Rassegna stampa 2 ottobre

 

Giustizia: la rieducazione dei detenuti va affidata al no-profit

 

Tempi, 2 ottobre 2008

 

Un bubbone destinato a scoppiare, una situazione insostenibile che presto o tardi presenterà il conto. Sembra il ritornello di mesi fa, quando il controverso provvedimento dell’indulto portava in primo piano il dramma delle carceri italiane.

E invece è il grido d’allarme che risuona anche oggi, perché se il sovraffollamento è una grave ferita del sistema carcerario del nostro paese (per cui l’indulto è stato certo un palliativo) è anche vero che quell’emergenza cronica è sintomo di un male ancora più grave. Quello di un sistema che non sa cosa significhi la parola rieducazione e in cui la pena non favorisce in alcun modo il reinserimento sociale.

Nel tentativo di restituire carceri più vivibili, il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, coadiuvato dai sottosegretari Elisabetta Casellari e Giacomo Caliendo, propone che chi ha due anni di pena per delitti che non suscitano allarme sociale possa scontare la pena agli arresti domiciliari e con il famigerato braccialetto elettronico, marchingegno da portare alla caviglia per controllare gli spostamenti. Non solo. Per gli stranieri è previsto il trasferimento nel paese d’origine. In tutto si prevede che con il piano del ministro Alfano a lasciare le carceri saranno 7.400 detenuti, di cui 3.300 stranieri e 4.100 italiani.

 

Risolto il problema del sovraffollamento siamo a cavallo?

Se dico di no sembro idealista - confida Renato Farina, deputato del Pdl che della questione carceraria fa una priorità nel proprio mandato -. Il sovraffollamento è gravissimo, ho visto carceri, come San Vittore, dove ci sono bracci invivibili, celle in cui stanno sei persone di cui un anziano che non si può muovere. Situazioni intollerabili, causate non da una cattiva gestione, ma dalla mancanza di infrastrutture adeguate.

 

Si dovrebbero costruire nuove carceri?

Sono necessarie. Sicuramente occorrono spazi comuni che non possono essere ricavati con le ristrutturazioni. Desidero però fare una precisazione: si dice di lasciare le carceri nel tessuto urbano per favorire l’integrazione dei detenuti, ma la vera possibilità di reinserimento viene piuttosto dalla società che in prima persona si fa carico delle carceri.

 

Quindi il sovraffollamento è un aspetto di un discorso più ampio?

Certo, nel senso che il sovraffollamento non può essere un alibi di fronte alla consapevolezza di quella che è la prima emergenza: quella educativa. Ossia l’attenzione verso la persona che deve scontare una pena la quale, come sancisce l’articolo 27 della Costituzione, non deve esser solo afflittiva, bensì riabilitativa.

 

Eppure un’emergenza da arginare c’è...

Assolutamente sì. Se dopo l’indulto le carceri si erano svuotate, oggi hanno di nuovo raggiunto i livelli di massima capienza. L’idea di Alfano è dunque di buon senso. È interessante, attraverso l’attuazione di accordi bilaterali, far scontare una parte di pena agli stranieri nel loro paese d’origine, a patto che lì vengano garantite condizioni di vivibilità. Questa è una soluzione migliore rispetto all’espulsione, che invece non prevede la pena da scontare. Un’omissione che creerebbe una casta di detenuti impunti.

 

Che differenza c’è tra la proposta di Alfano e la scelta dell’indulto?

Questa è una misura stabile, mentre l’indulto, ossia lo sconto di pena, è una soluzione di emergenza che, abbiamo visto, non essere risolutiva.

 

In che modo il bisogno di alleggerire le carceri si accompagna alla stretta sugli extracomunitari e sulla prostituzione?

Il reato di clandestinità non c’è, quindi gli extracomunitari che finiscono in prigione sono quelli che delinquono. Per quanto riguarda la prostituzione, sono previste solo multe, al massimo si parla di carcerazioni che si risolvono in poche ore.

 

Per quanto riguarda la soluzione controversa del braccialetto elettronico?

L’unica incognita è come possa essere compatibile con l’articolo della Costituzione di cui si diceva prima. Ci si chiede cioè in che modo, stando ai domiciliari senza far niente, il detenuto possa recuperare. È vero però che in questo caso il detenuto avrebbe il supporto della famiglia, quando non si tratta di situazioni di disagio sociale. Occorrerebbe allora istituire percorsi rieducativi pensati per chi ha il braccialetto.

 

Ha in mente qualche altra proposta?

Mi sono spesso occupato di carceri in veste di giornalista. Durante Mani Pulite ero accorso a San Vittore al seguito di Formigoni, quando nel 1993 si suicidò Gabriele Cagliari, allora presidente dell’Eni. Entrare in carcere, da San Vittore a Opera, da Regina Coeli a Rebibbia, da Sulmona a Le Vallette di Torino, è un’opera di misericordia anzitutto verso se stessi, perché permette di rendersi conto della propria miseria, uguale a quella di tutti gli altri, ma anche della propria libertà. Se qualcuno si scandalizza a sentire queste parole, allora dovrebbe fare un giro in carcere. Pensi che incontrerai delle bestie, invece... può capitare che dalle facce non distingui più chi è il detenuto e chi no. Questo mi è capitato in particolare a Padova, dove è attiva la straordinaria esperienza della Cooperativa sociale Giotto. Lì è evidente come il lavoro sia ciò che aiuta veramente i detenuti a recuperare la propria dignità e ad essere trattati di conseguenza. Certo, ogni realtà presenta grosse differenze. Al Sud la situazione è molto difficile, non solo non esiste un tessuto imprenditoriale forte come al Nord che possa collaborare con le attività del carcere, ma non esiste nemmeno il volontariato, e così i detenuti sono lasciati in una situazione di abbandono. Allora ho pensato che, essendo il carcere un servizio alla sicurezza dei cittadini e quindi alla società nel suo complesso, esso ha la necessaria funzione di luogo rieducativo. Questo non solo per una motivazione cristiana, data dal fatto che nessun uomo rimane prigioniero per forza del male, ma anche per una questione di benessere sociale. Mi sono dunque detto: così come nella scuola lo Stato non può essere il pedagogo, lo stesso principio andrebbe applicato al carcere, il luogo di massimo bisogno per la persona. Sto ovviamente parlando di un modello sussidiario da applicare al carcere. Di solito la sussidiarietà viene pensata nel campo della cronaca bianca, mentre ci sono già associazioni di volontariato ed esperienze di carità che operano nelle carceri e che andrebbero rese organiche. Secondo me dunque, lasciando allo Stato il controllo delle strutture e la gestione della sicurezza, la gestione delle carceri andrebbe affidata alle associazioni no-profit per quanto riguarda il lavoro, i percorsi educativi e di studio, insomma i rapporti con l’esterno.

 

Quali sono state le prime reazioni alla proposta di un carcere "sussidiario"?

Se ne è parlato all’Intergruppo Parlamentare perla Sussidiarietà, dove si sta dibattendo a riguardo con molto interesse e con la promessa di un impegno trasversale, anche da parte di esponenti del Pd, come Oliviero Nicodemo, Linda Lanzillotta e Tiziano Treu. Siamo infatti convinti che tutto ciò che fa bene al detenuto fa bene alla società sia in termini economici che di sicurezza che di benessere collettivo.

Giustizia: Sappe; i Prap diventino "agenzie di collocamento"

 

Comunicato Sappe, 2 ottobre 2008

 

È certamente positivo l’ambizioso progetto dell’Amministrazione Penitenziaria che prevede la costituzione di agenzie di collocamento presso i Provveditorati Regionali con il compito di raccogliere richieste di lavoro dalle Regioni, Province, Comuni ed Imprese ed al contempo mettere a disposizione forza lavoro costituita da soggetti in espiazione di pena.

Da sempre sosteniamo che è proprio il lavoro l’elemento cardine per un vero trattamento rieducativo del condannato. È però altrettanto vero che alla generale crescita della popolazione detenuta avvenuta a partire dall’anno 1991 (ed oggi ben oltre le 56mila unità!) non ha fatto riscontro un corrispondente aumento del numero dei detenuti ammessi al lavoro. In effetti, la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, prevedendo la quasi completa equiparazione del lavoro penitenziario all’organizzazione ed ai metodi del lavoro nella società libera, espressione di grande civiltà giuridica, ha fatto venir meno l’interesse per una manodopera fino a quel momento a buon mercato, allontanando dal mondo penitenziario gli imprenditori e le ditte esterne che non riscontrano più alcuna convenienza a rivolgersi alle lavorazioni penitenziarie.

