che lavorano regolarmente fra call center, pasticceria e giardinaggio. Il carcere Due Palazzi, da questo punto di vista, potrebbe rappresentare il punto di riferimento per replicare simili iniziative anche in altre case di detenzione italiane. Recentemente, il sindaco Flavio Zanonato ha ospitato nella sala del consiglio comunale l’inaugurazione della mostra "Libertà va cercando ch’è sì cara - Vigilando redimere", che è rimasta aperta nelle scuderie di palazzo Moroni in coincidenza con il Festival della cittadinanza. Erano presenti l’assessore regionale Stefano Valdegamberi, il direttore del carcere Salvatore Pirruccio e il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia Giovanni Tamburino. Ora al Due Palazzi si aspetta Alfano. Firenze: in mostra creazioni dei detenuti delle carceri toscane
In Toscana, 26 aprile 2009
Il vicepresidente della Regione Toscana ha partecipato ieri alla presentazione dello stand, all’interno della Mostra Mercato dell’Artigianato (dal 25 aprile al 3 maggio alla Fortezza da Basso da Basso di Firenze), dove verranno esposte al pubblico le creazioni artigianali dei detenuti e delle detenute di alcuni carceri toscani. Nel corso della conferenza stampa è stato anche presentato il convegno "Carcere: le alternative possibili", che si terrà il 28 aprile alle 15.00 al Teatrino Lorenese. I detenuti commerciano con piattaforma web. Accordo per la creazione e la gestione di una piattaforma web per promuovere e vendere i prodotti dei detenuti delle carceri toscane. La Regione si è impegnata a finanziare e realizzare la piattaforma, l’Uncem a farsi carico della sua gestione, Rifondazione Comunista a stabilire i contatti con i detenuti. La decisione è stata presa questa mattina nell’ambito della Mostra dell’Artigianato dove è stato allestito anche uno stand per i prodotti dei carcerati. Palermo: al Malaspina uno spettacolo "In parole e in musica"
Ansa, 26 aprile 2009
Un’attrice e un chitarrista, poesie, canzoni e qualche breve racconto, per un intrattenimento divertente e coinvolgente. Questa l’essenza del reading - concerto che l’associazione culturale Gruppo Teatro Totem propone per i ragazzi dell’Istituto minorile Malaspina di Palermo nel teatro della struttura, il 28 aprile. Lo spettacolo nasce nell’ambito delle iniziative promosse dal Progetto In & Out finanziato dall’Assessorato Regionale della famiglia e realizzato dall’Associazione Euro presso gli Istituti Penali Minorili della Sicilia con il partenariato del Centro Giustizia Minorile diretto da Michele Di Martino. Uno spettacolo dove voce (Maria Teresa de Sanctis) e musica (Ivan Cammarata, chitarre) costituiscono un’unica armonia. Alla parola evocativa e suggestiva dei testi di Stefano Benni e Maria Teresa de Sanctis per sorridere (e non solo), si affianca la musica originale eseguita sulla scena dall’autore. "In parole e in musica", è uno spettacolo semplice e divertente, per sorridere e ridere anche, all’insegna di una parola che è suono, essenza di un’emozione che va al di là dei generi, dove poesia e prosa, lettura e canto si confondono in un iter narrativo fantasioso eppure pregno di verità. Maria Teresa de Sanctis attrice, cantante e autrice di alcuni dei testi, si esibirà insieme a Ivan Cammarata, alle chitarre ed autore delle musiche originali. La regia dello spettacolo è di Maria Teresa de Sanctis. Immigrazione: drammi dei clandestini e la pietà che scompare di Ilvo Diamanti
La Repubblica, 26 aprile 2009
