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Giustizia: Radicali; mancano i soldi per le cure ai detenuti
Il Velino, 1 ottobre 2008
"Parte con il piede sbagliato la riforma nelle carceri che da oggi assegna alle regioni l'assistenza sanitaria dei detenuti. Nella sola regione Lazio non sono stati erogati i fondi previsti dalla riforma per un ammontare di 4 milioni di euro, situazione questa che si aggiunge alla gravissima situazione di deficit finanziario. E nelle altre regioni cosa succede?". Lo dichiara in nel testo dell'interrogazione parlamentare presentata oggi Rita Bernardini deputato Radicale - Pd. "Premesso che: Nell'ambito della riforma carceraria, dal 1 ottobre 2008 - spiega la deputata radicale -, è divenuta competenza delle regioni l'assistenza sanitaria ai detenuti; la Regione Lazio, che alla voce sanità si trova in una situazione finanziaria molto grave, la più indebitata d'Italia, dovrà occuparsi dell'assistenza sanitaria di circa cinquemila detenuti distribuiti nelle tredici carceri di sua competenza con un aggravio quindi della spesa e con il grave problema di macchinari, strutture e locali vecchi, inadeguati e non a norma; i fondi di oltre 4 milioni di euro, che il ministero della Giustizia avrebbe dovuto versare il primo trimestre 2008 alla regione Lazio, in vista della riforma entrata oggi in vigore, non sono stati stanziati; va precisato che tali fondi sono una voce distinta dai fondi sui quali il governo è in procinto di intervenire per far fronte alla grave situazione debitoria della regione Lazio; in una precedente interrogazione parlamentare (4-01027), da me presentata il 16 settembre 2008, venivano richiesti chiarimenti riguardo le ingenti somme accantonate e/o non utilizzate per i fini propri della cassa, come peraltro rilevato da un apposito giudizio della Corte dei Conti". La Bernardini chiede: "Per quali motivi non sono stati versati i fondi previsti dalla riforma carceraria che prevedono per il solo primo trimestre 2008, il versamento di 4 milioni di euro alla regione Lazio per far fronte alle cure e all'assistenza di circa cinquemila detenuti; se i versamenti previsti alle altre regioni nel primo trimestre 2008 sono stati effettuati; se non ritenga il governo che sia sempre più urgente istituire la figura del garante dei detenuti affinché le carenze assistenziali e di aiuto della popolazione carceraria vengano monitorate e si possa con maggiore celerità intervenire anche a livello strutturale; se non ritenga necessario destinare con urgenza parte dei fondi della cassa delle ammende a questa gravissima emergenza che viola i più elementari diritti civili e umani della popolazione carceraria". Giustizia: stiamo attenti a chi vuole addomesticare la legge di Carlo Federico Grosso
La Stampa, 1 ottobre 2008
Dopo alcune settimane di silenzio la politica ha ricominciato a parlare di giustizia. Ancora una volta è stato Berlusconi a lanciare il sasso: la riforma deve essere incisiva. Essa dovrà, anzi, tanto più stravolgere gli assetti attuali, quanto più dovesse apparire probabile l’accoglimento dell’eccezione d’illegittimità costituzionale sollevata nei confronti del lodo Alfano o se, a Milano, il processo per corruzione contro il premier dovesse proseguire contro l’imputato non immune accusato insieme a lui. Che cosa farà, a questo punto, il ministro Alfano? Ad inizio settembre aveva dichiarato che obiettivo primario della riforma sarebbe stato l’interesse del cittadino: dunque, nessuna fretta per eventuali modifiche costituzionali, che interessano principalmente gli equilibri fra i poteri dello Stato, ma priorità per le riforme della giustizia civile e penale e dell’organizzazione giudiziaria, finalizzate a realizzare una giurisdizione rapida ed efficiente. Allora mi ero sforzato di credergli. Smentendo clamorosamente se stesso, in questi giorni il Guardasigilli ha annunciato che invece, guarda caso, anche la riforma delle norme costituzionali costituisce un’urgenza. Nell’attesa di conoscere i dettagli dei progetti, è comunque possibile prospettare già ora i nodi che dovranno essere affrontati. E sono nodi non da poco. Mi limiterò ad accennare a due fra i principali: riforma del Csm, obbligatorietà dell’azione penale. In materia di Csm da tempo la maggioranza sta meditando una riforma stravolgente. Se si diminuisce la consistenza dei togati e si aumentano i laici, se si riesce a spaccare il Consiglio, sdoppiandolo in istituzioni separate per i giudici e per i pubblici ministeri, se si consegna addirittura uno dei due consigli alla direzione del governo, se si affida la disciplina dei magistrati ad un’istituzione autonoma a prevalenza non togata, i giochi sono fatti: il potere dei magistrati risulta indebolito in modo irreparabile, aumenta la capacità della politica d’interferire sulle decisioni che concernono l’ordine giudiziario. Se, poi, si decidesse di eliminare altresì la presidenza del Capo dello Stato, il prestigio dell’organo subirebbe un vulnus decisivo. Si tratta di una scelta realizzabile con legge costituzionale, che, per certi aspetti, può trovare una giustificazione nel modo non sempre commendevole con il quale la componente togata, dominata dalle correnti, ha gestito in passato i suoi poteri. Bastano, tuttavia, queste disfunzioni, comunque rimediabili, a giustificare anche soltanto l’alterazione della composizione del Consiglio? Già modificando i rapporti di forza al suo interno si rischia, in realtà, di trasformare l’organo di autogoverno, che è stato concepito per assicurare all’ordine giudiziario massima autonomia, in un’istituzione in larga misura etero-diretta dalla politica. Il colpo di grazia sarebbe costituito, comunque, dall’eliminazione della presidenza del Capo dello Stato, che è, di per sé, garanzia di autorevolezza ed indipendenza e dall’introduzione in un settore del Consiglio, quello dei pubblici ministeri, della gestione diretta del Guardasigilli. Quest’ultima novità sarebbe esiziale per la separazione dei poteri e per lo Stato di diritto. Altrettanto scivoloso è il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non è chiaro che cosa uscirà davvero dal dibattito in corso. Le ipotesi sul tappeto sono diverse: abolizione del principio costituzionale; sua conservazione, ma introduzione di una programmazione annuale dei reati da perseguire; sua conservazione, ma modificazione dei presupposti dell’esercizio dell’azione penale come conseguenza di una profonda revisione dei poteri del pubblico ministero e della polizia giudiziaria nella conduzione delle inchieste. Auspico che nessuno vorrà davvero abrogare il principio di obbligatorietà, che nel nostro contesto politico e sociale rimane garanzia irrinunciabile di eguaglianza. Ho qualche perplessità sulla programmazione delle priorità, che rischia di creare pericolose sacche d’impunità. Ma, soprattutto, mi preoccupa la proposta avanzata