Dare un senso alla pena, dunque, vuol dire anche far lavorare i detenuti. E per fare efficacemente tutto questo si dovrebbe potenziare maggiormente l’area penale esterna per quei detenuti con pene brevi da scontare ed avvalersi di innovative forme di controllo come il braccialetto elettronico, da affidare in gestione al Corpo di Polizia penitenziaria.

 

Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

Giustizia: 30 milioni €, i risarcimenti per le ingiuste detenzioni

 

www.radiocarcere.com, 2 ottobre 2008

 

La storia di un errore giudiziario, uno dei tanti. Questa è la storia di J., 50 anni, donna dello Sri Lanka. Tre anni fa J. viene sottoposta a misura cautelare in carcere perché indagata dell’omicidio di un suo parente. Così, J. viene portata nel carcere romano di Rebibbia. J. si professa da subito innocente. La scorsa settimana, dopo tre anni di carcere, J. è stata assolta.

J., ha saputo dell’assoluzione mentre era nella sua cella di Rebibbia. Alla notizia J. è stata colta da una crisi cardiaca e ricoverata all’ospedale Santo Spirito. Evidentemente, dopo tre anni di detenzione, è stata forte la sorpresa nel vedere che la Giustizia italiana aveva riconosciuto la sua innocenza. Questa è la storia di J. Questa è la storia di un errore giudiziario. Uno dei tanti. Visto che solo nel 2007 lo Stato ha pagato ben 29.097.000 di euro per la riparazione dovuta ad ingiusta detenzione conseguente ad errore giudiziario.

Giustizia: il ministro dell’Interno sa che cosa è la guerra civile?

 

Il Riformista, 2 ottobre 2008

 

Potremmo chiamarlo il paradosso di Roberto Maroni. Per non dargli troppo addosso, anche se lo meriterebbe, visto che con una ostinazione politica demagogica e istituzionalmente irrituale sostiene che i militari vadano mandati in Campania perché ci sarebbe "una guerra civile". Evidentemente, dopo aver millantato le "camicie verdi", la Lega vuole andare in armi a espugnare il meridione. Ma, dicevamo, ci interessa il paradosso di Maroni.

E le lunghe ombre che getta sulla sua idea di stato italiano. Evidentemente, una propaggine della Padania. Ma appare chiaro che un ministro dell’Interno, cioè un membro importato del governo dello stato italiano, non può sostenere che nel territorio dello stato italiano ci sia una guerra civile. Perché non può esserci uno stato e una guerra civile nel suo territorio. Una guerra civile, come fu quella americana, è tra stati.

Una guerra civile, come fu quella italiana, è tra i fascisti della Repubblica sociale italiana e gli antifascisti, partigiani e badogliani che stavano con gli alleati. Due stati, due idee di stato. Tra l’altro, parlando di guerra civile, Maroni concede una patente di "stato" alla camorra, cioè all’anti-stato.

Cos’è, la continuazione con vie militari della lotta politica per il federalismo? Non ci piace e troviamo scandaloso, sul piano istituzionale e politico, che un ministro dell’Interno abbia sostenuto nel Parlamento italiano e poi ribadito con ostinazione che in Italia c’è una guerra civile. La camorra non rappresenta nessuna idea di stato, come la Padania non è un’idea di nazione.

Giustizia: Csm; no al "filtro" in Cassazione per i processi civili

 

Italia Oggi, 2 ottobre 2008

 

Il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha bocciato all’unanimità il filtro previsto dalla riforma del processo civile, che è in discussione in aula alla camera, per i ricorsi in Cassazione. Per il plenum di Palazzo dei marescialli si tratta infatti di un provvedimento che non risolve il problema dell’eccessivo carico di lavoro per la Suprema corte, ma che, semplicemente, "scarica" sull’appello l’ingorgo.

Nel documento, passato con il voto favorevole di tutti i consiglieri, si osserva che "un filtro per il giudizio in Cassazione è certamente necessario come riconosciuto da tutti gli operatori ma sarebbe più opportuno demandarlo a percorsi differenziati nella trattazione dei ricorsi, nella forma dei provvedimenti e nella motivazione delle decisioni, ricercando anche sul terreno organizzativo quei filtri che sul terreno processuale difficilmente potrebbero essere attuati prescindendo da una visione generale e unitaria del processo e dall’insieme di bisogni in tema di risorse e di strutture".

Il Csm non ha mancato di riconoscere alcuni aspetti positivi nella riforma del processo civile, contenuta nel ddl sviluppo, ma quello che più di un consigliere ha criticato è stata "l’assenza di una riforma organica" per la quale servono strumenti diversi dall’inserimento di alcune norme nel collegato alla manovra finanziaria.

Lo stesso vicepresidente del Csm Nicola Mancino ha espresso le sue critiche al filtro per i ricorsi alla Suprema corte, sostenendo che "è già operativo in Cassazione un meccanismo su cui. si potrebbe lavorare per creare un filtro meno nevrotico ma anche meno preoccupante di questo".

Lombardia: Regione assume competenze sanità penitenziaria

 

Asca, 2 ottobre 2008

 

Via libera dalla Regione Lombardia al provvedimento che determina il passaggio delle competenze delle funzioni sanitarie svolte nell’ambito degli Istituti Penitenziari per adulti e dei Centri penali per minori dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Regionale, così come previsto da un recente decreto del Consiglio dei Ministri approvato lo scorso 1 aprile 2008.

"Con questa delibera avviamo le prime determinazioni in materia, consapevoli di gestire una complessa riforma - sottolinea Luciano Bresciani, assessore regionale alla Sanità - vogliamo assicurare l’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione ai detenuti integrando le risorse presenti negli Istituti Penitenziari e quelle delle Aziende Sanitarie". Dal 1 ottobre è infatti previsto il trasferimento del personale sanitario in servizio alla data del 15.03.2008 presso gli Istituti Penitenziari e il Centro di Giustizia Minorile alle Aziende Ospedaliere nel territorio di competenza. Le Aziende Ospedaliere interessate sono poi tenute a mantenere le convenzioni in atto, assicurando la continuità dei servizi sanitari e l’assistenza farmaceutica.

Emilia Romagna: sovraffollamento delle carceri supera 150%

 

Sesto Potere, 2 ottobre 2008

 

L’assessore Anna Maria Dapporto ha informato la Commissione Politiche per la salute e politiche sociali, presieduta da Tiziano Tagliani, sulla situazione penitenziaria in Emilia-Romagna nel 2007. Secondo i dati forniti dalla Dapporto "l’indice di sovraffollamento medio delle carceri in Emilia-Romagna è di centocinquantadue persone per 100 posti di capienza regolamentare (113 il dato nazionale)".

La popolazione carceraria nel 2007 in Emilia-Romagna, nei 12 istituti, è stata di 3.613 detenuti (3.499 uomini e 114 donne), su 2.382 posti di capienza regolamentare (fonte ministero della Giustizia). Di questi 1.843 sono stranieri, ovvero il 51,01% dei detenuti. Le tipologie di reato sono: il 40,71% per reati legati alla droga, mentre è aumentato invece il numero delle persone detenute per violazione della legge sull’immigrazione.

La relazione poi traccia un profilo della popolazione carceraria: quasi il 63% dei detenuti è residente in regione, il livello di istruzione è basso (il 31,88% ha al massimo la licenza elementare, il 57% la terza media), quasi la metà - prima di andare in carcere - risultava disoccupato. Per quanto riguarda la posizione giuridica, oltre il 70% dei detenuti è in attesa di giudizio, mentre la maggior parte delle persone deve scontare una pena inferiore a 6 anni.

Le attività e gli interventi che la Regione svolge a favore dei detenuti ed ex-detenuti sono regolate da Protocolli d’Intesa siglati con il ministero della Giustizia.

Lo strumento principale delle politiche sociali per la re-inclusione delle persone detenute è costituito dai finanziamenti regionali (400 mila euro) e da quelli messi a disposizione dagli Enti locali (321 mila euro), all’interno del Programma finalizzato al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale, affidato ai Piani sociali di zona.

Al Provveditore Regionale del Ministero della Giustizia Emilia Romagna, presente all’incontro, sono stati chiesti chiarimenti sulla situazione delle carceri in regione. In particolare, Gian Luca Borghi (Pd) sui carceri di Forlì e Ravenna; Donatella Bortolazzi (Pdci), Silva Noè (Udc) e Mauro Bosi (Pd) sul carcere di Bologna.