Cambiano i tempi. Ma gli immigrati non si fermano. Nonostante governino forze politiche inflessibili e "cattive": gli stranieri continuano ad arrivare. Da est e da sud. Per terra e soprattutto per mare. Con ogni mezzo. Barche, barchini, barconi e gommoni. Partono in tanti. Ogni giorno. Uomini, donne e bambini. E in molti non arrivano. Quel piccolo pezzo di mare che separa l’Africa dalla Sicilia è un cimitero dove giacciono un numero imprecisato di imbarcazioni e migliaia di persone. Gli stranieri continuano ad arrivare. Da est e da sud. Per terra e soprattutto per mare. Con ogni mezzo. Barche, barchini, barconi e gommoni. Partono in tanti. Ogni giorno. Uomini, donne e bambini. E in molti non arrivano. Quel piccolo pezzo di mare che separa l’Africa dalla Sicilia è un cimitero dove giacciono un numero imprecisato di imbarcazioni e migliaia di persone. Persone? Per definirle tali dovremmo "percepirle". Invece non esistono. Sono "clandestini" quando si mettono in viaggio e quando riescono ad entrare nei paesi di destinazione. Ma anche quando vengono ammassati nei Cpa. Migranti perenni. Non riescono a trovare una nuova sistemazione - stabile e riconosciuta - ma non possono neppure tornare indietro. Come i 140 stranieri raccolti e trasportati dal cargo Pinar. Rimpallati fra l’Italia - che alla fine li ha accettati - e Malta. Indisponibile. Perché la fuga dall’Africa e dall’Asia, come l’esodo dai paesi dell’est europeo, spaventa tutti i paesi ricchi. Non solo noi. La vecchia Europa vorrebbe diventare fortezza. Trasformare il Mediterraneo in un canale inaccessibile. A cui mancano i coccodrilli, ma non gli squali. Eppure, nonostante la politica della fermezza, la tolleranza-meno-uno, i Cpa e migliaia di espulsioni. Nonostante tutto: i flussi non si fermano. Gli sbarchi proseguono senza sosta. Da gennaio ad oggi: oltre seimila. Il doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Che già aveva segnato il livello più alto della nostra storia di immigrazione. Breve e travolgente. Nel 2008 erano sbarcati sulle nostre coste 37mila stranieri. Quasi il doppio del 2007. Difficile non nutrire dubbi sulla produttività delle nostre politiche e della nostra politica. Anche se l’attuale maggioranza di governo ha vinto le elezioni promettendo di fermare gli stranieri. Di bloccare l’invasione. Con le buone ma soprattutto con le cattive. Propositi chiari ma, fin qui, inattuati. Semplicemente perché inattuabili. Quando a migliaia intraprendono il viaggio sulle carrette del mare, stipati come animali. Come i disperati del Pinar. Dietro alle spalle le storie terribili raccontate da Francesco Viviano, su queste pagine, nei giorni scorsi. In fuga da persecuzioni, conflitti etnici. Dalla fame. Disposti a tutto. A ogni costo. Come la ragazza annegata con il suo bimbo in grembo, nelle acque davanti a Malta. Questa emigrazione è una tragedia senza fine. Che, tuttavia, non ci commuove. Anzi, suscita perlopiù distacco e ripulsa. Difficile non cogliere la differenza con l’onda emotiva e la solidarietà sollevate dalla catastrofe in Abruzzo. Ma noi riusciamo a provare pietà e solidarietà solo quando le tragedie accadono sotto i nostri occhi. Quando i media le illuminano, minuto per minuto, luogo per luogo, in modo quasi compiaciuto. Quando la politica le accompagna e le segue da vicino. Perché si tratta della "nostra" gente. Allora ci emozioniamo. Gli "altri", invece, non hanno volto. Le loro tragedie non hanno quasi mai le aperture dei tigì. Gli sbarchi vengono raccontati come una calamità. Per noi. E a nessuno, comunque, verrebbe in mente di organizzare un G8 a Lampedusa. Non solo per ragioni logistiche. Naturalmente, si tratta di considerazioni che possono apparire "buoniste", fradice di retorica. E con la retorica non si risolvono i problemi. Non si proteggono le