Rassegna stampa 20 novembre

 

Giustizia: "pacchetto sicurezza" non è degno di stato di diritto

di Beppe Del Colle

 

Famiglia Cristiana, 20 novembre 2008

 

Il Senato potrebbe approvare in settimana norme pesanti per gli immigrati e i "senza fissa dimora". Dai lavori di questa settimana in Senato potrebbe uscire uno statuto legislativo piuttosto pesante nei confronti non solo degli immigrati - quattro milioni circa di persone, "regolari" o "irregolari"-, ma anche di cittadini italiani che risultano in concreto "diversi" rispetto a una normalità di vita comunemente accettata: i "senza fissa dimora".

I provvedimenti che fanno parte del "pacchetto sicurezza" preparato dal ministro dell’Interno sono noti: l’istituzione di "ronde" convenzionate con gli enti locali e formate da "associazioni tra cittadini al fine di segnalare alle forze di polizia dello Stato eventi che possono arrecare danno alla sicurezza urbana"; il permesso di soggiorno "a punti", come per le patenti di guida: una volta persi tutti i "punti", l’immigrato si vedrebbe revocato il permesso e verrebbe espulso; è mantenuto il reato di ingresso clandestino, ma la pena non sarà più di tipo giudiziario (condanna al carcere), bensì una multa fra 5 mila e 10 mila euro; maggiori difficoltà per ricevere assistenza sanitaria e per i ricongiungimenti familiari; la proposta della Lega di interrompere i flussi di immigrazione per due anni, data l’attuale congiuntura in cui aumentano i disoccupati; schedatura di tutti i "senza fissa dimora", anche italiani.

In queste misure colpiscono due caratteristiche comuni: l’inutilità ai fini a cui sono rivolte e l’estrema difficoltà a metterle in pratica da parte di uno Stato la cui giustizia e la cui burocrazia già faticano a tenere il passo delle normali incombenze. In più, esse scontano le conseguenze di un’esagerata descrizione della realtà, come ha dimostrato il caso suscitato dalla decisione, presa nel giugno scorso da Maroni, sul rilevamento delle impronte digitali ai bambini rom, contro la quale Famiglia Cristiana fu fra i primi a insorgere e che meritò le giuste critiche in sede europea.

I nomadi di origine rom e sinti erano molti meno di quelli denunciati, e la loro schedatura - soprattutto dei bambini - è stata effettuata con metodi diversi e più tradizionali, d’intesa con la Croce rossa; anche se questa pratica più civile e più umana, decisa d’accordo con il sindaco Alemanno, è costata la destituzione al prefetto di Roma, Carlo Mosca. Per quanto riguarda la schedatura dei "senza fissa dimora", osserviamo innanzitutto che molti di loro ce l’hanno, anche se non è scritta in nessun registro pubblico: sono le panchine dei giardini in cui passano le notti, rischiando di essere bruciati vivi dai soliti ignoti, come è capitato a uno di loro a Rimini.

Se poi si tratta di schedarli, in realtà qualcuno lo ha già fatto, ma con spirito diverso da quello del "pacchetto sicurezza". È morta qualche mese fa Lia Varesio, che nel 1980 fondò a Torino la Bartolomeo & C, un’associazione di volontari che tutte le notti uscivano nelle strade alla ricerca di "barboni" che dormivano sulle panchine o sotto i portici delle stazioni coperti di stracci, e portavano loro qualcosa da mangiare e da coprirsi, e li aiutavano a trovare un rifugio.

In una sua "memoria" di qualche anno fa, Lia ricordava di aver attuato per loro, in accordo con il Comune, "la reiscrizione anagrafica", in modo tale che potessero riacquistare un’identità, visto che molti di loro erano stati davvero "cancellati". L’opera da lei avviata continua, in una cultura opposta a quella della paura, del rifiuto del "diverso" e del ricorso all’autodifesa, in cui le "ronde" rischiano di essere il simbolo d’un comportamento che uno Stato di diritto non può e non deve permettersi.

Giustizia: da dicembre mille ergastolani in sciopero della fame

 

Peace Reporter, 20 novembre 2008

 

Mentre non si ferma lo sciopero dei detenuti in Grecia, dove circa 5mila reclusi fanno lo sciopero della fame da più di due settimane, l’onda della rabbia carceraria sta per arrivare anche in Italia. Il 1 dicembre prossimo saranno almeno ottocento i detenuti italiani che cominceranno a loro volta a non mangiare.

I motivi della protesta sono simili: in Grecia i detenuti chiedono migliori condizioni di prigionia e una revisione del codice penale ellenico, in Italia lo scopo della protesta è la campagna "Mai dire mai", per l’abolizione dell’ergastolo. Le mobilitazione in Grecia coinvolge 21 prigioni, anche dei bracci femminili e delle carceri minorili.

Lo sciopero è iniziato con la consegna da parte dei detenuti di una lettera alle autorità nella quale descrivono la situazione medievale dei penitenziari. Il problema di fondo è il sovraffollamento: in Grecia sono detenute tra le 12mila e le 14mila persone, in strutture che possono ospitarne massimo 7.500. Inoltre, all’interno dei penitenziari, il personale medico è quasi inesistente. Secondo i dimostranti questo spiegherebbe la morte, solo nel 2007, di 57 detenuti. In Italia la situazione non è differente.

