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Giustizia: il valore della "sicurezza" scaccia quello della libertà di Zygmunt Bauman
La Repubblica, 16 settembre 2008
In un mondo globalizzato allo slogan rivoluzionario "Liberté, Egalité, Fraternité" si è sostituito il motto "Sicurezza, Parità, Rete". Quando venne proclamato per la prima volta, in Francia, nel pieno dell’eccitazione rivoluzionaria, lo slogan "Liberté, Egalité, Fraternité" era, allo stesso tempo, l’espressione sintetica di una filosofia di vita, una dichiarazione di intenti e un grido di battaglia. La felicità è un diritto umano e il suo perseguimento è un’inclinazione umana naturale e universale - così suonava l’assunto, implicito e evidente, di questa filosofia di vita. Per conseguire la felicità, gli uomini avevano bisogno di essere liberi, uguali e affratellati (tra fratelli, la simpatia, il soccorso e l’aiuto sono diritti di nascita, non un privilegio che deve essere guadagnato ed esibito prima di vederselo riconosciuto). Come sostenne in maniera memorabile John Locke, anche se come le persone erano state abituate a credere da secoli di appelli improntati al memento mori, gli uomini possono scegliere e percorrere "solo un cammino" verso la felicità eterna (il cammino della pietà e della virtù, che conduce all’eternità del Paradiso), resta valido quanto segue: una sola tra queste è la vera via della salvezza. Ma tra le mille che gli uomini imboccano, qual è quella giusta? Né la cura dello stato, né il diritto di far leggi hanno svelato con maggior certezza al magistrato la via che conduce al cielo di quanto non l’abbia svelato a un privato cittadino la propria ricerca. Queste assunzioni, riguardanti il legame intrinseco e indissolubile tra la qualità del "commonwealth" e le chance di felicità individuale, hanno perso, o stanno rapidamente perdendo, la loro validità assiomatica, e tale declino avviene tanto nel modo di pensare della gente così come nella loro versione intellettualmente sublimata. Ed è forse per questa ragione che le condizioni implicite della felicità individuale stanno scivolando dalla sfera sovra-individuale della Politica verso il dominio della bio-politica individuale, postulata come terreno di iniziative eminentemente personali, in cui vengono impiegate per lo più, se non esclusivamente, risorse possedute e gestite a livello individuale. Lo spostamento riflette il mutamento delle condizioni di vita, risultante dai processi liquido-moderni di deregulation e privatizzazione, cioè "sussidiarietà", "outsourcing", "sub-contratti" e così via, con cui si rinuncia progressivamente ad elementi che prima facevano parte delle funzioni svolte dal commonwealth. La formula che si sta oggi profilando, in ordine al perseguimento dell’obiettivo (immutato) della felicità, è espressa al meglio dal motto: "Securité, Parité, Reseau" (Sicurezza, Parità, Rete). Il valore della "sicurezza" sta scacciando quello della libertà. Questo "scambio", caratteristico della nostra civiltà, si manifestò per la prima volta allorché Sigmund Freud, in Il disagio della civiltà, pubblicato nel 1929, mise in luce la tensione e gli scivolamenti che caratterizzano il rapporto tra questi due valori, ugualmente indispensabili e altamente considerati, eppure difficili da riconciliare. In meno di un secolo, il continuo progresso della libertà individuale di espressione e di scelta ha raggiunto un punto in cui il prezzo di tale progresso, cioè la perdita di sicurezza, ha cominciato ad essere giudicato esorbitante - insostenibile e inaccettabile - da un numero crescente di individui emancipati, o costretti ad andare per la propria strada di punto in bianco. I rischi implicati dall’individualizzazione e dalla privatizzazione del perseguimento della felicità, uniti al graduale ma progressivo smantellamento delle reti di sicurezza (pensate, costruite e offerte a livello sociale) e dell’assicurazione contro i rovesci della sorte (stipulata sempre a livello sociale), si sono dimostrati enormi. L’incertezza generatrice di paure che ne é seguita ha avuto come effetto uno scoraggiamento diffuso. L’idea di una vita riempita in misura leggermente maggiore da certezza e sicurezza, anche se in parte a scapito della libertà personale, ha guadagnato all’improvviso seguito e potere seduttivo (...). Nell’odierna costellazione delle condizioni (e delle aspettative) di una vita decente e piacevole, la stella della parità brilla sempre più luminosa, mentre quella dell’uguaglianza va oscurandosi. "Parità" non è assolutamente sinonimo di "uguaglianza", o meglio, è un’uguaglianza, abbassata a uguale diritto al riconoscimento - a "diritto di essere" e "diritto di essere lasciati in pace". L’idea di livellare il reddito, il benessere, il comfort le prospettive di vita, e ancor più l’idea di un’equa ripartizione nello svolgersi della vita in comune e nei benefici che la vita in comune ha da offrire, stanno sparendo dall’agenda dei postulati e degli obiettivi realistici della politica. Tutte le varietà della società liquido-moderna sono sempre più compatibili con il permanere di un’ineguaglianza economica e sociale. L’idea di condizioni di vita uniformi e universalmente condivise viene via via sostituita da quella di una diversificazione in linea di principio illimitata - fino a coincidere con il diritto di essere e rimanere differenti senza che per questo siano negati dignità e rispetto. Mentre le disparità verticali nell’accesso a valori approvati e ricercati da tutti tendono ad aumentare ad una velocità crescente, incontrando scarsa resistenza e causando al massimo azioni rimediali di poco conto, sporadiche e di portata molto ristretta, le differenze orizzontali, di converso, si moltiplicano, accompagnate da peana, celebrate e sistematicamente promosse dai poteri politici e commerciali così come da quelli ideologici (ideational). Le guerre per il riconoscimento prendono il posto occupato un tempo dalle rivoluzioni; il campo di battaglia non è più la forma del mondo che verrà, ma il posto, tollerabile e tollerato, in questo mondo; in questione non sono più le regole del gioco, ma solamente l’ammissione al tavolo. Questo è ciò che si intende, alla fin fine, con "parità", l’ultima incarnazione dell’idea di equità: riconoscimento del diritto di partecipare al gioco, rigettando un verdetto di esclusione o allontanando la possibilità che un verdetto del genere possa mai essere formulato. Infine, la rete. Se "fratellanza" implicava una struttura acquisita, che predeterminava e predefiniva le regole che fissano condotta, atteggiamenti e principi di interazione, la "rete" non ha dietro si sé alcuna storia: la rete è tessuta nel corso dell’azione, e tenuta viva (o meglio, continuamente, ripetutamente ri-creata/resuscitata) soltanto grazie a una successione di atti comunicativi. A differenza del "gruppo" e di qualsiasi altro tipo di "totalità sociale", la rete è ascritta su base individuale ed è individualmente orientata - sua parte originaria, permanente e insostituibile è l’individuo, il nodo volta per volta considerato. Si assume che ogni singolo si porti dietro, assieme al proprio corpo, il suo o la sua propria specifica rete, un po’ come una chiocciola porta la sua casa. Una persona A e una persona B possono appartenere entrambe alla rete di C, ma A può non appartenere a quella di B e viceversa - una circostanza che non poteva verificarsi nel caso di totalità come nazioni, chiese o quartieri. La caratteristica più rilevante delle reti, peraltro, è la non comune flessibilità della loro portata e la straordinaria facilità con cui ne può essere modificata la composizione: le unità individuali vengono aggiunte o tolte con uno sforzo non maggiore a quello con cui si mette o si cancella un numero dalla rubrica del cellulare. I legami eminentemente scioglibili che uniscono le diverse unità delle reti sono tanto fluidi quanto lo è l’identità del nodo della rete, il suo solo creatore, proprietario e gestore. Grazie alle reti, l’"appartenenza" passa da antecedente a conseguenza dell’identità, diventa l’estensione di un’identità eminentemente mutevole, qualcosa che segue immediatamente, e opponendo una resistenza minima, alle successive rinegoziazioni e ridefinizioni identitarie. Con ciò, le relazioni poste in essere e sostenute dai collegamenti in forma di rete si avvicinano all’ideale della "relazione pura": legami unifattoriali facilmente gestibili, senza durata determinata, senza clausole e sgravati da vincoli a lungo termine. In netta opposizione ai "gruppi di appartenenza", ascritti o scelti, le reti offrono al loro proprietario/gestore il sentimento rassicurante (anche se alla fin fine controfattuale) di controllo totale e indiscusso sulle proprie lealtà e sui propri obblighi. Giustizia: Censis; la paura va gestita o il futuro andrà in pezzi
Redattore Sociale - Dire, 16 settembre 2008
"Soprattutto durante quest’ultima campagna elettorale i politici hanno strumentalizzato le paure degli italiani a causa della crescita dell’immigrazione, della crisi economica e della complessità della società. La stessa strategia è stata usata anche nelle ultime elezioni a Londra: Boris Johnson infatti ha promesso più uomini per la sicurezza in città". Lo ricorda in un breve commento sul quotidiano freepress City il presidente del Censis, Giuseppe De Rita. Ieri l’istituto ha diffuso una ricerca che indica i romani come i più "impauriti" nel confronto fra gli abitanti delle grandi metropoli mondiali. "Ma se metti cinque militari all’angolo di una strada - prosegue De Rita - questo non fa che accrescere la paura dei cittadini perché si alimenta l’idea che la società sia sempre più insicura. Così la gente si chiederà, guardando i militari: Ora cosa succederà?. Non solo - insiste il presidente del Censis - anche il clima di forte incertezza dovuto al terrorismo internazionale e alla crisi economica si riflette in un aumento delle paure planetarie. La paura è un potenziale emozionale positivo - conclude De Rita - ma se non si impara a gestirne la complessità perderemo pezzi del futuro". Giustizia: Censis; abitanti di Roma, i più impauriti del mondo
Redattore Sociale - Dire, 16 settembre 2008
Incerti, paurosi, sfiduciati: appaiono così i cittadini romani, in una fotografia scattata dal Censis e contenuta in una ricerca che sarà presentata al World social summit della Fondazione Roma dedicato alle paure planetarie, in programma dal 24 al 26 settembre. L’indagine è stata condotta in 10 metropoli del mondo (New York, Bombay, Londra, Parigi, Roma, Il Cairo, San Paolo, Mosca, Pechino e Tokyo) e su un campione rappresentativo di 5.000 cittadini che rispecchiano 130 milioni di abitanti: alla domanda "Quale sentimento meglio descrive il suo rapporto con la vita?", il 46 per cento dei romani risponde "incertezza", mentre il 12,2 per cento sceglie la "paura". La somma di questi due stati d’animo (58,2%) è di gran lunga superiore alla media generale delle 10 città in questione, pari al 36%."L’episodio accaduto a Milano, dove un giovane è stato ammazzato a bastonate, sconcerta e preoccupa". Lo dichiara Silvana Mura, deputata di Idv, che in una nota osserva: "In particolare è un episodio atroce dove è impossibile non vedere la spia di un razzismo che si diffonde in maniera sempre più ampia nella nostra società". Spiega l’esponente dipietrista: "Ritengo molto improbabile, infatti, che la reazione degli aggressori sarebbe stata così spietata e violenta se il presunto furto di dolciumi fosse stato commesso da un giovane di razza bianca". Conclude Mura: "Un segnale troppo grave ed evidente che deve immediatamente indurre ad adottare contromisure adeguate". Anche l’analisi delle altre risposte rafforza questo quadro negativo: solo il 4,6% dei romani ha un atteggiamento entusiasta nei confronti della vita (la media generale è del 12,1%) e si limita al 9,6 % la quota di coloro i quali si mostrano fiduciosi (contro il 17,2% delle altre metropoli). La ricerca, inoltre, registra che il sentimento di incertezza dilaga tra i giovani e si riduce man mano col passare degli anni. Nella fascia di età compresa tra i 18 e 29 anni, risponde "incertezza" il 51,2% dei romani, quota che crolla al 35,4% nella fascia che va dai 65 ai 74 anni. Certo, in questo segmento la paura (il 17,7% ) è relativamente più diffusa ma -sommando le risposte "incertezza" e "paura"- i giovani staccano le generazioni più anziane (58,5 contro 53,1%). L’immagine di maggiore inquietudine dei giovani nei confronti delle fasce più mature è rafforzata da un altro elemento: i fiduciosi e gli ottimisti -nella fascia 18-29 anni- si fermano a quota 31,8% mentre in quella 65-74 anni arrivano al 36,7%. La ricerca ha evidenziato, infine, una netta predominanza del sentimento di paura delle donne rispetto agli uomini (16,2 contro 7,7%) e allo stesso modo degli abitanti delle circoscrizioni periferiche (14,2%) rispetto ai residenti del centro (5%).