città insicure. I cittadini minacciati dalla nuova criminalità etnica, dai clandestini che affollano le periferie. D’altronde, in pochi anni siamo diventati un paese di grande immigrazione. Quasi come la Francia e la Germania. Fino a ieri eravamo noi, italiani, a disperderci nel mondo, a milioni, per fuggire la miseria. Ora invece ci sembra che il mondo si stia rovesciando su di noi. E questo mondo è troppo grande per stare dentro a casa nostra, dentro alla nostra testa. Noi non siamo in grado di controllarlo né di comprenderlo. Non ci riusciamo noi. Ma non ci riescono, soprattutto, i poteri economici e finanziari, le istituzioni di governo. In balia dei collassi delle banche e delle borse, delle guerre, del terrorismo, delle epidemie. La politica. Non riesce a difenderci ma neppure a spiegarci ciò che avviene. E rinuncia a contrastare le nostre paure. Anzi, complici i media, le enfatizza. Inventa muri e confini che non esistono. Promette di chiudere i nostri mari, di sbarrare le frontiere. Promette di difenderci, a casa nostra, dagli stranieri che si insinuano nei nostri quartieri. Ricorrendo a iniziative a bassa efficacia pratica e a elevato impatto simbolico. Come le ronde. I volontari della sicurezza locale. Dovrebbero esercitare il controllo sul territorio un tempo affidato alle reti di vicinato, alla vita di quartiere, alla presenza quotidiana delle persone. Rimpiazzando una società locale che non c’è più. La politica. Promette di difendere la nostra identità, la nostra religione, la nostra cultura, la nostra cucina. E per questo combatte contro la costruzione di moschee. Oppure lancia battaglie gastro-culturali. Contro i cibi consumati per strada. Anzitutto e soprattutto: contro il kebab. Insieme alle moschee: icona dell’islamizzazione presunta del nostro paesaggio e della nostra vita quotidiana. La politica e le politiche usate come placebo. Per rassicurare senza garantire sicurezza. Per guadagnare voti e consenso. La Lega, secondo i sondaggi, sembra essere riuscita a superare i confini del Nord padano e ad espandersi nelle regioni dell’Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Ma la retorica della "protezione dal mondo", la costruzione della paura: non riguardano solo la Lega. E neppure la destra. Perché gli stranieri possono "servire", politicamente e culturalmente, ma tanto in quanto le distanze fra noi e loro sono visibili e marcate. Tanto in quanto restano stranieri. Oggi, domani. Sempre. Lontani e diversi. In questo modo ci permettono di ritrovare noi stessi. Di ricostruire - artificialmente, per opposizione e paura - la nostra identità e la nostra comunità perduta. A condizione di fingere: che le nostre frontiere immaginarie, i nostri muri emotivi possano arrestare l’onda degli stranieri. A condizione di non vedere. Diventare ciechi e cinici. Perdere gli occhi e il cuore. Immigrazione: Maroni; in mille in uscita dai Cie… è un indulto di Fiorenza Sarzanini
Corriere della Sera, 26 aprile 2009
L’avviso è per gli alleati: "Sulla sicurezza non accetterò altri errori gravi. La norma sui Cie (Centri di identificazione e espulsione per i clandestini) e quella sulle ronde vanno approvate in tempi stretti. Senza questi strumenti il problema non sarà mio, ma dell’intero governo". Alla vigilia del dibattito parlamentare il ministro dell’Interno Roberto Maroni pone le condizioni per un nuovo accordo. E sul piatto mette la contropartita: rinuncia all’articolo sui "medici spia".
Non era una priorità della Lega? "Era uno strumento in più. Ma nella mia scala posso dire che questo vale uno, mentre il prolungamento dei tempi di permanenza nei Cie vale nove".
