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Giustizia: l’Italia cambia idea, la criminalità non fa più paura di Vladimiro Polchi
La Repubblica, 22 novembre 2008
Rapporto Demos: trascorse le elezioni, ecco le nuove angosce. I più insicuri? Le donne del Sud teledipendenti. Meno timori legati all’immigrazione. La grande paura? Archiviata: oggi l’Italia sembra risvegliarsi da un incubo e sentirsi più sicura. Il nemico numero uno? Non più il criminale comune, bensì la crisi economica. Cambiano, infatti, le paure: più della malavita oggi si teme la disoccupazione. Non solo. Rispetto a un anno fa, cala la diffidenza verso gli immigrati. Cresce però la sicurezza fai da te: il 7% degli italiani ha già acquistato un’arma. Insomma, "se prima eravamo terrorizzati ? spiega il sociologo Ilvo Diamanti ? oggi siamo solo impauriti". Il merito? Della Tv. Dopo aver fomentato l’allarme criminalità tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008, oggi i Tg nazionali hanno ridotto spazio ed enfasi sull’emergenza sicurezza. A fotografare le nostre angosce è il secondo rapporto Demos, curato da Diamanti per la Fondazione Unipolis, in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia. Cosa emerge? Un Paese sostanzialmente cambiato. Nel 2008 diminuisce il numero di italiani che ritiene cresciuta la criminalità: è l’81,6%, contro l’88% del 2007. Ci si sente dunque un po’ più sicuri, soprattutto, a casa propria. Meno del 40% degli intervistati percepisce infatti un aumento dei reati nella propria zona di residenza (un anno fa era più della metà e, a maggio scorso, oltre il 53%). Il timore più diffuso? Resta quello di subire un furto in casa (20,7% degli intervistati), seguito dalla paura di incappare in una truffa del bancomat o carta di credito (19%). Crolla invece il timore di un’aggressione o rapina (13,4% nel novembre 2008, rispetto al 18,7% di un anno fa). Non solo. Sempre meno sono gli italiani che ritengono gli immigrati un pericolo (calati del 14% in un anno). Ma chi ha più paura per la propria incolumità fisica? Le donne (43%), con un livello d’istruzione medio-basso (38%), residenti nel Mezzogiorno (41%) e teledipendenti (stanno davanti alla tv più di quattro ore al giorno). A essere più allarmati, poi, sono gli elettori del centrodestra, Udc e Italia dei Valori, meno quelli del Pd e della Sinistra Arcobaleno. Pur sentendosi più sicuri, otto italiani su dieci chiedono comunque più polizia per le strade. Resta poi la tentazione di difendersi da soli: il 7% ha già comprato un’arma, il 44% si è blindato in casa, il 35% ha stipulato un’assicurazione sulla vita. La paura non solo diminuisce, ma cambia anche direzione. "La crisi economica - sostiene Diamanti - è stata in gran parte assorbita nel 2007, eppure ora la paura è pronta a ripartire su alcuni fronti". La disoccupazione, innanzitutto: oggi allarma il 34.4% degli italiani (erano il 29,6% un anno fa). La crisi delle borse e delle banche è invece una vera "new entry": preoccupa quasi il 39% del campione. In testa poi restano le "paure globali": distruzione dell’ambiente (58,5%), futuro dei figli (46,5%), sicurezza dei cibi (43%). L’indagine Demos esplora anche altre paure-tipo. E così, il rischio di incorrere in un infortunio sul lavoro preoccupa "frequentemente" il 10,4% della popolazione (oltre il 20% degli operai). Aumenta poi il numero di quanti credono che la sicurezza in fabbrica sia diminuita (il 47%). E ancora: la paura di essere vittima di un incidente sulla strada accomuna tre intervistati su dieci. I più spavaldi? Proprio i soggetti più a rischio: giovani tra i 15 e i 24 anni. (Vedi la ricerca Demos-Unipolis - in pdf) Giustizia: Veltroni; riforme non si impongono, si condividono
Ansa, 22 novembre 2008
"Le riforme non si impongono, si cerca di condividerle attribuendo alla fine alla sfera politica la responsabilità di assumere decisioni. È un invito che noi facciamo alla maggioranza anche se mi rendo conto che non è tempo di cose razionali ma di isteria, di urla e di contumelie". Così il segretario del Pd, Walter Veltroni, è intervenuto alla conferenza nazionale del Partito Democratico sulla giustizia. "Bisogna decidere - ha affermato Veltroni - perché una democrazia che non decide è un’assemblea di condominio, ma si deve decidere dopo l’ascolto e avendo cercato il punto di unità massimo possibile". Perché le riforme, ha incalzato il leader democratico, "non si fanno contro i magistrati o gli avvocati così come la riforma della scuola non si fa contro gli insegnanti ed è per questo che noi abbiamo presentato una proposta organica sulla riforma della giustizia per avviare da oggi un lavoro che nasce dalla volontà di ascolto degli operatori del settore così da arrivare in qualche mese ad un quadro organico di riforma della giustizia, di cui il paese ha enorme bisogno".
In Italia giustizia negata
"In Italia la giustizia è negata perché la giustizia lenta è come se fosse una giustizia negata". È quanto afferma il segretario del Pd Walter Veltroni nel suo intervento al convegno del partito: "Ricostruire la giustizia". È vero, spiega Veltroni, che il cittadino dovrebbe rispettare le regole non per timore dei tribunali, ma perché fa parte di un contesto sociale che ha dei principi e dei valori da rispettare, ma anche vero che queste regole stanno diventando "sempre più labili" anche perché si stanno cambiando le coscienze contaminate da diversi modelli imperanti "e da format televisivi". Perché non ci sia più giustizia negata, sottolinea Veltroni, ci deve essere una giustizia efficiente che dia risposte immediate ai cittadini. "In tutti questi anni - prosegue - si è parlato tanto di giustizia per motivi che ora preferisco non dire. Ma credo che gli interessi personali di un singolo abbiamo impedito di risolvere i problemi della giustizia". "I problemi si affrontano partendo dal punto di vista dei cittadini - conclude - e non di una persona sola".
Pd non è partito dei magistrati
"Noi non siamo il partito dei magistrati, ma dei cittadini". A precisarlo è il segretario del Pd Walter Veltroni nel suo intervento alla conferenza nazionale "Ricostruire la giustizia". Deve cambiare, per Veltroni, lo sguardo con il quale si considerano i problemi della giustizia. Perché la prima cosa che si deve tenere a mente è che la giustizia "deve essere riformata nell’interesse del cittadino". Il leader del Pd critica il governo e la maggioranza per come stanno affrontando questo tema e li accusa apertamente di star cavalcando "solo la paura" che è stata alimentata nella cittadinanza durante la campagna elettorale. Veltroni dice quindi no alla "politica col respiro corto che si occupa solo di cosa dia più voti". "E la cosa che dà più voti - sottolinea - è la paura", una paura che si sta cavalcando, ma che rischia di portare al collasso il sistema giudiziario italiano "facendo crollare il tetto della casa". Per quanto riguarda le carceri, Veltroni sostiene che non si può certo tornare all’indulto ("tengo per me la mia opinione sul tema") e che vanno fatte riforme serie.
Intercettazioni: unica proposta saggia è la nostra
"La nostra proposta sulle intercettazioni è l’unica saggia perché l’idea del governo di impedire tutte le intercettazioni rappresenta un blocco per le inchieste". Così il segretario del Pd, Walter Veltroni, sostiene la proposta dei Democratici sulle intercettazioni. "I magistrati - afferma Veltroni - devono poter fare tutte le intercettazioni che ritengono giuste ma ci vogliono meccanismi per impedire che finiscano sui giornali in un sistema in cui la vita dei cittadini è presa, palleggiata e sbattuta contro un muro". Giustizia: Violante; riforma del Csm contri i patti delle correnti
Ansa, 22 novembre 2008
Luciano Violante critica il Csm, così come funziona attualmente e propone, nel convegno sulla giustizia del Pd, che venga riformato prevedendo "una terza componente delineata dal Capo dello Stato". "Molti provvedimenti di conferimento di incarichi - spiega Violante - sono annullati dai Tar e dal consiglio di stato per difetto o insufficienza di motivazione. Le motivazioni, però, sono redatte da magistrati del Csm ed è impensabile che questi magistrati non sappiano motivare. Evidentemente molti provvedimenti, frutto di accordi tra correnti o tra correnti ed esponenti politici, non sono difendibili". "Il giudice amministrativo - prosegue Violante - ha annullato tanto il provvedimento che in un primo tempo bocciava la candidatura del primo presidente della Cassazione poi nominato, quanto il provvedimento che nominava l’avvocato generale dello stato presso la procura generale della Cassazione". "Il vero organo di autogoverno della magistratura - sottolinea l’ex presidente della Camera - rischia di essere il Consiglio di Stato e non il Csm". Per superare questa situazione, per Violante, non c’è che un rimedio: "inserire nel Csm una terza componente designata dal Capo dello Stato che paralizzi i patti tra correnti o tra correnti e politica, mortificanti per i magistrati meritevoli, ma estranei alle correnti e ai partiti". "Questa soluzione - afferma ancora l’ex presidente della commissione affari costituzionali di Montecitorio - non è incompatibile con la presidenza del Csm da parte del Capo dello Stato". Il Capo dello Stato, infatti, conclude Violante, "non riveste una funzione governante o amministrativa del Csm. La sua presidenza è di pura garanzia costituzionale". Giustizia: Finocchiaro; Pdl ascolti, non toccare la Costituzione
Ansa, 22 novembre 2008