Alemanno: Roma impaurita? è l’eredità di Veltroni
"Questa è la Roma che abbiamo ereditato dopo 14 anni di centrosinistra, è la Roma di Veltroni, la Roma che purtroppo ha dei gravi problemi rispetto alla sicurezza". È il commento del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, all’indagine del Censis realizzata lo scorso luglio, secondo la quale i cittadini della Capitale sarebbero i più impauriti del mondo. "Noi l’abbiamo sempre detto - spiega Alemanno a margine del suo intervento al Palazzo dei Congressi dell’Eur alla settima Conferenza nazionale della Uil - prima in campagna elettorale e anche adesso: ci hanno risposto che volevamo uno stato di polizia, che volevamo enfatizzare la paura dei cittadini e invece l’inquietudine c’è. A questo si aggiunge anche un’inquietudine di carattere sociale che ovviamente è legata al ciclo economico complessivo dell’Italia e dell’Europa. Ma il dato di fondo che noi abbiamo sempre sottolineato è che Roma ha bisogno di nuove certezze e nuove regole e su questo stiamo lavorando molto intensamente". Alemanno sottolinea quindi che "purtroppo raccogliamo i frutti amari di tanti anni in cui il problema della sicurezza è stato totalmente ignorato".
Touadì: Alemanno è senza idee e accusa Veltroni
"È ora che il sindaco la smetta di continuare a guardare indietro e ad attribuire colpe a noi per la sua mancanza di idee. È finita la campagna elettorale, sta governando da tanti mesi ma ancora non vediamo i progetti che ha impostato". L’ex assessore capitolino alla Sicurezza e deputato del Pd, Jean Leonard Touadì, rimanda al mittente le accuse arrivate dal sindaco della Capitale Gianni Alemanno che, commentando la ricerca del Censis per la quale i romani sono i cittadini più impauriti al mondo, oggi ha detto: "Questa è la Roma che abbiamo ereditato dopo 14 anni di centrosinistra, è la Roma di Veltroni, la Roma che purtroppo ha dei gravi problemi rispetto alla sicurezza". "Se davvero le paure dei romani dipendono dal sindaco - incalza Touadì - allora si deve fare lo stesso ragionamento per Milano, dove il responsabile della Sicurezza é di An: mi sembra che la città stia dimostrando comunque di essere attraversata dalla violenza". Quindi, aggiunge il deputato del Pd, "da Alemanno ci aspettiamo idee, operatività e progetti. L’ufficio della sicurezza, da lui annunciato, ancora non funziona e i romani non sanno chi chiamare". Infine, la conclusione: "Ieri sono passato sulla Salaria. La prostituzione ancora c’è lì, nonostante i tanti proclami del sindaco". Giustizia: terrorismo, violenza politica e l’omicidio Calabresi di Adriano Sofri
Corriere della Sera, 16 settembre 2008
Caro Direttore, non lamenterò di non essere capito: pensiamo tutti di non essere capiti. Citerò invece un piccolo fatto. L’indulto, di cui fui ostinato e appassionato fautore, si realizzò all’improvviso in una maniera sorprendente, includendo l’omicidio ed escludendo reati assai meno gravi, in nome della "percezione " della gente, la quale a sua volta sembrò largamente confermare quella singolare classifica dell’allarme scandalizzandosi molto più di spacci e scippi che di omicidi. Senza averlo chiesto né desiderato, ricevetti anch’io ex officio i tre anni di riduzione della pena previsti dall’indulto. Dal quale erano escluse le condanne per fatti di terrorismo. Dunque la distinzione è tutt’altro che astratta o pretestuosa, e può produrre effetti incisivi. Io, che non sono mai stato terrorista e sono stato sempre avverso al terrorismo, anche quando ritenevo la violenza necessaria a cambiare il mondo, se oggi volessi difendermi in giudizio da chi mi insulta chiamandomi "ex-terrorista", potrei fare appello all’imputazione che mi venne mossa, e che rinunciò del tutto all’addebito dell’associazione sovversiva o della finalità terroristica, trattando l’omicidio di Luigi Calabresi come un affare di diritto comune. Però nel libro del Quirinale dedicato alla memoria delle vittime italiane del terrorismo negli anni repubblicani, Luigi Calabresi compare, e anzi la sua figura ha avuto un ruolo primario nella volontà di commemorazione. Da mesi leggo - per la prima volta, del resto - innumerevoli carte relative alla morte di Pinelli e ai processi Lotta Continua - Calabresi: inducono a credere che Calabresi non fosse nella sua stanza al momento della caduta di Pinelli. Punto decisivo, che tuttavia non chiude affatto la questione. Negli elenchi delle vittime del terrorismo non figura Pino Pinelli, magari perché lo si è considerato, secondo la sentenza D’Ambrosio, vittima tutt’al più di un malore attivo. Non c’è un problema? Le figlie di Pino Pinelli hanno palesemente scelto una discrezione senza riserve. Si può comunque chiedersi se siano mai state invitate a Palazzo Marino, o al Quirinale, o al Palazzo di Vetro. "Terrorista" può essere un generico epiteto, da usare per insultare qualcuno quando si perde la pazienza. Me, per esempio. In senso proprio, vuol dire quella violenza indiscriminata tesa a suscitare il terrore nelle file del preteso nemico e a conquistare col terrore l’adesione della propria pretesa parte. L’omicidio di Calabresi, così come lo disegnano imputazioni e condanne, sarebbe dunque questo, una specie di caricatura del socialismo in un Paese solo nel terrorismo di un assassinio solo? Evocare una distinzione non ha niente della giustificazione, e tanto meno, nel mio caso, del malanimo verso la famiglia del commissario. Semplicemente, esiste una violenza che non è violenza politica, e una violenza politica che non è terrorismo. Non è una scala di valori, è una differenza obiettiva. C’è la strage di Erba, e quella alla stazione di Bologna. È un sofisma? Al contrario: io, che ripeto di portarmi addosso una condanna ingiusta, voglio comunque obiettare quando l’omicidio di Calabresi viene commemorato alle Nazioni Unite come esemplare del terrorismo internazionale, accanto alla strage dei bambini di Beslan. Sofisma mi sembra quello di chi, come se la sottrazione dell’epiteto di terrorista volesse dire per sé un’indulgenza o addirittura un’assoluzione, dice che io non sono terrorista ma l’omicidio di Calabresi - nella versione che ne hanno dato i tribunali - è terrorista. Fa scandalo che io dissenta dal fortunato e amaro slogan "non si può essere ex-assassini": certo che si può. Il calendario cristiano ne è un documento sovrabbondante. Ho detto anche che persone che oltrepassano la soglia fra le parole e i fatti non sono necessariamente malvagie, e possono anzi essere "migliori" di altre. Mi lasci evocare, senza stabilire, prego, alcun raffronto, un esempio distante - benché ancora lacerante, come ogni vicenda italiana. Il 15 aprile del 1944 Giovanni Gentile fu ucciso a Firenze da un "gruppo di azione partigiana" guidato da Bruno Fanciullacci. Fanciullacci fu catturato pochi giorni dopo, venne gravemente ferito, liberato e ricatturato, finché, per sottrarsi alle torture della famigerata banda Carità e non tradire i suoi compagni, si gettò, con le mani legate dietro la schiena, da una finestra del terzo piano. Morì pochi giorni dopo, non aveva ancora venticinque anni. Alla sua memoria venne data la medaglia d’oro della Resistenza. Qualche tempo fa mi colpì una disputa politica fiorentina, poi diventata giudiziaria. Un esponente della destra chiamò "vigliacco assassino" Fanciullacci. (Se non sbaglio, quello stesso esponente dichiarò poi di avere fino ad allora ignorato la fine di Fanciullacci. Il tribunale lo assolse). L’uccisione di Gentile è l’atto più controverso della infinita guerra civile italiana. Io rimpiango che sia avvenuta, e penso con grande rispetto al destino di Bruno Fanciullacci. Giustizia: tutti contro Sofri; la "scomoda solidarietà" di Segio di Sergio Segio
Lettera alla Redazione, 16 settembre 2008
Tutti contro Sofri. O quasi. Basterebbe questo per esprimere vicinanza all’ex leader di Lotta Continua. Se non altro per sottrarsi alla consueta ressa di chi corre in soccorso del vincitore. La mia - presumo scomoda - solidarietà oltre che da antica amicizia e stima è motivata anche da una ragione personale. Infatti anch’io, sapete, non sono mai stato un terrorista. Omicida politico e militante della lotta armata sì, ma non terrorista. La definizione che di questa "categoria" fornisce Sofri non mi convince, poiché credo che il carattere di indiscriminatezza che appunto caratterizza il terrorismo comporti il fatto che esso non si rivolga verso "parti nemiche" e non ricerchi consensi: l’incertezza dell’attribuzione, o talvolta, il sapiente mascheramento fanno parte della strategia del terrore, che si indirizza indistintamente verso chiunque. Come appunto anche la strage di piazza Fontana ha dimostrato. Semmai sono le guerriglie o le lotte armate che si rivolgono contro le parti considerate nemiche e operano cercando di allargare il consenso in quelle reputate amiche. Normalmente, le lotte armate rivendicano le proprie azioni, mentre il terrorismo mistifica e nasconde le paternità degli attacchi; i quali sono quasi sempre stragi non singoli e mirati obiettivi. Mi ritrovo semmai in una considerazione espressa da Francesco Cossiga riguardo gli "anni di piombo": "Piano con i "terroristi". Rileggendoli ora, quei dati, e considerando che sono state sei o settemila le persone finite in carcere per periodi più o meno lunghi, va ricordato che aveva ragione Moro: ci trovavamo davanti a un grosso scoppio di eversione. Non di terrorismo. Il terrorismo ha una matrice anarchica che punta sul valore dimostrativo di un attentato o di una strage. L’eversione di sinistra non ha mai fatto stragi. Ci trovavamo davanti a una sovversione. A un fenomeno politico. A un capitolo della storia politica del Paese" (articolo a firma Gian Antonio Stella, in "Sette", magazine del "Corriere della Sera", 7 febbraio 2002). Ma evidentemente non si tratta di questione terminologica o scolastica. Davanti e sopra le definizioni stanno i morti, le famiglie, le sofferenze e i lutti. La puntigliosità nominalistica - però fondata nella qualificazione giuridica del reato contestato e nella sentenza che lo ha condannato - su cui Sofri insiste ancora oggi sul "Corriere della Sera" non deve impedire di cogliere un punto centrale da lui sollevato: riconoscere anche Pinelli (aggiungerei: i tanti Pinelli, gli Zibecchi, i Roberto Franceschi, i Franco Serantini…) come vittima. Scrive Sofri: "Penso a Pinelli come a una vittima del terrorismo di stato, l’ultima vittima della strage di Piazza Fontana". Io direi invece che come Pinelli è stata la diciassettesima vittima della strage, Calabresi ne è stata la diciottesima. E poi ne sono venute altre, inanellate in