Però anche quello è stato bocciato e oggi centinaia di clandestini lasceranno i Centri. "Esattamente usciranno mille e 38 stranieri. E io denuncio quello che è un vero e proprio indulto. È giusto far sapere ai cittadini che io avevo proposto misure contro l’immigrazione clandestina e il Parlamento le ha bocciate con un emendamento firmato da Dario Franceschini, il capo del Partito Democratico. È stato un errore grave voluto dalla sinistra, la stessa che poi ci accusa di non fare abbastanza ".
E i voti del Pdl non li conta? "È vero. La sinistra ha goduto delle complicità di chi nella maggioranza sposa politiche buoniste che sono deleterie e masochiste. Sappiano tutti che non mi arrendo, la riproporrò per la terza volta nel disegno di legge perché è fondamentale. Se non abbiamo la possibilità di trattenere gli stranieri almeno sei mesi nei Cie siamo a mani nude. E invece non possiamo permetterci di arrivare all’estate senza il potere di espellere chi non ha i requisiti per restare in Italia".
Il numero degli sbarchi è ancora su livelli record. Continua a credere che l’accordo con la Libia funzionerà? "Mi aspetto una drastica riduzione e intanto mi occupo di quanto sta accadendo perché la maggior parte di chi arriva ha diritto all’asilo visto che proviene da Paesi in guerra. I trentamila giunti nel 2008 erano quasi tutti in questa condizione. Ecco il motivo che mi ha spinto ad appellarmi all’Europa".
E che cosa si aspetta? "Ho chiesto a Barrot una direttiva che distribuisca tra gli Stati membri chi ottiene l’asilo o il permesso per motivi umanitari. Per i clandestini devono essere creati centri di accoglienza europei gestiti da Frontex. Era nata come agenzia europea per il controllo delle frontiere e non ha funzionato: ora si occupi di chi è senza permesso e dei rimpatri".
Alcuni analisti sostengono che la Lega ha barattato le norme sulla sicurezza per il federalismo fiscale e il referendum. "Non esiste, sul referendum abbiamo fatto una battaglia di principio per evitare l’abbinamento e l’abbiamo vinta. Ma quale baratto! Le ronde erano e restano una priorità, perché si inseriscono nel progetto di presidio e controllo del territorio dove ci sono i sindaci con un ruolo più forte, le forze dell’ordine e i cittadini volontari".
E se ci sarà una nuova bocciatura? "Impossibile. E poi una cosa deve essere chiara: questa non è una concessione alla Lega. Del resto se il ministro dell’Interno non ha gli strumenti, il problema non è suo personale, ma di tutto il governo".
Il sindaco Moratti chiede il suo intervento per risolvere la questione dei profughi a Milano. "È una questione di cui si sta occupando il prefetto d’intesa con il Comune. Al momento questo è quanto si può fare".
Quando ha saputo che il G8 sarebbe stato trasferito a L’Aquila? "Durante il Consiglio dei ministri".
Il premier Berlusconi non l’aveva avvisata? "Io dico sempre la verità: non mi aveva detto nulla. A quel punto ho chiamato il capo della polizia Manganelli e lui mi ha assicurato che si poteva fare".
Non ha timori per la sicurezza delle delegazioni? "Abbiamo avviato le verifiche che sono ancora in corso, ma non credo ci siano pericoli particolari. Del resto sapevamo già che le proteste contro il vertice si concentreranno a Roma e su questo siamo preparati. Avevamo fatto tutto anche per la Sardegna, ora ricominceremo daccapo".
E vi bastano tre mesi? "Certo, i tempi sono molto stretti, però siamo perfettamente in grado di mettere a punto un dispositivo efficace a L’Aquila, come a La Maddalena. Le mie preoccupazioni sono altre".
A che cosa si riferisce? "Abbiamo evidenze sulla progressiva infiltrazione della criminalità organizzata per mettere le mani sui grandi eventi. In cima all’elenco c’è Expo 2015 a Milano, con la ‘ndrangheta che è già riuscita ad allacciare rapporti come dimostrano gli arresti che sono stati effettuati nelle ultime settimane. E adesso, naturalmente, dobbiamo vigilare sulla ricostruzione post terremoto".