"Noi offriamo un bagaglio di proposte alla maggioranza, ma diciamo che le norme della Costituzione non si possono toccare, perché vediamo proporre troppi modelli di Costituzione lontano da quello dei nostri padri costituenti e perché nella maggioranza c’è un’idea di riforma costituzionale che non condividiamo". Lo ha affermato Anna Finocchiaro, Presidente del gruppo Pd a Palazzo Madama, intervenendo stamattina al convegno del Partito democratico "Ricostruire la giustizia" dove il Pd presenta una serie di proposte per una giustizia "dalla parte dei cittadini". "Noi proponiamo una riforma del processo civile, di quello penale, del Csm e del sistema penitenziario - ha proseguito Anna Finocchiaro - seguendo le direttrici dell’efficienza, dell’affidabilità, dell’imparzialità e della celerità. E puntiamo molto sul processo civile perché dall’efficacia del sistema processuale dipende anche la competitività di un paese". "Noi vorremmo - ha spiegato la Presidente del Pd al Senato - che la giustizia fosse tenuta fuori dal furore del contrasto politico. Sono anni che diciamo di discutere di giustizia penale e civile perché questo può essere un impulso straordinario e un motore per la competitività di tutto il paese". "La legge ordinaria e il Parlamento - ha continuato Anna Finocchiaro - devono tornare al centro del sistema. Noi oggi siamo di fronte ad un presidenzialismo di fatto, il Parlamento non è altro che il luogo in cui eseguire i diktat e per la maggioranza la tripartizione dei poteri è un arnese del passato". "Noi non siamo conservatori, né siamo mossi da feticismo costituzionale - ha spiegato la Finocchiaro - ma in un clima in cui maggioranza e governo pensano di esaurire la funzione della tripartizione dei poteri, mettere mano alla Costituzione per la modifica dei poteri giudiziari è quantomeno incauto. Anzi, lo riteniamo profondamente sbagliato. Noi pensiamo ad una riforma nell’alveo della legge ordinaria". "Sarebbe necessario ribadire la centralità del Parlamento con una riforma dei regolamenti parlamentari per mettere un freno all’abuso della decretazione d’urgenza e celebrare la tripartizione dei poteri come fondamento del sistema costituzionale. Oggi, invece, con una modifica dei regolamenti la maggioranza può cambiare forma di governo e - ha concluso Anna Finocchiaro - gli studiosi chiamano tutto questo dittatura della maggioranza". Giustizia: le logiche "sicuritarie" viste dai Giuristi Democratici di Claudio Novaro
Giuristi Democratici, 22 novembre 2008
Claudio Novaro propone una lettura delle logiche sicuritarie che permeano la vita sociale e politica e una possibile risposta da parte dei Giuristi Democratici. Le società contemporanee sono ossessionate dalla questione della sicurezza. Nonostante si viva "perlomeno nei paesi sviluppati, nelle società più sicure mai conosciute" (Castel), nonostante i tassi di criminalità siano in lento costante ribasso, la questione della sicurezza urbana, anche in Italia, ha acquisito una sua riconosciuta centralità nell’agenda politica nazionale. Si tratta di un tema, denso di conflitti materiali e simbolici, su cui si sono esercitate con successo imponenti campagne mediatiche e su cui la retorica nazionale della legalità contro la microcriminalità ha trovato terreno fertile. Le logiche sicuritarie sono riuscite a tradurre il diffuso senso di insicurezza e precarietà presenti nella nostra come in tutte le società occidentali in domanda di repressione, trasformando la complessità dei fenomeni sociali in questione criminale. Molti autori hanno già notato come il progressivo smantellamento del welfare state e dei tradizionali ammortizzatori sociali, l’impoverimento progressivo di strati non marginali della società, la precarizzazione dei diritti sociali, primo fra tutti di quello al lavoro, hanno fatto sì che la sicurezza divenisse uno dei terreni centrali su cui ricostruire la funzione stessa dello stato nazione di fronte ai processi di globalizzazione. Vasta è ormai la letteratura sul tema, che ha prodotto numerose e ragionate analisi soprattutto in riferimento alla situazione statunitense e alle ricette lì adottate (la cd. tolleranza zero, la broken window teory, etc.), dove, a partire dalla scoperta di un legame diretto tra degrado urbano e criminalità, si è imposto un modello di esclusione sociale che fa della "criminalizzazione della miseria" e del rilancio degli strumenti di repressione penale il suo asse portante. Non è possibile compendiare in poche battute questioni così complesse e articolate. È, invece, possibile segnalare sin d’ora la loro trasversalità rispetto al panorama politico italiano e la loro rilevanza per chiunque, compresa un’associazione di giuristi, abbia ancora voglia di confrontarsi con le dinamiche sociali. L’insicurezza non è un dato di fatto naturale, così come non lo sono la devianza e le politiche di controllo, ma un prodotto sociale. Investigare e comprendere le ragioni della sua centralità significa confrontarsi, anzitutto, con il problema della definizione dei comportamenti e delle relazioni sociali (ad esempio, con la dimensione a geometria variabile della cosiddetta devianza, che copre, nell’accezione che ne hanno i mezzi di comunicazione di massa e l’opinione pubblica, una vasta gamma di comportamenti tra loro non omologabili), significa ragionare sulle pesanti ricadute che tale tema ha sugli ordinamenti giuridici, sulla qualità della democrazia di questo paese, sulle forme della convivenza sociale. Basti pensare, quanto a tali ultimi aspetti: al crescente ruolo degli apparati di sicurezza nella vita quotidiana (anche sul piano meramente simbolico o propagandistico, dalle fiction ai giornali); al progressivo rafforzamento ed ampliamento dei confini dell’esclusione sociale, al restringimento dei diritti di cittadinanza, con il ritorno in auge di politiche di criminalizzazione del disagio (senza fissa dimora, lavavetri, tossicodipendenti); all’aumento degli episodi di razzismo quotidiano o di vera e propria persecuzione verso intere comunità o categorie di soggetti; alla comparsa di gruppi organizzati di cittadini con scopi di controllo del territorio e di polizia; al protagonismo delle amministrazioni locali e dei sindaci sul terreno della sicurezza urbana, attraverso provvedimenti amministrativi tutti incardinati sull’equiparazione tra marginalità, devianza e criminalità; all’impoverimento dei luoghi di partecipazione politica e di mediazione dei conflitti e, per contro, all’emergere quale soggetti politici di rilievo di veri e propri imprenditori della paura e del razzismo. E, ancora, sul piano più propriamente ordinamentale: al diritto penale che assume sempre più marcate connotazioni soggettive,con il rilancio del diritto penale d’autore e l’individuazione di categorie generali di soggetti potenzialmente pericolosi; all’emergere di un diritto speciale per i migranti e di nuovi luoghi di segregazione; al consolidarsi, sul piano del diritto processuale penale, di circuiti differenziati e a velocità diverse tra imputati a piede libero e detenuti o per tipo di reato (a seconda, ad esempio che si tratti di microcriminalità o delitti dei colletti bianchi); alla costituzione presso alcune Procure di pool sulla sicurezza urbana, con drenaggio e investimento di risorse, umane e non, sulla microcriminalità di strada; all’aumento dei tassi di incarcerazione e del numero complessivo dei detenuti; alle proposte di progressiva autonomia della polizia giudiziaria dai controlli e dalle direttive dell’autorità giudiziaria. Se sul piano analitico, a fronte della diminuzione statistica dei reati commessi, occorre rifiutare quella tendenza interpretativa che pone in relazione le risposte sicuritarie all’aumento della criminalità da strada, ciò non toglie che la percezione collettiva di tali fenomeni sia di crescente allarme tra i cittadini e che con tale sentimenti, proprio perché "socialmente" veri, occorra fare i conti. È un terreno su cui la destra appare largamente egemonica, nel quale il centro-sinistra, o quel che ne è rimasto, procede con parole d’ordine e soluzioni politiche mutuate dall’avversario. Sostenere che la sicurezza non è di destra né di sinistra è nel migliore dei casi una banalità: le ricette per contrastarla devono e possono essere diverse, quanto ad ispirazione e a modalità di attuazione. È evidente, ad esempio, che tante più risorse collettive verranno riversate negli apparati di controllo e nel sistema correzionale tanto meno fondi saranno disponibili per la spesa sociale, in una spirale che si autoalimenta e che fa crescere il senso di insicurezza in modo esponenziale. Le iniziative che vorremmo provare a mettere in campo muovono proprio dall’acquisita consapevolezza del baratro che separa la percezione soggettiva e la constatazione oggettiva del fenomeno. La proposta è quella di dotarsi di strumenti analitici e di acquisire concreti elementi di riflessione al fine individuare un percorso di interventi pubblici da proporre a (e da condividere con) Magistratura Democratica, che si articoli su piani diversi (dalla comunicazione politica al dibattito scientifico) ma che abbia il suo fulcro nel confronto con l’opinione pubblica, in particolare con una presenza diretta nelle scuole superiori e nell’università. Tutto ciò a partire dall’idea che solo ritessendo i fili di una cultura della tolleranza e dello stato di diritto sia possibile sul lungo periodo, in un paese sempre più rancoroso, intollerante, privo di ethos umanitario come il nostro, ottenere qualche risultato. Quantomeno, per non doversi vergognare in futuro di non aver neanche provato a convincere qualcuno, soprattutto i più giovani, che tutti saremmo più sicuri non in una società più autoritaria e spietata ma in un mondo, come è stato scritto a proposito dei flussi migratori, "che non abbia più bisogno cronico di vite vendute, importate da lontano, spremute e poi da incenerire o deportare come rifiuti umani". Giustizia: solo pene alternative sono una garanzia del riscatto
Avvenire, 22 novembre 2008