Piemonte: istituito il Sistema sanitario penitenziario regionale

 

Comunicato stampa, 2 ottobre 2008

 

Il 30 settembre 2008 la Giunta Regionale piemontese ha approvato la delibera 14-9681 con cui si definisce il nuovo modello organizzativo del servizio sanitario penitenziario. Dopo la deliberazione 2-8947 del 10 giugno 2008 di recepimento del Dpcm 01/04/08, e l’accordo sindacale del 04/07/08, quella odierna costituisce l’importante e definitiva svolta nel percorso di riforma della Sanità penitenziaria.

Il Forum Regionale Piemontese per il diritto alla salute dei detenuti e delle detenute ha fin dall’inizio sostenuto il delicato percorso con un contributo propositivo nell’ambito del Gruppo Tecnico per la tutela della salute in carcere, istituito fin dal novembre 2007, con un’azione di sensibilizzazione del territorio, e di corretta informazione sui contenuti del processo riformatore.

Nelle prossime settimane l’impegno sarà in tal senso intensificato, e vedrà tra le sue priorità la concretizzazione a livello regionale della significativa attenzione rivolta dal Forum Nazionale alla popolazione detenuta che, al pari di molti operatori coinvolti nel passaggio al Ssn, vive tuttora una situazione di ansia e di precarietà.

Oggi è comunque il momento per evidenziare l’importanza di una delibera che, in un panorama nazionale ancora incerto e sovente agli albori di un vero processo di trasformazione, istituisce un impianto organizzativo serio e attento alle complesse e variegate esigenze dell’esecuzione penale in tema di domanda di salute.

Di estrema importanza appare l’istituzione sperimentale di un Dipartimento Regionale per la Tutela della Salute in Carcere (Drtsc), con il compito di garantire un’omogeneità di intervento in ambito regionale e si sovrintendere ad un processo di riordino realmente rispondente all’obiettivo di tutela del diritto di salute in ambito penitenziario.

Nel confermare all’Assessore alla Salute, alla Direzione regionale della Sanità e all’Ufficio regionale per la tutela della salute in ambito penitenziario l’apprezzamento per il lavoro finora svolto, si augura un felice e proficuo prosieguo del lavoro e si auspica che l’attività del neo-istituito Drtsc continui a caratterizzare la Regione Piemonte come uno dei più significativi capisaldi dell’importante processo riformatore.

 

Forum piemontese per il diritto alla salute dei detenuti

Il Presidente, Anna Greco

Liguria: vademecum per gli assistenti volontari nelle carceri

 

Comunicato stampa, 2 ottobre 2008

 

La Crvgl (Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Liguria) ha presentato alle associazioni la nuova edizione del "Vademecum per l’assistente volontario nelle carceri". Questo manuale fa seguito al nostro primo "Vademecum" pubblicato nel 2003 e attualmente esaurito; a cinque anni di distanza ci è sembrato utile ampliarlo e aggiornarlo, tenendo conto delle nuove normative e delle esperienze maturate nel frattempo dai nostri volontari.

Il "Vademecum si rivolge: a coloro che intendono affrontare per la prima volta un’esperienza di volontariato in carcere; a loro sono rivolte le parti I e II, che offrono un’informazione di base sugli Istituti penitenziari, sulle figure professionali che vi operano, sulle principali leggi che disciplinano l’azione penale e sul ruolo del volontariato in ambito penitenziario; ai volontari che già operano in carcere; a loro è rivolta in particolare la parte III, che fornisce un aggiornamento sulle leggi penitenziarie più recenti; ai volontari che svolgono il loro impegno all’esterno del carcere, presso gli Uepe o nelle strutture di sostegno al reinserimento sociale, e devono affrontare il complesso mondo legislativo e le problematiche alle persone in misura alternativa e agli ex detenuti.

 

Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Liguria

Padova: in Casa Circondariale sono stranieri 8 detenuti su 10

di Egle Luca Cocco

 

Il Gazzettino, 2 ottobre 2008

 

È il dato più alto in Italia. Gli agenti penitenziari: "Sistema giudiziario assurdo, è una situazione insostenibile".

Toccano terra a Lampedusa ma è come se sbarcassero in Veneto. Nella casa circondariale di Padova, l’80,43 per cento dei detenuti in attesa di giudizio è straniero. Un dato, pubblicato dal ministero della Giustizia e aggiornato allo scorso 30 giugno, che in Italia, dove la media è del 37,45%, trova un solo riscontro: a Macomer, in Sardegna, con l’80,49%.

Se nella casa circondariale Pagliarelli di Palermo la percentuale è del 35,98, al Regina Coeli di Roma è del 62,22, al San Vittore di Milano del 64,37 e a Bologna del 65,11. Percentuali, quest’ultime, che nel Nordest diventano "normali": 68,47 a Verona, 64,63 a Vicenza, 64,54 a Belluno, 63,14 a Treviso, 61,32 al Santa Maria Maggiore di Venezia, 54,64 a Rovigo, 64,09 a Udine e 55,41 a Pordenone.

"Si tratta per la maggior parte dei casi di piccoli spacciatori e, soprattutto, di clandestini arrestati per la Bossi-Fini - sottolinea Giampietro Pegoraro, agente della polizia penitenziaria e segretario regionale del sindacato di categoria aderente alla Cgil -. Immigrati che stanno in cella qualche ora ma che richiedono da parte nostra, che siamo sempre sotto organico, un impegno gravoso. Ci vogliono quattro ore per sistemarli e poi, appena terminata la direttissima, al massimo il giorno dopo, ritornano liberi. Il sistema giudiziario è assurdo e la situazione ormai sta diventando insostenibile. Bisogna trovare altre soluzioni, fare leggi migliori e assumere più poliziotti".

Nel 2001, al 31 dicembre, nelle 206 carceri italiane c’erano 16.294 detenuti stranieri e tre anni dopo erano 17.819. Grazie all’indulto del maggio 2006, alla fine di quell’anno il numero era sceso a 13.152, ma che quel provvedimento non sia servito a nulla basta guardare il dato del 2007: 18.252. E nel primo semestre di quest’anno si è ulteriormente rialzato. Negli istituti italiani, al 30 giugno, su 55.057 reclusi, 20.617 erano immigrati.

La macchina della giustizia e della sicurezza, nel Nordest, di fatto lavora quasi esclusivamente per la criminalità straniera. Una criminalità in casi isolati organizzata. Spesso, appunto, si tratta di clandestini e piccoli spacciatori di droga. Una macchina che consuma molto ma spesso gira a vuoto, insomma un motore immobile che nel concreto non riesce a fornire sicurezza. Tornando a Padova, infatti, i detenuti nella casa di reclusione, ovvero quel carcere dove resta chi deve scontare una pena definitiva, la percentuale di stranieri scende al 42,82 per cento.

 

È un porto di mare. Gente che va, gente che viene

 

"Si parla sempre di sicurezza - riprende Pegoraro - ma poi si fa poco o nulla. Perché troppi non sanno come funzionano le cose veramente. Facciamo un esempio, esaminando i due casi più ricorrenti: uno spacciatore maghrebino sorpreso a spacciare mezzo grammo di eroina o un extracomunitario arrestato per aver violato l’ordine del questore a lasciare l’Italia perché senza permesso di soggiorno. L’Abdel di turno viene portato nella caserma dei carabinieri o in questura. Non ha documenti, quindi deve essere foto segnalato. Magari non si saprà il suo vero nome, ma militari o agenti sapranno grazie alle impronte digitali se in passato ha commesso altri reati, se è un ricercato o se, appunto, è destinatario di qualche provvedimento.

Il pusher è incensurato, o ha piccoli precedenti; l’altro, invece, è clandestino, ma è già stato fermato e nonostante l’espulsione è rimasto in Italia. Abdel viene dunque arrestato con poliziotti e carabinieri che devono informare il magistrato di turno (che può anche decidere per la sola denuncia a piede libero) e un avvocato, devono repertare quel che eventualmente sequestrano e devono preparare i verbali.