Quindi condivide l’allarme del procuratore Antimafia Piero Grasso? "Lo giudico talmente serio che nel decreto approvato due giorni fa abbiamo inserito una norma per effettuare la tracciabilità dei finanziamenti. È la prima volta che accade. All’Aquila sarà istituita una sezione specializzata del Comitato sulle grandi opere per seguire ogni euro che esce dalle case dello Stato e ricostruire la filiera di appalti e subappalti. Al prefetto saranno concessi poteri speciali per l’accesso senza preavviso in tutti i cantieri ".
Da quattro mesi i poliziotti non prendono straordinari e indennità. "Ho sollecitato il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e posso annunciare che il decreto è stato firmato". Immigrazione: Mussolini; chi è nei Cie non sta scontando pena di Francesca Angeli
Il Giornale, 26 aprile 2009
Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, attacca chi nella maggioranza sposa le politiche buoniste della sinistra. Onorevole Mussolini, visto che tra l’altro ha promosso la raccolta di firme contro la norma sulla possibilità di denunciare i clandestini da parte dei medici, si sente chiamata in causa da buonista? "Ma quale buonista! Qui si tratta soltanto di avere un po’ di buon senso. C’è stato un voto libero e quelle norme non sono state approvate. Evidentemente c’e una volontà del Parlamento alla quale Maroni deve rassegnarsi".
Oggi più di mille clandestini usciranno dai centri di identificazione ed espulsione, Cie. Maroni denuncia gli stessi effetti di un indulto. "Invito il ministro ad usare certe parole con maggiore attenzione. I Cie non sono carceri, chiaro? Chi uscirà di lì oggi non stava scontando una pena e non aveva subito alcuna condanna. Per i delinquenti c’è un altro ordinamento e ci sono altre istituzioni. Nei Cie arrivano anche donne vittime di violenza e minori, non criminali condannati. Non c’è indulto perché non c’è sconto di pena".
Dunque per lei è giusto trattenere i clandestini al massimo 60 giorni? "Possiamo anche trattenerli più a lungo ma pensare ai Cie come carceri è un errore. Non possiamo trattare come delinquenti bambini e donne che fuggono dalla violenza e dalla guerra. Io sono contro la clandestinità e non mi sento buonista. I clandestini rappresentano un danno prima di tutto per la stessa comunità degli immigrati regolari ma i Cie non sono carceri".
Quale soluzione propone? "Dobbiamo andare a monte. Mi vanto di non aver firmato il patto con la Libia: ero sicura che Gheddafi non avrebbe fatto nulla per frenare l’ondata migratoria verso le nostre coste. Non devono arrivare ma una volta che sono sul nostro territorio dobbiamo garantire ai migranti tutti i diritti: non possiamo trattarli come delinquenti. Altrimenti si dà ragione a chi dice che Lampedusa diventerà la nuova Alcatraz".
Insomma la Lega sbaglia? "Non si tratta di essere buonisti. La strada scelta dalla Lega non è quella giusta per combattere davvero la clandestinità. Ho presentato molti emendamenti anche al ddl sicurezza che non sono certamente definibili come buonisti. Sono contraria al reato di clandestinità perché indurrà i clandestini a nascondersi fino a diventare invisibili. E che fine faranno i bambini se non saranno più identificabili?".
Si riferisce alle disposizioni per la registrazione all’anagrafe? "Non si può dire che non si possono iscrivere all’anagrafe quei bambini che non hanno adeguate condizioni igienico sanitarie. Non si iscriveranno i figli dei rom, ma pure molti di quelli che nascono nei quartieri spagnoli. Le sembra accettabile?"