Peace Reporter ha intervistato Christian De Vito, dell’associazione Liberarsi, che affianca i detenuti nell’iniziativa. "Non vogliamo sostituirci ai detenuti, che sono i veri protagonisti dello sciopero", specifica De Vito, "ma ci battiamo per dare loro l’occasione di far uscire la loro voce dal carcere. L’iniziativa arriva esattamente un anno dopo quella del 1 dicembre 2007, quando centinaia di ergastolani in tutta Italia hanno iniziato uno sciopero della fame, ma a parte qualche articolo non ne ha parlato nessuno, anche se è andato avanti per quattro mesi e alcuni di loro sono finiti in ospedale. Noi ci offriamo solo come ponte tra il carcere e l’esterno e tra i detenuti di tutte le carceri italiane, che però si sono mossi da soli".

Uno sciopero della fame che, oggi come un anno fa, non coinvolge solo i circa 1.300 detenuti italiani condannati all’ergastolo. "In primo luogo sono tanti anche i detenuti non ergastolani che si sono uniti alla protesta, ma ci sono anche le famiglie che da fuori sostengono questa battaglia", racconta l’esponente di Liberarsi. "In particolare si tratta di comitati femminili, perché sono solo 25 le donne condannate alla pena a vita in Italia e quindi, con tutte le difficoltà del caso, sono in primis mogli e madri che si battono per l’abolizione dell’ergastolo".

Un aspetto che non è ancora chiaro, almeno rispetto alla vulgata comune, è quello dell’ergastolo che alla fine in Italia non sconta nessuno. Se questo aspetto è vero, ha senso questa battaglia? "No, non è vero, è un falso mito", commenta De Vito. "Ci sono due tipologie di ergastolani: quelli degli istituti penitenziari penali tradizionali e quelli di massima sicurezza. I 1.300 detenuti a vita in Italia sono ripartiti, più o meno, a metà tra le due categorie. All’interno della massima sicurezza, poi, ci sono tre modalità differenti, in ordine di rigidezza: l’Eiv (Elevato Indice di Sorveglianza), l’As (Alta Sicurezza) e quelli sottoposti al 41-bis da intendersi, dopo la riforma, nella sua modalità estesa, che riguarda tutti i reati associativi.

La situazione, in particolare per l’ultima categoria, è durissima. Per loro non è previsto alcun caso di pena alternativa e si tratta quindi di un ergastolo effettivo. Per i sottoposti al regime del 41-bis il fine pena è mai. Tranne se si pentono e collaborano, ma questa è una forzatura costituzionale, che lascia anche dubbi sulle reali motivazioni del collaboratore di giustizia. Ma le disfunzioni sono tante, basta pensare al caso di Antonino Marano, in carcere ormai da 43 anni".

In Grecia la protesta ha raggiunto livelli molto gravi. Un detenuto è stato trovato morto in cella, ma le autorità elleniche nel rapporto ufficiale parlano di overdose di stupefacenti. Un altro detenuto, Christo Tsibanis, 30 anni, ha tentato di impiccarsi in cella. Molti altri sono arrivati a cucirsi le labbra in segno di protesta. Il 1 dicembre comincerà la protesta in Italia. Probabilmente è arrivato il momento di riconsiderare il sistema carcerario in Europa, anche per la solidarietà che le proteste dei detenuti, in Italia e all’estero, raccolgono nella società civile. "Uno degli obiettivi è proprio quello di portare fuori dai confini nazionali la protesta", racconta De Vito.

"Siamo andati recentemente a Bruxelles, per consegnare al Parlamento europeo 739 ricorsi di ergastolani italiani. Puntiamo ad attivare in merito la corte di Strasburgo per i diritti umani e il 1 dicembre alcuni europarlamentari visiteranno le carceri della protesta. Il Parlamento europeo non ha competenze per la legislazione penale dei singoli Stati membri, ma ha competenza per il rispetto dei diritti umani, attraverso l’apposita Commissione. Puntiamo ad attaccare in sede europea l’istituto dell’ergastolo dal punto di vista del trattamento inumano".

Ma il problema delle carceri non è solo quello dell’ergastolo e questo crea un altro collegamento con la situazione in Grecia. Le condizioni detentive, per tutti, sono al limite. Gli effetti dell’indulto dell’ex ministro della Giustizia Mastella si sono già esauriti", dichiara l’esponente di Liberarsi, "dal punto del sovraffollamento siamo ai livelli di prima. Inoltre resta inapplicata la riforma Bindi, che prevedeva l’inquadramento dei servizi sanitari carcerari all’interno del sistema sanitario nazionale. Resta ancora tutto da fare.

Come per il dibattito sull’ergastolo, dove nella precedente legislatura qualcosa si stava muovendo, ma adesso la questione è finita nel dimenticatoio. In Parlamento c’era il disegno di legge della deputata Boccia di Rifondazione Comunista che non è stata rieletta e in Commissione per la riforma del Codice penale si era arrivati a dare per acclarata l’abolizione dell’ergastolo, sostituito dalla pena massima di trent’anni. Adesso la Commissione non c’è più". E la rabbia, dietro le sbarre, cresce.