Almeno tre ore di lavoro, spesso sconfinando nello straordinario (che oltretutto non sempre viene retribuito per mancanza di fondi...) e poi Abdel arriva in carcere e viene affidato agli agenti della penitenziaria. E qui se ne vanno altre quattro ore tra un nuovo foto segnalamento per l’immatricolazione, un’altra perquisizione, la consegna di quel che serve a una persona che non ha nulla (lenzuola, cuscino, spazzolino, forchette e così via) e la visita medica (tutte pratiche che hanno tempi lunghi perché lo straniero non sa o finge di non sapere l’italiano).

La mattina seguente, altri tre poliziotti devono portare il detenuto in tribunale per il processo per direttissima. Condanna o patteggiamento che sia cambia poco. Nove volte su dieci il giudice ordina l’immediata scarcerazione. E così agli agenti della penitenziaria tocca un altro paio d’ore di lavoro per rimettere in libertà lo straniero.

Insomma, come voler svuotare l’oceano con un cucchiaino e con la prospettiva che le cose sono destinate a peggiorare: la casa di reclusione di Padova, ad esempio, con 696 detenuti condannati è di nuovo sovraffollata come prima dell’indulto.

Ferrara: in 3 anni con il "Patto" reinserite quasi 100 persone

 

Redattore Sociale - Dire, 2 ottobre 2008

 

Ex detenuti, ex tossicodipendenti, pazienti psichici, anziani e persone in stato di povertà estrema: sono quasi 100 i soggetti coinvolti nei progetti creati dal "Patto" tra istituzioni, aziende e terzo settore.

Un "Patto" che in tre anni ha accompagnato dall’accoglienza all’autonomia quasi cento persone in situazione di disagio sociale. A Ferrara, istituzioni, imprese e terzo settore hanno stretto una collaborazione per l’inserimento lavorativo di ex detenuti, ex tossicodipendenti, pazienti psichici, anziani e soggetti in stato di povertà estrema. "Individui la cui fragilità sociale", spesso accompagnata da problemi pratici (come ad esempio la difficoltà di trovare un’abitazione) e dalla mancanza di leggi e servizi ad hoc, "può sbarrare la strada verso l’autonomia", commenta l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Ferrara Maria Giovanna Cuccuru.

A fare il punto su un percorso di avviamento al lavoro iniziato nel 2005 e destinato a continuare e ad estendersi dal territorio comunale a quello di tutta la provincia ferrarese sono stati amministratori locali, aziende e mondo del no profit all’interno del convegno "Inserisce bene chi inserisce l’ultimo".

"Abbiamo agito sui soggetti svantaggiati per il cui inserimento lavorativo non esiste una normativa specifica - spiega l’assessore Cuccuru -; inoltre abbiamo operato in sintonia con le imprese e la cooperazione sociale: senza le aziende non c’è vera inclusione sociale, perché il lavoro è per eccellenza il mezzo per raggiungere l’autonomia".

Il "Patto per Ferrara" nasce nel 2005 come un’alleanza tra enti locali, Camera di commercio, associazioni di categoria, sindacati e terzo settore, che ha realizzato numerosi progetti di inserimento messi a punto coinvolgendo finora un numero di imprese che supera la trentina e un team di tutor e operatori sociali. Delle 71 persone che hanno già concluso il loro percorso, quasi il 40% è arrivata all’assunzione più o meno stabile. Il 30% delle persone coinvolte ha invece deciso di seguire altri progetti, il 20% ha ottenuto forme di inserimento più graduale, mentre il 10% circa ha abbandonato il cammino. Altre 18 persone stanno terminando il percorso d’inserimento in azienda attraverso borse lavoro (10) e stage (8).

Il progetto è cresciuto di anno in anno: dai 5 soggetti coinvolti nel 2005 si è passati ai 22 del 2006 e ai 34 del 2007, fino ai 28 di quest’anno. Alla fine dell’anno scorso, sei imprese profit avevano stretto contratti sia a tempo indeterminato che determinato e anche 5 aziende no profit avevano assunto. Il "Patto per Ferrara" ha coinvolto numerosi enti: oltre al Comune, anche l’Ausl, l’associazione Viale K, il Centro Donna giustizia, la cooperativa sociale Camelot, l’Associazione italiana soci costruttori, l’Associazione industriali, l’Api, Cna, Confartigianato, Confesercenti, Confcommercio, Confcooperative, Legacoop, Consorzio Impronte Sociali, Cia, Coldiretti, Cigl, Cisl, Uil, e Sipro spa.

Per rendere funzionale il "Patto", ciascuno degli enti coinvolti ha messo in campo le proprie risorse: il settore pubblico (ovvero il Comune di Ferrara) ha predisposto le borse lavoro, i tutor, una campagna di comunicazione sociale e una serie di riconoscimenti alle imprese (tra cui un bonus una tantum di 3 mila euro per ogni assunzione a tempo indeterminato). Le associazioni di categoria hanno offerto servizi e sconti sulle tariffe, informazioni e consulenza e mediazione relazionale sul luogo di lavoro.

Porto Azzurro: sabato teatro-carcere aperto pubblico esterno

 

Comunicato stampa, 2 ottobre 2008

 

La Direzione della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, nell’ambito del progetto di laboratorio teatrale permanente reso possibile dagli operatori dell’associazione "Dialogo", dal sostegno della Regione Toscana Settore Spettacolo e, soprattutto, dalla adesione partecipata e costante dei detenuti, dopo il successo della prima rappresentazione, aperta al pubblico, che ha avuto il 20 settembre 2008, ha predisposto la replica della rappresentazione teatrale-biblica del gruppo "Il Carro di Tespi", dal titolo - Don Chisciotte "Eroe" di ieri e di oggi", per il giorno 4 ottobre 2008.

Allo spettacolo sono invitati ad assistere, oltre che ai detenuti interessati, ai parenti dei detenuti attori, gli studenti delle scuole superiori dell’Isola d’Elba, ospiti esterni ed un gruppo di persone diversamente abili.

La manifestazione è stata resa possibile dalla adesione partecipata di un folto gruppo di detenuti, che costantemente si è applicato nell’elaborazione dei testi, nelle coreografie e nella recitazione e di un gruppo di docenti e di giovani sensibili ai processi ed ai percorsi riabilitativi.

Tali interventi rafforzano la capacità di analiste e relazionali dei detenuti e creano un rapporto di sinergia con il tessuto sociale che, solo, può garantire i processi di reintegrazione delle persone che, espiata la pena e pagato il proprio debito deve poter perseguire i processi per una completa reintegrazione.

 

Direzione della C.R. di Porto Azzurro

Immigrazione: Fortress Europe; 191 i morti in mese settembre

 

Redattore Sociale - Dire, 2 ottobre 2008

 

Nuovo rapporto dell’Osservatorio sulle vittime dell’immigrazione. Dispersa una nave con 83 egiziani al largo della Grecia. Nel Canale di Sicilia almeno 54 annegati. Un cayuco diretto alle Canarie ritrovato ai Caraibi.

Il 23 settembre le autorità egiziana hanno dichiarato dispersa una nave con 83 migranti egiziani diretti in Grecia. Erano partiti tre giorni prima dalla città di Dumyat, vicino Porto Said. Due settimane prima, il 10 settembre, era stata intercettata una barca di 12 metri trasportata dalla corrente, 7 miglia al largo di Falmouth Harbor, nell’isola di Antigua, nei Caraibi. Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. A bordo c’erano gli scheletri di otto persone. E un passaporto del Mali. Proprio così. Era un cayuco diretto alle Canarie, finito alla deriva e trasportato dalle correnti fino ai Caraibi.

Un caso simile si era verificato lo scorso anno a Barbados. Notizie come queste danno la misura di quanti naufragi fantasma accadono senza che se ne abbia notizia. Quanti dispersi mancano all’appello? Non lo sapremo mai. Le stragi di migranti e rifugiati lungo le frontiere europee continuano imperterrite, accompagnate dal cinismo e dall’indifferenza dell’Europa e dei paesi del Mediterraneo. Il bollettino di settembre parla di 191 morti documentate.

I dati sono stati diffusi dall’osservatorio sulle vittime dell’immigrazione Fortress Europe che ha pubblicato oggi il rapporto mensile di settembre, con un reportage dalle basi militari britanniche di Larnaca e Dhekelia, sull’isola di Cipro, dove da dieci anni sono bloccati una sessantina di rifugiati kurdi. Secondo le notizie censite sulla stampa internazionale da Fortress Europe, dal 1988 i migranti morti lungo i confini europei sono almeno 13.098.