La norma sulla denuncia dei clandestini da parte dei medici è naufragata. Persino Maroni si è arreso e ha detto che rinuncia a farla approvare. "Intanto è ancora presente nel ddl alla Camera. Sarò in commissione Giustizia martedì affinché la norma venga definitivamente cancellata". Stati Uniti: i costi politici di un'azione penale non obbligatoria di Stefano Rizzo
Aprile on-line, 26 aprile 2009
Negli Stati Uniti nessuno in questo momento sa come affrontare il groviglio giuridico delle torture autorizzate, consentite e commesse un po’ tutti - agenti della Cia, soldati, contractors e su fino al dipartimento della giustizia, alla Casa bianca, al Consiglio per la sicurezza nazionale. Ma poiché l’azione penale non è obbligatoria, tutti temono di pagare un prezzo politico troppo alto per le loro decisioni, temono che intorno ad una questione di giustizia si scateni una guerra politica che lacererebbe il paese e bloccherebbe per mesi, o anni, l’azione della nuova amministrazione. Diciamo la verità. Questo è il momento in cui agli Stati Uniti avrebbe fatto terribilmente comodo avere un sistema giudiziario in cui l’azione penale (come in Francia, come in Italia) è obbligatoria. Ma poiché in quel paese l’azione penale è affidata alla decisione discrezionale del ministro della giustizia (che è anche il procuratore generale), oltre che dei procuratori federali e statali, nessuno in questo momento sa come affrontare il groviglio giuridico delle torture autorizzate, consentite e commesse un po’ tutti - agenti della Cia, soldati, contractors e su fino al dipartimento della giustizia, alla Casa bianca, al Consiglio per la sicurezza nazionale. Ieri abbiamo appreso che anche il Congresso (seppure sotto forma di un gruppo ristretto della commissione sui servizi segreti) era stato informato e non aveva avuto nulla da obbiettare. Se l’azione penale fosse obbligatoria e non discrezionale, la magistratura dovrebbe fare il suo dovere, i processi avrebbero corso, un imputato minore chiamerebbe in causa uno maggiore e il maggiore quello più grande ancora. Sarebbe lungo, doloroso, pieno di acrimonia. Sarebbe uno spettacolo indecente che metterebbe a nudo la rete di ipocrisie, di sadismo, di pavidità burocratica che ha avviluppato l’amministrazione Bush a tutti i livelli. Ma sarebbe anche uno spettacolo confortante vedere come gli Stati Uniti, il paese "fondato sul governo della legge e non degli uomini", sono in grado di portare alla luce il proprio recentissimo passato, punire chi deve essere punito e evitare che gli abusi del passato non si ripetano alla prossima drammatica crisi. Sarebbe confortante per le migliaia di detenuti, colpevoli di qualcosa, o innocenti di qualunque cosa, che hanno subito indicibili torture e sono stati ridotti ad oggetti da cui "estrarre" in qualunque modo "utili informazioni". Sarebbe confortante per tutti coloro che in questi anni hanno denunciato, hanno scritto, hanno manifestato contro il pericolo che il loro paese scivolasse nei comportamenti barbarici di uno stato totalitario, di una dittatura latinoamericana. Ma poiché negli Stati Uniti l’azione penale non è obbligatoria, nessuno sa esattamente cosa fare a questo punto; tutti temono di pagare un prezzo politico troppo alto per le loro decisioni, temono che intorno ad una questione di giustizia si scateni una guerra politica che lacererebbe il paese e bloccherebbe per mesi, o anni, l’azione della nuova amministrazione. È stata saggezza politica, o opportunismo, a fare dire a Barack Obama, nel mentre che denunciava le torture e prometteva che non ci sarebbero più state sotto il suo governo, che "bisognava voltare pagina", andare oltre, guardare al futuro. Obama sapeva che non poteva limitarsi ad affermare che "l’America non tortura" (anche Bush l’aveva detto, mentendo) e ad annunciare la chiusura del carcere di Guantanamo. Il suo elettorato (e lui stesso sicuramente) pretendeva