Giustizia: Alfano; il mio ddl servirebbe per svuotare le carceri

 

La Repubblica, 20 novembre 2008

 

Comincia malissimo la giornata di Angelino Alfano. I riflessi mediatici del suo ministero sono la sua ossessione. Ogni mattina misura con pazienza millimetrica le ore di lavoro che ha speso e quello che la stampa riporta. Oggi non c’è che fare, il 19 novembre 2008 resterà segnato come una data storta. Il disegno di legge sulla certezza della pena, curato come un "picciriddu" per settimane, si rivela peggio di un flop. È un boomerang. Niente lodi sulle prime pagine dei giornali. Tutt’altro.

Finisce in ombra la stretta sulla sospensione condizionale della pena, suscita perplessità l’idea di sostituire i processi fino a quattro anni con la messa in prova. Maroni piglia le distanze. E, alle otto di mattina, gli si profila subito davanti il prossimo scontro durante il consiglio dei ministri. Che, un’ora dopo, puntualmente si verifica. Protesta La Russa.

Maroni fa il duro. Nessuno appoggio. Alfano s’arrabbia: "Ma come? Voi sapevate tutto. Ne avevamo discusso. Cos’è questo improvviso voltafaccia? Il mio disegno di legge è equilibrato e punta a deflazionare la popolazione carceraria dando al contempo un preciso segnale. Le pene si scontano. Non ci sono bonus per nessuno. Anche chi, da incensurato, viene condannato a due anni, dovrà scontare la pena. Niente più condizionale gratis. Per ottenerla bisognerà svolgere lavori socialmente utili".

Di solito sa essere convincente Angelino. Ma questa volta trova un muro. Maroni è diventato improvvisamente irremovibile. Glielo dice a brutto muso: "Per la Lega e il mio ministero la tua è una proposta semplicemente impensabile e impraticabile" Bobo ne ha discusso anche con Bossi e i due si sono ritrovati d’accordo. Di indulto ne basta uno. Niente che odori di amnistia neppure da lontano. Tant’è che il leader del Carroccio, quando ormai è sera, dichiara: "Bisogna pensarci bene. L’abbiamo già fatto una volta con l’indulto, ma i reati sono solo aumentati. Tutti pensavano, e anch’io, che quando uno è stato in carcere fa di tutto per non ritornarci. Invece non è stato così".

Altro che messa in prova. Alfano deve fare una rapida retromarcia. Anche se retrocede attaccando. Il ddl sulla certezza della pena, già inviato ai colleghi ministri, non è più un testo certo, è retrocesso a "un’ipotesi". Lo dice in commissione Giustizia dove, per una coincidenza, deve rispondere a una raffica d’interrogativi sulle carceri. Glielo domandano Di Pietro e Tenaglia. Lui non si sottrae: "È un’ipotesi. Condivisa dalla dottrina, chiesta dall’Anm, contenuta in una proposta dell’Idv al Senato". Fermissimo: "Non è un’amnistia, noi non ne faremo". Poi, quasi innocente, confronta la sua soluzione con quella dell’Anm, dell’Idv, di Mastella: "C’è un’unica differenza, loro propongono un tetto di tre anni, noi di quattro". Come fosse una bazzecola un anno di pena in più.

Di Pietro, presente, sorride sornione. Alfano si riposiziona sul piano politico, legislativo, dei media: "Sì, la messa in prova era solo un’ipotesi, ora l’approfondiremo. Pensavo fosse condivisa, se lo è bene, altrimenti... ". Addio messa in prova. A sentire, negli stessi istanti, Niccolò Ghedini, avvocato e consigliere giuridico del premier, si capisce che la decisione è presa: "Esiste in tutti i paesi civili ed è un’operazione bieca sabotarla. È una grande occasione mancata. Purtroppo la messa in prova sarà stralciata". Ghedini è furioso e non lo nasconde. Conferma Alfano: "Ne abbiamo discusso con la Lega e con An. E Maroni e La Russa erano d’accordo". Erano. Adesso non lo sono più.

La messa in prova va in soffitta. Forse diventerà un ddl autonomo. Forse scomparirà. Alfano non ci scommette più un centesimo: "Non era l’elemento centrale del mio provvedimento. Che è tutt’altro: è lo stop alla sospensione condizionale gratis della pena". Lancia uno slogan: "Chi ha rotto con la legge paghi dazio". Se vuoi la condizionale devi accettare un lavoro socialmente utile. Assicura senza esitazioni: "La Russa e Maroni sono d’accordo".

Ma con i suoi lo sfogo è pesante: "Non è più possibile lavorare così. La sinistra propone la messa in prova e la stampa plaude. Mastella fa un ddl, l’Anm me lo chiede esplicitamente e non se lo rimangia, i dipietristi idem. E che succede? Che Di Pietro, se invece lo presento io, mi attacca". Al ministero prima e Ghedini poi lo hanno convinto che la differenza fra tre e quattro anni è risibile, perché la corruzione semplice rientra nei tre anni. Ma proprio questo, anche se lui non se ne fa capace, gli ha scatenato addosso il putiferio guastandogli la festa.