Il modo migliore per evitare che i delinquenti tornino al crimine una volta scontata la pena? Non tenerli in galera. Sì, perché il tasso di recidiva tra i condannati affidati ai servizi sociali, alle comunità terapeutiche o al lavoro esterno è meno di un terzo di quelli che invece restano in cella. Ci ricascano due condannati su dieci, tra quelli che usufruiscono di programmi esterni. Ben sette su dieci invece gli ex carcerati che prima o poi ritornano dietro le sbarre. A certificarlo è il Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. La proposta del ministro della Giustizia Angelino Alfano sulla messa in prova senza processo per gli incensurati ha riaperto il dibattito tra il partito del rigore e quello dell’umanizzazione. E a rivelare l’inefficacia del pugno di ferro - e la convenienza sociale oltre che economica di una giustizia più umana - è uno studio della Direzione generale esecuzione penale esterna. Ad affermarlo è Giuseppe Capoccia, direttore dell’Ufficio studi e ricerche del Dap, al Consiglio Pastorale 2008 dei Cappellani delle carceri dedicato ai detenuti stranieri, appuntamento che ha visto l’intervento del capo del Dap Franco Ionta "I condannati a misure alternative - spiega Capoccia - hanno una recidiva di quasi il 20%, mentre tra chi la pena l’ha scontata in carcere sfiora il 70%, più del triplo". Lo studio prende in esame gli anni tra 1998 e 2005, per verificare quanti, tra chi ha finito la pena 10 anni fa, sono tornati in galera E il dato del 20% sarebbe ancora più basso se ad alzare la media non fossero i condannati tossicomani, che hanno una recidiva più alta, pari al 40%, "comunque quasi la meta di chi fa il carcere", sottolinea Capoccia. "Al di là di paure irrazionali, l’opinione pubblica dovrebbe capire che le forme alternative al carcere sono quelle che producono più sicurezza. È un discorso di numeri, non di filantropia". Altri Paesi l’hanno capito da tempo: se in Italia il rapporto tra condannati in carcere e quelli con pene alterative è uno a uno, in Gran Bretagna è uno a tre, circa 180 mila condannati che non stanno dietro le sbarre. "Anche negli Usa sono milioni - spiega il direttore del Centro Studi - pur ricordando che il tasso di detenuti è di 700 ogni 100 mila abitanti, contro i 97 su 100 mila dell’Italia". Oltre alle resistenze culturali il nostro Paese ha un’altro problema legato all’altissimo numero di detenuti stranieri, che più difficilmente possono usufruire di forme alternative. La media nazionale parla del 38% di detenuti stranieri, ma nel Centro-Nord i dati sono molto più alti: Roma circa 41%, Firenze 60%, Milano quasi 63%, Padova 82%. "Sono tanti perché l’accesso ai benefici e alle misure alternative è nettamente inferiore, i programmi di uscita e reinserimento prevedono un nucleo familiare". Che gli stranieri raramente hanno. Quando poi la possibilità c’è, non viene utilizzata. Lo dice don Agostino Zenere, cappellano al S. Pio: "A Vicenza ci sono due strutture per le pene alternative dei detenuti ma restano vuote perché la magistratura di sorveglianza fatica a crederci, non vuole guai, è pressata dall’opinione pubblica e dalla politica. C’è un territorio e un terzo settore pronto, ma i magistrati si sentono condizionati". Giustizia: Cappellani di carceri discutono su stranieri detenuti
www.radiovaticana.org, 22 novembre 2008
Gli stranieri in carcere: problema o risorsa? È stato questo il tema del Consiglio Pastorale Nazionale dei Cappellani delle Carceri, conclusosi oggi a Roma, che ha visto confrontarsi religiosi e rappresentanti istituzionali sul delicato tema del mutamento della popolazione carceraria registrato negli ultimi anni. La presenza degli stranieri dietro le sbarre, infatti, ha raggiunto il 37% rispetto al 29% del passato. Su un totale di 56.671 detenuti, gli stranieri sono ben 21.138. Provengono da 154 Paesi e la maggior parte di loro non è di religione cattolica: ci sono ortodossi, protestanti, ebrei e soprattutto musulmani. "Questa realtà pone a noi cappellani cattolici vari problemi sul senso e sul modo di svolgere la nostra pastorale" ha detto l’Ispettore generale dei Cappellani, mons. Giorgio Caniato. "Il primo è se ci consideriamo sacerdoti evangelizzatori e non assistenti sociali anche nei confronti dei detenuti di altre religioni. Il secondo è se il nostro rapporto con gli stranieri si riduce solo all’assistenza o se possiamo fare, se lo vogliono, un discorso più profondo, toccando valori e scelte valide che cambiano la vita" ha evidenziato mons. Caniato, ponendo al tempo stesso nuove questioni: "Come comportarsi nel campo specifico della loro religione e nel rapporto con la religione cristiana? Quali difficoltà ci pongono l’aumento delle presenze ed il loro turnover?". Non è la prima volta che i cappellani affrontano il tema della presenza degli stranieri negli istituti di pena: lo hanno fatto nel 2001 con una loro inchiesta e nel 2004 con il Convegno sugli Stranieri organizzato dalla Facoltà di Sociologia della Pontificia Università di San Tommaso, l’Angelicum. "Il taglio che abbiamo dato in passato è stato meramente culturale, sociale, assistenziale e politico" ha ripreso mons. Caniato. "L’approccio di questi giorni è stato religioso. Ci siamo chiesti se esercitiamo il nostro ministero di evangelizzazione comunque, nei confronti dei detenuti, sia quando trattiamo con loro, che con la loro religiosità". Da qui l’impostazione che il Consiglio Pastorale ha deciso di dare a questa tre giorni: ascolto della Parola di Dio, ascolto del pensiero della Chiesa con l’intervento del sottosegretario del Pontificio Consiglio della Promozione dell’Unità dei Cristiani, mons. Eleuterio Francesco Fortino, l’incontro con i vertici della Polizia Penitenziaria, lo studio delle realtà degli istituti minorili e il confronto con il direttore dell’Ufficio Studi e Ricerche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giuseppe Capoccia. Ha concluso i lavori il nuovo Capo del Dipartimento, Franco Ionta.
Caniato: così cambia la missione dei Cappellani
Se il pianeta carcere diventa multi religioso, con la presenza di detenuti ortodossi e musulmani, ha ancora senso la presenza dei cappellani? A rispondere prova monsignor Giorgio Caniato, ispettore generale dei cappellani, che traccia un bilancio positivo di questo Consiglio Pastorale tematico. "Dal carcere di Prato a quello di Catanzaro - spiega - i confratelli mi chiedono se la loro azione, ridotta ad assistenza sociale, è ancora sacerdotale. Abbiamo cercato la risposta nel Vecchio e Nuovo Testamento, chiesto lumi al Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani e al Pontificio istituto per gli studi arabi. E abbiamo capito che non smettiamo di essere annunciatori di Cristo anche se ci limitiamo ad operare nella carità, nell’aiuto, nello stimolo a cambiare vita. Siamo comunque strumenti dei disegni di Dio".
Cosa cambia per il Cappellano con detenuti magrebini o slavi? Il magistero ci dà indicazioni: con gli ortodossi possiamo condividere i sacramenti della comunione e della confessione, con i protestanti no.
E con i non cristiani? Quando ero cappellano a San Vittore ai momenti di catechesi o a messa venivano ebrei e musulmani. Non per pregare assieme: nessun miscuglio sincretistico. Ma per ascoltare la parola di Dio. E se per gli ortodossi se possibile portiamo il pope, per l’Islam il detenuto è considerato un infedele, fuori dalla comunità finché non ha risolto il suo errore. E non chiede l’imam. Noi li aiutiamo a vivere la loro religione che è sempre un valore aggiunto nel cammino del detenuto.
I dati dicono che l’espiazione della pena fuori dal carcere riduce di molto la recidiva. Di qui anche la proposta del ministro Alfano… Il carcere è un luogo molto duro, una struttura di peccato prodotta dai crimini come pure da una giustizia che non sempre funziona. Al di là delle finalità di recupero, il carcere ha di fatto una radice vendicativa. Andrebbe limitato come extrema ratio, mentre chi ha creato un danno dovrebbe risarcire, ricostruire. All’estero è un concetto abbastanza diffuso. Perché chi sta dentro spesso cova odio nel cuore. Giustizia: Giornata dell’Infanzia e carcere; lettera Sen. Poretti
Comunicato stampa, 22 novembre 2008
Intervento della Senatrice Donatella Poretti, parlamentare Radicale - Partito Democratico. Giornata infanzia, carceri: lettera aperta alla Presidente della Commissione bicamerale dell’infanzia Alessandra Mussolini. Questa lettera approfitta di una particolare ricorrenza, la Giornata per i Diritti dell’Infanzia, celebrata ieri alla Camera alla presenza di numerosi esponenti politici e con la tua partecipazione, occasione che la Commissione parlamentare per l’Infanzia ha voluto dedicare al tema dell’accoglienza e dell’integrazione dei minori stranieri. È certo che, se si parla di minori, e tanto più di accoglienza di minori stranieri, non si possono dimenticare anche quei bambini di età fino a tre anni che vivono in carcere con le mamme detenute, e che continuano a soffrire di questa inaccettabile situazione. Bambini che allo scadere del terzo anno d’età sono poi strappati anche alle loro mamme per essere dati in affidamento o finire in istituti. Purtroppo non è una situazione che avviene in qualche Paese remoto, ma ciò che continua ad avvenire oggi in Italia per circa 60 bambini, figli molto spesso di mamme detenute straniere e di donne che per diversi motivi non possono accedere ai benefici previsti dalla legge Finocchiaro del 2001. Secondo i dati del Dipartimento di amministrazione penitenziaria riferiti al 30 giugno 2008, gli asili nido funzionanti nelle strutture carcerarie italiane sono 16. Sono 58 le detenute madri con figli che vivono con loro dentro l’istituto, quindi sono almeno 58 i bambini minori di tre anni che trascorrono un tempo estremamente prezioso e delicato della loro vita in galera. Alcuni possono accedere ai nidi pubblici, altri trascorrono l’intera giornata dietro le sbarre. A scontare la pena nelle carceri italiane ci sono anche donne in gravidanza: sono 36 in tutto. Quando i loro bambini nasceranno, se la madre nel frattempo non avrà finito di scontare la pena, saranno innocenti condannati dalle colpe delle loro madri a scoprire e a conoscere la vita probabilmente nel posto peggiore che la vita può riservare. Il mio auspicio per un provvedimento finalmente risolutivo della situazione di questi bambini, può e deve essere abbracciato anche dalla Commissione bicamerale per l’infanzia da te presieduta, perché si stimoli la dovuta discussione del Parlamento e si giunga alla più celere calendarizzazione in Parlamento delle proposte esistenti per poter risolvere nel modo più opportuno tale situazione. Ti metto in allegato a questa lettera il disegno di legge da me presentato al Senato, come una delle possibili soluzioni. Un importante segno di attenzione al problema può essere dato dall’opportunità che la Commissione si rechi in visita in uno o più istituti di pena dove sono ospitati dei minori che vivono con le loro madri, e acquisisca anche informazioni e conoscenze su queste realtà attraverso audizioni dei direttori e del personale di questi istituti, delle associazioni di volontariato che li seguono e del ministro della Giustizia che in più occasioni si è espresso per una soluzione definitiva al problema. Sono auspici e attenzioni, certamente da te condivisi, per la tutela della dignità, della particolarità e delle opportunità di ogni minore che, soprattutto oggi, all’indomani della Giornata per i Diritti dell’Infanzia, non possono mancare di animare il sentire e l’agire della Commissione parlamentare per l’infanzia, organo estremamente prezioso che può e deve impegnarsi per incidere sull’agenda e sulle politiche degli adulti, perché si ricordino anche dei bambini.