una tragica sequenza di morti solo in apparenza scollegate e distinte: Giangiacomo Feltrinelli, Sergio Ramelli, Enrico Pedenovi, Giuseppe Ciotta, Emilio Alessandrini. E tanti, troppi, ancora. Del libro degli anni Settanta in tutta evidenza non è ancora stata voltata l’ultima pagina. Anche perché i diversi capitoli mostrano parecchi buchi. Vi sono pagine strappate che vanno ricomposte, pagine nascoste che vanno scoperte e inserite per poter leggere il libro per intero, e poterlo alfine archiviare, assieme a quel Novecento di cui è stato parte. Quella storia va letta sino all’ultima riga. Ma partendo dall’inizio. Ad esempio, quando il direttore di Repubblica, intervenendo a una trasmissione televisiva per presentare il libro di Mario Calabresi, dice testualmente: "La questione del terrorismo in Italia è chiarissima: è qualcosa che è impazzito nella metà del campo della sinistra, nella metà del campo del comunismo, ibridato con alcune istanze radicali", dice una verità parziale e anzi fuorviante. La storia, infatti, ha un carattere processuale dal quale non si può seriamente prescindere. Non si può fare a meno, dunque, di ricordare - e di informare chi non c’era - come è cominciata l’intera vicenda della degenerazione armata e della strategia della tensione. Invece, negli ultimi anni, è stato espunto dal dibattito pubblico ogni riferimento su cosa è venuto prima di quell’impazzimento di cui ha parlato Ezio Mauro. Vale a dire le stragi, le compromissioni con esse di pezzi dello stato, le degenerazioni istituzionali, i tentativi di golpe. Uno dei fondamentali punti di snodo, se non il punto di inizio, è la strage di piazza Fontana. E la morte di Pino Pinelli. In un quadro che viene costantemente rimosso, ma che è decisivo per capire: vale a dire il contesto internazionale della Guerra fredda. Sofri vuole allontanare da sé, e da Lotta Continua intera, l’accusa di terrorismo, perché tra questo e la violenza "un confine c’era". Penso sia una innegabile verità. Anzi, penso che si via stato un confine tra violenza organizzata (quella teorizzata e praticata anche da Lotta Continua) e lotta armata. Tanto è vero che chi in Lotta Continua a un certo punto decise che bisognava passare alla lotta armata, dovette uscire da quell’organizzazione. Io, tra i tanti altri. Decisione sciagurata e sicuramente evitabile. Ma forse più facilmente evitabile se l’uso della violenza politica non fosse stato così a lungo (e ben prima ancora della nascita di LC e della sinistra extraparlamentare) contemplato ed enfatizzato, moralmente e culturalmente accettato, promosso e organizzato. Qui mi pare abbia ragione Erri De Luca quando, all’intervistatore che gli domanda se anch’egli avrebbe potuto scegliere la lotta armata, risponde: "Avrei potuto, sì, ma guarda che noi non facevamo una lotta disarmata. La lotta armata, rispetto a quello che facevamo noi, era diversa solo perché gli altri facevano di quella attività l’unica forma di espressione politica. Per noi quello era semplicemente un accessorio maledetto della grande lotta politica pubblica". Aggiungendo poi a proposito delle armi possedute da LC: ""Che io sappia quelli che le detenevano le hanno passate ai gruppi combattenti. Se chiudi un giornale passi la tipografia a quelli che vogliono farne un altro. Le armi le passi a quelli che vogliono sparare" (Intervista a Erri De Luca di Claudio Sabelli Fioretti, Magazine del "Corriere della Sera", 9 settembre 2004). È questa la differenza. Per gli uni le armi (e gli omicidi politici) erano strumento programmatico, e via via esclusivo, da rivendicare. Per gli altri strumento occasionale, da sottacere. Una piccola-enorme differenza. Richiamarla, com’è giusto, presupporrebbe riconoscere - e Adriano ora onestamente lo fa - che anche i "terroristi", vale a dire i lottarmatisti, non erano mostri caduti dalla luna, ma erano parte, se non proprio prodotto, della storia della sinistra, e anche di Lotta Continua. Non erano belve sanguinarie ma persone allucinate dall’ideologia e progressivamente disumanizzate dai mezzi usati se non dagli obiettivi prefissati. A lungo, pressoché tutta la sinistra ha preferito invece negare ogni parentela, rivendicando un solco ampio, un insuperabile fossato tra sé e chi prese le armi. Quel solco vi è stato, ma era assai sottile. In alcuni anni e momenti, sottilissimo, come il ghiaccio sui laghi in primavera. E questo vale per gli anni Cinquanta e Sessanta, non solo per i Settanta. L’omicidio di Luigi Calabresi, al di là di come volemmo interpretarlo noi (intendo noi che demmo vita a Prima Linea), vale a dire l’atto fondativo, l’innesco di un percorso teso verso la lotta armata e la guerra civile, ebbe invece intenzioni puramente e squisitamente "giustizialiste", di giustizia alternativa tesa a supplire quella inadempiente, complice e compromessa dello stato. Una "giustizia terribile": quella della pena di morte, che oggi reputo di per ciò stesso il contrario, la negazione della giustizia. Sempre e comunque, verso chiunque si rivolga, colpevole o innocente che sia: una consapevolezza che costituisce un vaccino morale e culturale di cui tutti, ma proprio tutti, allora eravamo privi. E mi pare sia questo, questo ristabilimento di differenze, ciò su cui oggi insiste Sofri. A ragione. Ha ragione. Pure e però penso che l’omicidio del commissario Calabresi abbia costituito un punto di non ritorno, che continua a essere sottovalutato. Non solo perché alla uccisione di un uomo non c’è rimedio, e questo sì crea un solco tremendo. Ma perché ha rappresentato il primo salto dalle parole di morte alle azioni di morte, dalla morte come incidente, per quanto prevedibile, alla morte come paziente costruzione. Come intenzionalità. Lì si è mandato in frantumi un tabù non più ricomposto e forse non più ricomponibile. Su questo, su una riflessione vera e approfondita sui nessi tra violenza, opzione rivoluzionaria, lotta armata, terrorismo e potere bisognerebbe forse soffermarsi. Dopo il 1989, la sinistra (tutta, non solo quella estrema) ha archiviato il Novecento, limitandosi a chiudere in un cassetto teorizzazioni e pratiche che pure le sono appartenute. Ma ciò che viene rimosso anziché essere elaborato è destinato a ripresentarsi, ad alimentare non detti, omertà, falsificazioni. È un triste segno dei tempi che a ricordare la vicenda di un anarchico trattenuto illegalmente in questura e morto precipitando da una finestra e a denunciare un doppiopesismo nella memoria e nel cordoglio pubblico sia lasciata sola la persona che si trova nella posizione più scomoda per farlo, Adriano Sofri. Certo, le memorie sono lacerate, le ferite sono ancora aperte, il sangue irrisarcibile, i torti e le ragioni acclarati dalla Storia. Eppure, lo sforzo per riconoscere anche il dolore degli altri è la porta stretta attraverso cui una società deve passare per superare lacerazioni e ferite. Se non sa farlo, se non vuole farlo - e anche il dibattito di questi giorni ne è segnale eloquente - quel passato è destinato a riviverlo continuamente, senza averne assimilato alcun insegnamento. La pietas per le vittime, per tutte le vittime, si fonda sul ricordo e sul rispetto non sull’incapacità di elaborazione. Ogni popolo guardi al dolore dell’altro e non solo al proprio e sarà pace, ha detto il cardinal Martini a proposito del Medio Oriente. Fatti i necessari ed evidenti distinguo, credo che questo valga anche per le lacerazioni degli anni Settanta: solo questa considerazione e questo sentimento possono fondare la riconciliazione e un reale superamento. Giustizia: da 120 anni l’Italia dichiara "guerra al marciapiede" di Natalia Aspesi
La Repubblica, 16 settembre 2008
Anche in passato non c’è stata maggioranza politica che non si sia occupata del problema. Dal 1888 piovono regi decreti, leggi e proposte di legge. In passato si pensava che le "lucciole" aiutassero l’ordine sociale anziché metterlo in pericolo. Ora sarebbe il caso di pensare a soluzioni innovative. Esiste un’emergenza nel paese? Il governo parla di allarme sociale e si mobilita per inasprire le pene. Fenomenologia del mestiere più antico del mondo e delle sue conseguenze. Viene in mente un film del 1953, Villa Borghese, con la passeggiatrice bella, Eloisa Cianni, e la collega bruttina, Franca Valeri, che all’arrivo delle camionette della polizia con sirene strepitanti scappano per sfuggire alla retata, si rifugiano in un locale notturno e la bella viene eletta Miss Cinema. Il cinema d’epoca amava le prostitute, da strada e da casino, e non c’era diva che non fosse ben contenta di commuovere e sempre finir male in quel ruolo massimamente femminile, in quella figura eterna di donna peccatrice eppure salvifica. Eroina buona e infelice, spesso mamma, necessaria anche se opposta alla madonna che gli uomini pretendevano di tenere in casa: Silvana Pampanini, Alida Valli, Sophia Loren, Giulietta Masina, Anna Magnani, Eleonora Rossi Drago e tante altre, e come registi, Pasolini, Matarazzo, Franciolini, Fellini, Visconti, Pietrangeli, Comencini. In questi tempi di puttanesimo dilagante, tra intercettazioni, telefonini, pubblicità, servizi di moda, televisione (ci sono le solite belle sederone in tanga che ballando fanno, verso il telespettatore, segnali linguacciuti), spunta per l’ennesima volta il problema massimo; sistemare con accorgimenti vari, sempre quelli (non essendo ancora arrivati a proporre, drasticamente e una volta per tutte, una risolutiva, ma non è detto, castrazione generalizzata), la prostituzione classica, antica, inamovibile, ingestibile, ineliminabile, quella sulla strada e non. L’ultima sortita della soave ministra Carfagna riguarda questa volta solo la professione all’aperto con tutti gli spifferi del caso, che diventa reato, criminalizzando non solo la venditrice ma anche il compratore, il cliente, sporcaccione! E una volta beccati sul fatto (non solo sul fattaccio vero e proprio, ma anche, secondo la bozza Carfagna, per semplice innocente sosta di guardone o di eventuale salvatore di anime), ci sarà in casi speciali un po’ di clemenza, e i due rei, condannati per lo stesso reato alla stessa pena, verranno anche messi nella stessa cella, tanto per non sprecare almeno il costo della multa? Da 5 a 15 giorni di prigione, dai 200 ai 3000 euro di ammenda! Sembra di sentire un sordo rumore di moltitudini di mogli e fidanzate o aspiranti tali in piazza con cartelli, non tanto per la cella, che uno se la merita, ma per la multa, fior di soldi sottratti alla famiglia magari già in affanno: la quale famiglia, cosa c’entra con quelle brutte cose là, tipicamente maschili, o semplicemente con un po’ di