Oltre al naufragio degli egiziani e al ritrovamento ad Antigua, la cronaca registra 54 vittime nel Canale di Sicilia, di cui 35 in un unico naufragio al largo di Malta. Mentre un uomo è morto sulla rotta tra Algeria e Sardegna. Al largo delle isole Canarie, il 4 settembre, è stata intercettata una barca con 13 morti a bordo e gli altri passeggeri fortemente disidratati.

Erano partiti 12 giorni prima dalla Mauritania. Un altro cadavere è stato ritrovato in mare e una quindicesima persona è deceduta pochi giorni dopo in ospedale. E in Mauritania sono morti due uomini, dopo essere stati espulsi dal Marocco e abbandonati in mezzo al deserto.

Infine 21 rifugiati eritrei ed etiopi sono annegati in un fiume, in Sudan, mentre tentavano di raggiungere clandestinamente Khartoum per poi proseguire il viaggio verso la Libia. Due uomini sono stati uccisi dagli spari della polizia egiziana lungo la frontiera con Israele. Un ragazzo afgano di 16 anni è stato trovato morto nel porto di Brindisi, nascosto su un camion partito dalla Grecia. E in Grecia quattro uomini sono morti nei campi minati di Evros, al confine con la Turchia.

Immigrazione: Medici Senza Frontiere contro Governo greco

 

Comunicato stampa, 2 ottobre 2008

 

L’organizzazione esprime profonda preoccupazione per l’insufficiente contributo delle autorità greche nell’assistenza ai migranti detenuti.

Medici Senza Frontiere (MSF) annuncia la chiusura del progetto di emergenza, dopo soli quattro mesi, nel centro di detenzione per migranti di Lesbo (Mytiline), e chiede alle autorità greche di assumersi le proprie responsabilità, garantendo assistenza medica adeguata e condizioni di vita umane ai migranti.

L’intervento di emergenza di MSF è cominciato a giugno 2008 dopo una missione esplorativa che ha confermato la carenza di assistenza medica e psicologica e ha evidenziato condizioni di vita pessime per i migranti chiusi nei centri di detenzione. La mancanza di supporto e di impegno da parte delle autorità ha condizionato pesantemente gli sforzi dell’organizzazione per fornire assistenza medica e per migliorare le condizioni di vita nei centri. Tale situazione ha convinto MSF a non continuare il progetto nel centro di detenzione. Di conseguenza MSF ritiene che non abbia senso continuare il progetto nel centro di Lesbo.

"Il contributo limitato delle autorità ha ostacolato il nostro sforzo di offrire assistenza medica e di migliorare le condizioni all’interno del centro di detenzione", ha detto Yorgos Karagiannis, capo missione dei progetti di MSF per i migranti senza documenti in Grecia. "In numerose occasioni il team medico ha dovuto visitare i pazienti attraverso le sbarre, poiché i migranti non erano autorizzati ad uscire dalle stanze. Ci sono voluti più di tre mesi - con la pressione di MSF e di altri attori - per permettere ai migranti di utilizzare regolarmente il cortile, assegnare un nuovo medico alla struttura e avviare i lavori di manutenzione del centro. Gli interventi tecnici che abbiamo realizzato per migliorarne le condizioni avrebbero fatto la differenza, ma le autorità non hanno potuto garantire né una minima manutenzione, né gli interventi di pulizia. Devono pertanto dimostrare l’impegno necessario per tale situazione, dal momento che ci sono ancora donne, minori e bambini piccoli rinchiusi negli stessi locali degli uomini adulti, in condizioni inaccettabili, senza alcuna attenzione ai loro crescenti bisogni", sottolinea Karagiannis.

Dall’inizio del progetto, l’organizzazione ha fornito assistenza medica e psicologica ai migranti che provengono maggiormente da Afganistan, Somalia o Palestina, e fugge da guerra, violenza, fame e da condizioni di vita estreme. È significativo che il numero totale di immigrati detenuti nell’isola fino ad agosto sia stato di 6.863 (secondo i dati di delle autorità di Polizia di Lesbo), superando già il numero totale del 2007 (6.147 persone). Nonostante l’accesso limitato, MSF ha visitato 1.202 pazienti che nella maggioranza dei casi evidenziano patologie quali infezioni respiratorie e malattie dermatologiche. Inoltre, ha garantito assistenza medica a migranti affetti soprattutto da ansia, stress post-traumatico e depressione. L’organizzazione stima che il numero dei pazienti visitati avrebbe potuto essere il doppio se vi fosse stato libero accesso ai migranti detenuti.

MSF sottolinea la necessità di misure immediate da parte delle autorità per assicurare condizioni di vita umane e assistenza medica all’interno dei centri, specialmente per donne e bambini e di garantire che le migliorie apportate nella struttura siano sostenibili. L’organizzazione effettuerà un attento monitoraggio dei centri di detenzione e continuerà a rispondere ai bisogni dei migranti senza documenti presenti nel paese a Patrasso.

Immigrazione: il razzismo, l’eterno ritorno dei cattivi maestri

di Adriano Prosperi

 

La Repubblica, 2 ottobre 2008

 

All’appuntamento col settimo decennale delle leggi razziali - ma sarebbe meglio chiamarle col loro vero nome, leggi razziste - l’Italia, il suo governo, la sua scuola, ma anche larga parte della sua popolazione si presentano più distratti del solito, il che non è poco. Sono gli eredi politici del regime fascista, oggi al governo in Italia, che ne parlano.

Lo fanno ricorrendo a un linguaggio di sapore religioso: si chiedono, col sindaco di Roma Alemanno, se quelle leggi furono il male assoluto. Il veleno dell’argomento è scoperto, ingenuo. "Assoluto" è una parola che appartiene al linguaggio apocalittico dell’ideologia nazista. Così quelle leggi vanno sul conto del razzismo nazista e il regime fascista è assolto da ogni colpa. La tendenza italica all’autoassoluzione è antica e ben nota.

Ma è necessario fare i conti con le leggi razziste che operarono nell’Italia di Mussolini dal 1938 al 1945. In questo settantesimo anniversario spinge a ricordarle non la minaccia di un ritorno dell’antisemitismo e nemmeno quel razzismo volgare che oggi in Italia è prodotto e alimentato dalla paura dello straniero, dell’immigrato: si tratta piuttosto di capire che cosa significarono allora quelle leggi nel mondo della scuola e nella cultura religiosa italiana.

La ragione è semplice: le memorie di quegli anni parlano di una assenza di reazioni proprio nei luoghi che dovevano esserne più direttamente colpiti e più capaci di reazione - quelli della scuola e quelli della Chiesa. Oggi è sul fronte della scuola e su quello della integrazione fra culture e religioni diverse che il disagio della società italiana è più forte.

E la mancata elaborazione di quel passato ne è insieme sintomo e causa. Lo stato della memoria della cosiddetta società civile è quello che è. "Priebke? Boh!": così hanno reagito qualche giorno fa le candidate a un premio di bellezza in quel di Frosinone, a poca distanza dalle Fosse Ardeatine, dove qualcuno ha avuto l’idea di invitare come testimonial quella cariatide di assassino nazista. Idea in sé non nuova - lo sanno bene i "mostri" della cronaca nera - se non fosse che i criminali di guerra sono vecchi e soprattutto ignoti ai più.

Altro che memoria divisa. Il fiume di un’opinione pubblica politicamente indifferente e infastidita dalle dispute ideologiche li ha cancellati. La stagione della post-politica perfeziona così la mancata resa dei conti col proprio passato con cui l’Italia ufficiale chiuse tra parentesi il fascismo. E ritorna in auge l’immagine negativa della politica e dei politici di mestiere, simile in apparenza soltanto a quella instillata dalla propaganda del ventennio fascista. Allora nella deliberata ignoranza e rifiuto della politica le menti più lucide videro il prodotto e la radice stessa del fascismo italiano. Lo testimoniano i bellissimi Diari di un partigiano ebreo di Emanuele Artom (editi da Guri Schwarz per Bollati Boringhieri).

Emanuele Artom fu fatto prigioniero e ucciso dopo atroci torture dai militi della RSI - quelli per i quali si osa oggi chiedere parità di onore pubblico con le loro vittime. Il suo è uno dei nomi che quelle leggi cancellarono dal mondo degli studi e della scuola. Accanto al suo ci sarebbero tanti altri nomi da ricordare. Ma il fatto su cui si deve tornare a riflettere è l’importanza della scuola per l’attuazione delle leggi del 1938.