in modo bipartisan da due esponenti politici di schieramenti apparentemente contrapposti, che stravolge le attuali competenze del pubblico ministero e della polizia nella conduzione delle indagini penali. Com’è noto, si ipotizza di sottrarre al pubblico ministero la loro conduzione e di rendere la polizia autonoma nella loro gestione. Qui, davvero, il pericolo è insidioso. Se non si dovessero fissare rigorosi confini all’autonomia delle forze dell’ordine, si rischierebbe di vanificare, nei fatti, lo stesso principio di obbligatorietà: il pubblico ministero potrebbe non trovarsi mai nella condizione di valutare se esistano o no i presupposti per l’esercizio dell’azione penale, o, ancor prima, di controllare se le indagini si stiano svolgendo con la necessaria celerità o completezza. Il che appare tanto più preoccupante se si considera che la polizia dipende dall’esecutivo, il quale potrebbe pertanto, se del caso, interferire nelle inchieste. A tacer d’altro c’è dunque, pure a questo riguardo, un rischio forte d’illegittimità su cui la Consulta potrebbe essere chiamata a pronunciarsi. Chissà se, a questo punto, a qualcuno verrà in mente di abbozzare una riforma della stessa Corte Costituzionale, già sotto pressione a causa del lodo Alfano, al fine di renderla meno indipendente o quantomeno più domestica con il potere politico. Sarebbe una tragedia. Giustizia: Pepino (Csm); il Pd è vittima del "berlusconismo" di Sara Menafra
Il Manifesto, 1 ottobre 2008
Nuovo attacco del ministro Alfano al pm di Milano Fabio De Pasquale definito "anti-istituzionale" perché ha attaccato il lodo Alfano. E nuova promessa che l’imminente riforma della giustizia toccherà prima di tutto l’obbligatorietà dell’azione penale e il rafforzamento della polizia giudiziaria a scapito dei pm. Al Csm si parla d’altro, ovvero delle modifiche al processo civile, bocciate, almeno in parte. Ma il pugno che il ministro sbatte sul tavolo si stente fin dentro palazzo dei Marescialli. Livio Pepino, capofila di Md al Consiglio superiore. Il ministro annuncia cambiamenti pesanti. Sarà stato tre mesi fa quando venne nella sala del plenum a promettere che non avrebbe fatto una nuova riforma. Giudizi? È difficile stare dietro al numero e alla qualità delle proposte della destra. Di certo, che sia con legge costituzionale o con legge ordinaria, si vuole chiudere con l’esperienza prevista dalla costituzione. Alcune parole d’ordine sembrano trovare ampi consensi nell’opposizione. Ieri il ministro Alfano era ad un convegno dei Radicali in cui si parlava di eliminare l’azione penale obbligatoria. È la posizione tradizionale dei Radicali, se c’è un problema nei rapporti con l’opposizione non riguarda certo la scelta del partito di Pannella. Il tema è che a tutt’oggi non è chiaro quel che pensa in particolare il Pd, in materia di giustizia. Ci sono voci diverse e a volte contrastanti, ma manca una proposta chiara e forte. Eppure credo che sia possibile esprimerla e fare in modo che sia alternativa all’attuale maggioranza. Violante ha preso posizione e spesso. So delle aperture di Violante, ovviamente, ma le considero sbagliate. Personalmente, credo che l’attuale assetto costituzionale sia proprio di uno stato moderno e infatti il nostro sistema è preso a modello in molte parti del mondo. Piuttosto di modificare l’assetto, bisogna cambiare sistema e fare in modo che la giustizia funzioni. Su tutto questo, è auspicabile non tanto un’improbabile cambio di maggioranza ma una ripresa di iniziativa da parte dell’opposizione. Un elemento che potrebbe rendere centrale il dibattito della giustizia ed evitare di parlare solo dell’attacco a questo o quel giudice. In aula, a Montecitorio, il Pd si è opposto all’approvazione della blocca-processi. Non basta? Io rilevo solo che una voce forte, capace di mobilitare su un tema importante come quello della giustizia, al momento non c’è. Forse il problema è il rapporto con l’Anm. Più di un esponente del Pd l’ha criticata, spiegando che l’associazione è contrarla ad ogni riforma. Non credo che sia così, ma se fosse inviterei il Pd ad incalzare l’Anm sui contenuti. Avviamo un dibattito franco e duro sul merito, parlando dell’interesse generale e non dalle necessità particolari. E allora secondo lei perché il Pd tentenna? Non sta a me dirlo, ma mi pare che ci sia una sorta di sudditanza culturale. Su questo argomento, come su altri, Berlusconi stabilisce il terreno della discussione e loro Io seguono. L’opposizione è incapace di spostare il dibattito sulla giustizia sui problemi reali. Nel 2001 - 2006, almeno in termini numerici Berlusconi aveva più consensi di quelli che ha oggi. Eppure sulla riforma Castelli si aprirono confronti e scontri che accesero un dibattito politico ampio, politico e culturale. Mi pare fisiologico che una democrazia matura affronti in questo modo le riforme ampie. Non è remare contro. Semplicemente, è la democrazia. Giustizia: Uil; problemi carcere non preoccupano la politica
Adnkronos, 1 ottobre 2008
"Credo che si possa affermare che a oggi le difficoltà e le criticità del sistema penitenziario stiano solo nelle preoccupazioni del personale penitenziario e di qualche dirigente del Dap. Non certo nelle teste dei politici e della politica in generale". Questa l’amara conclusione tratta dal segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, a chiusura dell’assemblea generale dei quadri lombardi svoltasi oggi nel carcere milanese di Opera. "Il ministro Alfano è troppo distratto dal Lodo e dalle vicende giudiziarie del Presidente Berlusconi per occuparsi di un sistema oramai collassato e paralizzato. L’opposizione con il Pd - ha sottolineato Sarno - non ha un ministro ombra che si occupi di queste cose. Mai visto e sentito Tenaglia parlare di carcere. In verità mai visto Tenaglia". Per il sindacalista questo è il quadro desolante ma reale. Non si è forse capito che il tempo è scaduto. Le strutture sono piene - ha aggiunto - la detenzione è afflittiva e incivile; il personale vede prevaricato quotidianamente il diritto a condizioni di lavoro in sicurezza. Eppure nessuno trova tempo e parole per affrontare il problema. La Uil Penitenziari sottolinea come le soluzioni annunciate per far fronte al sovraffollamento di fatto non risolveranno il problema e come la loro attuazione sia ancora lontana. "In questo gran parlare di braccialetti elettronici ed espulsioni l’unico dato reale è l’aumento esponenziale dei detenuti. L’inapplicabilità immediata delle soluzioni individuate - ha proseguito - e da noi condivise, avrebbe dovuto determinare un confronto che pure era stato annunciato ma che è rimasto solo nelle intenzioni del Ministro Alfano. Noi avevamo indicato la necessità di riforme strutturali che dovranno incidere anche sul sistema sanzionatorio, ma di questo non si parla. Avevamo anche detto che solo un maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione avrebbe sfollato le carceri, ma pare essere un tabù da sacrificare in nome della certezze della pena". E dalla Lombardia arrivano le cifre dell’emergenza: qui sono detenute 8.284 persone a fronte di una ricettività delle strutture pari a 5.382. "Il sovraffollamento, quindi, supera il 50% - conclude Sarno - è o no una emergenza? Il personale di polizia penitenziaria previsto per decreto dovrebbe assommare a circa 5.400 unità ne sono presenti, sulla carta, 4.750 cui debbono sottrarsi circa 600 unità fuori regione. Ulteriori 500 unità sono impiegate in mansioni d’ufficio a surroga di personale civile che non c’è. È chiaro che la situazione è insostenibile e il personale non potrà reggere ancora a lungo". Giustizia: Uil; due agenti carcerari aggrediti, è uno stillicidio