distrazione maritale, spesso in casa centellinata in quanto fastidiosa? Ci sono purtroppo tante cose serie e drammatiche e tragiche di cui occuparsi ma alle ministre belle è stato dato il compito del fumo negli occhi, grembiulini e puttane, tutte cose che fanno gola all’informazione e distraggono dalle cose irrisolvibili che così paiono risolte. Del resto anche in passato non c’è stato governo o rimpasto che, al primo ostacolo serio, non sia subito scivolato sul grande tema passpartout: perché le prostitute ci sono sempre, anzi ce ne è sempre di più, e i clienti pure, e ce ne sono sempre di più, e le strade anche, sono sempre lì pullulanti di via vai, più tutti gli altri veicoli puttaneschi a disposizione, tradizionali o tecnologici. E sono sempre lì, gli sfruttatori singoli e le organizzazioni criminali, e le straniere, e le minorenni, e i preti di strada, e le associazioni di categoria, e i trans e i viados e i gay, e il femminismo pro e il femminismo contro. Piovono proposte di legge e non volendo precipitare troppo indietro basta rintracciarne in Italia sin dai regi decreti del 1888, piovono leggi, e la più celebre è quella santa e vituperata del 1958. E ogni volta le meningi ministeriali scovano soluzioni tolleranza zero e azzera degrado: la strada, la casa, chiusa, aperta, con persiane più o meno socchiuse, i quartieri, le vetrine, la dislocazione, gli eros center, la prigione, la multa, il recupero, la normazione e la regolamentazione, la tolleranza e l’intolleranza, il proibizionismo e l’abolizionismo, la depenalizzazione e la criminalizzazione, la repressione e la schedatura e la visita sanitaria, ecc. E l’ordine o il disordine sociale? Nel Medioevo si pensava che la prostituta mantenesse l’ordine sociale perché fungeva da deterrente contro l’adulterio, il peggiore dei peccati sessuali dopo l’incesto, la sodomia e la bestialità. Adesso la stessa signora, secondo Carfagna, "crea allarme sociale", a meno che non sia una di quelle passeggiatrici come Julia Roberts in Pretty Woman, che sul marciapiedi strepita volgarissima, poi incontra il ricco Richard Gere, indossa Chanel e diventa sciccosissima tanto da farlo innamorare. L’allarme sociale è espressione generica, non si capisce bene cosa voglia dire, forse intende le famose mamme che passando verso le due di notte per viali periferici dove sostano le prostitute, sono costrette a coprire gli occhi dei loro piccini innocenti, (che a quell’ora dovrebbero forse essere a casa), affinché non vedano ragazze più vestite di quelle di Miss Italia televisiva, o forse l’intasamento di automobili di potenziali scopatori veloci, se in cattive acque in cerca di cinesi da 5 euro, un affarone, o le mogli a casa che approfittando dell’assenza del marito a caccia hard discount, se la spassano anche loro? Mah! Checché ne pensi la signora Santanché, non è vero che la ministra Carfagna è la prima ad "aver avuto il coraggio di mettere mano alla legge Merlin". Dal 1958 non si à fatto altro, sia pure non concludendo mai nulla. Solo un anno fa, con governo di centro sinistra, turbinavano i pacchetti sicurezza e gli osservatori sulla prostituzione, al vecchio mai raggiunto scopo di togliere le lucciole e i luccioli dalla strada; quindi anche lì, come oggi, come domani, discussioni su coop, aree del sesso, parchi dell’amore, zonizzazione, consorzi comunali, videocamere, inasprimento delle pene per gli sfruttatori, il cliente punito soprattutto se a caccia di minorenni ecc. Il racket la sa più lunga della signora Carfagna e di tutti quelli che l’hanno preceduta: si dilegua, tanto dopo tanto clamore le proposte di legge si lasciano cadere, se casualmente diventano legge ci si dimentica di applicarle. Ma se davvero i problemi più urgenti (da secoli) sono soprattutto un paio, perché non affrontarli in modo innovativo? Dissuasione: tenendo conto che se non c’è domanda l’offerta diventa inutile, istituire ricoveri e corsi di riabilitazione per l’insospettabile massa di probi cittadini, clienti assidui e assatanati di minorenni anche molto piccole, affinché si disintossichino della bizzarria e si appassionino a signore anziane che anche loro hanno bisogno di campare; in questo modo per il racket non ci sarebbe business e lascerebbero perdere almeno le piccine. Incoraggiamento: per liberare le strade dalle passeggiatrici, che se stanno lì sono le più disperate, in modo da lasciare tutto lo spazio ai picchiatori neri, agli spacciatori e agli ultrà, dar loro la pari opportunità della maggioranza delle loro colleghe, fornendole di computer, internet e monolocale, da ripagare coi primi guadagni casalinghi, in modo da poter esercitare serenamente, senza disturbare il viandante, l’unica professione che sa difendersi dagli esuberi, dai licenziamenti, dalla disoccupazione e che non va in cassa integrazione. Giustizia: il "Comitato nuovi educatori" in audizione a Roma
Lettera alla Redazione, 16 settembre 2008
Il Comitato dei vincitori e idonei del concorso per educatori nel Dap avrà una audizione - a Roma, il 30 settembre 2008 - con i parlamentari del Partito Democratico. In occasione della suindicata audizione, il nostro Comitato ha provveduto alla spedizione di una lettera al nuovo Capo Dap Ionta allo scopo di chiedere a questi di supportare le nostre richieste e, contemporaneamente, per invitarlo alla nostra audizione. L’audizione del 30 settembre 2008 è pubblica e quindi aperta a tutti i vincitori e idonei del suindicato concorso ai quali rivolgiamo l’invito a partecipare per far sentire in modo massiccio la voce di noi futuri educatori.
Oggetto: Richiesta di incontro con una delegazione di vincitori - idonei del concorso per educatori nell’Amministrazione Penitenziaria
Egregio Dott. Ionta, nel complimentarci per il nuovo incarico da Lei assunto, manifestiamo la nostra convinzione che esso rappresenti un forte segnale del nostro Esecutivo per l’avvio di quei processi di riforma, non più procrastinabili, che avranno una sicura eco sull’intero sistema penitenziario. A nostro avviso, tali processi non possono non procedere dalla copertura degli evidenti vuoti di organico degli operatori penitenziari, in primis degli educatori, il cui ruolo e la cui funzione, fondamentali all’interno del sistema di esecuzione penale, discendono direttamente dal dettato costituzionale (art. 27 "le pene (…..) devono tendere alla rieducazione del condannato") oltre che dalla Legge e dal Regolamento di esecuzione della stessa. Tali norme individuano gli educatori come attori principali del processo di sostegno umano, culturale e professionale ai detenuti. Gli educatori sono parte integrante dell’istituzione penitenziaria, partecipando alle équipe di osservazione e trattamento, coordinandone le azioni. È innanzitutto osservando i numeri che ci si rende conto dell’enorme distanza che separa la normativa dalla realtà. La carenza di organico è a dir poco gravissima: per più di 55 mila persone detenute nelle carceri italiane si contano in tutto circa 660 educatori. E se si scende nel particolare, i numeri non cessano di essere eloquenti. Nel carcere milanese di Opera, dove si scontano detenzioni lunghe, quindi un luogo in cui il trattamento dovrebbe essere curato particolarmente, tra gli oltre mille detenuti si trovano a lavorare tre educatori e due assistenti sociali; sempre a Milano, a San Vittore, ci sono 1.100 agenti di polizia penitenziaria e 1.500 detenuti, ma solo sei educatori. Anche se negli istituti più piccoli la situazione tende a migliorare leggermente, i casi in cui il rapporto fra educatori e popolazione detenuta scende al di sotto della media di un operatore ogni 50-60 persone sono estremamente rari. Per restare ai numeri, probabilmente è anche per questo che in dieci anni la percentuale di quelli che riescono a svolgere o a imparare un lavoro durante il periodo di detenzione è scesa dal 43 al 23 per cento. on mancano comunque, a supportar le nostre ragioni, gli esempi positivi. Il recupero e il reinserimento sociale possono essere raggiunti attraverso l’impegno di professionalità specializzate in questo settore come dimostra l’esempio rappresentato dagli Istituti Penitenziari di Padova e Rovigo, che con i loro programmi di recupero hanno creato numerose opportunità di inserimento, portando ad un abbattimento della recidiva dal 70% al 18% divenendo in questo senso un’esperienza guida a cui ispirarsi. Fatta questa premessa, che ci ha consentito di mettere immediatamente a fuoco la questione, noi del comitato dei vincitori ed idonei del concorso per educatori bandito nel lontano 2003 e concluso dopo un estenuante iter procedurale nel giugno c.a. Le chiediamo, prima possibile, un incontro in cui poterle esprimere di persona le nostre preoccupazioni in merito ai tempi della nostra assunzione (in questo senso, converrà, la durata dell’iter procedurale rende legittimi i nostri timori). Appare del tutto evidente come ulteriori ritardi da un lato lederebbero le legittime aspettative di quanti, vincitori o comunque idonei attendono delle risposte per poter programmare in maniera compiuta il proprio futuro e dall’altro aggraverebbero ulteriormente la già insostenibile situazione di carenza esposta precedentemente. A tal fine, la presente anche per comunicarle che in data 30 Settembre 2008 ci sarà un’audizione del nostro comitato concessaci dai Democratici, con la particolare collaborazione degli Onorevoli Concia e Melis a seguito di nostra richiesta e alla quale abbiamo il piacere di invitarla. Inoltre, sempre in ordine alla stessa inadeguatezza solare che emerge dalle cifre, ben consapevoli che dietro ai tanti numeri purtroppo ci sono tantissimi volti e storie di miseria e di dolore, ci permettiamo di chiederle di valutare la rideterminazione, nonché l’estensione (considerando il numero degli idonei) prima della pubblicazione della graduatoria ufficiale, del numero dei posti messi a concorso (397), numero che, lo ripetiamo ancora, a maggior ragione oggi, a cinque anni dalla data del bando del concorso, risulterebbe del tutto inadeguato a coprire l’effettiva carenza di educatori nelle carceri. Ci siamo dilungati e probabilmente abbiamo abusato del Suo tempo e della Sua pazienza, ma vorremmo chiederle ancora una cosa: il supporto delle nostre istanze nelle sedi più opportune vigilando sulla celerità delle nostre assunzioni, nella certezza che il Suo sostegno e un congruo numero di educatori all’interno degli istituti penitenziari favorirà l’attuazione di seri e incisivi progetti di recupero e rieducazione. Grati della Sua attenzione e certi della Sua considerazione rimaniamo in attesa di un Suo positivo riscontro.