Sen. Donatella Poretti Giustizia: Legambiente; no a ritorno di super-carceri nelle isole
www.diariodelweb.it, 22 novembre 2008
No al ritorno delle super carceri nelle piccole isole: la stagione è finita e riaprirla non ha senso. È questa la posizione di Legambiente sull’articolo 34 del disegno di legge sulla Sicurezza, in esame al Senato, che prevede la collocazione delle carceri di massima sicurezza destinati alla custodia di detenuti in regime di 41 bis "preferibilmente in aree insulari". "Tutte le isole minori italiane - dice Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente - sono aree protette, già istituite o in via di istituzione, e hanno da tempo sposato una politica di valorizzazione turistica del territorio, che male si concilia con carceri di massima sicurezza". "Siamo ben consapevoli dell’esigenza di un regime carcerario particolare per i mafiosi - prosegue Cogliati Dezza - ma le esperienze carcerarie sulle isole hanno già dimostrato la loro insostenibilità economica e ambientale, specialmente negli ultimi anni, in cui le aree insulari sono state utilizzate proprio per carceri speciali per terroristi e detenuti in regime di 41 bis. La motivazione della loro chiusura è stata, non solo politica, ma soprattutto economica; non si capisce, quindi, quale potrebbe essere ora, in tempi di crisi e di tagli, il tornaconto per il Paese e la ratio che ha guidato un pessimo accordo bipartisan". Legambiente auspica pertanto che l’aula cancelli l’articolo 34 del ddl Sicurezza. Giustizia: Giovanardi; i dipendenti in comunità... costano meno
Asca, 22 novembre 2008
"È assurdo che un detenuto tossicodipendente costi allo Stato 400 euro al giorno, mentre una Comunità di recupero riceve 50 euro per coloro che ospita". Lo ha affermato Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche per la famiglia, al contrasto delle tossicodipendenze e al servizio civile, durante una visita al carcere di Monza. Per Giovanardi, spostando i detenuti tossicodipendenti nelle comunità "si otterrebbe il duplice effetto di sfollare le carceri e risparmiare molti soldi". Il carcere di Monza era stato recentemente oggetto di forti polemiche da parte dei deputati radicali e del Pd, a causa del sovraffollamento e delle disastrose condizioni ambientali. Durante la visita, il sottosegretario ha detto che "il carcere di Monza è un esempio di struttura che funziona e quindi da imitare, per quel che riguarda la cura dei detenuti tossicodipendenti e più in generale per il reinserimento dei carcerati nella società una volta scontata la pena". Riguardo al sovraffollamento del carcere di Monza, Giovanardi ha infine detto che "esistono prigioni già pronte che non possono entrare in funzione per cavilli burocratici" e ha citato il caso di "un carcere nuovo di zecca a Reggio Calabria, inutilizzato perché manca il collaudo della strada d’accesso". Giustizia: troppe armi nelle case… basta un’autocertificazione di Elsa Vinci
La Repubblica, 22 novembre 2008
"Facile farsi un arsenale, basta un’autocertificazione. La tragedia di Verona deve sollecitare l’attenzione del ministro dell’Interno. Bisogna rivedere normative e circolari, che hanno consentito il proliferare di tutte queste armi. L’inversione di tendenza è prioritaria". Enzo Letizia, segretario dell’Anfp, Associazione nazionale funzionari di polizia, invita Maroni a fare dietro front. Fu proprio la Lega nel gennaio 2006 a spingere in Parlamento per la legge sulla legittima difesa, risposta armata alle rapine in villa, fu proprio la Lega a cavalcare la polemica sugli assalti a gioiellieri e a tabaccai arrestati per omicidio. "Non è solo una questione di cambiamenti legislativi - dice il sindacalista - Bisogna riformare, annullare decreti, circolari e altri provvedimenti che hanno consentito da un lato il possesso indiscriminato di armi dall’elevato potere offensivo e dall’altra la sostanziale inefficacia delle visite mediche, svolte secondo i criteri dell’autocertificazione e della mancanza di qualsiasi effettiva assunzione di responsabilità". I privati con pistola per difesa personale sono 34 mila. Per essere autorizzati basta compilare un modulo in cui si afferma di non soffrire di turbe psichiche, di non avere malattie del sistema nervoso, di non fare abuso di alcol e uso di droghe. Una firmetta e il timbro di un medico. Anche parente. "Avete mai visto qualcuno ammettere di essere pazzo?", sottolinea Letizia. L’Italia non è il Far West ma ci sono 10 milioni di armi in circolazione. E almeno 4 milioni di famiglie armate. Con un revolver nel comodino. L’8,4% della popolazione totale, cioè 4,8 milioni di persone, tengono in casa un’arma da fuoco corta, lunga, da caccia, da tiro, da collezione o da difesa. Ai 34 mila cittadini con la pistola nel cassetto vanno sommati 800 mila cacciatori, 50 mila guardie giurate, 178 mila sportivi e più di 3 milioni fra collezionisti e quanti hanno ereditato il fucile dal nonno. Le città più armate sono Torino, Milano e Roma. Tuttavia le licenze sono in calo progressivo dal 2002. "Purtroppo mentre cadono mamme e bambini sotto i colpi di folli - denuncia il sindacalista - sulle esigenze collettive prevale l’interesse economico degli armieri". L’Italia, stabilmente e da anni, è ai primi posti della classifica mondiale dei produttori. Con un giro d’affari da 2 miliardi di euro tra produzione e indotto. Si stima che ogni anno si producano oltre 629.000 armi. Cioè una ogni dieci persone. Giustizia: ex terrorista palestinese esce di cella e fa giardiniere di Fabrizio Caccia
Corriere della Sera, 22 novembre 2008
Portò la guerra a Roma, ha tredici morti sulla coscienza e raccoglie foglie secche in un prato. Khaled Ibrahim Mahmoud oggi ha 41 anni. Ne aveva 18, il 27 dicembre 1985, quando guidò il commando della strage di Fiumicino. "Ci penso sì, a quei morti. Ci penso ancora e ci penserò sempre. E penso anche che l’aver seminato il terrore, come abbiamo fatto noi, non è servito a niente. Non è servito al mio popolo, non è servito alla pace. Anzi, il contrario...". Il 27 dicembre 1985, all’aeroporto di Fiumicino, il commando di terroristi palestinesi uccise tredici persone e ne ferì più di 80, sparando contro il banco delle linee aeree israeliane. Il fuoco della sicurezza in pochi secondi annientò gli assalitori, tre morirono all’istante, Khaled rimase ferito, unico superstite. Poi è stato in carcere 23 anni, fino a tre giorni fa. Oggi è un detenuto semilibero (la sera torna a Rebibbia) e da giovedì ha cominciato a lavorare all’esterno per una cooperativa sociale: giardinaggio, facchinaggio, pulizie nei mercati e nei parchi di Roma (come Pino Pelosi, l’assassino di Pier Paolo Pasolini). La prima cosa che ha chiesto è stato il permesso di acquistare un telefonino cellulare ("Per chiamare mio fratello e i miei genitori ormai anziani", dice in buon italiano, appreso in questi anni leggendo e guardando in cella la televisione). Gli altri detenuti che lavorano con lui non conoscono la sua storia. Khaled, in fondo, preferisce così: "Il dolore che provo - dice - non potrebbe essere condiviso, sono venuto al mondo durante la guerra, una lunga scia di sangue e di orrori mi accompagna da sempre, da Sabra e Chatila a Fiumicino. Ma allora avevo 18 anni, ero completamente indottrinato, non ragionavo. Il carcere, almeno, mi è servito a questo: a farmi pensare con la mia testa, a farmi capire tante cose". Lui faceva parte del gruppo di Abu Nidal, il feroce leader della lotta armata palestinese, mandante del massacro di Fiumicino, trovato morto in un appartamento di Bagdad nell’agosto 2002 ("È stato ammazzato, ne sono certo", dice oggi Khaled, condannato a 30 anni per la strage dell’85). Il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, è la persona che in questi anni l’ha seguito più da vicino: "Di sicuro - dice il Garante - Khaled ha maturato una critica profonda rispetto al suo passato. In carcere ha studiato, ha fatto il bibliotecario, è stato un detenuto modello, perciò ha ottenuto la liberazione anticipata. Il nostro è un sistema premiale, dunque non c’era motivo perché lui non ottenesse i benefìci previsti dalla legge. Il primo permesso gli fu accordato un anno fa, lo accompagnai io stesso ad Ostia, a vedere il mare...". Il giorno che andarono al mare, però, pioveva e faceva freddo: del resto, dopo 23 anni di carcere, diventa difficile far tornare i conti. Se n’è andato un pezzo di vita perché tu hai distrutto quella degli altri e anche andare avanti fa paura. "Il mondo da allora è completamente cambiato - sospira l’ex terrorista, con i capelli ingrigiti -. È caduto il muro di Berlino, non c’è più l’Unione Sovietica, non c’è più il comunismo. Noi stavamo coi russi, all’epoca, io stesso ero comunista-stalinista, oggi però sono in via di guarigione...". L’anno prossimo Khaled finirà di scontare la sua pena, nel frattempo si è laureato in Scienze politiche con una tesi sui Diritti umani e, malgrado tutto, sembra avere fiducia nel futuro del Medio Oriente: "Prima o poi tutti i muri cadono. Ma la pace non s’impone, la pace bisogna volerla". Veneto: Uil; nelle carceri regionali la situazione è insostenibile
Il Velino, 22 novembre 2008