Giustizia: Alfano; un’amnistia? no, ho copiato il ddl di Di Pietro

di Dino Martirano

 

Corriere della Sera, 20 novembre 2008

 

"Nessun problema né con La Russa né con Maronì" sulla libertà condizionale e sulla "messa alla prova". E comunque "pochi giorni fa proprio l’Idv di Di Pietro proponeva al Senato la "sospensione del processo" con messa alla prova per i reati fino a 3 anni... Abbiamo adottato quello schema". Il Guardasigilli Angelino Alfano, in un colloquio con il Corriere, difende il suo disegno di legge. "Sui 4 anni capisco le perplessità, però confermo che siamo disposti a discuterne con concretezza".

Per il Guardasigilli Angelino Alfano è stata una giornata trascorsa in trincea" con il blackberry rovente tra le dita che solo dì sera, durante la cena offerta dagli imprenditori del made in Italy a Silvio Berlusconi, gli regala di nuovo il buonumore: "L’Associazione nazionale magistrati ha scritto all’Onu per denunciare gli attacchi del premier alle toghe? No, non può essere vero, non ci posso crédere che si sono rivolti all’Onu...".

Per il resto, le lunghe ore trascorse nel "torrino" del ministero, Alfano le ha dovute dedicare a tamponare chi lo ha accusato di voler varare un’amnistia mascherata per i reati con pene fino a 4 anni. E la controffensiva è diventata più concreta quando il suo staff gli ha portato alcuni fogli di carta.

Un asso nella manica, fa capire Alfano sventolando il fascicolo: "Pochi giorni fa, proprio l’Italia dei valori di Di Pietro proponeva al Senato la "sospensione del processo" con messa alla prova per i reati fino a 3 anni... Ecco, noi abbiamo adottato quello schema e ora accusano il governo di voler varare un colpo di spugna. Nessuno si sogna amnistie e indultini. Non siamo interessati".

In più Alfano dice subito che "anche La Russa e Maroni condividono l’impianto del provvedimento anche se hanno espresso dubbi sulla messa alla prova": "Sui 4 anni capisco le perplessità però confermo che siamo pronti a discuterne con la concretezza che devono avere gli uomini di governo. C’è la necessità di conservare la struttura della norma, altrimenti non ha più senso farla se poi non mantiene quell’impatto deflattivo sui processi".

 

Iniziamo da quella parte del ddl più condivisa. Mai più "condizionale" gratis per i condannati…

"Chi sbaglia deve risarcire la collettività. La condizionale è un istituto che ha una sua storia ma ha finito per trasformarsi in una sorta di condanna onoraria. Così, quando il cittadino viola il patto di lealtà con i propri consociati deve risarcire la comunità".

 

Ogni anno la condizionale viene concessa 50 mila volte…

"Non entro nel merito di questo genere di sentenze, però rilevo che i numeri non ripristinano il rapporto tra il condannato, che nulla paga, e la società. Per questo intendiamo introdurre un meccanismo concreto e riconoscibile di certezza della pena: e su questo punto non ci sono obiezioni".

 

Scusi ministro, ma non pensa agli incensurati che esercitano professioni a rischio? Giornalisti e medici, per esempio, se sbagliano per la prima volta hanno diritto alla "condizionale" mentre con il ddl Alfano dovrebbero svolgere un lavoro socialmente utile per conquistare il beneficio.

"Alcuni quotidiani hanno pubblicato la foto di Naomi Campbell (condannata per percosse e ammessa alla probation, ndr) con la ramazza in mano... Ecco, di fronte alla sanzione penale gli altri cittadini devono sapere...".

 

Passiamo alla "messa alla prova" e alla possibilità per l’indagato di chiedere la sospensione del processo e magari vedersi cancellare reati anche gravi puniti pure con 4 anni di carcere. Pentito?

"Guardi, la messa alla prova è un istituto che da oltre 20 anni esiste nel processo minorile: ha il sostegno di gran parte della dottrina giuridica; è stato proposto per la deflazione processuale da numerosi esponenti del centro destra; fa parte integrante delle schede che mi sono state proposte dall’Anni; rientra nel progetto di accelerazione del processo proposto dal governo Prodi; è ritenuto valido dal ministro ombra del Pd Tenaglia sebbene con il tetto ai due anni; è proposto anche dall’Idv con lo stesso schema".

 

Ma Di Pietro dice che lei vuole l’impunità totale sospendendo i processi mentre l’Idv proponeva "la messa in prova all’esito del processo".

"È assolutamente falso. Voglio sperare che Di Pietro non dica dolosamente una bugia ma che semplicemente non sia informato del contenuto dell’articolo 29 del ddl 584 Ligotti e altri, fatto proprio dal suo gruppo il 5 novembre in commissione Giustizia al Senato".

 

Lei sta dicendo che il Guardasigilli ha copiato il ddl di Di Pietro?