Comitato dei vincitori / idonei del concorso per educatori nel Dap Liguria: Sappe; assistenza deve essere garantita 24 ore su 24
Secolo XIX, 16 settembre 2008
"In carcere l’assistenza sanitaria deve essere garantita 24 ore su 24". Il sindacato autonomo Sappe ha scritto alla Regione. "Non toccate i soldi della sanità penitenziaria per coprire i buchi della sanità regionale". L’avvertimento parte dal Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria) che nei giorni scorsi ha scritto una lettera al presidente della Regione Claudio Burlando e all’assessore regionale alla Salute Claudio Montaldo per esprimere perplessità su ciò che potrebbe verificarsi negli istituti penitenziari liguri a seguito del Decreto ministeriale che stabilisce il passaggio delle competenze dal ministero della Giustizia alle Regioni e, quindi, alle Asl a partire dal primo ottobre. Un passaggio graduale ma che dovrà essere concluso entro il mese di giugno 2009. Nella lettera il segretario regionale del Sappe Liguria, Michele Lorenzo, chiede che sia valutato e approfondito "l’impatto che avrà questo passaggio considerando che l’assistenza sanitaria nelle carceri liguri deve essere garantita 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno". E aggiunge: "La gestione della sanità penitenziaria non è quella di una corsia ospedaliera. Nelle carceri ci sono da assistere quotidianamente e contemporaneamente una massa enorme di persone. Il metadone per i tossicodipendenti, le cure per i sieropositivi devono arrivare puntuali perché altrimenti la gestione di questi pazienti diventa difficile e a fronteggiarli e a subire la loro aggressività ci siamo noi". Il punto centrale della faccenda è nel finanziamento della sanità penitenziaria, stornato dal bilancio del ministero della Giustizia e trasferito alle Regioni. Lorenzo auspica che non si verifichino tagli economici e, considerando la delicatezza e la peculiarità di tale settore, afferma che "il personale sanitario non dovrà essere individuato secondo il criterio "a rotazione" ma dovrà essere specializzato per affrontare i molteplici e contemporanei eventi che si verificano in un penitenziario". Nei sette istituti di pena liguri (dove attualmente sono reclusi 1.500 detenuti) e alla scuola di polizia penitenziaria di Cairo Montenotte lavorano 13 medici oltre a qualche decina tra infermieri e tecnici di radiologia. Anche il capogruppo regionale di Alleanza nazionale, Gianni Plinio, ha preso posizione sull’argomento con un’interpellanza urgente a Burlando ed a Montaldo per conoscere come l’amministrazione regionale intenda continuare a garantire un’assistenza sanitaria specialistica.
Stim.mo Presidente Regione Liguria Claudio Burlando
Assessore alla Salute politiche della sicurezza dei cittadini Claudio Montaldo
Come noto, Il Dpcm 30 maggio 2008 stabilisce che dal 1° Ottobre le competenze sanitarie della medicina generale e specialistica penitenziaria, i rapporti di lavoro e le risorse economiche e strumentali, finora in capo al Ministero della Giustizia, sono trasferite al Sistema sanitario nazionale e quindi a Regioni e Asl. L’assistenza sanitaria penitenziaria, in questo passaggio, deve essere continuativa, non possiamo permetterci interruzioni nell’assistenza, questo determinerebbe ancora ulteriori disagi alla Polizia penitenziaria che dovrà fronteggiare eventuali proteste della popolazione detenuta. Siamo consapevoli che è sicuramente un cambiamento radicale significativo, che necessita una approfondita conoscenza del sistema che deve rispondere non solo ai bisogni di salute del cittadino detenuto, ma deve aderire alle esigenze di sicurezza ed organizzative del istituto penitenziario e della Polizia Penitenziaria deputata al controllo del detenuto in attività intra ed extra muraria (piantonamenti, visite mediche specialistiche, ecc.) Sicurezza e salute, in questo specifico settore, devono viaggiare di pari passo. La segreteria regionale del Sappe - Sindacato autonomo polizia penitenziaria, l’organizzazione sindacale maggiormente rappresentativa, nutre serie perplessità sulla ricaduta che tale cambiamento avrà negli istituti penitenziari liguri. Per questo si chiede l’intervento delle SS.LL per valutare ed approfondire l’impatto che avrà questo passaggio e limitarne i disagi come, ad esempio il personale infermieristico che lavora a parcella negli Istituti penitenziari, è indubbia la loro futura ricollocazione. In tale ipotesi la regione Liguria ha già pensato come reperire, in breve tempo, personale paramedico in numero sufficiente per coprire le esigenze dei penitenziari liguri, considerato che l’assistenza sanitaria nelle carceri liguri maschili, femminili e per minori, deve essere garantita 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno? Non vorremmo mai che questo settore possa essere soggetto a tagli economici, o che le risorse economiche stanziate possano essere distratte per altri scopi. Questo significherebbe compromettere un settore già di per sé molto delicato. Considerata la delicatezza e la peculiarità di tale settore, la cui criticità è confermata dagli innumerevoli atti di autolesionismo, e violenza che si consumano nei penitenziari, il personale sanitario non dovrà e non potrà essere individuato secondo il criterio "a rotazione" ma dovrà essere personale specializzato e preparato ad affrontare la molteplicità e contemporaneità degli eventi che si determinano in un penitenziario, che è diversa cosa dalla corsia ospedaliera. In un istituto penitenziario convivono contemporaneamente malati di diverse patologie: dal tossicodipendente al detenuto con problemi psichiatrici, dal tubercoloso al malato di scabbia, dall’infartuato al diabetico, ecc. Analogo esempio lo si deve fare per il personale medico. La regione Liguria come è intenzionata ad affrontare la sanità penitenziaria? Secondo questa segreteria sindacale, l’attività sanitaria penitenziaria del medico e dell’infermiere è specifica e complessa e non può essere paragonata a quella offerta nelle strutture sanitarie esterne poiché sono diverse le condizioni operative e la tipologia dei malati. Per il Sappe c’è un rischio ed è che la nuova gestione per l’iniziale scarsa conoscenza delle condizioni operative da parte del personale individuato dalle Asl, determini un aumento del numero dei detenuti ricoverati negli ospedali esterni, a discapito della sicurezza e del carico di lavoro della polizia penitenziaria ligure già in crisi perché sotto organico. Ma chiediamo anche tutela per la Polizia penitenziaria: non dovrà essere abrogata la figura del medico addetto alla Polizia penitenziaria ovvero colui che dovrà seguire l’iter delle varie pratiche inerenti la nostra l’attività, vedi quelle di carattere medico-legale presso l’Ospedale militare o all’attività collegate con la malattia del poliziotto. La sanità penitenziaria non è solo per il detenuto, ma anche per la Polizia penitenziaria: infatti non sappiamo ancora come la Regione Liguria affronterà tale problema e come tratterà la Scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte, Non essendo un Carcere è pur sempre una struttura dell’amministrazione penitenziaria e quindi, soggetta alla gestione da parte del S.S.N. La invitiamo, sig. Presidente, a valutare con particolare attenzione quanto questa segreteria regionale Sappe le ha brevemente rappresentato. In attesa di gradito riscontro siamo sin da ora disponibili ad un incontro per trattare più nello specifico la particolarità del settore della sanità penitenziaria.
Michele Lorenzo Segretario Regionale Sappe Liguria Viterbo: detenuto si è ucciso, era ricoverato in "Casa di Cura"
Comunicato stampa, 16 settembre 2008
Il Garante dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni: è evidente che la patologia psichiatrica non può essere gestita con il carcere e l’uso massiccio di farmaci. "La morte del detenuto 42enne in una casa di cura di Viterbo ripropone, con drammatica urgenza, il problema dei detenuti con problemi psichici in carcere". Lo ha detto il Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando la notizia del suicidio di un detenuto agli arresti domiciliari nella clinica psichiatrica Villa Rosa di Viterbo. Nei mesi scorsi due detenuti con problemi psichici erano morti nelle carceri di Frosinone e a Regina Coeli. Lo scorso luglio, inoltre, un agente di polizia penitenziaria di Rebibbia Nuovo Complesso si era ucciso sparandosi un colpo di pistola. "Purtroppo in carcere e nel mondo che ruota attorno al carcere si continua a morire - ha aggiunto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - Il carcere è una realtà dura che, a volte, fa apparire insuperabili i problemi quotidiani soprattutto per chi ha già problemi psichici con cui convivere. È evidente che la patologia psichiatrica non può essere gestita solo con il carcere o l’uso massiccio di farmaci. Per ogni tipo di malattia è importante intervenire con tempestività garantendo le cure adeguate. In un momento in cui si parla sempre più di reati da punire con il carcere e di certezze delle pene, non vorrei passasse in secondo piano il fatto che chi è in carcere è pur sempre un cittadino di questa società con diritti fondamentali, come quello alla salute, che non possono essere sospesi".