Il Velino, 1 ottobre 2008
"Nella mattinata odierna dobbiamo, purtroppo, registrare due episodi di violenza perpetrata in danno di agenti di polizia penitenziaria. Alla casa circondariale di Lecce un agente è stato colpito da un pugno in volto da un detenuto tossicodipendente, forse in crisi d’astinenza, riportando la lesione del labbro superiore e una prognosi di cinque giorni. Alla casa circondariale di Ariano Irpino (Avellino) un detenuto che si recava al colloquio ha aggredito un assistente sferrandogli un violento calcio alla gamba. La prognosi riportata è di sette giorni". A darne comunicazione il segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, che dichiara: "Oramai è uno stillicidio che mette a dura prova la pazienza e la tolleranza del personale, che è oramai pronto allo scontro. In autotutela s’intende, considerato che l’Amministrazione e il ministro Alfano sono distratti e disattenti su quanto avviene. A Lecce oramai le violenze sono all’ordine del giorno nell’indifferenza di chi detiene responsabilità gestionali. Deve forse accadere l’irreparabile perché si intervenga?". Sarno non perde l’occasione per riaprire le polemiche sul decreto Brunetta: "È tragicomico pensare che questi colleghi vittime dell’arroganza e della protervia di delinquenti detenuti debbano anche pagare un prezzo alle violenze subite". "Infatti - attacca Sarno - con il decreto Brunetta si vedranno detrarre dallo stipendio una parte consistente degli emolumenti. Alla faccia della sbandierata attenzione del governo verso i poliziotti". Giovedì prossimo la Uil si riunirà per decidere eventuali forme di proteste: "Giovedì riuniremo le segreterie della Uil Penitenziari, della Uil Polizia di Stato e della Uil Corpo forestale. Decideremo se, come e quando portare in piazza le proteste, il disagio e il malessere del personale. D’altro canto siamo stanchi degli impegni disattesi del governo. Giustizia: Osapp; bene lotta a camorra, ma servono rinforzi
Il Velino, 1 ottobre 2008
"Se per il ministro dell’Interno Maroni, con il quale ci complimentiamo, è una giornata da incorniciare, per i poliziotti penitenziari alle prese con il problema della sicurezza nelle carceri campane, e casertane in particolare, è una giornata che prelude ad un nuovo tragico corso". A dirlo è il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci che commenta le due operazioni contro il clan dei Casalesi nel casertano che hanno portato stanotte all’esecuzione di circa 100 misure cautelari ma soprattutto alla cattura dei boss, mandanti ed esecutori, responsabili della strage di Castel Volturno. "Ci permetta - aggiunge - di dissentire Maroni quando sostiene che lo "Stato c’è e che interviene in modo efficace", nel carcere di Santa Maria Capua Vetere a esempio, dove sono stati portati 14 dei 107 capi e gregari delle cosche camorristiche campane individuate, lo Stato fa molta fatica a farsi sentire, se non per l’intervento instancabile e dedito dei poliziotti penitenziari. Qui i detenuti sono 911 e superano oramai da tempo la soglia della tollerabilità che il Dipartimento ha fissato in 796 unità. Ma il problema non è solo questo, l’istituto di pena presenta uno dei più alti tassi di affiliazione mafiosa e camorristica di tutti gli istituti italiani: si trovano qui 250 reclusi in stato di alta sicurezza (As), 300 in stato di sicurezza media (Ms)". "È preoccupante - spiega Beneduci - come su un totale appunto di quasi mille presenze, più della metà dei detenuti presenta i caratteri di una forte impronta camorristica, proprio nel luogo in cui la camorra regna incontrastata e alla faccia di qualsiasi criterio di separazione dei soggetti più pericolosi. Rispetto al problema della sicurezza, quindi, che può soffrire una struttura con questi numeri e queste incidenze, affidata a 521 agenti di polizia penitenziaria soltanto e non tutti applicati e a stretto contatto con il detenuto, è come se i boss catturati ieri notte abbiamo soltanto cambiato dimora. Nei giorni scorsi abbiamo più volte segnalato la questione al ministro della Giustizia Alfano, adducendo il rischio che un’azione massiccia, e territorialmente concentrata, si potesse riflettere necessariamente sui servizi demandati al personale del Corpo di Polizia penitenziaria, osservando come le strutture offerte nel campano non fossero idonee all’ingresso in carcere di un importante numero di persone pericolose". "A suo tempo - continua il segretario dell’Osapp - è stato più volte richiesto un rinforzo d’organico, almeno nelle strutture maggiormente esposte (Santa Maria Capua Vetere, Poggioreale, Secondigliano), arrivando anche ad immaginare una forma di distacco temporaneo per quelle persone interessate a ritornare nelle proprie terre di origine. Soluzioni queste cadute subito nel vuoto. Nel ribadire ancora i complimenti al ministro Maroni ci rassegniamo all’idea di un ministro della Giustizia troppo distratto a valutare le incidenze che certe operazioni anticrimine possono produrre sull’intero sistema penitenziario. Un sistema carcerario, quello campano, che non può permettersi di trovarsi impreparato proprio quando il governo dichiara guerra aperta alla criminalità organizzata". Giustizia: Maroni; dialogo con Romania su rimpatrio detenuti
Agi, 1 ottobre 2008