Il segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, al rientro da un tour di visite nelle carceri del Veneto rompe il silenzio e lancia l’allarme rispetto a una situazione: "Oramai divenuta insostenibile e non solo per il superamento della soglia dei 58 mila detenuti, peraltro ampiamente preannunciata. Ancora una volta - prosegue Sarno - abbiamo toccato con mano come un’amministrazione dello Stato può determinare condizioni di lavoro che abbruttiscono le persone e offendono la dignità umana. Questo calpestare l’essere umano e il suo essere operatore dello Stato non può giustificare alcun silenzio, perché in tal caso si è complici di chi quelle angherie e soprusi determina. Eppure il ministro e il Capo del Dap sono puntualmente informati di quanto accade nei vari istituti". "A Vicenza il personale è costretto a dormire in una caserma-tugurio mentre i detenuti sono ospitati in reparti nuovi e ristrutturati. A Rovigo personale è costretto a operare all’addiaccio e in balia degli agenti atmosferici. Sull’intero territorio la polizia penitenziaria effettua traduzioni su mezzi obsoleti e usurati, mentre a Roma sfrecciano berline e fuoriserie. E questi sono solo alcuni esempi delle criticità in atto". Chiudendo i lavori del direttivo regionale della Basilicata, Sarno rivela come lunedì prossimo incontrerà il capo del Dap "e chiederò al presidente Ionta risposte e soluzioni, altrimenti la mobilitazione resta la via maestra. E quando parliamo di mobilitazione pensiamo all’applicazione letterale e puntuale dei regolamenti interni e di servizio. Se ciò dovesse conseguentemente determinare il blocco del sistema penitenziario qualcuno dovrà pur chiedersene le ragioni. Le deficienze organiche della polizia penitenziaria e una movimentazione di personale non concordata sono ulteriori motivo di protesta. Continuano a movimentare personale per servizi più svariati, di fatto svuotando le sezioni e le carceri". "Dispongono - precisa Sarno - sfollamenti e nuove aperture senza preoccuparsi minimamente delle risorse disponibili. Impongono aperture di nuovi padiglioni senza averne il personale. Ma se immaginano di poter gestire il personale come pacchi postali sappiano che troveranno la ferma opposizione, con qualsiasi mezzo, della Uil Penitenziari. In Lombardia, in Piemonte, in Veneto, in Liguria, in Emilia il depauperamento degli organici è all’ordine del giorno con una cadenza scandalosa. E tutto ciò per destinare unità a servizi complementari, come testimonia il recente distacco di 31 unità in Sicilia per servizio di scorta e tutela ad Autorità varie. Eppure - specifica il segretario della Uil Pa - i palazzi romani sono strapieni di personale (certamente in numero superiore alle sedie disponibili) ma nessuno immagina di poter movimentare gli intoccabili. E invece è venuta l’ora di fare scelte anche impopolari ma che producano effetti positivi. Istituti come Rossano, Como e Asti (dove sono in atto proteste unitarie) non possono pagare per scelte cervellotiche dell’Amministrazione. Anche lo stato di sovraffollamento e le condizioni detentive sono concause che alimentano tensioni". "Che si galoppasse verso i 60 mila - spiega Sarno - era cosa nota da tempo e noi avevamo lanciato l’allarme. Ora siamo al limite della gestibilità e l’emergenza quotidiana rischia di trasformarsi in una valanga di criticità. Il rischio igienico-sanitario è concreto nella gran parte delle strutture penitenziarie. Tra ratti e scarafaggi, uccelli e animali vari le carceri stanno trasformandosi in mini-zoo. Le persone detenute sono oramai ammassate e le condizioni detentive appalesano l’inciviltà del sistema. Gli operatori penitenziari sono stremati, disillusi e demotivati. C’è ne abbastanza - si chiede polemicamente Sarno - perché Alfano e Ionta, ma il Parlamento tutto, diano un segno di presenza?" Sardegna: Caligaris (Ps); assurdo riaprire carcere dell’Asinara
Adnkronos, 22 novembre 2008
"È assurdo pensare di poter riutilizzare l’isola dell’Asinara, ormai divenuta parco nazionale, per ospitare detenuti ritenuti particolarmente pericolosi. È invece necessario, in attesa di una nuova norma legislativa, che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria riveda caso per caso le posizioni dei detenuti in Alta Sicurezza e di quelli che sono stati sottoposti a situazioni di emergenza previsti dall’art. 41 bis della legge 26 luglio 1975 n. 354". Lo sostiene in una nota la consigliera regionale della Sardegna Maria Grazia Caligaris (PS), componente della Commissione "Diritti Civili", in riferimento alle dichiarazioni del senatore Giuseppe Lumia, ex Presidente della commissione parlamentare Antimafia. "Il carcere dell’Asinara, come penitenziario di alta sicurezza per brigatisti, camorristi e mafiosi, è stato smantellato ormai da alcuni lustri e non è più proponibile - sottolinea Caligaris - una sua riapertura per ovvi motivi legati alle prospettive di sviluppo turistico compatibile con il sistema ambientate dell’isola e del suo territorio costiero inserito nel più ampio contesto del nord Sardegna. Si possono garantire la sicurezza e l’isolamento dei detenuti ritenuti pericolosi con misure all’interno degli attuali Istituti di Pena dotati delle sezioni di Alta Sicurezza. La questione dei detenuti ai quali si applica l’articolo 41 bis va comunque affrontata per ridurre i gravi disagi che provoca nella gestione delle carceri ed in particolare in Sardegna". "Sono passati oltre 30 anni dall’approvazione della relativa legge e la norma ha necessità di una rivisitazione da parte del Parlamento ma nell’attesa - precisa ancora la consigliera socialista - il Dap può operare riesaminando le posizioni dei singoli detenuti per accertarne la sussistenza della pericolosità. Vi sono, anche in Sardegna, detenuti ultrasettantenni, ammalati, e sottoposti ad aggravamento di misure restrittive, interne ed esterne, in alta sicurezza con un regime che richiede uno sforzo notevole da parte delle Direzioni e degli Agenti della Polizia Penitenziaria. Molti, fuori dall’isola, chiedono invano la territorializzazione della pena, Attualmente l’art. 41 bis viene applicato anche a detenuti che hanno subito condanne non pesanti per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti". "Un riordino attualizzato delle condizioni di detenzione curato dal Dap - conclude Caligaris - favorirebbe le eventuali declassificazioni alleggerendo il numero dei detenuti pericolosi a vantaggio del sistema carcerario. Molti dei detenuti attualmente in alta sicurezza negli Istituti isolani - anche in base ai contatti avuti nelle periodiche visite in carcere - non risulta abbiano motivo di subire quelle restrizioni che l’art. 41 bis impone". Lombardia: con l'Uisp calcio yoga e palestra per mille detenuti
Redattore Sociale - Dire, 22 novembre 2008
Il "Progetto carcere", promosso dalla sezione regionale dell’Unione italiana sport per tutti coinvolge dieci istituti. Il 22 novembre a Castiglione delle Stiviere (Mantova) un convegno per fare il punto. Fra partite di calcio ed esercizi in palestra, corsi di yoga e gare podistiche, ogni anno sono almeno un migliaio i detenuti degli istituti di pena lombardi che partecipano alle iniziative di "Progetto carcere" promosso dalla sezione regionale dell’Unione italiana sport per tutti (Uisp). Un’iniziativa che coinvolge, con continuità e da diversi anni, dieci penitenziari: Brescia (dove il progetto è iniziato nel 1985), Cremona, Lodi, Opera, Bollate, Como, Varese, Busto Arsizio, Mantova. "Cerchiamo di migliorare la vita quotidiana dei detenuti -spiega Alberto Saldi, responsabile del progetto - e allo stesso tempo coinvolgere scuole e società sportive. Per far conoscere alla società civile la realtà delle carceri e mantenere un legame con il mondo esterno". Per concludere questo anno di attività, e per fare il punto sulla situazione, è in programma il convegno "Sport in carcere. Tra aggressività e rispetto delle regole", che si svolgerà sabato 22 novembre a Castiglione delle Stiviere (Mantova). "Sarà un’occasione per parlare di che cosa è il carcere oggi - aggiunge Alberto Saldi -. E la situazione attuale è drammatica: per questo è ancora più importante, per noi, essere presenti". Le iniziative proposte sono le più varie e dipendono molto dagli spazi disponibili. Nel carcere di Brescia, ad esempio, ogni giovedì c’è un istruttore che allena le squadre dei detenuti che partecipano a un torneo di calcio, che si svolge da ottobre a giugno. Invece dove mancano le strutture per svolgere competizioni agonistiche, si organizzano corsi di yoga e sedute di allenamento in palestra. Il convegno si svolgerà presso il Centro di formazione del dipartimento giustizia minorile, in via Moscati 27 a Castiglione delle Stiviere (Mantova) a partire dalle 9.30. Bergamo: un carcere con 240 posti, ma i detenuti sono ben 550
www.bergamonews.it, 22 novembre 2008
Lo confermano i numeri forniti oggi dal comandante del reparto di polizia penitenziaria: gli ingressi sono sempre di più delle scarcerazioni. Cresce il lavoro per gli agenti: nel 2008 sequestrato all’interno un chilo di cocaina. I detenuti-imputati in netta maggioranza rispetto ai definitivi:"Ma non è un dato anomalo". È un carcere sovraffollato, che si riempie sempre più di detenuti extracomunitari, dove è rilevante l’effetto "porta girevole" (carcerazioni e scarcerazioni in tempi strettissimi) e dove comunque continua a crescere il numero degli "ingressi". Sono alcuni numeri, e conferme, emersi dalla festa della polizia penitenziaria celebrata oggi nella sede dell’Università a Sant’Agostino. Il vice commissario Daniele Alborghetti, bergamasco Comandante del reparto della Polizia Penitenziaria alla Casa Circondariale di via Gleno, ha elencato numeri sull’attività del 2008. Partendo da un dato che può anche trarre in inganno: dall’1 gennaio al 20 novembre in via Gleno sono stati registrati 1.256 ingressi di detenuti e 1.148 scarcerazioni. "Chi entra esce velocemente", si può pensare, ed è la verità. Bergamo rispecchia la realtà nazionale dove su 94 mila soggetti in carcere per reati minori, 24 mila sono usciti entro il terzo giorno di detenzione. Ma in realtà la statistica del vice commissario dice che in via Gleno il saldo a favore degli ingressi è comunque di 108 persone che pesano in modo non indifferente su un istituto penitenziario dove il sovraffollamento è già un problema: la struttura di via Gleno era stata realizzata per 240 detenuti circa. Ce ne sono attualmente poco meno di 550. 108 persone in più in un anno sono molte. C’è poi il rapporto tra detenuti-imputati e detenuti-definitivi, i primi non ancora giudicati in tribunale e finiti in carcere per misure cautelari e altri provvedimenti, gli altri già soggetti a sentenza almeno di primo grado. Gli imputati sono circa 300, quasi il 60 % del totale. Il carcere di Bergamo in buona parte è loro. "Ma i numeri si spiegano - ha sottolineato a margine della cerimonia la responsabile dell’area pedagogica della casa circondariale Anna Maioli -. Siamo infatti una casa circondariale, che per definizione giuridica riguarda proprio i detenuti in attesa di sentenza. Le pene più lunghe, in particolare, si scontano nelle case di reclusione, che non sono a Bergamo". È comunque una naturale conseguenza il gran lavoro che spetta ai 245 agenti di polizia penitenziaria agli ordini provvisoriamente del vice commissario Alborghetti. Solo alcuni numeri per i primi 11 mesi dell’anno: 53 attività specifiche di polizia giudiziaria, 57 comunicazioni per reati all’interno dell’istituto, dal traffico di sostanze stupefacenti alle lesioni personali, minacce, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, furto, ingiuria e danneggiamento; 30 sequestri di corpi di reato per quasi un chilo di cocaina e circa 150 grammi di hashish. Alla relazione del vice commissario e al seguente intervento del direttore della Casa circondariale Antonino Porcino hanno assistito anche il prefetto Camillo Andreana, il questore Dario Rotondi, il comandante dei carabinieri, colonnello Roberto Tortorella, il comandante dei vigili del fuoco Giuseppe Verme, il procuratore della Repubblica Adriano Galizzi. Oristano: per completare nuovo carcere servirebbero 100 mln