"Lo schema è presente in tutte le proposte di riforma del processo penale fin qui avanzate dal centrosinistra, Di Pietro compreso, e da buona parte del centrodestra e dall’Anm. Non si indulta un bel nulla, perché siamo nella fase pre-dibattimentale. Per cui stiamo parlando di un cittadino che ancora deve subire un processo e che nessuno può prevedere se sarà assolto, condannato o prescritto. Noi dunque proponiamo un risarcimento preventivo con lavori obbligati per la società, con la conseguenza che i reati importanti avranno un’accelerazione nella trattazione".

 

Potrebbe, dunque, non convenire chiedere la messa alla prova.

"È una fiche che ognuno può giocarsi. Ovviamente è il giudice che prende l’ultima decisione".

 

Ma la messa alla prova vale solo per gli incensurati?

"Non può essere chiesta una seconda volta se il reato è della stessa indole. Ma non c’è un diritto alla messa alla prova perché è sempre il giudice che valuta il profilo soggettivo".

 

Rientreranno le perplessità degli alleati dì governo?

"Nessun problema né con La Russa né con Maroni. Approfondiremo la questione e troveremo la soluzione migliore".

 

Il Pd dice che siete confusi.

"Tenaglia dice in una sola dichiarazione che è contrario e d’accordo allo stesso tempo".

 

È pentito per il messaggio che lascia dietro di sé questo ddl?

"Qualcuno ha tentato una truffa mediatica. Non si dice che stiamo parlando di presunti innocenti, che potrebbero essere anche assolti".

Giustizia: maggioranza è divisa, "stop" alla proposta di Alfano

di Liana Milella

 

La Repubblica, 20 novembre 2008

 

Comincia malissimo la giornata di Angelino Alfano. I riflessi mediatici del suo ministero sono la sua ossessione. Ogni mattina misura con pazienza millimetrica le ore di lavoro che ha speso e quello che la stampa riporta. Oggi non c’è che fare, il 19 novembre 2008 resterà segnato come una data storta. Il disegno di legge sulla certezza della pena, curato come un "picciriddu" per settimane, si rivela peggio di un flop. È un boomerang. Niente lodi sulle prime pagine dei giornali. Tutt’altro.

Finisce in ombra la stretta sulla sospensione condizionale della pena, suscita perplessità l’idea di sostituire i processi fino a quattro anni con la messa in prova. Maroni piglia le distanze. E, alle otto di mattina, gli si profila subito davanti il prossimo scontro durante il consiglio dei ministri. Che, un’ora dopo, puntualmente si verifica. Protesta La Russa. Maroni fa il duro. Nessuno appoggio. Alfano s’arrabbia: "Ma come? Voi sapevate tutto. Ne avevamo discusso. Cos’è questo improvviso voltafaccia? Il mio disegno di legge è equilibrato e punta a deflazionare la popolazione carceraria dando al contempo un preciso segnale. Le pene si scontano. Non ci sono bonus per nessuno. Anche chi, da incensurato, viene condannato a due anni, dovrà scontare la pena. Niente più condizionale gratis. Per ottenerla bisognerà svolgere lavori socialmente utili".

Di solito sa essere convincente Angelino. Ma questa volta trova un muro. Maroni è diventato improvvisamente irremovibile. Glielo dice a brutto muso: "Per la Lega e il mio ministero la tua è una proposta semplicemente impensabile e impraticabile" Bobo ne ha discusso anche con Bossi e i due si sono ritrovati d’accordo. Di indulto ne basta uno. Niente che odori di amnistia neppure da lontano. Tant’è che il leader del Carroccio, quando ormai è sera, dichiara: "Bisogna pensarci bene. L’abbiamo già fatto una volta con l’indulto, ma i reati sono solo aumentati. Tutti pensavano, e anch’io, che quando uno è stato in carcere fa di tutto per non ritornarci. Invece non è stato così".

Altro che messa in prova. Alfano deve fare una rapida retromarcia. Anche se retrocede attaccando. Il ddl sulla certezza della pena, già inviato ai colleghi ministri, non è più un testo certo, è retrocesso a "un’ipotesi". Lo dice in commissione Giustizia dove, per una coincidenza, deve rispondere a una raffica d’interrogativi sulle carceri. Glielo domandano Di Pietro e Tenaglia. Lui non si sottrae: "È un’ipotesi. Condivisa dalla dottrina, chiesta dall’Anm, contenuta in una proposta dell’Idv al Senato". Fermissimo: "Non è un’amnistia, noi non ne faremo". Poi, quasi innocente, confronta la sua soluzione con quella dell’Anm, dell’Idv, di Mastella: "C’è un’unica differenza, loro propongono un tetto di tre anni, noi di quattro". Come fosse una bazzecola un anno di pena in più.

Di Pietro, presente, sorride sornione. Alfano si riposiziona sul piano politico, legislativo, dei media: "Sì, la messa in prova era solo un’ipotesi, ora l’approfondiremo. Pensavo fosse condivisa, se lo è bene, altrimenti... ". Addio messa in prova. A sentire, negli stessi istanti, Niccolò Ghedini, avvocato e consigliere giuridico del premier, si capisce che la decisione è presa: "Esiste in tutti i paesi civili ed è un’operazione bieca sabotarla. È una grande occasione mancata. Purtroppo la messa in prova sarà stralciata".