Il dialogo tra Italia e Romania sul problema del rimpatrio dei detenuti prosegue. Una soluzione sarà presa durante il vertice che si terrà a Roma il prossimo 9 ottobre. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, e quello della Giustizia, Angelino Alfano, hanno incontrato oggi a Bucarest i loro colleghi romeni per discutere l’attuazione dell’accordo stipulato dai due Paesi nel 2003. "Un incontro utile", ha detto il titolare del Viminale, Maroni nel corso di una conferenza stampa. Durante la riunione è stato deciso di continuare la cooperazione tra le polizia italiana e romena nel quadro del piano "Itaro". Nei prossimi giorni, inoltre, una commissione di esperti studierà come applicare l’accordo sui "minori non accompagnati" che entrerà in vigore il prossimo 12 ottobre e l’accordo che prevede l’accompagnamento e il trasferimento dei detenuti nei rispettivi Paesi. Maroni ha poi sottolineato "il clima di collaborazione che porterà certamente ad una positiva conclusione del vertice di ottobre". Sul rimpatrio dei romeni detenuti in Italia (2.790, dei quali 805 scontano una pena definitiva) il ministro della Giustizia Alfano ha aggiunto: "le difficoltà e i ritardi riscontrati sono dovuti ad aspetti procedurali. Lavoreremo per accelerare le procedure trovando le soluzione idonee". Il guardasigilli ha quindi espresso molto soddisfazione" per l’esito dell’incontro e si è detto "fiducioso per l’applicazione di un accordo nel quale entrambi i paesi hanno molto creduto". Secondo il ministro dell’Interno Maroni, inoltre, molte delle polemiche nate in Italia sui provvedimenti del governo si sarebbero potute evitare: "il Trattato europeo già stabilisce il rimpatrio con il consenso del detenuto, consenso che non serve se c’è un accordo bilaterale. Tra Italia e Romania questo accordo è stato firmato nel 2003? Rispondendo alle domande dei giornalisti romeni che chiedevano se il governo italiano ha qualcosa da rimproverarsi riguardo alla gestione del problema dei campi nomadi Maroni ha detto che "la situazione risale a molti anni fa. Sono centinaia, la maggior parte non è attrezzata, non ha servizi sociali, né luce né acqua. Intendiamo eliminare questa situazione di degrado e garantire a tutti i bambini il diritto di andare a scuola. Per fare tutto ciò - ha spiegato - dobbiamo sapere chi c’è in quei campi. Dobbiamo completare il censimento e allora avremmo tutti i dati". Giustizia: severità contro "imprenditori" della prostituzione di Giancarlo Lehner
Libero, 1 ottobre 2008
Lascio i giudici ai lodi, mi bevo una pinta di birra e rifletto sui nodi che interessano il quotidiano di tutti noi Mi rivolgo, perciò, al Guardasigilli, affinché vigili sulle derive sballate tra il dire e il fare del legislatore, essendo l’eterogenesi dei fini sempre in agguato. Comincio con Marx-Engels-Malto, tant’è che una barzelletta russa racconta che i bevitori si fecero rivoluzionari e presero per sete il Palazzo d’Inverno, l’unico posto dove c’erano ancora bottiglie di birra. "Chi beve birra campa cent’anni" si diceva un tempo, ma, oggi, nella confusione tra fini e mezzi, bastano due lattine per esser considerati criminali, esposti al ludibrio e, magari, costretti a trascorrere una parte dei cent’anni in galera. Il fine, nobilissimo, sarebbe quello di impedire le stragi del sabato sera e non solo, le quali, però, non hanno nulla a che fare con due bicchieri di vino, un boccale di cerveza bionda o un bicchierino di grappa. Le stragi le fanno i pazzi, benché sobri, i banditi, gli strafatti di alcool e/o di droga, i ragazzini passati dal triciclo ai 200 cavalli, per colpa di genitori ricchi-bischeri. Più che l’oste ci pensasse il giudice a non liberare i killer stradali, due ore dopo l’ultima strage, e, così, metà del problema sarebbe risolto. Il bravo Alfano si coordini con gli altri ministri e vigili, dunque, sugli involontari effetti polizieschi di norme asimmetriche rispetto al contesto normativo e fattuale. In primo luogo, tutto andrebbe incardinato all’interno della cornice liberale, ovvero nella filosofia delle libertà di Silvio Berlusconi. Far piazza pulita, quindi, dei figuri socialmente pericolosi, in luogo di rompere le scatole, a colpi di controlli, multe e galera, alla popolazione perbene tutta. Ci sono certo quelli che andrebbero monitorati e repressi, ma non chi allieta il dopo cena con un sigaro e un Armagnac; non chi, stanco della routine, si regala un piccolo tour sessuale. Perché il consumo di droga non è punito, mentre dovrebbe esserlo quello di sesso? Governo e maggioranza, quanto di più liberale - a parole - ci sia nel panorama politico, debbono guardarsi dal comprimere le libertà individuali, anche quelle professionali, ad esempio, minacciando il carcere al cronista, che,facendo solo il suo mestiere, pubblica intercettazioni o verbali piovuti in redazione l’origine della pioggia non il selciato bagnato. Per evitare legislazioni sghembe, mi pare si debba pensare ad un supervisore sulla congruità delle leggi proposte. Il disegno di legge 11/9/2008 prevede l’arresto da 5 a 15 giorni e ammenda da 200 a 3.000 euro, sia per la prostituta che per il cliente. Il reato, però, si configura solo se commesso in luogo pubblico o aperto al pubblico, di talché si deduce che il meretricio al chiuso non dovrebbe essere perseguibile. Ora, l’ex procuratore di Napoli, Cordova, mi segnala che il tutto non sta in piedi, visto che si sono dimenticati la legge del 1958, la quale punisce con la reclusione da 3 a 6 anni chi conceda un immobile per l’esercizio di una casa di prostituzione. Anche chi affittasse un mini-appartamento ad una singola prostituta si potrebbe trovare accusato di favoreggiamento o, addirittura, stante la libera creatività dei pm, di sfruttamento della prostituzione. Certo, nessuna legge può cassare l’eros mercificato, ma se l’obiettivo non era quello di abrogare la Merlin, bensì di liberare le poverette importate, ingannate e costrette con la violenza a vendersi, allora non ci siamo proprio. Per eliminare la prostituzione sulle strade, Cordova suggerisce: "Bisognerebbe contrastare drasticamente l’attività "imprenditoriale" delle organizzazioni criminali che la gestiscono, prevedendo anche l’aumento di pena di almeno un anno, sia nel minimo che nel massimo, quanto all’associazione per delinquere finalizzata a siffatta turpe attività". Ministro Alfano, per schivare discrasie ed effetti sgraditi, perché non chiamare personalità di levatura, esperienza e preparazione, come Agostino Cordova; a coprire il posto di supervisore delle proposte di legge del governo, cosicché tutte le tessere siano cartesianamente coerenti con l’edificando mosaico di libertà auspicato da Berlusconi? Il nome di Cordova, fra l’altro, darebbe una salutare scossa ai magistrati che giocano ai lodi. Marche: Consiglio approva legge sulla popolazione detenuta
Asca, 1 ottobre 2008