Qui il regime fascista fu più rapido e più duro di quel nazismo di cui lo si vorrebbe un passivo imitatore in materia di razzismo, un succubo, un ingenuo scolaro traviato da cattivi compagni. L’espulsione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche reca la data del 5 settembre 1938 col Regio Decreto n. 1390: "Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola". Come ha fatto presente Michele Sarfatti, a Berlino la stessa misura fu presa solo due mesi e mezzo più tardi. Ne fu attore primario Giuseppe Bottai ministro di quella che si chiamava allora l’Educazione Nazionale.

Fu lui a far sì che le scuole si riaprissero cancellando studenti e professori ebrei e libri di testo di autori ebrei. Spirito religioso, quel Bottai: il carteggio che intrecciò con don Giuseppe De Luca ha accenti di grande devozione. Sotto di lui la struttura burocratica e la catena di comando della scuola dettero prova di una durezza e di un’efficienza insolite.

Quando le scuole si riaprirono, gli studenti definiti ebrei da quelle leggi erano scomparsi e così pure i professori. Dov’erano finiti? E soprattutto: qualcuno se lo chiese? Oggi le carte di polizia ci permettono di ricostruire i percorsi degli scomparsi. E anche in questo caso l’efficienza dimostrata allora da un paese noto per la sua sciatteria istituzionale desta stupore. Le spie che si incollarono al professor Paul Oskar Kristeller ne annotarono ogni passo. Elenchi di nomi e cognomi ebraici preparati da tempo permisero di seguire i movimenti delle persone.

Quando venne il momento della deportazione nei lager, si fu in grado di rintracciare e chiudere nelle carceri fiorentine di Santa Verdiana la professoressa Enrica Calabresi, studiosa di scienze naturali cacciata dall’università in esecuzione del decreto del 5 settembre 1938: e solo la fiala di solfuro di zinco che la professoressa portava con sé le offrì una via d’uscita prima di salire sul treno per Auschwitz. Con la scuola va insieme la religione: il linguaggio del razzismo fascista, profondamente diverso da quello nazista, esaltava la superiore spiritualità della "razza italiana".

Era un’ambigua mistura di fumisterie idealistiche e di termini religiosi. Quanto contribuì quel linguaggio a oscurare la coscienza della realtà delle cose? Che cosa era la religione che si insegnava nelle scuole italiane dopo il Concordato del ‘29? Qui non si tratta solo di misurare la timidezza e l’unilateralità delle reazioni ufficiali delle autorità centrali della Chiesa cattolica, che si preoccupò solo per la legislazione sui matrimoni misti e bloccò la protesta preparata dal defunto papa Pio XI.

Si tratta di capire quanto pesasse allora nella cultura scolastica e nella vita sociale l’antica, plurisecolare tradizione di diffamazione degli ebrei e dell’ebraismo portata avanti dal magistero della Chiesa e diffusa dall’alto attraverso i veicoli della capillare presenza ecclesiastica in Italia. Bisogna tornare a scavare in questo passato italiano. Bisogna che quel che se ne sa diventi patrimonio comune. E per questo è necessario ma non sufficiente che sia chiusa per sempre la porta ai tentativi di rilegittimare il fascismo.

Bisogna che la scuola pubblica sia attrezzata come si deve nei confronti dell’intolleranza e dell’ignoranza religiosa e culturale. Oggi il linguaggio senza tempo delle pretese vaticane rivendica nuovi privilegi per le scuole cattoliche. Eppure la scuola pubblica ospita un insegnamento della religione pagato dallo Stato e gestito dai vescovi che di fatto cancella la parità dei diritti costituzionali e tende a vaccinare i giovani contro ogni pluralismo culturale e religioso. Il fatto che oggi in Italia non siano gli ebrei a essere minacciati più direttamente dall’intolleranza niente toglie all’urgenza del problema.

Il passato può insegnare qualcosa. E la scuola pubblica merita che vi si investano tutti i pensieri di un paese che vuole avere un futuro. "Se si pensa a com’è disarmata la giovinezza, - diceva Cesare Garboli - e a com’è fragile davanti ai cattivi maestri".

Immigrazione: Amato; allarme razzismo, a destra e a sinistra

di Stefano Cecchi

 

Quotidiano Nazionale, 2 ottobre 2008

 

Forse la pagina più buia dell’Italia del ‘900. Esattamente settanta anni fa, nel settembre e poi nel novembre del 1938, il governo fascista varò le cosiddette leggi razziali. Un vero e proprio manifesto della discriminazione.

 

Professor Giuliano Amato, cosa furono quelle leggi?

"A loro modo una sorpresa".

 

Una sorpresa?

"Sì. L’ingresso del razzismo antiebraico come politica del regime stupì gli italiani tutti. Gli ebrei erano integrati nella nostra comunità e lo stesso fascismo li aveva trattati sempre paritariamente. C’erano stati ministri ebrei, Mussolini aveva avuto consiglieri ebrei..."

 

Quelle leggi parvero insomma un cedimento all’alleato nazista...

"Sostanzialmente sì. Non a caso ci furono grosse resistenze nel Paese".

 

Vuol dire che sostanzialmente gli italiani non le fecero proprie?

"Voglio dire che davanti alle leggi razziali gli italiani si divisero in due: chi le applicò con zelo e chi, invece, cercò di darne interpretazioni più flessibili".

 

Adriano Prosperi, sostiene che nel cacciare ali ebrei dal mondo della scuola, gli italiani furono più intransigenti dei nazisti...

"Gliel’ho detto: in taluni casi ci fu zelo dettato anche da motivazioni corporative. Negli ordini professionali, ad esempio, l’espulsione degli ebrei venne accolta da alcuni con gioia semplicemente perché riduceva la concorrenza. Se ne profittò in qualche modo. Però..."

 

Però?

"Sono convinto che il salto di qualità sul tema razziale lo si fece solo durante la Repubblica di Salò col manifesto di Verona del novembre 1943".

 

Si può azzardare l’idea che, per cultura e costumi, l’Italia sia sostanzialmente refrattaria all’intolleranza?

"Non lo so. Di sicuro dico che l’intolleranza nei confronti degli ebrei incontrò una resistenza culturale".

 

Oggi invece...

"Oggi le differenze sono più visibili. Con gli ebrei a dividere era la religione, ovvero una specie di razzismo spirituale. Oggi, che a dividere è il colore della pelle, la lingua, le tradizioni, stanno purtroppo emergendo pulsioni razziste determinate da oggettive difficoltà di adattamento a un contesto nuovo di multi etnicità a cui non eravamo abituati da secoli. Non solo".

 

Dica.

"Purtroppo queste pulsioni sono facilitate da politiche nelle quali le ragioni della sicurezza sono diventate talmente predominanti da dare la sensazione agli italiani che in fondo è giusto essere contro i diversi".

 

C’entra qualcosa in tutto ciò anche la crisi economica?

"Non c’è dubbio che anche questo pesi. Ma in Italia la ragione principale della diffidenza è la sicurezza".

 

Prendere le impronte ai Rom è dunque razzismo?

"Io, anche da ex ministro degli Interni, non ho nessuna riserva sull’uso delle impronte digitali. Ma se qualcuno dice che vuol prenderle solo ai Rom, come posso non trovarci del razzismo?".

 

I giornali, la tv, la scuola posso fare qualcosa per ridurre l’intolleranza?

"Possono fare moltissimo. Non c’è nulla di atavico nell’atto di avere fiducia o sfiducia verso il diverso. Queste sono tutte induzioni culturali. E sulle induzioni culturali, chi concorre a formare le opinioni di ciascuno di noi ha un grande potere di insieme".

 

Professore, secondo lei oggi c’è più razzismo a destra o a sinistra?

"Se si guarda ai partiti e alle espressioni politiche ce n’è di più a destra. Ma se si osservano invece i ceti sociali di riferimento, la cosa si fa più complessa. Per questo, una risposta onesta e non ideologica alla sua domanda è: non lo so".

Immigrazione: nuovo Capo vigili Parma; più rispetto per diritti

di Michele Smargiassi

 

La Repubblica, 2 ottobre 2008

 

Un congedo peggiore non poteva immaginarlo. Sono le nove di mattina e da nove ore Emma Monguidi non è più la comandante della polizia municipale di Parma. Avvicendamento previsto: ma cade nel mezzo della tempesta e questo cambia tutto. Ha i capelli biondi in ordine, la divisa impeccabile ma il viso molto tirato. Sapeva di essere l’ennesimo comandante pro-tempore, l’ottavo in otto anni, ma solo per lei l’uscita di scena è così amara. Nel salone pieno di colleghi la comandante uscente non riesce a dire più un paio di frasette sul tema "grazie per la collaborazione".