La Nuova Sardegna, 22 novembre 2008
Dopo le voci dei giorni scorsi c’è anche la conferma che dalla Finanziaria nazionale sono spariti i fondi per l’ultimazione anche del nuovo carcere di Massama. I tagli operati dal Governo sfiorano i 100 milioni di euro e andranno a penalizzare in modo determinante gli interventi programmati per l’edilizia penitenziaria e finalizzati a contrastare il sovraffollamento nelle carceri. Ad essere penalizzate saranno proprio le strutture in fase di realizzazione che non avevano ottenuto l’intera copertura finanziaria. Davanti a questa grave situazione è certo che la struttura, che sta sorgendo alla periferia di Massama, non vedrà la fine prima del 2011, ammesso che si recuperino i fondi per il finanziamento del secondo lotto. La vicenda dei tagli che inciderà sulle risorse del Ministero delle Infrastrutture è stata oggetto anche di una interrogazione presentata dai deputati del Pd, Guido Melis e Donatella Ferranti. Il sottosegretario alla giustizia, Maria Alberti Casellati, ha risposto in aula e ha ricordato che è in fase di ultimazione il primo lotto del carcere di Oristano e che la struttura sarà ultimata entro il 2009. "Credo che con i tagli della Finanziaria rischi di rimanere incompleta e quindi inutilizzabile - ha dichiarato Roberto Picchedda, coordinatore regionale Uil penitenziari -. Di fatto anche a Oristano non sarà sanato il problema del sovraffollamento del carcere. Il sottosegretario ha risposto all’interrogazione ricordano che per la nuova struttura è previsto un finanziamento di 45 milioni. Con l’ultimazione del primo lotto è prevista una capienza di 150 posti, ma per ultimarlo occorrono almeno altri 50 milioni di euro. È sbagliata la previsione di stima, con quel finanziamento non sarà possibile rendere la struttura idonea e fruibile. Il progetto presenta evidenti pecche perché è stato concepito senza tenere conto degli aspetti di controllo e di vigilanza. Se poi mettiamo in evidenza i tagli decisi dalla vigilanza è chiaro che i tempi per la ultimazione del carcere di Oristano slitteranno sicuramente di almeno 3 o 4 anni: non si possono fare le nozze con i fichi secchi. Abbiamo più volte denunciato la grave situazione di sovraffollamento degli istituti di pena in Sardegna - ha spiegato Roberto Picchedda -. Anche la vecchia Casa Circondariale di piazza Manno è in quelle condizioni. La struttura può ospitare al massimo 92 detenuti, mentre oggi ce ne sono ben 121, 112 uomini e 9 donne, sistemati in sole 54 celle. Con i tagli che oggi impone la Finanziaria sono a rischio anche le altre carceri nell’isola - ha concluso Roberto Picchedda -. È necessario che il Governo faccia chiarezza sui finanziamenti e che i lavoro possano eseguirsi regolarmente per mettere fine al sovraffollamento in strutture vetuste". Cagliari: i sindacati denunciano; carcere di Iglesias al collasso
La Nuova Sardegna, 22 novembre 2008
Centodiciotto detenuti presenti. Quattro in arrivo. La capienza ufficiale delle celle è di 59 persone. L’affollamento è doppio. Quello scatolone recintato a cui l’architettura penitenziaria ha consegnato le aspirazioni di piccolo bunker ma ne ha storpiate le sembianze, è al collasso. La Uil regionale dei Lavoratori della pubblica amministrazione ha dichiarato ieri lo stato di agitazione del personale. Anche su questo fronte i numeri non tornano, la pianta organica non è adeguata all’impegno richiesto. Il primo intervento invocato dai sindacati è netto: eliminare subito due sezioni detentive. Poi una serie di misure destinate a modificare decisamente la situazione. Se non ci saranno risposte tangibili, la Uil preannuncia iniziativa di protesta più marcate in tempi rapidi. "Ma occorre aprire subito, e parliamo di ore non di mesi, un tavolo di concertazione regionale al Prap (provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria) per affrontare tutte le problematiche dell’istituto", dice Roberto Picchedda, segretario regionale della Uil pubblico impiego e comparto sicurezza. "Una tappa che deve fare lo stesso cammino con un confronto generale nazionale sui nodi degli organici complessivi della Sardegna, sia per la polizia penitenziaria e sia del comparto ministeri (educatori, ragionieri, assistenti amministrativi, infermieri, anche in considerazione del fatto che il passaggio della sanità penitenziaria alle aziende sanitarie è ancora in forse)". In questo scenario, dice il sindacalista, quella dell’istituto di Iglesias "è una delle realtà più deficitarie". Se ne è parlato a lungo martedì in un incontro ospitato nella struttura in località Sa Stoia. La riunione è stata chiesta a lungo e con determinazione dal coordinamento regionale Uilpa penitenziari Sardegna. Alla direzione del carcere è stata ancora una volta ribadita la difficoltà generale e le "gravi" condizioni operative del personale di polizia penitenziaria. La denuncia è severa: "Da tempo - ricorda Picchedda - la Uil denuncia la grave situazione di abbandono nella quale l’amministrazione penitenziaria tiene l’istituto dell’Iglesiente. Situazione che in questi ultimi tempi si è ulteriormente aggravata con l’arrivo di altri detenuti". Una crescita costante ma anche rapida, tanto che Picchedda parla di "escalation": 118 detenuti presenti, altri 4 in arrivo. Quadro a tinte fosche. Le quattro sezioni detentive sono piene e l’affollamento delle celle ha imposto il ricorso ai letti a castello a tre posti. L’istituto ha una capienza regolamentare di 59 detenuti, mentre il traguardo di oltre centoventi che si registrerà nei prossimi giorni "rende difficile avviare anche l’operatività giornaliera", osserva amareggiato Picchedda. Il personale di polizia penitenziaria che garantisce le attività di custodia e di trattamento conta 38 unità nel servizio istituzionale per quattro turni giornalieri di 6 ore "e i livelli di sicurezza sono ai minimi termini". Non va meglio negli uffici. I conti del sindacato sono gelidi: manca personale dell’area educativa, mancano i ragionieri, gli assistenti amministrativi. Il personale di polizia, con circa una decina di unità deve garantire anche l’operatività di questi settori. Non basta: il dirigente dell’istituto non è in pianta stabile e manca un commissario: "Per una sede che recentemente è stata promossa al rango di sede dirigenziale non è affatto trascurabile", fa notare il sindacalista. Tutt’altro che felice è anche la qualità dell’edificio, esposto all’avarizia delle manutenzioni fin dalla sua inaugurazione, una ventina di anni fa. "Già - commenta sconsolato il dirigente della Uil - non c’è alcuna possibilità di avviare manutenzione ordinaria del fabbricato, che comincia ad accusare il peso del tempo e della mancanza di interventi anche minimi ma necessari per ripristinare normali situazioni di vivibilità". Disagio e sofferenza su tutti i fronti, anche sui più delicati, casomai si potesse fare una graduatoria. "La cosa più grave - ribadisce Roberto Picchedda - è che in questo sovraffollamento, la popolazione detenuta è totalmente priva di assistenza medica e infermieristica nelle ore notturne, dalle 20 della sera alle otto della mattina successiva". I ranghi ridotti non fanno abbassare la guardia e i servizi vanno comunque avanti. Sforando dalle competenze proprie del Corpo, il personale della polizia penitenziaria "si prodiga come può" per fronteggiare l’emergenza ma è impossibile sostituire la presenza di una guardia medica nelle ore notturne. "Colpa dei tagli indiscriminati operati nei fondi destinati all’assistenza sanitaria dei reclusi", dice senza mezzi termini il sindacalista. Un castello di carte, dove ciascuna condiziona e garantisce l’equilibrio delle altre ma se casca una vengono giù tutte. Il collasso del carcere di Sa Stoia è la miscela di tutti i guai che vi si sommano. La mancanza di personale negli organici della sicurezza infonde una sensazione di precarietà sul fronte della sicurezza, pesa sulla conduzione dell’istituto e mette a rischio l’incolumità del personale. Il sindacato lo sa bene: "Lo abbiamo dichiarato alla direzione del carcere: questo stato di cose, unito all’assoluta assenza dell’amministrazione centrale, non può che determinare nel personale senso di frustrazione, abbandono e il crescere di uno situazione di stress psico-fisico che alla fine produce una condizione di malessere fisico difficile da governare e da evitare". Sotto questa pressione la via d’uscita che permette di recuperare uno sprazzo di serenità è proprio alla voce che di questi tempi tanto fa discutere. Non ha timori a dirlo il segretario della Uil: "Non resta che il ricorso alla malattia per sfuggire a ciò che non sembra trovare soluzioni immediate". Far finta di nulla quando l’indice di tollerabilità sembra alla punta massima non si può, perlomeno non si può più. Stavolta la voce del sindacato risuona da un valore più alto delle proposte e delle richieste, ora le soluzioni sono invocate, pretese, e con efficacia rigorosa, spiega Picchedda: "Certo, abbiamo chiesto alla direzione di farsi portavoce al Provveditorato perché attui uno sfollamento delle sezioni detentive, almeno di due sezioni, in modo da recuperare unità di personale e poter così ripristinare la fruizione dei diritti fondamentali del personale, quali il riposo settimanale, il congedo ordinario, i riposi compensativi maturati a seguito del lavoro straordinario effettuato a copertura delle unità mancanti". Insomma, un’agenda corposa che secondo la Uil può essere sfogliata e discussa solo con l’amministrazione penitenziaria regionale e in un quadro d’insieme nazionale. "La direzione dell’istituto - ammette lo stesso sindacalista - si trova impotente a gestire la situazione e non trova soluzioni locali, mentre rimanda al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e al dipartimento del ministero i correttivi necessari". Sui tasselli da sistemare non ci sono dubbi. Sono stati elencati con dettaglio dal sindacato. Contestuale allo sfollamento delle due sezioni dovrà essere l’invio di un contingente di unità di polizia penitenziaria che permetta almeno di ripristinare l’organico previsto dal decreto ministeriale dell’8 febbraio 2001 che è di 52 unità: 5 ispettori, 5 sovrintendenti, 39 uomini e 3 donne per ruolo degli assistenti e agenti, per un totale di 49 uomini e 3 donne. La forza attuale è di 46 uomini e 2 donne. Occorre poi ripristinare, attraverso l’assegnazione di fondi adeguati, il servizio di guardia medica e infermieristica notturna feriale. Necessaria inoltre la dotazione di organico adeguato da destinare al nucleo traduzioni e piantonamenti (ora il servizio è svolto dalla Casa circondariale di Oristano, per via delle carenze). Trieste: sovraffollamento del "Coroneo", con 60 malati su 200