La proposta di legge che delinea un sistema integrato di interventi a favore di adulti e minorenni sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria e a favore degli ex detenuti, è stata approvata dal Consiglio regionale delle Marche. Un atto mirato a riordinare e mettere a sistema i servizi pubblici e del privato sociale presenti sul territorio regionale. L’assessore ai Servizi Sociali, Marco Amagliani, ha espresso la propria soddisfazione; "il riordino del sistema migliorerà le condizioni di vita sia dei reclusi che del personale a loro addetto, come agenti di polizia penitenziaria, educatori, medici, infermieri o amministrativi. È un passo avanti - ha detto verso una trasformazione: da detenuti a persone. La legge vuole infatti creare le condizioni per migliorare la vita di quei soggetti, adulti e minorenni, che sono entrati nel circuito penale, nonché favorire l’integrazione nella società attraverso il recupero delle qualità individuali ed il rispetto della dignità della persona. Perché il reinserimento è l’unica via affinché le persone che si sono rese protagoniste di reati possano, una volta fuori dalle mura del carcere, trovare soluzioni abitative e lavorative, evitando così di rientrare nel circolo vizioso della delinquenza con comportamenti dolosi". La legge regionale ha avuto imput da raccomandazioni europee e dalle legislazioni di altre Regioni, oltre che dalla Legge n. 328 del 2000 (legge quadro sul sistema dei servizi sociali), ed ha lo scopo di mettere a sistema i servizi pubblici e del privato sociale presenti sul territorio. È il frutto di un lavoro d’insieme che ha coinvolto i servizi regionali, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, il Centro di giustizia minorile, gli Enti locali, il privato sociale, il volontariato, i Centri per l’impiego, il sistema scolastico ed esperti del settore. "Un tavolo di confronto, - ha continuato Amagliani - costituito nel rispetto delle reciproche competenze, in cui è stata definita un’organizzazione del sistema territoriale integrato a tutela delle persone coinvolte". La Regione, nell’ambito delle proprie competenze, si occuperà della programmazione, coordinamento e delle attività di indirizzo che saranno indicate in un programma annuale, concordato con l’Amministrazione penitenziaria e con il Centro per la giustizia minorile e in accordo con gli istituti penitenziari. La legge prevede l’istituzione del Comitato regionale di coordinamento, composto da tutti i soggetti, pubblici e non, che agiscono nell’ambito penitenziario, che avrà funzioni consultive e propositive nei confronti della Giunta regionale. Lazio: da oggi Sistema Sanitario Regionale assiste i detenuti
Apcom, 1 ottobre 2008
Da opggi passa alla diretta gestione del Sistema Sanitario Regionale del Lazio l’assistenza sanitaria da assicurare ai circa 5.000 detenuti ospitati nei 13 istituti penitenziari del Lazio. Anche in questo caso il passaggio avviene "senza che vi sia una contemporanea rimessa dei fondi dovuti da parte del Governo e pari a oltre 4 milioni di euro solo per l’ultimo trimestre 2008", denuncia una nota della Regione. "Si tratta di risorse necessarie a garantire nelle carceri del Lazio la sola assistenza sanitaria attuale che non è di grande livello, oltre che a pagare gli stipendi degli operatori e i farmaci. Il ministero della Giustizia nello stesso tempo - prosegue la nota - consegna alla Regione attrezzature obsolete e locali spesso non a norma". Queste gravi criticità aggravano il quadro finanziario della sanità regionale, già in enorme difficoltà per la mancata rimessa dei 5 miliardi dovuti da parte del Governo e connessi all’attuazione del Piano di Rientro. La Regione, poiché "considera punto qualificante della propria azione l’assunzione dell’assistenza ai detenuti, è pronta a farsi carico della nuova responsabilità e a garantire che le 10 Asl sono in grado di prendere in carico il servizio e assicurare la continuità assistenziale alle persone detenute nelle carceri della Regione". Il presidente e commissario ad acta Piero Marrazzo ha inviato oggi una lettera ai direttori generali delle 10 Asl del Lazio che ospitano nel proprio territorio gli istituti di detenzione per sottolineare l’importanza del nuovo adempimento e la necessità di farvi fronte con estrema puntualità. Treviso: all’Ipm ci sono 14 detenuti, ma uno solo è italiano
Redattore Sociale - Dire, 1 ottobre 2008
È l’unica struttura per il Triveneto e funge anche da centro di prima accoglienza. L’età va dai 14 ai 18 anni, ma ci sono anche ventunenni. I reati: furto, rapina, spaccio, ma anche tentato omicidio. Per loro tanti corsi di formazione. Sono attualmente 14 i detenuti nell’istituto penale minorile di Treviso, unica struttura per il Triveneto, che funge anche da centro di prima accoglienza. Di questi attualmente uno solo è italiano, tutti gli altri stranieri. In generale la percentuale è dell’80% di immigrati (o seconde generazioni), ma questo non significa che loro delinquono di più: "I reati di italiani non sono diminuiti, anzi sono in aumento - spiega il direttore dell’istituto Alfonso Paggiarino -, ma molti sono denunciati a piede libero". L’età dei ragazzi va dai 14 ai 18 anni, ma ci sono anche ventunenni, nel caso in cui la pena sia stata inflitta quando erano ancora minori. Non tutti sono del Nordest: arrivano anche da Milano o Bologna. La capienza dell’istituto trevigiano è di 18 posti: ci sono otto celle, di cui cinque grandi e tre piccole. Ma i ragazzi non vi restano molto durante il giorno, a differenza delle strutture per adulti: per molte ore infatti sono impegnati in numerose attività, vanno ai corsi di alfabetizzazione se stranieri e seguono le lezioni di scuola elementare e media a seconda dell’età e del livello di istruzione. "Non abbiamo ancora la scuola superiore, ma ci sono delle convenzioni. Abbiamo all’attivo, ad esempio, un corso di informatica e uno di grafica, al termine dei quali vengono rilasciati degli attestati - continua il direttore -. Far frequentare ai ragazzi la scuola significa anche gratificarli, far loro capire che ci sono altre strade. Molte volte il problema è che non si vogliono bene, bisogna farli guardare allo specchio e apprezzarsi. Poi ci sono le attività sportive, con l’appuntamento calcistico fisso il lunedì, durante il quale ci si scontra con squadre che vengono da fuori. E ci sono i corsi Uisp, i pesi, la palestra. Sono tutte attività importanti, meno i ragazzi stanno in cella meglio è". Sono minori, ma hanno commesso reati: i più frequenti sono il furto, la rapina, lo spaccio, ma c’è anche il tentato omicidio. "Abbiamo una convenzione con il Ser.t., anche se la presenza di tossicodipendenti conclamati è veramente rara". Data la presenza di molte etnie e nazionalità, una delle difficoltà è riuscire a riunirle tutte, a farle convivere. Gli immigrati sono per lo più senza fissa dimora, senza la possibilità di garantire un appoggio da parte della famiglia, quindi dopo il carcere vanno in genere in comunità: "Se i ragazzi hanno una casa, la scuola, un appoggio si cerca di evitare loro l’esperienza del carcere. Questo, ovviamente, se il reato lo consente e in base alla decisione del giudice". Paggiarino lavora nel settore dal 25 anni, iniziando come educatore. "Io ho conosciuto le vecchie generazioni, quando c’era il vecchio codice penale, i reati erano diversi e i ragazzi erano perlopiù italiani. Poi di colpo ci siamo trovati di fronte al problema degli stranieri. Io sono convinto che nessuno nasce delinquente, ma conta molto l’influenza della famiglia, delle compagnie, della scuola. Bisogna che tutti lavorino per creare basi stabili, fondamenta di cemento per garantire la crescita sana dei ragazzi".