Ghedini è furioso e non lo nasconde. Conferma Alfano: "Ne abbiamo discusso con la Lega e con An. E Maroni e La Russa erano d’accordo". Erano. Adesso non lo sono più.

La messa in prova va in soffitta. Forse diventerà un ddl autonomo. Forse scomparirà. Alfano non ci scommette più un centesimo: "Non era l’elemento centrale del mio provvedimento. Che è tutt’altro: è lo stop alla sospensione condizionale gratis della pena". Lancia uno slogan: "Chi ha rotto con la legge paghi dazio". Se vuoi la condizionale devi accettare un lavoro socialmente utile. Assicura senza esitazioni: "La Russa e Maroni sono d’accordo".

Ma con i suoi lo sfogo è pesante: "Non è più possibile lavorare così. La sinistra propone la messa in prova e la stampa plaude. Mastella fa un ddl, l’Anm me lo chiede esplicitamente e non se lo rimangia, i dipietristi idem. E che succede? Che Di Pietro, se invece lo presento io, mi attacca". Al ministero prima e Ghedini poi lo hanno convinto che la differenza fra tre e quattro anni è risibile, perché la corruzione semplice rientra nei tre anni. Ma proprio questo, anche se lui non se ne fa capace, gli ha scatenato addosso il putiferio guastandogli la festa.

Giustizia: sulla "messa alla prova" si deve discutere con serietà

di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone)

 

Aprile on-line, 20 novembre 2008

 

Essere contrari ad un provvedimento perché, forse, qualche personaggio vicino a Berlusconi potrebbe usufruirne è pazzesco. Al contrario si tratta di una misura di mediazione penale che non può essere considerata una mini-amnistia, come vorrebbero Travaglio - Di Pietro - Repubblica, responsabili di aver contribuito a spostare a destra il popolo democratico.

Anni fa intervistai Nils Christie, padre dell’abolizionismo penale nonché autore di un memorabile saggio "Sull’invenzione del crimine". Gli chiesi: "Che idea si è fatto della situazione italiana, in questa breve visita? In Italia il 30% circa dei detenuti è straniero. A suo parere è una peculiarità del nostro paese?". Rispose: "No. Negli Usa la maggior parte della popolazione detenuta è nera o comunque molto, molto povera. Nelle carceri finiscono le minoranze. Penso che per voi sia molto importante resistere al cattivo esempio che arriva da nazioni più grandi come l’America e la Russia. Quanti detenuti avete in Italia? 54.000? Quante guardie? 44.000? E allora non abbiate paura dei troppi poliziotti... ognuno potrebbe portarsi a casa un detenuto, e avreste risolto il problema delle carceri!".

L’idea della mediazione quale alternativa al sistema penale è una idea maturata tra i criminologi abolizionisti scandinavi. Circa 20 anni fa in Italia fu pensato e approvato un nuovo codice di procedura penale minorile. Esso tentava di residualizzare la risposta carceraria per i minori. Individuò vie alternative alla pena e al processo. Tra queste ultime, su diretta importazione anglosassone, vi era la messa alla prova, che al proprio interno aveva embrioni di quella mediazione penale su cui oggi bisognerebbe riflettere quale via deflattiva al sovraffollamento penitenziario e quale via di uscita all’ipertrofismo penale.

All’articolo 27 del codice di procedura penale minorile è testualmente scritto: "Il giudice provvede alla sospensione e alla messa alla prova sulla base di un progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali. Il progetto di intervento deve prevedere tra l’altro: le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; gli impegni specifici che il minorenne assume; le modalità di partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell’ente locale; le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa. I servizi informano periodicamente il giudice dell’attività svolta e dell’evoluzione del caso, proponendo, ove lo ritengano necessario, modifiche al progetto, eventuali abbreviazioni di esso ovvero, in caso di ripetute e gravi trasgressioni, la revoca del provvedimento di sospensione".

Essere contrari alla messa alla prova perché forse, eventualmente, chissà qualche amico alla lontana di Berlusconi potrebbe usufruirne è pazzesco. La messa alla prova non è una mini-amnistia come ha scritto Repubblica. L’asse Travaglio - Di Pietro - Repubblica ha orientato male e spostato a destra l’elettorato democratico. Questo governo ha proposto e fatto mille cose gravissime sul terreno della giustizia e della sicurezza: pendono alle Camere provvedimenti intrisi di razzismo istituzionale. Eppure, tranne la voce isolata di Gad Lerner, pesa il silenzio di quell’asse. Repubblica ha sdoganato il razzismo di sinistra. Nel novembre del 2007 sul suo blog il leader di Idv, Antonio Di Pietro, scrisse: "Gli irregolari vanno rimpatriati. Chi arriva in Italia deve avere un alloggio e un lavoro, non siamo il vespasiano d’Europa." Non so se il Guardasigilli avesse fini reconditi o qualche amico da mettere alla prova. Di sicuro per un incensurato che commette un reato per il quale è prevista una pena inferiore a quattro anni la probation è una misura seria. Purtroppo non altrettanto serio è il dibattito sulla giustizia in Italia inquinato dagli interessi personali di Berlusconi e dal qualunquismo securitario di certa parte della sinistra.