Il Piccolo, 22 novembre 2008
Oltre 200 detenuti dei quali non meno di sessanta ammalati gravi. È questa la situazione attuale del carcere Coroneo. "Ogni giorno arrivano reclusi da altre strutture. Non abbiamo nemmeno più i letti", dice preoccupato un operatore. Il direttore Enrico Sbriglia è lapidario: "L’infermeria ornai non ha più posti disponibili. Gli operatori stanno dando il massimo. Ma molti sono costretti a rimanere in cella. L’ultimo caso estremo è stato due giorni fa quando in ospedale è morto un detenuto che era stato ricoverato una decina di giorni fa per una grave malattia". E alla data del 31 dicembre cesserà l’assistenza sanitaria da parte dello Stato e i reclusi ammalati passeranno in carico all’Azienda sanitaria. "La situazione è gravissima", dice ancora Sbriglia. E aggiunge: "L’effetto dell’indulto del 2006 è ormai cessato". In altri termini le celle sono di nuovo strapiene, al di là della stessa capacità regolamentare che prevede al massimo l’ospitalità di 155 detenuti. Da fine settembre nel carcere sono invece rinchiuse mediamente ogni giorno dalle 190 alle 200 persone, il dieci per cento delle quali donne. Ma non basta. Negli spazi progettati per accogliere due o tre persone, oggi purtroppo già occupati da quattro, dovrebbero trovare posto ben sei detenuti. E la vivibilità del carcere precipiterebbe, con quel che ne consegue sul piano della rieducazione e dello stesso ordine interno. Anche gli organici della polizia penitenziaria sono in sofferenza. Al Coroneo oggi sono effettivamente in servizio 113 agenti dei 128 virtuali, scritti ufficialmente sul ruolo delle presenze. Il numero fissato dal Ministero è ancora più alto: 159 poliziotti. "I nostri agenti devono in primo luogo badare alla sicurezza e non possono sostituirsi agli psicologi, agli educatori, agli assistenti sociali" aveva spiegato pochi mesi fa il direttore del Coroneo che sta facendo i miracoli per abbassare la tensione un tempo presente tra i detenuti, introducendo un totale proibizionismo nelle celle. Né vino, né birra. L’abolizione è stata proposta al Magistrato di Sorveglianza dagli operatori penitenziari, supportati da quelli dell’Azienda sanitaria. "Ma il clima si fa sempre più pesante. Ci sono segnali che preoccupano", ha dichiarato un agente. Nell’agosto del 2006 c’erano meno detenuti. C’era stato l’indulto e ne erano stati liberati un’ottantina. Como: 20 agenti per 500 detenuti, in carcere rischi quotidiani
Corriere di Como, 22 novembre 2008
Una festa al veleno. La polizia penitenziaria ha celebrato ieri la propria ricorrenza portando alla ribalta i problemi che ne condizionano il lavoro quotidiano all’interno del carcere del Bassone. E l’ha fatto con la protesta delle sigle sindacali unite, con tanto di volantinaggio, ma anche con le parole dell’attuale direttore a tempo della casa circondariale, Salvatore Nastasia, già direttore del carcere di Busto Arsizio, che lunedì prossimo lascerà l’ufficio ad un atro direttore a tempo. In attesa che, forse nel febbraio del 2009 - ma i sindacati, al riguardo, sono molto scettici - arrivi la nomina definitiva per una poltrona vacante da troppo tempo. "Sono un direttore in prestito - ha detto Nastasia - Questa struttura ha bisogno di un direttore stabile, ma il futuro è ancora fumoso. Questo turnover continuo dimostra una cattiva gestione della transizione da una direzione all’altra. E in questo stato di cose la polizia penitenziaria ha cercato in se stessa punti di riferimento e i risultati si vedono". Non solo un direttore part-time, ma anche la mancanza di un comandante titolare del corpo, oltre alla cronica carenza d’organico e all’alto numero di detenuti. Una condizione ben sintetizzata dalle parole di Massimo Corti, vice coordinatore regionale della Cisl: "Servirebbero almeno 85 uomini in più. Nei vari turni quotidiani, non più di 20 agenti si trovano a controllare 507 detenuti. Nel reparto femminile ci sono addirittura 4 colleghe, a volte anche meno, per 50 ragazze detenute". Numeri che hanno portato le sigle sindacali unite a scrivere una lettera prima al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, poi addirittura al dipartimento di Roma. Una situazione al limite, forse oltre, raccontata dallo stesso Nastasia con parole drammatiche: "È sconvolgente pensare ai potenziali rischi che corrono quotidianamente questi ragazzi, per lo più di giovane età ma animati da un grande senso del dovere". Per ultimo il problema mai superato - nonostante l’indulto - del sovraffollamento. "Abbiamo celle di 15 metri quadrati, fatte per una, al massimo due persone, in cui convivono anche sei detenuti", ha concluso il direttore. Che nel corso della giornata ha fornito i dati del Bassone: 507 detenuti, dei quali 254 stranieri (il 50%, in cui prevalgono nell’ordine marocchini, albanesi, romeni e tunisini); 50 le donne della sezione femminile; 630 i detenuti in libertà; 117 ai "domiciliari"; 150 le persone in attesa di giudizio; 535 le visite mediche programmate al Sant’Anna; 760 le udienze nei palazzi di giustizia; una l’evasione sventata (il 2 maggio); 31 le notizie di reato comunicate in Procura; 26 le persone denunciate dalla polizia penitenziaria impegnata in operazioni di polizia giudiziaria. I reati più commessi sono la detenzione e spaccio di droga, seguiti da rapine e furti. Catania: chiuso Master Scienze criminologiche e penitenziarie
La Sicilia, 22 novembre 2008
Stamattina, alle 11.30, nei locali del Dipartimento di Studi Politici (Via Vittorio Emanuele 49), il Sen. Salvo Fleres, Garante della Regione siciliana per la tutela dei diritti dei detenuti, e il prof. Salvatore Aleo, coordinatore del Master universitario in Scienze criminologiche e penitenziarie e direttore dello stesso dipartimento, hanno tenuto la lezione conclusiva del Master sul tema "Il ruolo degli operatori penitenziari nel recupero sociale dei detenuti". Il corso post-laurea della facoltà di Scienze politiche si è posto come obiettivo la formazione di professionisti nell’analisi delle forme di devianza che sfociano in condotte penalmente rilevanti, sia allo scopo di comprendere le ragioni che sono alla base del comportamento criminale, sia allo scopo di individuare opportuni rimedi per favorire il percorso di risocializzazione di coloro che sono sottoposti a pena detentiva. Da questo punto di vista si evince l’importanza delle discipline penitenziarie nell’ambito del percorso formativo del Master nella prospettiva dell’intervento diretto su chi è entrato nel circuito della sanzione penale. Ulteriormente, in una dimensione macro-sociale, attraverso l’analisi delle cause dei reati possono proporsi programmi di profilassi sociale per arginare il fenomeno criminale. Trattandosi di un percorso formativo che ha pochi analoghi, non solo nel contesto più immediatamente locale, ma anche regionale e nazionale, le prospettive occupazionali sono costituite soprattutto dalla formazione di esperti di supporto alle attività investigative delle forze dell’ordine e della magistratura, nonché nella predisposizione di progetti d’intervento sui detenuti da rieducare. Nonostante, nell’ordinamento attuale, non sia prevista una formalizzazione della figura del criminologo attraverso l’istituzione di uno specifico profilo professionale e di un ordine autonomo, molteplici infatti sono le funzioni che possono essere svolte da chi acquisisce tale professionalità. Il criminologo può operare nel settore penitenziario in qualità di criminologo clinico, presso il Tribunale di Sorveglianza come membro non togato, presso il Tribunale per i Minorenni come esperto per l’attività di consulenza o come giudice onorario. Il criminologo può, altresì, affiancare il lavoro dell’avvocato per contribuire alla definizione della dinamica delittuosa e delle prove. Inoltre, nell’ambito della pubblica amministrazione, in particolare in relazione alle attività degli enti locali, può contribuire alla definizione delle politiche di prevenzione della criminalità e di potenziamento dei sistemi di sicurezza. Lecce: al "San Nicola" la sfilata di moda del "made in carcere"
www.giustizia.it, 22 novembre 2008
Nei primi giorni di dicembre si terrà, nel carcere femminile Borgo san Nicola di Lecce, una sfilata di moda per lanciare la nuova linea di borse Shoppers-Bags. Si tratta del coronamento di un progetto, tutto al femminile, nato nel laboratorio artigianale della casa circondariale e che offre alle detenute una possibilità in più per mettere a frutto la propria creatività ed una opportunità di recuperare utilmente il tempo necessario fino all’estinzione della pena. Si tratta di un vero e proprio marchio Made in Carcere, su progetto della società Officine Creative, che crea prodotti eco-solidali, dando nuova vita ai tessuti e raccogliendo ciò che gli altri scartano. Oltre alle borse, ognuna unica nel suo genere, il pubblico potrà ammirare anche altri accessori dell’abbigliamento come sciarpe e cappelli. Milano: "San Vittore Sing Sing" è l’evento educativo dell’anno
Ansa, 22 novembre 2008