Ufficio del Garante dei detenuti del Lazio Napoli: il sindaco Iervolino sulla strada della "tolleranza zero"
Il Mattino, 16 settembre 2008
Multe e varchi per le auto nei luoghi pubblici frequentati da prostitute. Camper muniti di etilometri davanti alle discoteche. Distruzione immediata delle masserizie per chi si accampa sotto i portici. Inasprimento delle sanzioni per clochard, ambulanti e vandali. E per i parcheggiatori il via all’accusa di truffa: sono questi gli elementi del piano sicurezza del Comune, presentato ieri dall’assessore Scotti e dal sindaco Iervolino. I provvedimenti, in applicazione del decreto Maroni, disegnano una prospettiva di tolleranza zero che sembra rovesciare precedenti posizioni espresse a Palazzo San Giacomo. Il gesuita Fabrizio Valletti, del Centro Hurtado a Scampia: così la città esclude i deboli. Le prime ordinanze del sindaco scatteranno entro la fine di settembre, al massimo la prima settimana di ottobre. Riguarderanno il presidio delle piazze della droga, il posizionamento di camper dei vigili urbani con l’etilometro vicino alle discoteche e nei luoghi della movida, la lotta alla prostituzione con divieto di sosta e fermata nei luoghi dove solitamente si ritrovano le lucciole. E ancora la stretta riguarderà l’abusivismo commerciale, con il raddoppio delle multe per chi occupa senza permesso il suolo pubblico. Il "pacchetto" è pronto. Prevede anche l’inasprimento delle sanzioni per ì clochard e chi si accampa sotto i porticati e nelle piazze della città, con distruzione immediata delle masserizie e denuncia all’autorità giudiziaria oltre che multe per l’accattonaggio e per chi danneggia o imbratta il patrimonio pubblico. È lotta dunque anche ai writers. Se non è tolleranza zero ci manca poco. Il piano sicurezza del Comune è stato presentato ieri in aula dall’assessore ed ex guardasigilli Luigi Scotti e dal sindaco Rosa Russo Iervolino. Il dibattito è stato aggiornato al 23, la Iervolino è pronta a recepire eventuali suggerimenti, ma l’esercizio dei poteri-doveri della legge 125 - meglio nota come il decreto sicurezza del ministro dell’Interno Roberto Maroni - investe i sindaci di un potere monocratico al punto che non sono solo i capi degli enti locali ma "ufficiali di governo". Qualche effervescenza però c’è stata. Per esempio l’ordine del giorno presentato da Raffaele Ambrosino capogruppo di Forza Italia, e sottoscritto da Salvatore Guerriero del Pd oltre che da Claudio Renzullo di An, dove si chiede che i vigili vengano dotati di spray urticante e manganelli. Una richiesta bipartisan che non piace alla Iervolino: "Non è condiviso dall’amministrazione" il suo commento, ma il 23 l’Odg ritornerà d’attualità perché nuove aperture arrivano proprio dal suo partito, il Pd. Torniamo ai provvedimenti. "No ad annunci roboanti, ma cose fattibili", l’esordio di Scotti, che è sceso nel dettaglio "parlando di energiche sanzioni pecuniarie per chi impieghi minori o disabili nell’accattonaggio". "Mi riferisco - ha proseguito - alla previsione di un’altrettanto energica sanzione pecuniaria per chi imbratti edifici pubblici, di configurare un illecito sanzionabile per chi realizza una perdurante permanenza anche notturna di materassi, sacchi a pelo, suppellettili e analoghi oggetti a uso personale o veri e propri bivacchi all’interno, a ridosso o nell’immediata prossimità di edifici pubblici, monumenti, stazioni, piazze con conseguente rimozione del materiale". Novità anche sul fronte dei migranti: "Mi riferisco - dice - alle segnalazioni di condizioni irregolari per i provvedimenti di espulsione o di allontanamento nei casi in cui ci siano stati interventi di rilievo per episodi che hanno reso necessario il ripristino della sicurezza urbana compromessa dai soggetti cui può riferirsi l’espulsione o L’allontanamento". Quanto alla prostituzione su strada, Scotti è chiaro: "Una possibile linea di intervento potrebbe essere quella di disporre, e far rispettare, divieti di sosta e di fermata in strade, piazze e altri luoghi pubblici dove abitualmente si verifica il fenomeno della prostituzione di strada". Interventi che sottolinea Scotti "saranno attuati di concerto con le forze dell’ordine". L’ex ministro rassicura chi sui tempi di attuazione è scettico: "Le linee operative esposte non sono semplici auspici, ma obiettivi concreti da realizzare in tempi brevi per migliorare le condizioni di vita nella città e per superare quella sensazione di insicurezza, che purtroppo il cittadino avverte e con cui occorre, lealmente ed oggettivamente, confrontarsi". Trento: "braccialetti"? forse utili, ma rimangono molti dubbi
Il Trentino, 16 settembre 2008
Trenta detenuti in meno. Il dato è da verificare, ma così, preso con le dovute pinze, significa che il carcere di Trento tornerebbe a un numero di "ospiti" inferiore alla capienza massima fissata in 90 posti. Attualmente, nelle galere di via Pilati vivono in 115, ma quindici italiani potrebbero andarsene con il braccialetto elettronico e una prospettiva di arresti domiciliari e per quindici stranieri le porte si potrebbero aprire con un ordine di espulsione. Braccialetto ed espulsione sono due delle proposte elencate dal ministro Alfano nel piano che vuol combattere sovraffollamento e condizioni di vita non adeguate nelle prigioni italiane. I detenuti di Trento attendono le decisioni politiche da spettatori interessati. Non solo perché sono in tanti, ma anche perché del vecchio carcere austro-ungarico hanno messo all’indice strutture, condizioni igieniche, assistenza sanitaria e pasti. A fine agosto, il malcontento è diventato quasi rivolta dopo la morte dietro le sbarre di un ragazzo algerino. Mentre il nuovo penitenziario da 120 milioni cresce a Spini di Gardolo, Alfano può almeno decongestionare le celle? Stefano Dragone non ci crede. Chiede tempo, il procuratore della Repubblica, dice che "non si può dare un giudizio su due piedi sulle proposte del ministro". Poi comunque osserva "che finirebbe come è finita con l’indulto". Una bolla di sapone: due anni fa, il provvedimento firmato dal ministro Mastella diede subito via libera a una cinquantina di detenuti trentini, il carcere respirò e la sua popolazione schizzata a 170 persone si dimezzò, ma meno di 12 mesi dopo la capienza massima era di nuovo sforata, finito il beneficio per chi vive in cella e per gli agenti della polizia penitenziaria. "Lo sapevano tutti dal principio e sarebbe temporaneo pure l’effetto Alfano - commenta Dragone - Servivano nuove carceri allora e ne servono oggi". Altro che braccialetti, che "poi sono già stati sperimentati alcuni anni fa - ricorda il procuratore - ed è andata male, perché si usano tecnologie superate. Rivogliamo i braccialetti? Mettiamoci dei quattrini per impostarli con collegamenti satellitari e centrali di controllo efficienti". Se non li rivogliamo, invece, è quasi meglio, fa capire Dragone: "Per un detenuto che ha una casa, il braccialetto è superfluo. Per uno che non ha una abitazione, il braccialetto mi sembra inutile". All’idea del ministro lascia aperto uno spiraglio Nicola Stolfi, avvocato e presidente della Camera penale, che il braccialetto non lo scarta a priori ("Purché si dimostri sicuro"), ma nemmeno lo indica come il toccasana: "Premesso che il carcere è un parcheggio inutile e pericoloso, non fa rieducazione e anzi reintroduce nel circolo della violazione della legge, esistono interventi più intelligenti e che già hanno dato risultati. Vedi la legge Gozzini, che prevede alternative al carcere quali l’affidamento in prova ai servizi sociali. Con la Gozzini, ci sono state percentuali minime di ricaduta nella recidiva, eppure oggi, invece di mantenere quella legge, si cerca di smantellarla". Magari per sostituirla con un braccialetto: "Un detenuto - chiude Stolfi - non è un cagnolino da tenere al guinzaglio. È un uomo in cui riporre fiducia nel quadro di un percorso di recupero".
Sette anni fa un primo esperimento è fallito
Il braccialetto elettronico "sponsorizzato" dal Guardasigilli Angelo Alfano è in realtà una cavigliera. Realizzata in plastica, funziona emettendo segnali telefonici registrati nelle sale operative delle forze dell’ordine. Abbinato agli arresti domiciliari, il braccialetto è l’alternativa al carcere per reclusi con pene non superiori ai 2 anni. In Italia, i detenuti "interessati" sono 4.100. L’idea comunque non è una novità. Il primo a proporla, nel 2001, fu l’allora ministro dell’Interno Enzo Bianco. Il governo (di centrosinistra) era guidato da Giuliano Amato e la proposta, sperimentata in cinque città, non decollò. Il braccialetto fu applicato in pochi casi (solo dopo aver acquisito il consenso dell’interessato), mentre centinaia di apparecchiature sono rimaste inutilizzate e oggi rischiano di risultare superate sotto il profilo tecnologico. Un altro dubbio sollevato dai contrari riguarda la dignità del condannato: braccialetto o cavigliera che sia, quell’oggetto "sarebbe un marchio d’infamia", sostiene l’Osapp, sindacato di polizia penitenziaria che si contrappone al sì pronunciato invece al ministro dall’altra sigla sindacale del personale carcerario, il Sappe. Alfano ha inserito il braccialetto in un piano che vuole "rendere più umane le carceri" anche attraverso espulsioni di detenuti stranieri e potenziamento delle attività lavorative. Primo obiettivo: ridurre i detenuti, che oggi in Italia sono oltre 55 mila rispetto a una capienza massima delle carceri di 43 mila posti. Bologna: Csm; sul caso Franzoni "ingerenza" dal magistrato di Paola Cascella
La Repubblica, 16 settembre 2008