Istituto penale minorile di Treviso: parlano i ragazzi A volte si avvicinano al carcere quasi consapevoli del fatto che si sia trattato soltanto di un incidente di percorso nel loro viaggio già tracciato nella delinquenza. “Stavolta mi hanno beccato, ma la prossima no” pensano. Altre volte sono spaventati e temono perché non sanno cosa succederà loro, non sanno immaginarsi come sia la vita in detenzione. Sono svariate le reazioni dei minori che entrano nell’istituto di Treviso, per scontare pene più o meno lunghe. Palermo: da oggi al lavoro tre ex detenuti, in reinserimento
La Sicilia, 1 ottobre 2008
Iniziano a lavorare oggi al Comune di Bagheria tre persone sottoposte a limitazione di libertà. Si tratta di un progetto di reinserimento socio-lavorativo avviato dal Comune nel luglio scorso in collaborazione con l’Uepe, l’ufficio esecuzione penale esterna di Palermo. I tre addetti lavoreranno nel settore dei servizi a rete: in particolare uno si occuperà del servizio di distribuzione dell’acqua con autobotte, mentre gli altri due saranno impegnati nella logistica comunale. Ogni progetto di inserimento avrà una durata di sei mesi e verrà corrisposta una retribuzione mensile pari a 463,35 euro per 20 ore settimanali. Gli ex detenuti, inoltre, potranno contare sul supporto delle assistenti sociali. "Vogliamo aiutare i cittadini che hanno sbagliato a pensare al futuro, a non farli più sbagliare" ha detto l’assessore alla politiche sociali, Filippo Tripoli sottolineando anche il problema del sovraffollamento delle carceri in relazione alle soluzioni che il Governo dovrebbe studiare per offrire un futuro lavorativo una volta che i detenuti hanno scontato la pena. Secondo Norina Mulé, funzionario dell’Uepe, "un ente locale, che è l’amministrazione più vicina al cittadino, è il giusto luogo dove si può attuare il reintegro perché è garanzia di legalità". Pordenone: con "Oltre il muro" la musica entra in carcere
Il Messaggero Venet, 1 ottobre 2008
È un evento decisamente originale quello che domani animerà, contemporaneamente, la serata della Casa Circondariale di Pordenone e del Caffè Letterario, situato a pochi passi dallo stesso carcere. Organizzata dall’associazione Odeia in collaborazione con l’assessorato comunale alle politiche sociali di Pordenone, il Caffè Letterario e Tele Pordenone, la manifestazione s’intitola "Oltre il muro - Aromi e musica". E prevede che, nello stesso momento, tra le mura del carcere e al Caffè Letterario si tengano due concerti: la particolarità - e il fine - sta nel fatto che i due siti saranno messi in collegamento audio-video, così da creare una possibilità di interazione tra i detenuti e la città. Protagonisti dell’insolito concerto saranno i Six for Sinatra al Caffè Letterario e, in carcere, Jacopo Cesselli, Philippe Pigozzo, Enzo Santese, Nevio Basso, Bruno Del Ben e Giovanni Scrizzi. Proprio Scrizzi, da diversi anni riconosciuto esperto aromatologo di livello europeo, ha trasportato in accordi musicali l’armonia degli insiemi di alcuni oli essenziali: da ciò l’idea di questi concerti di "aromi e musica". Immigrazione: ddl; soldi ai Paesi che riprendono i detenuti
La Stampa, 1 ottobre 2008
La Camera ha approvato un emendamento firmato dai deputati del Pdl Manlio Contento e Mario Landolfi, che introduce il principio in base al quale negli interventi di cooperazione internazionale sono privilegiati i paesi che faranno scontare le pene nelle loro carceri agli stranieri condannati a pene detentive. "Un primo passo per affrontare il sovraffollamento delle carceri", hanno commentato i relatori. Immigrazione: Parma; 22enne nero, è picchiato e insultato di Stefania Parmeggiani e Mario Robusti
La Repubblica, 1 ottobre 2008
Ammanettato e picchiato, insultato con frasi a sfondo razzista da sei agenti della polizia municipale di Parma. Emmanuel Bonsu Foster, studente ghanese di 22 anni, denuncia alla redazione on-line di Repubblica a Parma una serata da incubo, cominciata di fronte alla scuola serale e terminata al comando della polizia municipale cinque ore più tardi. Poi conferma tutto durante otto ore di deposizione ai carabinieri. Questo il suo racconto. Mentre passeggia, alle 18,25 di lunedì, nel parco ex Eridiana, in anticipo di qualche minuto sul suono della campanella viene bloccato da due uomini. Si spaventa, scappa e viene inseguito, circondato, atterrato, picchiato e ammanettato. Si trova una pistola puntata al volto e solo a quel punto, racconta, capisce di trovarsi di fronte a dei vigili urbani. Quando viene rilasciato, alle 23, ha in mano una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale e una busta del Comune di Parma. Dentro ci sono i suoi effetti personali e sopra, al posto del nome e cognome la scritta "Emmanuel negro". I genitori lo accompagnano al pronto soccorso dove si fa medicare le contusioni e i lividi. Ieri mattina decide di rendere la sua storia pubblica perché, come spiega il padre, "Parma non è una città razzista, ma quello che è successo a mio figlio è un fatto gravissimo, voglio giustizia". E infatti, nel primo pomeriggio lo studente si presenta alla caserma dei carabinieri dove rimarrà per otto ore, sottoponendosi a un’altra perizia medica ordinata dalla Procura dopo l’apertura dell’inchiesta. Si sente una vittima, non solo dei sei vigili, ma di un clima più generale in cui l’esigenza di sicurezza rischia di calpestare la dignità e i diritti umani. Com’era accaduto, solo due mesi prima, a una lucciola nigeriana fermata durante un controllo e fotografata mentre era accasciata, seminuda e coperta di polvere, sul pavimento di una cella di sicurezza, sempre del comando dei vigili. Dopo il fermo, la ragazza era scomparsa nel nulla. Di lei c’era solo quella foto, nessuna testimonianza. Emmanuel, invece, si mostra alle telecamere e racconta la sua verità. Consegna la busta ai carabinieri sapendo che sarà disposta una perizia calligrafica. È necessario perché il sindaco Pietro Vignali (centrodestra), convocato a Palazzo Chigi per un colloquio con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, ha commentato: "Ho parlato con il mio assessore. Il rapporto dei vigili afferma che nella busta c’era scritto solo "Emmanuel" non "Emmanuel negro". La parola "negro" potrebbe essere stata aggiunta successivamente, magari da lui stesso. Questo è quanto riportato dal rapporto dei vigili urbani". La famiglia risponde: "Siamo tranquilli". Il Comune ha disposto un’indagine interna. Del caso si sta interessando anche l’Ufficio antidiscriminazioni del ministero delle Pari opportunità. Immigrazione: è il frutto avvelenato della "tolleranza zero" di Curzio Maltese