di più. Per questo, nel mentre che annunciava che gli agenti della Cia colpevoli non sarebbero stati processati, ha ordinato la pubblicazione dei "memo" segreti della Casa bianca e del dipartimento della giustizia che autorizzavano le torture sui detenuti. Ma così facendo Obama ha aperto un vaso di Pandora, ha tolto il coperchio a quella pentola putrescente di illegalità che molti speravano potesse rimane chiusa e sepolta in qualche archivio segreto fino a quando non fosse stato concesso agli storici di aprirla in un futuro indeterminato. Il paradosso è che fino a pochi mesi fa il tema delle torture non era al primo posto, e neppure al secondo o al terzo, dell’attenzione dei media e delle preoccupazione della Casa bianca. La campagna elettorale era stata condotta essenzialmente su due fronti: porre fine alla guerra irachena e risollevare l’economia. Con il peggiorare della crisi a fine 2008 quello dell’economia era diventato il tema principale: gli americani erano molto più preoccupati delle loro condizioni di vita e del loro futuro che non di quanto era stato fatto in loro nome sui campi di battaglia e nei centri di detenzione. Sapevano di Abu Ghraib e di Guantanamo, sapevano delle "renditions" e delle torture. Sapevano anche che tutto questo era stato autorizzato e voluto, che non era frutto del caso o di "qualche mela marcia del turno di notte" (come disse Donald Rumsfeld). Lo sapevano, ma poiché tutto sommato i torturati e i rapiti non erano cittadini americani e si contavano "solo" in qualche centinaio, o forse migliaio, non pensavano che la questione fosse terribilmente importante. Che diamine! questa non è l’Argentina, o il Cile, e i crimini non sono stati commessi per le strade o nella palestra vicino casa, ma in luoghi lontani, all’estero, al sicuro da occhi indiscreti. La grande maggioranza degli americani pensavano, o speravano, che per risolvere il problema sarebbe bastato un buon esame di coscienza, una condanna morale e la promessa di non farlo più. In sostanza, chi ha dato ha dato... Forse lo pensava (o lo sperava) anche Obama. I suoi convincimenti morali non sono in discussione e neppure la sua onestà intellettuale. Semplicemente anche lui pensava che per il momento aveva già troppe cose nel piatto - un vasto piano di risanamento dell’economia, un altrettanto vasto piano di riforme, un radicale riorientamento della politica estera - per lasciarsi coinvolgere in quello che ad alcuni - sicuramente all’opposizione repubblicana - sarebbe apparso come un regolamento di conti. Allo stesso tempo Obama sa bene che, buoni o cattivi, esecutori obbedienti o complici, ha bisogno dei servizi segreti e degli altri apparati di spionaggio e non può permettersi una rivolta interna che minaccerebbe la sicurezza del paese. Ma la diga si è rotta. Ogni giorno è stato un susseguirsi di rivelazioni e di ammissioni. Il Congresso ha pubblicato un suo rapporto e molti parlamentari chiedono una commissione di inchiesta. Escludendo l’incriminazione dei pesci piccoli, Obama non ha escluso quella dei pesci grossi. Probabilmente, che il ministro della giustizia lo voglia o meno, presto partiranno le denunce nei confronti dei vertici dell’amministrazione Bush da parte delle associazioni di difesa dei diritti umani. La base giuridica c’è: la convenzione internazionale contro la tortura del 1984, firmata anche dagli Stati Uniti. E i trattati internazionali, una volta recepiti, diventano legge. Ma c’è uno spettro ancora peggiore delle incriminazioni in patria: se la magistratura americana non agirà contro i torturatori, qualunque paese straniero sarà autorizzato a farlo. Per Bush, Cheney, Rumsfeld, Condoleezza Rice si aprirebbe allora la possibilità di essere arrestati non appena mettessero piede fuori dal loro paese, come un qualunque Augusto Pinochet, come un qualunque Omar Bashir.
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