Duro attacco al magistrato di sorveglianza da parte di tre membri del Csm. "Una forzatura per una persona sorretta da un grande consenso mediatico" Procedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale per Riccardo Rossi, il giudice di sorveglianza di Anna Maria Franzoni. Lo chiedono tre membri del Consiglio superiore della magistratura con una lettera inviata al Comitato di presidenza dell’organo di autogoverno delle toghe, segnalando come "caso anomalo" la decisione di Rossi di sottoporre a una perizia psichiatrica la donna condannata a 16 anni per l’omicidio del figlio Samuele. Un primo passo, quello del magistrato, che di fatto apre la valutazione della richiesta fatta dalla mamma di Cogne di poter vedere gli altri due figli fuori dal carcere, anche in ambiente familiare, quindi in situazione di quasi libertà. Decisione "sconcertante", scrivono Ciro Riviezzo, Bernardo Petralia, e Mario Fresa, "in quanto l’ammissione al lavoro all’esterno di un detenuto definitivo, anche nella particolare forma prevista dall’art. 21 bis per l’assistenza all’esterno del carcere dei figli minori, è provvedimento di competenza della Direzione dell’Istituto detentivo da adottare sulla base di quanto previsto nel programma di trattamento predisposto all’esito dei risultati dell’osservazione penitenziaria a cui partecipano tutte le figure operanti all’interno dell’Istituto (educatore, psicologo, polizia penitenziaria, assistente sociale). Il magistrato di sorveglianza si limita ad approvare o meno il provvedimento del Direttore che, in caso positivo, diviene esecutivo. Nessuna competenza del magistrato di sorveglianza è ravvisabile nella fase di valutazione delle condizioni di legittimità e di merito preliminari alla adozione dell’eventuale provvedimento di ammissione, la cui esclusiva responsabilità ricade sulla Direzione dell’Istituto". Non solo. Franzoni è detenuta dal 22 maggio 2008, troppo poco, sottolineano i consiglieri, per chiedere l’accudimento dei figli all’esterno: "Per i condannati per alcuni dei delitti più gravi, tra cui rientra l’omicidio, la legge prevede che il lavoro all’esterno possa essere disposto solo dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena". Ecco quindi "il caso anomalo": il magistrato di sorveglianza, "che apre una istruttoria preliminare, conferendo addirittura una perizia psichiatrica (con esborso di pubblico denaro) nell’ambito di un procedimento" che non è di sua competenza. Molti, troppi errori, secondo i consiglieri che sono durissimi nei confronti di Rossi: "La sovraesposizione del magistrato di sorveglianza - che si ingerisce in valutazioni di competenza dell’Autorità amministrativa e che, attraverso il conferimento di una perizia esterna, mortifica il ruolo degli esperti del trattamento in servizio presso l’Istituto di detenzione, che hanno il preciso compito istituzionale di procedere alla osservazione della personalità della Franzoni al fine di formulare ipotesi di trattamento che saranno alla base delle future valutazioni della magistratura di sorveglianza - rischia di ingenerare una sempre maggiore confusione di ruoli tra magistratura di sorveglianza ed amministrazione penitenziaria". Così facendo si dà l’idea che la detenuta Anna Maria Franzoni sia diversa dalle altre detenute: "La considerazione ulteriore che si stia operando una forzatura del quadro normativo in favore di una persona condannata sorretta da un consenso mediatico impressionante, fornisce una immagine della magistratura che sembra orientata non tanto a garantire il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, quanto a mostrarsi forte con i deboli e debole con i forti". Per questo "l’immagine di imparzialità ed indipendenza, del magistrato, di cui la professionalità è parte essenziale", rischia di "apparire fortemente compromessa nell’ambiente in cui opera". Lecce: un altro agente aggredito, la Uil lancia appello ai politici
Comunicato stampa, 16 settembre 2008
È di ieri sera alle ore 20.00 l’ultima aggressione ad un agente di Polizia Penitenziaria in servizio presso l’istituto penitenziario di Borgo San Nicola. Il poliziotto è stato certificato guaribile in otto giorni. Verso le ore 20.00 circa presso una particolare sezione d’isolamento destinata a casi problematici l’agente addetto alla sorveglianza del detenuto napoletano, originariamente ristretto presso il reparto Reclusione, che proprio pochi minuti prima si era macchiato di un’altra feroce aggressione nei confronti del proprio compagno di cella. L’agente ferito da non più di 7/8 mesi è in servizio alla C.C. di Lecce, distaccato dal locale istituto penale per minori per i ben noti fatti di cui la magistratura leccese si sta interessando. La Uil Penitenziari ed il suo segretario regionale Donato Montinaro urla: quanti agenti dovranno cadere prima che le istituzioni e soprattutto la Direzione locale intervenga con i dovuti provvedimenti? Come mai la politica, parlamentari provinciali di destra e di sinistra, unitamente alle istituzioni locali (provincia, comune, ecc..) sono completamente disinteressate alla problematica ed ai destini dell’istituzione penitenziaria leccese? Come mai Sua eccellenza il Prefetto di Lecce insieme al comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, ha visitato le altre quattro forze di polizia e diverse istituzioni, dimenticando uno dei più grandi Carceri del mezzogiorno d’Italia ed i suoi 1.000 operatori, nonché rappresentanti dello Stato? Come mai tutti sono ben disposti ad occuparsi dei "Caino" mentre si dimenticano di pensare agli "Abele"? Come mai tutti si dimenticano dei poliziotti, mentre solo il Ministro Brunetta si ricorda di effettuare le decurtazioni per la malattia a/ai colleghi aggrediti?
Il 23 la Uil Penitenziari incontra il personale
Si comunica che il prossimo 23 Settembre dalle ore 14.00 alle ore 16.00 il Segretario Generale, Eugenio Sarno, il Segretario Regionale, Donato Montinaro e i quadri provinciali e locali della Uil Pa Penitenziari incontreranno, presso l’aula magna della Casa Circondariale, il personale penitenziario in servizio a Lecce. "Questa iniziativa - spiega Donato Montinaro - assume un carattere particolare non solo per la presenza del Segretario Generale quant’ anche per il momento in cui è stata organizzata. Credo che siano di pubblica conoscenza le gravi difficoltà in cui versa il penitenziario di Borgo S. Nicola. Discutere e approfondire, quindi, le criticità con il personale ci sembrava un atto dovuto e necessario. Il nostro intento, voglio chiarire, non è certo quello di alimentare polemiche piuttosto fornire attenzione ed ascolto ad un personale troppe volte abbandonato al suo destino in mezzo a tante, troppe, e gravi difficoltà. " I problemi alla Casa Circondariale di Lecce non mancano di certo. La gestione della popolazione detenuta e il grave sovraffollamento; il ferimento di diversi operatori penitenziari; difficoltà nell’approvvigionamento idrico; deficienze strutturali, l’impiego delle risorse umane; una nuova e diversa organizzazione del lavoro. Questi saranno alcuni dei temi di cui si discuterà nell’assemblea indetta dalla Uil. Non mancherà, ovviamente, anche un cenno alle questioni di carattere nazionale come il rinnovo del contratto per il Comparto Sicurezza e il confronto in atto con il Governo sul c.d. decreto Brunetta. "La Uil Penitenziari, attraverso Eugenio Sarno, ha posto - ricorda il Segretario Regionale Montinaro - il problema di Lecce direttamente al Ministro Alfano e al Capo del Dap, Ionta. È lecito attendersi novità nel breve-medio periodo. Noi non mancheremo, comunque, di monitorare la situazione e di chiedere una convocazione per fornire soluzioni possibili. Ovviamente il dialogo e il confronto presuppongono una disponibilità tra le parti che oggi, purtroppo, non riscontriamo da parte della Direzione. Per questo se sarà necessario sposteremo la vertenza al Provveditorato Regionale che è già ben informato di quanto accade". Il Segretario Generale e il Segretario Regionale Puglia della Uil Pa Penitenziari saranno lieti di incontrare gli inviati della stampa alle ore 17.00 del 23 Settembre 2008 negli spazi antistanti la Casa Circondariale di Lecce per rendere conto delle risultanze dell’assemblea.
Donato Montinaro Segretario regionale Uil Penitenziari Carrara: sul trattamento "a scalare" con alcool per alcoolisti
Lettera alla Redazione, 16 settembre 2008
Lo sconcerto è venuto allo scrivente leggendo quanto affermato sull’articolo del quotidiano "La Nazione", che denota una "ignoranza" in materia da parte o del giornalista o di chi ha fornito la notizia, tra l’altro pubblicata in prima pagina e in grassetto sulla cronaca locale. Comunque questi i fatti. È giunto in istituto un paziente alcoolista che assumeva cinque litri di vino al giorno. È stato visitato dal medico del Sert che, dopo disamina attenta del caso, per evitare crisi di astinenza ha ritenuto opportuno prescrivere un trattamento per tre giorni con un litro e mezzo di vino al giorno. La stessa persona nello stesso giorno è stata inviata per consulenza allo specialista psichiatrico del Dsm dell’Usl 1 che ha ritenuto opportuno confermare quanto proposto dal medico del Sert. Dopo tre giorni nuova valutazione e prescrizione di 1 litro al giorno per 3 giorni, nuova valutazione psichiatrica e conferma del programma di trattamento. Dopo i 3 giorni nuova valutazione e ulteriore scalaggio a ¼ di litro, tre volte al giorno per sette giorni e nuova conferma dallo specialista psichiatra. Allo scadere nuovo scalaggio a ¼ di litro di vino due volte al giorno per sette giorni. Allo scadere nuovo scalaggio a ¼ di litro di vino in due somministrazioni. Dopo 30 giorni il soggetto non ha più assunto alcool, è in buone condizioni fisiche ed è soddisfatto del trattamento fatto. Questo è quello che è successo ed è quello che succede anche all’esterno e confermato dal responsabile del centro di alcoologia dell’Usl 1. Pertanto non ci sembra di ravvisare il tono scandalistico e meravigliato che trascende dalla lettura dell’articolo e dalla ridondanza dello stesso. Chi ha scritto o riportato al cosa forse non sa o non vuol sapere che ogni individuo è una persona a se e come tale va trattato, rispettando la sua personalità. Nel caso in esame era stato prospettato allo stesso altro trattamento che lo stesso ha rifiutato, è nel suo diritto e ogni trattamento deve essere concordato con chi lo riceve nell’ottica del suo benessere psicofisico e non nelle diatribe delle scuole di pensiero. Tra l’altro quanto prospettato dai cosiddetti esperti dell’Usl non ha alcun valore in quanto sono altri i farmaci all’avanguardia, i farmaci indicati possono essere usati solo di supporto. Inoltre non si capisce bene perché lo stesso trattamento venga usato all’esterno sia dai centri di alcoologia che dal Dsm, perché ritenuto valido anche se metodo non nuovo, e nessuno dice niente, se viene usato in carcere diventa oggetto di quasi malasanità. Personalmente come medico penitenziario e anche come Segretario Regionale della Toscana dell’Amapi non accetto questo volere fare passare ciò che avviene nella sanità in carcere sempre come qualcosa di anacronistico e fatto male. È vero che esistono situazioni anomale, ma non è possibile generalizzare sempre in particolare in questo momento in cui si sta effettuando il passaggio al Ssn. Forse qualcuno, visto la conclusione dell’articolo da voi non riportata, ma che vi invito a leggere, vuole dimostrare o affermare che il sistema sanitario funzionava meglio prima del passaggio?