Il vero comandante sembra l’assessore Monteverdi, è lui che sprona e rincuora gli agenti usando un noi che dice tutto: "Coraggio, siamo nell’occhio del ciclone solo perché abbiamo fatto il nostro dovere, ma vedrete che si chiarirà tutto". L’autentico nuovo comandante si chiama invece Giovanni Iacobazzi e viene dai carabinieri dei Nas.

Parla agli uomini come se non sapesse nulla del terremoto in corso, "serenità", "collaborazione", però poi scandisce: "Per me è molto importante la formazione. Nessuno nasce ?già imparato’. Bisogna saper fare bene quello che si fa, soprattutto quando si vanno a toccare i diritti fondamentali della persona". Chi vuol capire ha capito.

Agenti in giacca d’ordinanza, agenti con la paletta nello stivale, agenti in borghese: tra quelli che si disperdono nel piazzale dopo il mesto cambio della guardia ci sono forse anche i sei che Emmanuel ha conosciuto troppo da vicino. Ma nessuno te li indica: "Non li conosco", "Non so neppure i nomi". Un delegato sindacale fa il loro portavoce: "Non possono parlare per via dell’inchiesta, ma le fanno sapere che sono tranquilli e collaboreranno con l’inchiesta". Oggi si gioca in difesa. Parla ufficialmente solo il sindacato autonomo, il Sulpm, e attacca la stampa: "parzialità, fa di tutt’erbe un fascio".

Niente nomi per gli sfoghi a mezza voce: "Quando i politici ci chiedono i soldi delle multe per i bilanci comunali siamo bravi, quando ci occupiamo di sicurezza siamo cattivi". "È difficile fermare uno che scappa senza fargli neanche un graffio". E scrivere negro sulla sua busta, è altrettanto inevitabile? Qui arriva la risposta che non t’aspetti, la mezza ammissione: "Forse non avevano capito il cognome, era solo un appunto per identificarlo". Come no: scrivi negro, e l’identificazione è assicurata. Ti guardano male: "Uno spacciatore c’era davvero, ci sputate addosso ma garantiamo anche la vostra sicurezza".

Ma lo "sanno fare", per dirla col nuovo comandante? Un po’ troppi gli "incidenti" che rispuntano dagli archivi delle cronache. Cosa "sa fare" quel Nucleo di pronto intervento che non sanno neppure dire di quanti agenti consista, quello che agisce quasi sempre in borghese e lavora solo su spaccio e prostituzione? "Hanno seguito un corso speciale", assicura il corridoio del Comando. E come si entra in questa task force?

Basta farsi avanti, pare. Anche ora che cerca un paio di agenti cinofili per i nuovi cani antidroga, l’assessore apre il reclutamento volontario: "Chi se la sente...". Un gruppo auto-selezionato. Molti gli ex vigili motociclisti, spiegano. Una "squadra mobile" municipale, un corpo dentro il corpo. Gestito come? Nessuno risponde: la polizia municipale di Parma parla con la stampa tramite avvocati.

"Mettere la sicurezza urbana nelle mani della Polizia municipale si sta rivelando un azzardo": lo dice la Cgil, che oggi andrà in piazza in difesa di Emmanuel. Ma cominciano a pensarlo in molti, in città. E quello che lo pensa più di tutti non è un oppositore politico, anzi sta in municipio: è Elvio Ubaldi, nove anni in fascia tricolore, primo sindaco "civico" di una grande città, l’uomo che strappò Parma al centrosinistra, oggi presiede il Consiglio comunale ed è il padrino politico del suo successore Vignali.

Ma su questa faccenda lo molla: "Sulla sicurezza i sindaci di tutti i partiti e il governo stanno giocando una partita isterica. Il governo scarica furbescamente le sue responsabilità, i sindaci per protagonismo cadono nella trappola, mandano in strada agenti maldestri, e così succedono gli incidenti.

I vigili di Parma li conosco: non sono Rambo né razzisti. Sono come tutti i vigili d’Italia: quali sono i criteri di selezione per entrare in polizia municipale? Conoscenze di diritto amministrativo, pratica col traffico, poco altro. Digiuni assoluti di contrasto al crimine, impreparati a gestire un’emergenza. Anche atleticamente... Con tutto il rispetto, ma lei ha visto la taglia di certi vigili?".

Se fosse stato lui il sindaco, la Carta di Parma, il manifesto dei sindaci sulla sicurezza voluto dal suo successore, non l’avrebbe neppure firmata: "Produce uno stato confusionale. Abbiamo già tre polizie per la repressione del crimine. Metterci anche i vigili è sbagliato. È come dire alla città: è vero, siamo in grave pericolo. Non è così: le sembra che Parma sia Castel Volturno? Invece di lavorare per la serenità dei cittadini, che è il compito di un sindaco, si sollecitano reazioni allarmate, si autorizzano isterie collettive. Quest’uso della polizia municipale deve finire prima possibile".

Droghe: Giovanardi; a marzo la quinta Conferenza nazionale

 

Redattore Sociale - Dire, 2 ottobre 2008

 

Si terrà a marzo a Trieste la quinta Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze. Lo ha annunciato oggi il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi intervenuto a Spoleto, in Umbria, al convegno nazionale della Fict (Federazione italiana comunità terapeutiche) in corso fino a domani. Si tratterà di una "occasione preziosa per fare il punto sul mercato che cambia e sui nuovi approcci e sarà una conferenza aperta, tutti i contributi saranno ben accetti". Trieste è stato scelta in quanto "crocevia con la middle Europa e con i Balcani". Nel discorso tenuto oggi a una platea costituita per lo più da giovani in trattamento presso comunità terapeutiche come i Ceis e da studenti delle scuole superiori, oltre che da specialisti e operatori, Giovanardi ha esordito dicendo che avrebbe fatto "considerazioni a ruota libera", un "affresco di quello che abbiamo in mente di fare contro il problema droga".

Ha ricordato come sotto la sua guida si sia ricostituito il Dipartimento antidroga, struttura che tra l’altro ospiterà a breve, ha annunciato Giovanardi, Antonio Maria Costa, direttore esecutivo dell’Ufficio delle Nazioni unite per la lotta contro la droga e il crimine (Unodc). Il sottosegretario ha ribadito i compiti del Dipartimento: "È il luogo in cui si tendono rapporti con tutte le realtà che a livello planetario si occupano di contrasto alla droga; il luogo che tende rapporti con le regioni, le quali hanno i fondi per far fronte al problema, nella loro autonomia; rapporti con le comunità di recupero e il volontariato sociale e con il sistema dei Sert pubblici". Ma "certo non siamo solo noi i responsabili del contrasto all’uso di droghe, siamo consapevoli dei nostri limiti. Dobbiamo chiederci cosa fa tutta la società italiana e essere insieme".

Il sottosegretario del governo Berlusconi ha detto ai giovani presenti delle sue perplessità a credere che le imposizioni creino trasgressione, e lo ha fatto raccontando di quando era, recentemente, con monsignor Fisichella sul monte Sinai, in un’ascensione notturna e faticosa: "Mi dicono che non devo dire non drogarti perché si ottiene l’effetto opposto, allora - mi sono chiesto - Mosè doveva non scrivere in quel modo i dieci comandamenti? Non doveva scrivere non uccidere per paura che gli uomini si uccidessero? Noi - ha proseguito - dobbiamo fare legge e azioni giuste". Giovanardi ha ricordato i tre pilastri del proprio mandato sul fronte della lotta alla droga: innanzitutto la prevenzione: è stato realizzato un portale dove da diversi punti di vista - del ragazzo, del genitore, dello specialista - viene affrontato il problema droghe; poi tra una ventina di giorni partirà una campagna di sensibilizzazione sui grandi media. Ma "bisogna tutti partecipare, non dare controinformazione", e il riferimento è a don Andrea Gallo, il prete "liberal progressista" che sullo spinello sarebbe più permissivo.