Giustizia: caro signor ministro evitiamo questa messa in prova

di Carlo Federico Grosso (Ordinario di Diritto Penale a Torino)

 

La Stampa, 20 novembre 2008

 

Sul disegno di legge Alfano in materia di sospensione condizionale della pena e di "messa in prova" il governo sembra in affanno. Il provvedimento avrebbe dovuto essere approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Esponenti della Lega e di An l’hanno bloccato.

Il progetto intendeva introdurre nel nostro ordinamento giuridico due rilevanti novità: una significativa innovazione della disciplina della sospensione condizionale della pena (e di altri benefici), l’introduzione dell’istituto della "messa in prova". A quanto si è appreso, con la prima novità si sarebbe inteso subordinare l’applicazione della sospensione della pena a una prestazione onerosa da parte del condannato che, grazie alla concessione del beneficio, evitava il carcere.

Oggi è previsto che, nel pronunciare una sentenza di condanna a una pena detentiva per un tempo non superiore a due anni, il giudice possa ordinare che l’esecuzione penale rimanga sospesa per cinque anni; se in tale periodo il condannato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa specie, il reato è estinto.

Nonostante che il Codice penale disponga che il beneficio possa essere concesso soltanto quando il giudice "presuma che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati", e che possa essere subordinato a determinati adempimenti (ad esempio, al risarcimento del danno cagionato alla vittima del reato), nella prassi la sospensione condizionale è venuta, pian piano, ad assumere quasi la veste di un diritto (gratuito) che non si nega a nessuno che sia condannato, per la prima volta, a una pena non superiore a due anni. In questi termini, è diventato quasi uno scandalo.

Ebbene, il ministro, giustamente, avrebbe inteso incidere su questa prassi non accettabile. Eliminando la gratuità del beneficio, e prevedendo che esso potesse venire concesso soltanto previo l’impegno a lavorare gratis a favore della collettività, si sarebbe reso sicuramente più rigoroso il sistema penale. Un segnale di maggiore severità che avrebbe inevitabilmente giovato alla serietà complessiva del nostro ordinamento giuridico.

Per altro verso il ministro Alfano, riesumando un vecchio progetto di Mastella, ha previsto che ogni delinquente potesse giovarsi di un istituto per ora ipotizzato soltanto nei confronti dei minori. Secondo la nuova disciplina prevista, chi, incensurato, è sottoposto a un processo penale con l’accusa d’aver commesso un reato punito con una pena non superiore, nel massimo, a quattro anni di reclusione, può chiedere d’essere "messo alla prova" con obbligo di prestazione di lavoro utile non retribuito per un periodo determinato. Nel caso di tale richiesta, il processo può essere sospeso e la "messa in prova" concessa. Se nel periodo stabilito il soggetto messo alla prova non commette altri reati, e non infrange gli adempimenti previsti, il reato si estingue.

Capisco la ratio di tale provvedimento. Come si ricava dalla lettura della relazione che lo accompagna, in una prospettiva di favore nei confronti delle sanzioni alternative alla detenzione s’intende accentuare il principio secondo cui l’accesso al circuito carcerario deve costituire l’extrema ratio di esecuzione penale. Nello stesso tempo, poiché, nonostante l’indulto di due anni fa, esiste nuovamente, com’era prevedibile, un problema di sovraffollamento carcerario, si può sperare che, attraverso quest’ampliamento della sanzione alternativa, meno soggetti varchino le porte degli istituti di reclusione.

Come si concilia, tuttavia, questa prospettiva di favore nei confronti delle sanzioni alternative, con il rigore penale ripetutamente dichiarato, e talvolta praticato, dall’attuale compagine governativa? Com’è possibile che una maggioranza politica che ha fatto della sicurezza dei cittadini e della repressione inflessibile dei delinquenti una bandiera, improvvisamente si acconci a rinunciare al carcere nei confronti di centinaia di autori di reati, ancorché incensurati? Per altro verso, il ministro è davvero sicuro che il nuovo istituto della "messa in prova" contribuirebbe in modo decisivo a evitare il collasso "per affollamento" delle nostre carceri?

Nei commenti a caldo apparsi ieri sulla stampa è stata, soprattutto, criticata la grandissima estensione della messa in prova. Data l’elevazione della pena massima considerata rispetto a quella ipotizzata dal precedente progetto Mastella (addirittura quattro anni rispetto agli originari due), il nuovo istituto consentirebbe di evitare la condanna alla reclusione, e di estinguere agevolmente il reato, a quanti commettono una massa enorme di illeciti penali: furto semplice, corruzione per un atto d’ufficio, abuso d’ufficio, falso in bilancio, truffa, frode informatica, appropriazione indebita, corruzione di minorenni, frode in commercio, reati urbanistici, reati ambientali, reati fiscali. L’elenco potrebbe continuare a lungo.