Dott. Franco Alberti Direttore Sanitario Casa di Reclusione di Massa Segretario Regionale Amapi Toscana Milano: per quindici detenuti di Bollate torna il corso di yoga
Redattore Sociale - Dire, 16 settembre 2008
Dal 2004 a oggi almeno un centinaio di detenuti hanno frequentato il corso impartito dall’associazione Hara Yoga. Iniziativa ripetuta anche quest’anno, nonostante il taglio dei fondi avvenuto nel 2007. Dal 2004 a oggi almeno un centinaio di detenuti del carcere di Bollate hanno frequentato il corso di yoga impartito dall’associazione Hara Yoga. L’iniziativa, avviata all’interno del progetto "Ecosalute, proseguirà anche quest’anno per almeno 15 detenuti, sostenuto anche dalla direzione del carcere. "Ma dal 2007, a causa del taglio dei fondi -spiega Sabrina Perini, tra i fondatori dell’associazione - le lezioni si tengono solo grazie alla presenza volontaria dell’insegnante Vito Vangelista". L’intervento di recupero è rivolto in modo particolare ai detenuti "fine pena" con un passato di tossicodipendenza. "Lo yoga riesce spesso a dare loro quella tranquillità interiore che è fondamentale al momento di uscire dal carcere, perché il reinserimento non è semplice - continua Sabrina Perini - . Molti detenuti hanno dovuto scontare la pena anche a distanza di anni dal reato commesso, e questo per chi nel frattempo si è fatto un famiglia, è ancora più traumatico". Lo yoga serve anche a riprendere confidenza con il proprio corpo colpito in passato con l’assunzione di stupefacenti. Le lezioni si svolgono per un’ora e mezza alla settimana, al massimo 15 persone, che devono richiedere e garantire la frequenza. Se sovvenzionato in modo adeguato, spiegano dall’associazione, potrebbero aumentare sia le ore di lezione che il numero di detenuti ammessi alla riabilitazione. Rovigo: progetto per far vivere ai detenuti il mondo dell’arte
Il Gazzettino, 16 settembre 2008
Ci sono modi di pensare all’arte, alla musica, alla danza e al teatro che offrono prospettive di grande valore sociale oltre che estetico. Portare le arti in un carcere, lavorare ad un laboratorio dove il detenuto diventa parte integrante del progetto, riscoprire l’io-pensiero grazie alla forza dell’espressività, sia essa corporea, visiva, musicale, ritmica, è quello che hanno ideato e realizzato Vito Alfarano e Paola Maran, ballerini della compagnia di danza cittadina Fabula Saltica grazie alla collaborazione stretta e da subito positiva con Fabrizio Cacciabue, direttore del carcere di Rovigo e con il vice commissario Rosanna Marino. Un’ opportunità importantissima per chi spesso resta a guardare. Quattro settimane di lavoro, finanziate dal Ministero della Giustizia con i docenti Lucia Nicolussi Perego, Alessandro Alfonsi, Giampietro Ziviani, Luigi Marangoni, Alessandro Gasperotto e Alessandro Gasperotto, video maker che sarà impegnato nel riprendere e documentare le varie fasi del percorso. La valenza professionale-artistica dei responsabili del progetto e degli altri docenti che interverranno nel percorso e la valenza culturale-comportamentale di iniziative promosse dal carcere a favore dei detenuti, si sposano con la forza espressiva di questa iniziativa che, partendo da una coreografia di Vito Alfarano riguardante il V canto dell’Inferno della Divina Commedia dantesca apre le porte ad un percorso formativo volto a focalizzare la conoscenza reciproca, la ricostruzione della propria storia personale, la coscienza e conoscenza dello spazio individuale e sociale attraverso la gestualità e l’espressività, il movimento corporeo, l’educazione al contatto, l’uso della parola e di questa legata al movimento, l’uso degli strumenti a percussione (percezione di rumori e suoni), sviluppo del pensiero attraverso la danza e il teatro". L’obiettivo è quello di far vivere al detenuto il mondo dell’Arte, cosa succede nella realizzazione di uno spettacolo, portare all’interno del carcere quello che è il nostro mondo e cercare attraverso di esso di arrivare ad una sensibilizzazione verso se stessi e gli altri", raccontano i due responsabili del progetto Alfarano e Maran. Come si svolgeranno le lezioni? "Da quest’oggi i detenuti saranno impegnati due giorni a settimana per due ore ogni giorno con attività pratiche e anche con semplice dialogo e confronto sui temi scelti, che mirano a rivalorizzare la persona e il suo percorso di vita. Le prime due settimane lavoreranno con Lucia Perego in un laboratorio teatrale sullo spazio e sul movimento corporeo al fine di arrivare a percepire la coscienza di sé nel gruppo, alternando lezioni con il percussionista Alfonsi che ha ideato un percorso sul rumore e sul ritmo. La settimana con Giampietro Ziviani sarà quella più di riflessione e scambio personale cercando, attraverso la lettura di testi e l’ascolto di brani musicali, di approfondire il tema dell’Inferno, contesto dello spettacolo "Oltre i confini..." da cui è partito il desiderio di portare in carcere il mondo dell’Arte. L’ultima settimana, con Luigi Marangoni, faremo un vero e proprio laboratorio teatrale e sarà il momento più creativo dove lavoreremo con la scrittura, dipingeremo, balleremo e il tema conduttore sarà l’Amore nelle sue molteplici e infinite sfaccettature. Le scopriremo ovviamente con i detenuti che per tutto il mese del laboratorio terranno un quaderno personale per annotare le proprie riflessioni, le proprie idee". È l’inizio di una esperienza che spera di portare in futuro allo sviluppo di una seconda fase di progetto, dove i detenuti stessi potranno essere i protagonisti nello spettacolo ampliato e rivisto in base a questo laboratorio che fa ben sperare sull’uso sociale della Cultura. Genova: "Mea Culpa"… un reportage fotografico dal carcere
Apcom, 16 settembre 2008
Si chiama "Mea Culpa" la mostra fotografica di Sabrina Losso e Luisa Ferrari, organizzata dal Settore Musei del comune di Genova che verrà inaugurata il 19 settembre alle 18 al Palazzo Rosso. Si tratta di un reportage sulla vita dietro le sbarre realizzato nel carcere di Marassi: oltre 60 scatti, in bianco e nero, di grande formato, accompagnate dagli scritti raccolti durante l’esperienza che le fotografe hanno vissuto all’interno dell’istituto di detenzione. Nel 2006 l’Associazione Evangelica "Amici di Zaccheo" e l’Associazione culturale Kinoglaz hanno organizzato un corso di fotografia per 10 detenuti della Casa circondariale maschile di Marassi a Genova, tenuto dalle stesse fotografe che, oltre a svolgere la parte didattica, hanno realizzato un reportage sulla vita e la condizione esistenziale dei detenuti. Immigrazione: per condanne "europee", pena anche in Italia di Giovanni Negri
Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2008
Il cittadino rumeno condannato in Romania e residente in Italia va rimpatriato perché possa scontare la pena nel proprio Paese d’origine. Anche quando ha costituito una famiglia e un rapporto di lavoro stabile in Italia. Il mandato d’arresto deve, pertanto, essere eseguito, anche se la Cassazione non nasconde un tratto di comprensione per la situazione del cittadino rumeno, facendo anche presente che potrebbe chiedere di scontare la pena in Italia sulla base della convenzione di Strasburgo del 2003. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 35286 depositata ieri, è chiara: la legge italiana che esclude la consegna solo nel caso di cittadino italiano condannato all’estero per fargli scontare la pena in Italia è in linea con la disciplina comunitaria e non ci sono ragioni per censurarla. La Corte si è trovata a giudicare sul caso di un cittadino rumeno, residente in provincia di Bergamo, condannato dal tribunale dì Timisoara a un anno e sei mesi per guida in stato di ebbrezza. Di qui l’emissione del mandato d’arresto e la richiesta di esecuzione nel nostro Paese. Una richiesta accolta dalla Corte d’appello di Brescia e contro la quale la difesa del cittadino rumeno aveva proposto ricorso, sostenendo, tra l’altro, che la normativa italiana è in contrasto con la decisione quadro comunitaria sul mandato d’arresto. Quest’ultima, infatti, sottolineava la difesa, tra i casi di non esecuzione facoltativa del mandato ricordava la situazione personale della persona ricercata, quando risiede, dimora o è cittadina dello Stato di esecuzione del mandato. La Cassazione non è stata però di questo avviso e ha innanzitutto negato l’efficacia diretta nell’ordinamento nazionale delle disposizioni della decisione quadro, alle quali non è certo tenuta ad attenersi l’autorità giudiziaria. Sul punto la sentenza precisa che il divieto di consegna per l’esecuzione penale del cittadino italiano e non anche dello straniero che risiede o dimora in Italia costituisce il risultato di una scelta di politica legislativa compiuta in maniera legittima. Quello che conta è la finalità della decisione quadro e, cioè, la realizzazione tra i Paesi dell’Unione di un sistema semplificato di consegna di cui il mandato di arresto europeo rappresenta l’esemplificazione. Inoltre, è la stessa decisione quadro, la 584/2002/Gai, a istituire un’esplicita riserva, quanto alle misure di recepimento, a favore del legislatore nazionale. La sentenza della Corte di giustizia europea del 17 luglio scorso, poi, non è in grado di spostare questo orientamento, come invece pretendeva il ricorso, perché si limita a precisare alcune caratteristiche della nozione di residenza impiegata dalla decisione quadro, senza intervenire però sulla legittimità della limitazione al solo cittadino del rifiuto della consegna. Del resto, conclude la Corte, sono gli stessi Stati dell’Unione ad aver dato un’attuazione assai "variegata" delle cause di rifiuto ammesse dalla decisione quadro: così qualcuno ha tradotto come obbligatorie nel proprio ordinamento le cause di rifiuto facoltative, mentre altri hanno, come l’Italia, limitato il rifiuto ai soli cittadini escludendo i residenti, quando altri ancora hanno incluso anche questi ultimi. Immigrazione: tubercolosi nel Centro Accoglienza di Cagliari
Sardegna Oggi, 16 settembre 2008
Il sindacato di Polizia Coisp ha scritto al Questore di Cagliari per denunciare la situazione che gli agenti vivono nel Centro di prima accoglienza di Cagliari dove si sono registrati casi di Tbc. "Abbiamo provato ad affrontare la situazione in modo realistico - ha sottolineato il Coisp - consapevoli che chiedere la chiusura del Centro, dopo il provvedimento d’autorità del prefetto Morcone, in relazione all’emergenza nazionale, sarebbe stato utopistico. Tuttavia non è possibile rinunciare alla salvaguardia della salute del personale impegnato nel trattamento dei clandestini. Il primissimo intervento è stato indirizzato alla distribuzione di guanti in lattice e mascherine: la risposta dei responsabili locali dell’Amministrazione è stata che non dovevamo creare allarmismo". "Oggi, con il senno del poi, anche i Dirigenti più scettici, forse, hanno capito l’importanza della prevenzione", ha aggiunto il Sindacato che ha anche proposto la trasformazione del Cpa in Cei ("valida alternativa la struttura della scuola di Polizia Penitenziaria di Monastir") perché la collocazione logistica del Centro di Elmas "è da ritenersi fra le più infelici del panorama nazionale". L’allarme per poliziotti a rischio malattie infettive viene lanciato dal Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori di polizia). "Si sono riscontrati - segnala il segretario generale del Siulp, Felice Romano - quattro casi di tubercolosi tra gli ospiti del centro di accoglienza di Elmas (Ca). In chiara violazione delle norme sulla sicurezza, centinaia di poliziotti sono stati costretti ad operare a stretto contatto con gli immigrati, in un ambiente fatiscente e privo delle più elementari norme igieniche. Ora tutti i poliziotti in servizio presso quel centro sono da oggi sottoposti a visita medica, per accertare un eventuale contagio". "Sarebbe ora il caso - prosegue il sindacato - che il ministro Brunetta comprendesse che il lavoro del poliziotto comporta l’esposizione quotidiana anche a rischi di questo genere: ci dica cosa intende fare del suo decreto anti fannulloni se questo viene applicato integralmente agli operatori della polizia di Stato, nel caso in cui alcuni poliziotti risulteranno ammalati di tubercolosi". Il Siulp annuncia quindi una mobilitazione generale finalizzata all’intervento dell’Amministrazione della P.S. sui centri di accoglienza onde valutare se la situazione di Elmas possa ripetersi in altre realtà territoriali.
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