La Repubblica, 1 ottobre 2008
A Parma, nella civile Parma, la polizia municipale ha massacrato di botte un giovane ghanese, Emmanuel Bonsu Foster, e ha scritto sulla sua pratica la spiegazione: "negro". Davano la caccia agli spacciatori e hanno trovato Emmanuel, che non è uno spacciatore, è uno studente. Anzi è uno studente che gli spacciatori li combatte. Stava cominciando a lavorare come volontario in un centro di recupero dei tossici. Ma è bastato che avesse la pelle nera per scatenare il sadismo dei vigili, calci, pugni, sputi al "negro". Parma è la stessa città dove qualche settimana fa era stata maltrattata, rinchiusa e fotografata come un animale una prostituta africana. L’ultimo caso di inedito razzismo all’italiana pone due questioni, una limitata e urgente, l’altra più generale. La prima è che non si possono dare troppi poteri ai sindaci. Il decreto Maroni è stato in questo senso una vera sciagura. La classe politica nazionale italiana è mediocre, ma spesso il ceto politico locale è, se possibile, ancora peggio. Delegare ai sindaci una parte di poteri, ha significato in questi mesi assistere a un delirio di norme incivili, al grido di "tolleranza zero". In provincia come nelle metropoli, nella Treviso o nella Verona degli sceriffi leghisti, come nella Roma di Alemanno e nella Milano della Moratti. A Parma il sindaco Pietro Vignali, una vittima della cattiva televisione, ha firmato ordinanze contro chiunque, prostitute e clienti, accattoni e fumatori (all’aperto!), ragazzi colpevoli di festeggiare per strada. Si è insomma segnalato, nel suo piccolo, nel grande sport nazionale: la caccia al povero cristo. Sarà il caso di ricordare a questi sceriffi che nella classifica dei problemi delle città italiane la sicurezza legata all’immigrazione non figura neppure nei primi dieci posti. I problemi delle metropoli italiane, confrontate al resto d’Europa, sono l’inquinamento, gli abusi edilizi, le buche nelle strade, la pessima qualità dei servizi, il conseguente e drammatico crollo di presenze turistiche, eccetera. Oltre naturalmente alla penetrazione dell’economia mafiosa, da Palermo ad Aosta, passando per l’Emilia. I sindaci incompetenti non sanno offrire risposte e quindi si concentrano sui "negri". Nella speranza, purtroppo fondata, di raccogliere con meno fatica più consensi. Di questo passo, creeranno loro stessi l’emergenza che fingono di voler risolvere. Provocazioni e violenze continue non possono che evocare una reazione altrettanto intollerante da parte delle comunità di migranti. Al funerale di Abdoul, il ragazzo ucciso a Cernusco sul Naviglio non c’erano italiani per testimoniare solidarietà. A parte un grande artista di teatro, Pippo Del Bono, che ha filmato la rabbia plumbea di amici e parenti. La guerra agli immigrati è una delle tante guerre tragiche e idiote che non avremmo voluto. Ma una volta dichiarata, bisogna aspettarsi una reazione del "nemico". L’altra questione è più generale, è il clima culturale in cui sta scivolando il Paese, senza quasi accorgersene. Nel momento stesso in cui si riscrive la storia delle leggi razziali, nell’urgenza di rivalutare il fascismo, si testimonia quanto il razzismo sia una mala pianta nostrana. L’Italia è l’unica nazione civile in cui nei titoli di giornali si usa ancora specificare la provenienza soltanto per i delinquenti stranieri: rapinatore slavo, spacciatore marocchino, violentatore rumeno. Poiché oltre il novanta per cento degli stupri, per fare un esempio, sono compiuti da italiani, diventa difficile credere a una forzatura dovuta all’emergenza. L’altra sera, da Vespa, tutti gli ospiti italiani cercavano di convincere il testimone del delitto di Perugia che "nessuno ce l’aveva con lui perché era negro". Negro? Si può ascoltare questo termine per tutta la sera da una tv pubblica occidentale? Non lo eravamo e stiamo diventando un paese razzista. Così almeno gli italiani vengono ormai percepiti all’estero. Forse non è vero. Forse la caccia allo straniero è soltanto un effetto collaterale dell’immensa paura che gli italiani covano da vent’anni davanti al fenomeno della globalizzazione. La paura e, perché no?, la vergogna si sentirsi inadeguati di fronte ai grandi cambiamenti, che si traduce nel più facile e abietto dei sentimenti, l’odio per il diverso. La nostalgia ridicola di un passato dove eravamo tutti italiani e potevamo quindi odiarci fra di noi. In questo clima culturale miserabile perfino un sindaco di provincia o un vigile di periferia si sentono depositari di un potere di vita o di morte su un "negro". Giustizia: aveva ragione il Papa… siamo un Paese razzista di Massimiliano Gallo
Il Riformista, 1 ottobre 2008
Siamo uno strano Paese, non c’è che dire. A parole siamo tutti cattolici; il verbo della Chiesa in tema di laicità e ricerca rappresenta quasi sempre le colonne d’Ercole della nostra politica; se i parroci ci dicono di non votare un referendum, obbediamo quasi come un sol uomo. Eppure, quando con tempismo da sociologo il Papa decide di dedicare l’Angelus alla sempre più preoccupante deriva razzista, facciamo spallucce, ce lo facciamo scivolare addosso, quasi come se non fosse successo nulla. A Napoli come a Parma, dove un ragazzo di colore denuncia di essere stato picchiato dai vigili urbani. Ratzinger ha sollevato la questione il 17 agosto, mentre la gran parte di noi era al mare, e chi era in città si godeva le Olimpiadi. "Si tratta di manifestazioni preoccupanti - disse Benedetto XVI - legate spesso a problemi sociali ed economici, che tuttavia mai possono giustificare il disprezzo e la discriminazione razziale. Serve una reciproca accoglienza di tutti". Qualche settimana dopo, a Milano, un giovane di colore, Abdul, viene rincorso per aver rubato un pacco di biscotti, raggiunto, picchiato e ucciso a bastonate. Da Milano a Napoli. Qui, a Pianura, il quartiere reso famoso dalle immagini di montagne d’immondizia, dove c’è una madonna a ogni angolo delle strade, i residenti sono insorti contro gli extracomunitari della zona. "Rubano l’acqua e l’elettricità, spacciano droga, se ne devono andare", gridavano le donne, come se le loro famiglie vivessero nel sacro rispetto della legge. Anche qui botte, pietre e bastonate. Un extracomunitario e un giornalista picchiati. E il sindaco Iervolino che dice: "Devo constatare con dolore che la città sta