Il Festival di "San Vittore Sing Sing" è il migliore evento europeo educativo per il 2008: lo ha deciso la giuria di Eubea (European best event awards), la kermesse internazionale dedicata agli eventi che ha assegnato all’iniziativa promossa dalla Provincia di Milano il primo premio europeo per la categoria "educational and training event". A ritirare il riconoscimento, ieri durante il "Bea Expo Festival" di Torino, l’assessore provinciale all’integrazione sociale per le persone in carcere o ristrette nelle libertà Francesca Corso. San Vittore Sing Sing è un evento unico nel panorama europeo che la Provincia promuove da quattro anni portando spettacoli di musica e comicità nelle case circondariali milanesi. Partita dal solo carcere di San Vittore, la manifestazione è cresciuta negli anni coinvolgendo anche il carcere di Bollate e, novità dell’ultima edizione dello scorso giugno, anche il carcere minorile Beccaria. "Con San Vittore Sing Sing - afferma il presidente della Provincia di Milano Filippo Penati - la Provincia di Milano ha voluto concretizzare la volontà di essere vicini ai detenuti che stanno scontando il proprio debito con la società, e di sensibilizzare il pubblico sul problema delle condizioni di vita spesso davvero insostenibili, nelle carceri, nella convinzione che il loro miglioramento sia imprescindibile per un Paese civile e che crede nella funzione rieducativa della pena. Il Festival San Vittore Sing Sing - afferma Francesca Corso - voluto fortemente da questa amministrazione provinciale e realizzato da Piano B, è per noi istituzioni, per il personale che lavora nelle carceri e per i detenuti quell’impulso per proseguire il cammino intrapreso per rompere l’isolamento del carcere, perché è in questi luoghi, dove c’è mancanza di libertà, che l’arte e la musica volano libere". Droghe: addio "spinello libero"... l’Olanda chiude i coffee shop di Alberto D’Argenio
La Repubblica, 22 novembre 2008
Anche questo fine settimana decine di migliaia di persone affollano le strade di Amsterdam, Maastricht o Rotterdam alla ricerca di un coffee shop dove fumarsi uno spinello in perfetto relax. Un vero esercito, quello dei "turisti della canna", che prestissimo potrebbe rimanere a bocca asciutta: proprio ieri il Comune di Amsterdam ha deciso di chiudere un quinto dei suoi coffee shop e mentre a sud del Regno infuria una vera e propria guerra diplomatica con le nazioni confinanti - stanche del via vai di giovani che vanno a fumare in Olanda - il governo progetta di mettere al bando hashish e marijuana e, con esse, i locali più celebri dei Paesi Bassi. Olanda 2008, lo spirito della nazione più liberale d’Europa pian piano sta svanendo, almeno tra i politici al potere. Soffrono i quartieri a luci rosse, drasticamente ridimensionati dalle autorità, e i coffee shop. È di ieri la decisione del sindaco di Amsterdam: entro il 2011 saranno chiusi i locali del fumo a meno di 200 metri dalle scuole. Si tratta di 43 coffee shop, alcuni rinomati da tre decenni, sui 228 della capitale. Il primo cittadino lo ha fatto mal volentieri adeguandosi ad una direttiva del governo. Ed è proprio dall’Aja che arriva la controriforma destinata a mettere fine al mito nato negli anni Settanta del Paese dei divertimenti. È guerra senza quartiere, con il divieto di fumo in tutti i locali pubblici e quello di dare in eredità le licenza dei gestori di coffee shop. Una misura che nel lungo periodo inevitabilmente porterà alla loro estinzione. Sempre che la mazzata non venga anticipata. Il primo partito del Paese, i cristiano-democratici del premier Jan Peter Balkenende (Cda), ha inserito nell’agenda di governo la messa al bando degli spinelli. A favore il terzo partito della coalizione, gli ultra-religiosi della Christian Unie, mentre ad opporsi sono solo i laburisti, l’altra formazione al potere. Ma opinioni politiche a parte, un problema legato ai coffee shop esiste: la legge olandese autorizza la vendita e il consumo di hashish e marijuana, ma ne proibisce produzione e distribuzione. Quella che molti chiamano la "grande ipocrisia". Il punto è semplice: se la coltivazione è vietata, dove si approvvigionano gli 800 coffee shop olandesi? Dalla criminalità organizzata, visto che l’epoca dei piccoli produttori che facevano crescere le piantine nel giardinetto di casa è finita da quando quella del fumo libero è diventata un’industria da due miliardi di euro l’anno. E a farla da padrona sarebbe la mafia marocchina, che usa i porti olandesi per inondare di fumo, e di droghe pesanti, i coffee shop e il resto d’Europa, scatenando il sotterraneo malcontento dei governi di mezzo continente. Problemi inimmaginabili trent’anni fa, quando i Paesi Bassi aprirono agli spinelli proprio per non dare spazio alla criminalità organizzata. Ma allora si trattava di un mercato locale, mentre oggi è un vero mercato che campa grazie a milioni di turisti che ogni anno si riversano nelle città olandesi per fumare. Dunque missione fallita. E le pressioni arrivano anche dall’estero: nel sud del Regno ogni giorno arrivano in auto decine di migliaia di fumatori provenienti dai vicini Belgio, Francia e Germania, mandando su tutte le furie i comuni confinanti, stanchi del via vai di pusher e giovani che minacciano la sicurezza pubblica di luoghi dove il fumo è proibito. Intanto sono già stati messi al bando i funghetti allucinogeni venduti dagli smart shop, negozietti di prodotti naturali. Insomma, il dibattito infuria con politica e opinione pubblica spaccate. Chi si oppone alla chiusura - e sono davvero in tanti - non lo fa solo per salvare un simbolo nazionale, ma dice che senza i coffee shop la malavita sarebbe ancora più difficile da contrastare. Eppure l’onda è difficile da fermare e presto l’Olanda potrebbe cambiare per sempre. Israele: attivista italiano detenuto; i nostri diritti sono ignorati
www.voceditalia.it, 22 novembre 2008
L’italiano Vittorio Arrigoni, lo scozzese Andrew Muncie e la statunitense Darlene Wallach, attivisti del Free Gaza Movement, sono stati fermati senza alcuna motivazione dall’esercito israeliano martedì mattina, mentre si trovavano a bordo di pescherecci palestinesi nelle acque di fronte alle coste di Gaza. La presenza di civili stranieri doveva servire a proteggere i pescatori palestinesi dalle frequenti aggressioni da parte dei soldati israeliani. Alle 20 di ieri sera siamo riusciti a contattare telefonicamente Vittorio Arrigoni, tramite il cellulare che gli ha fatto avere il suo legale.
Dove siete detenuti attualmente? Quali sono le vostre condizioni? Dopo averci portato nel carcere dell’aeroporto Ben Gurion, ci hanno trasferiti a Ramla. Ci troviamo in un carcere normale, che ha anche un’ala riservata ai detenuti per problemi d’immigrazione. Oggi abbiamo comunicato la nostra decisione di iniziare uno sciopero della fame. Sono subito stato portato in una sorta di cella di punizione, dove ho trovato il mio amico scozzese Andrew. Più che una cella era una toilette, sporca e piena di insetti. Siamo rimasti lì dentro per sei ore, senza la possibilità di avere acqua potabile. Inoltre ci hanno ritirato i cellulari che ci aveva consegnato ieri l’avvocato, impedendoci così di comunicare con l’esterno. E, cosa ancor più grave, ci è stata negata la possibilità di chiamare il nostro avvocato e il console, come invece prevede il diritto internazionale.
Proseguirete lo stesso lo sciopero? Io alla fine ho deciso di mangiare qualcosa, per riavere il cellulare e poter chiamare immediatamente il console e dare notizia degli ultimi avvenimenti. Ho fatto chiamare anche il consolato scozzese e quello americano, perché quello che abbiamo subito oggi si può tranquillamente configurare come tortura. Si tratta di un regime detentivo contro ogni diritto umano. Darlene e Andrew, che non sento da stamattina, penso stiano proseguendo lo sciopero della fame, e presto lo riprenderò anche io. Solo che questo significa non poter raccontare fuori quello che succede dentro.
Darlene e Andrew quindi non si trovano con te adesso... No, Darlene non l’ho più vista da quando ci hanno trasferito dal carcere dell’aeroporto di Ben Gurion a Ramla, dove siamo adesso. Andrew l’ho potuto vedere solo dopo due giorni.
Cosa chiedete con il vostro sciopero della fame? Lo scopo del nostro sciopero è protestare contro quello che è un vero e proprio rapimento, una deportazione. Tra l’altro stiamo attendendo l’esito del ricorso contro l’espulsione, prevista per domenica pomeriggio. Abbiamo attivato i nostri legali anche perché ci vogliono riportare in Italia, ma il mio appartamento attualmente è a Gaza, lì ho il passaporto e i documenti, è lì che stavo lavorando. In Israele mi ci hanno portato loro, dopo avermi rapito.
Ma soprattutto chiedete qualcosa per i pescatori che sono stati fermati con voi e poi rilasciati... Sì, chiediamo il dissequestro dei tre pescherecci che sono stati rubati dall’esercito israeliano nelle acque palestinesi il giorno del nostro rapimento. I pescatori sono stati rilasciati (il giorno dopo il fermo, ndr), ma purtroppo i pescherecci sono ancora sotto sequestro. Cinquanta pescatori sono quindi adesso disoccupati. Si tratta di più di una decina di famiglie che sono state private della loro unica fonte di sostentamento, dal momento che la loro sopravvivenza si basava sulla pesca. Già prima non avevano vita facile, sapete come funziona davanti a Gaza... noi eravamo lì proprio per quello.
Vuoi far sapere qualcosa anche riguardo ai tuoi compagni di cella? Sì, insieme a me c’è una decina di rifugiati eritrei, che ci hanno raccontato la loro tragica storia. Sono scappati dal loro paese, dove c’è la guerra; hanno camminato per sette giorni e sette notti e sono entrati in Sudan e poi in Egitto. Una volta arrivati in Israele, nonostante l’Onu abbia riconosciuto il loro status di rifugiati, sono stati rinchiusi in carcere, dove si trovano da sei mesi, un anno. Ma non sono criminali, è gente che scappa dalla guerra. È uno scenario che fa riflettere: Israele non calpesta i diritti umani solo fuori dai suoi confini, ma ignora le leggi internazionali anche all’interno. Turchia: Ocalan depresso; altri detenuti per alleviare solitudine
Ansa, 22 novembre 2008
La salute mentale del leader storico del Pkk Abdullah Ocalan sta deteriorandosi a causa del suo isolamento carcerario. Presto nuovi detenuti con lui sull’isola di Imrali. Le Ong umanitarie lanciano l’allarme sui rischi di isolamento Abdullah Ocalan. La salute mentale del leader storico del Pkk sta deteriorandosi a causa del suo isolamento carcerario. In particolare a segnalarlo è stata la Commissione europea per la prevenzione della tortura che, insieme ad altre pressioni internazionali, potrebbero portare Ankara a modificare gli standard di detenzione del terrorista curdo. Secondo quanto ha appreso il quotidiano Hürriyet Daily News, infatti, Ankara starebbe pensando di trasferire un certo numero di detenuti sull’isola di Imrali, dove Ocalan è detenuto in un carcere di massima sicurezza. I lavori per la costruzione di nuove celle, di fatto, sarebbero già iniziati. In questo modo si allenterebbe lo stato di isolamento di Ocalan, come chiede l’Europa, ma si eviterebbe di trasferirlo in un altro carcere, ipotesi sempre rifiutata da Ankara.
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