Secondo pilastro, la repressione ("10-20 mila giovani avvicinati oggi creano il mercato per i prossimi 20-30 anni"): Giovanardi ha spiegato i cardini della legge che porta il suo nome e quello di Fini dicendo di aver fatto la scelta di non ritenere un delitto il drogarsi: tuttavia ha voluto evidenziare come chi usa sostanze fa male a sé e anche agli altri, causando danni sociali come incidenti stradali e inquinamento della società, "si pensi a tutti quei professionisti che assumono cocaina e che sono ricattabili, vivono sovraeccitati e tali sono quando devono fare scelte importanti". Terzo punto del proprio mandato sul fronte dell’antidroga è il recupero: "Qualunque terapia è ammissibile purché volta al recupero e non alla cronicizzazione". E "niente stanze del buco". Lodando le comunità cattoliche come "potenza formidabile", il sottosegretario ha detto che "ci vuole una collaborazione virtuosa tra pubblico e privato", che "chi ha il problema possa scegliere tra pubblico e privato", che "stiamo studiando tentativi di intervento diretto al privato sociale, risorse dirette alle comunità, ma sicuramente questo comporterà appelli alla Corte costituzionale perché non ci compete, insomma scatterebbe un iter farraginoso. Ma è assurdo che non dai fondi a chi sta in prima linea e li dai a chi sta dietro".

Droghe: Fict; strategie contrasto, serve comunità competente

 

Redattore Sociale - Dire, 2 ottobre 2008

 

A Spoleto convegno su "Stili di vita e dipendenze", promosso dalla Fict. Lo psicologo Umberto Nizzoli chiama in causa famiglia e società, dichiara finito il tempo della delega ai tecnici e invita a far studiare in classe il problema.

"Poiché il consumo è inserito nell’attuale concetto di divertimento e promosso secondo le regole di mercato come un brand - per esempio cocaina uguale velocità e successo - è difficilissimo impostare il contrasto". Lo ha detto il professor Umberto Nizzoli, psicologo, direttore del Dipartimento salute mentale e di tendenze dell’Ausl di Reggio Emilia e docente negli atenei di Padova e Modena.

Nizzoli è intervenuto al convegno nazionale in corso a Spoleto su "Stili di vita e dipendenze", promosso dalla Fict in collaborazione con Regione Umbria, Arcidiocesi di Spoleto-Norcia e Caritas Umbria, di fronte a una platea di giovani delle scuole superiori.

Nizzoli ha focalizzato sulla "comunità competente", sostenendo come nuove strategie di contrasto debbano passare per la presa in carico non solo della singola persona ma del contesto familiare e sociale. "Bisogna puntare alla creazione di comunità competenti, il rinnovamento passa attraverso un processo culturale che segna la fine della delega ai tecnici, agli esperti della materia: è la comunità stessa che deve diventare il fulcro delle politiche di contrasto". Per Nizzoli ci vuole "più prossimità nelle normalità, non solo a scuola o nei luoghi di divertimento ma ovunque si raccolgano giovani".

Altro ingrediente essenziale di contrasto è la "genitorialità competente: la maggior parte dei ragazzi dice che la famiglia non ha detto loro nulla in merito alle sostanze stupefacenti. Il genitore che non lo fa trascura i suoi figli, bisogna raccomandare ai genitori un intervento precoce, incisivo, onesto".

Lo psicologo chiama in causa anche la scuola: secondo lui a partire dalla prima media l’abuso di droghe e le dipendenze devono essere oggetto di studio obbligatorio. "Purtroppo però la delega allo specialista sta crescendo e fa comodo a tanti. Individualizza il problema: se è l’individuo ad avere il problema la società può acquietarsi".

Insomma, è il momento per rinnovare le strategie sociali e sanitarie in materia. "innanzitutto bisogna integrare gli aspetti sociale, sanitario ed educativo; in secondo luogo considerare sia le sostanze stupefacenti lecite che quelle illecite. Le nuove strategie, a differenza di ciò che è stato fatto negli ultimi 10-15 anni dovranno tener conto non solo della persona ma della famiglia e della comunità locale. Con questo non intendo dire che la pratica sociale e sanitaria non debba essere costruita attorno alla persona, ma per troppo tempo il consumatore è stato l’unico centro dell’attenzione, anche quando emergeva un chiaro danno (fisico, emotivo, economico) della famiglia e della comunità".

Droghe: Torino; iniziative su narco-sale, ora le chiede la gente

 

Redattore Sociale - Dire, 2 ottobre 2008

 

Il Coordinamento comitati spontanei torinesi favorevole alle stanze del buco, "percorso di cura alla tossicodipendenza" e "minimo danno per il cittadino": in un documento le ragioni del sì.

I soggetti: i tossici di strada; i luoghi: Porta Palazzo, San Salvario, Tossic Park. La soluzione: le narco-sale. Se ne dibatte nuovamente sotto la Mole, non solo negli ambienti politici, ma anche fra i cittadini. Il Ccst-Coordinamento comitati spontanei torinesi, in un documento intitolato "Droghe e stanze del buco: il minimo danno per il cittadino" a firma di Giancarlo Ballisai, si propone di inquadrare la situazione e proporre una politica di "riduzione del danno".

Fermamente contrari ad ogni tipo di stupefacente, i membri del Ccst prendono atto dell’esistenza della tossicodipendenza, ma considerano le stanze del consumo come un modo per aiutare il tossico e tutelare il cittadino. I tossici da strada, si legge nel documento, sono persone totalmente sradicate da ogni contesto sociale e familiare; vivono di scippi, furti, aggressioni, e per acquistare la droga compiono piccoli e grandi reati.

Gli altri soggetti dediti all’eroina, in attesa di diventare cronici, vivono in molti casi in famiglia, dove rubano vari oggetti da vendere nel mercato della ricettazione. Quale sia la loro storia, i tossicodipendenti occupano il territorio, trasformandolo a propria immagine e somiglianza e facendolo diventare loro proprietà. Il tutto sotto gli occhi dei residenti, che assistono alla ricerca della droga, e al suo consumo.

Il bisogno di "farsi" porta il tossico a non curarsi minimamente di chi lo circonda e lo induce a comportamenti pubblici senza più inibizioni, scrive Ballisai, rendendo normale il proprio comportamento e stile di vita. Per esempio, in questi luoghi diventa la normalità lavare le siringhe nelle fontanelle pubbliche, ostentarle sulle orecchie come si trattasse di oggetti ornamentali e bucarsi davanti a chiunque, bambini compresi.

Gli spacciatori, i tossicodipendenti e il sottobosco criminale che gravita attorno, insomma, trasforma totalmente il territorio cittadino, rendendolo non più vivibile, trasformandolo in una zona senza regole. Il Comitato cittadino sostiene che attraverso le stanze del buco, con la somministrazione gratuita delle sostanze stupefacenti, si possa eliminare il fenomeno dello spaccio e favorire, attraverso un contatto diretto con il personale medico, una conoscenza più approfondita del tossicodipendente e orientare gli operatori nell’attivare progetti di cura mirati al soggetto. Narco-sale anche per ridurre il rischio di overdose, evitare malattie come Hiv e le varie forme di epatite, abbattendo contemporaneamente i costi sanitari diretti alla cura del tossicodipendente.

L’uso però deve essere obbligatorio, in spazi che divengano luoghi di cura (come i già esistenti Sert, ospedali o comunità) e non potenziali ghetti. Per realizzare tutto questo è fondamentale l’intervento delle istituzioni. "Le stanze del buco - conclude Ballisai - devono essere intese come un percorso di cura alla tossicodipendenza , anche attraverso il suo mantenimento, qualora non vi siano nel tossico risorse umane spendibili per un recupero sociale; devono altresì essere secondarie ad un progetto politico nazionale più ampio di intervento mirato sulla tossicodipendenza, con una politica di prevenzione ancor prima che di cura del danno".

Spagna: i detenuti dell’Eta in carcere sono 742, è record storico

 

Ansa, 2 ottobre 2008

 

Record storico per il numero dei detenuti dell’Eta, il gruppo armato indipendentista basco iscritto nella lista nera del terrorismo dall’Ue: secondo il quotidiano spagnolo Abc, i detenuti legati all’organizzazione basca sono oggi 742, una cifra mai raggiunta finora. Il maggior numero è dietro le sbarre in Spagna: 583, in 52 carceri diverse. In Francia, gli uomini vicini all’Eta e detenuti in carcere sono ora 158, in 35 diversi istituti penitenziari. Con l’arrivo al potere del presidente Nicolas Sarkozy, l’offensiva contro le basi arretrate francesi del gruppo basco si è intensificata. Secondo Abc, c’è infine un detenuto dell’Eta anche in Canada.

 

 

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