facendo passi indietro". Da Napoli a Parma, già poche settimane fa alla ribalta per la foto della prostituta di colore abbandonata a terra in una cella della polizia municipale. Ieri il sito di Repubblica ha tenuto in home page tutto il giorno la foto di Emmanuel, giovane ghanese con un occhio tumefatto e una busta del Comune con scritto "Emmanuel negro". Ai carabinieri ha denunciato che gliel’hanno consegnata i vigili urbani di Parma dopo averlo picchiato e trattenuto cinque ore al comando. La verità non la conosciamo, sta indagando la Procura e forse ci sarà un’ispezione del ministero dell’Interno. I vigili sostengono di aver portato il giovane al comando perché voleva sottrarsi a un controllo antidroga. Nel triste excursus, non a caso, abbiamo escluso i sei neri uccisi a Castel Volturno. Non ce ne voglia Adriano Soni, che ieri sul Foglio ha scritto che non è stato un regolamento di conti, ma sappiamo ancora poco del perché di quella strage, fatta eccezione per qualche autorevole articolo apparso sui giornali. Siamo fermi alla pur deprecabile relazione del ministro Maroni, che parlava di guerra civile. Forse con l’arresto di ieri dei due killer della strage potremmo avere qualche notizia in più. A leggere le agenzie di stampa sembrava che ieri sul fenomeno fosse intervenuto anche Gianfranco Fini, che ha definito il razzismo "un mostro che sta riapparendo in forme diverse rispetto al passato". In realtà era solo un’anticipazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa. Di questi tempi, comunque, un modo per comprendere l’attualità del fenomeno. Droghe: Firenze; aveva 2 piante di marijuana, va in carcere di Franca Selvatici
Notiziario Aduc, 1 ottobre 2008
Coltivava due piante di marijuana nel giardino di una villa dell’Impruneta: una alta due metri, l’altra più stentata. Giovedì è stato arrestato in flagranza (lo prevede la legge) e ieri, in sede di convalida, il giudice delle indagini preliminari ha confermato la custodia in carcere. Quindi il giovane, 31 anni, è stato ricondotto a Sollicciano almeno finché non saprà indicare una casa, diversa da quella dell’amico che lo ospitava all’Impruneta, dove dovrà rimanere agli arresti domiciliari. Ieri mattina in tribunale si è così avuta una dimostrazione pratica degli effetti della sentenza del 24 aprile 2008 con la quale le Sezioni Unite della Cassazione hanno sposato la linea intransigente contro chi coltiva anche piccole quantità di cannabis. Le Sezioni Unite hanno stabilito che "costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività di coltivazione non autorizzata di cannabis". In precedenza singole sezioni della Cassazione avevano invece ritenuto penalmente irrilevante il comportamento di chi coltiva qualche pianta per uso personale. All’udienza del 24 aprile, del resto, il rappresentante della procura generale presso la Corte, Vitaliano Esposito, aveva sostenuto che la coltivazione domestica di cannabis non dovrebbe essere perseguita penalmente, assimilandola in sostanza all’uso personale. Ma proprio sul punto le Sezioni Unite sono state chiare: non vi è nesso immediato fra coltivazione e uso personale, non si può determinare a priori la potenzialità del principio attivo ricavabile dalle piante e in ogni caso la legge "vieta la produzione di specie vegetali idonee a produrre l’agente psicotropo, indipendentemente dal principio attivo estraibile". "Sono indignato", protesta l’avvocato Alessandro Traversi, che difende l’incauto coltivatore con la collega Veronica Saltini: "La coltivazione di sostanze stupefacenti è equiparata per legge alla importazione. Ma la legge è astratta e i giudici esistono per interpretarla in modo equo. Invece siamo a questo punto: uno che coltiva due piante di cannabis è trattato come un trafficante internazionale bloccato a Peretola con tre chili di cocaina. Anche ai fini della pena: minimo otto anni". "C’è una distorsione di valori", prosegue l’avvocato: "A parte che in alcuni paesi europei il consumo della cannabis è libero, io chiedo: dov’è il danno per la salute del coltivatore? Un pacchetto di sigarette è più nocivo. In secondo luogo: come si fa a ipotizzare uno spaccio con il ricavato di due piante? Dov’è la pericolosità sociale di questo comportamento? Terzo: mi sembra un’ingiustizia enorme, checché ne dica la legge, checché ne dica la Suprema Corte, che vada in carcere uno che coltiva due piante di cannabis, mentre in questo Paese non va in carcere nessuno, né i truffatori, né chi guida in stato di ebbrezza e uccide sulla strada, né gli imprenditori che se ne infischiano delle norme di sicurezza e che, se qualcuno dei loro operai muore in un infortunio, non rischiano neppure gli arresti domiciliari". Droghe: Don Gallo; le droghe leggere? sono da liberalizzare
Notiziario Aduc, 1 ottobre 2008
"La Chiesa è sessuofobica e chi, come me, sta nella casa che ama, le deve dire queste cose": così si è espresso Don Andrea Gallo, fondatore della comunità di San Benedetto al Porto di Genova, che negli anni ha sempre assunto posizioni scomode entrando anche in contrasto con il mondo ecclesiastico, in occasione dell’inaugurazione di una mostra fotografica a lui dedicata a Milano. A margine della mostra (in programma fino al 10 ottobre allo Studio 28 di via Moretto da Brescia), il prete genovese ha anche contestato l’attuale normativa sulle droghe: "Devono capire che fumare uno spinello è anche un piacere. Io amo la Chiesa, anche se è l’ultima struttura medioevale rimasta - ha spiegato il religioso - e uno che sta in una casa collusa con il potere e sessuofobica deve dire queste cose, se la ama". Don Gallo, dopo aver spiegato di essere favorevole "alla ordinazione sacerdotale delle donne", ha parlato anche di droga e prostituzione. "La legge sulle droghe favorisce solo il narcotraffico e da anni io dico che bisogna liberalizzare le droghe leggere". Il prete genovese ha inoltre criticato le norme sulla prostituzione: "Sono inutili, perché non affrontano lo sfruttamento". Marocco: per fine del Ramadan Re ha graziato 708 detenuti
Ansa, 1 ottobre 2008
Il re del Marocco Mohammed VI ha accordato la grazia a 708 detenuti in occasione della festa dell’Eid al Fitr, che segna la fine del Ramadan, mese sacro per l’islam. Non è chiaro se tra le persone graziate vi siano anche militanti di organizzazioni estremiste islamiche. Il Ministero della Giustizia di Rabat ha precisato che solo 77 persone verranno rilasciate immediatamente.
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