Si capisce, a questo punto, perché Lega ed An hanno bloccato il disegno di legge. Ho tuttavia l’impressione che chiunque abbia a cuore il ripristino d’un minimo di certezza nella pena e di effettivo rigore sanzionatorio non potrebbe apprezzare. Prima di tentare improvvide, settoriali, fughe in avanti, si pensi a un’articolata, organica, razionale, rivisitazione complessiva del sistema dei reati e delle pene.

Giustizia: ddl Alfano; la messa alla prova finisce sotto accusa

di Giovanni Negri

 

Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2008

 

Nessuna amnistia strisciante. Semmai la volontà, da una parte, di deflazionare il processo penale e, dall’altra, di condizionare la concessione dei benefici assai diffusi come la sospensione condizionale a un’attività riparatoria nei confronti dello Stato. E poi, la "messa alla prova" per gli incensurati era già prevista da un disegno di legge presentato dall’ex Guardasigilli, Clemente Mastella, nel 2007 e oggi riproposta dall’Italia dei valori; inoltre si tratta di una richiesta avanzata dalla stessa Anm al ministro della Giustizia, Angelino Alfano.

Il disegno di legge con le misure in materia di effettività della pena ha sollevato un polverone nella maggioranza, con An e Lega che hanno preso le distanze e con l’opposizione all’attacco. Il provvedimento "fuori sacco" ieri non è stato esaminato dal Consiglio dei ministri e la discussione slitta così in futuro. Al ministero della Giustizia si sottolinea che oggi, a fronte di circa 60 mila provvedimenti all’anno che permettono di evitare il carcere ai condannati, in grandissima maggioranza di sospensioni condizionali della pena (circa 50mila) e per il resto affidamenti in prova (10mila), lo Stato non riceve nulla in cambio.

Quanto alla "messa alla prova", due sono gli obiettivi: alleggerire il processo penale soprattutto per i reati competenza del giudice unico e considerare il carcere come ultima possibilità. La richiesta di accesso al beneficio non potrà infatti mai essere presentata nel corso del dibattimento e il periodo di attività socialmente utile è fissato alla metà di quanto previsto per la sospensione condizionale, proprio per incentivare l’imputato a chiudere in anticipo la partita penale. A prescrizione sospesa non sarà possibile ottenere i beneficio per più di un reato della stessa indole (ammessa invece la somma reato più contravvenzione) e riguarderà i reati punibili per un massimo di quattro anni.

Giustizia: attenti a ricadute sulla credibilità del sistema penale

di Guido Neppi Modona (Ordinario di Procedura Penale a Torino)

 

Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2008

 

Sino al 1990, ogni tre o quattro anni veniva concessa un’amnistia generale, grazie alla quale la maggior parte dei reati puniti con pena detentiva non superiore a tre o quattro anni era dichiarata estinta (…).

L’amnistia comportava una evidente violazione del principio di eguaglianza di fronte alla legge penale ma aveva svolto, grazie alla sua ricorrente periodicità, una essenziale funzione di valvola di sfogo del sovraccarico del lavoro giudiziario e del sovraffollamento delle carceri (…).

Nell’ultimo quindicennio si sono però progressivamente intensificati gli sforzi e la fantasia del legislatore - sia di centro destra che di centrosinistra - per inventare nuovi strumenti e nuovi meccanismi di fuga dal processo e dalla pena detentiva (…).

Nel quadro di questi provvedimenti, di cui è stato un esempio particolarmente l’infelice indulto del 2006, si inserisce l’attuale proposta del ministro Alfano di estendere agli imputati maggiorenni la "messa alla prova": l’esito positivo della messa alla prova estinguerebbe tutti i reati puniti con pena detentiva non superiore a quattro anni.

In sé e per sé la fuga da processo e dal carcere non sono un male (…), ciò che non funziona sono le ricadute che i provvedimenti di questa natura possono produrre sul principio della certezza della pena e sulla credibilità del sistema penale (visto che l’ambito degli illeciti puniti con pena non superiore a quattro anni comprende più della metà dei reati previsti dalle nostre leggi). Si tratta di scelte che non possono essere improvvisate sulla base delle ricorrenti emergenze, ma debbono essere operate nel contesto di una riforma complessiva del diritto penale.

Giustizia: un giorno di carcere diventerà 4 ore di "lavoro utile"

 

Il Messaggero, 20 novembre 2008

 

Alla fine succederà che la "messa in prova" la scriveranno daccapo i tecnici del ministro Alfano. Gli stessi che avevano preparato la prima versione, quella che prevedeva la possibilità per gli incensurati indagati per reati puniti con pene fino a quattro anni di chiedere la sospensione del processo accettando di svolgere lavori socialmente utili per quattro ore ogni giorno di condanna. La cambieranno abbassando il tetto della pena.

Forse a tre anni, oppure addirittura a due. E in questo modo, per soddisfare le istanze di una parte della politica che ieri ha parlato di colpo di spugna, un provvedimento che avrebbe potuto deflazionare di molto i carichi delle cancellerie penali diventerà inutile. Vediamo perché. Il testo iniziale era chiarissimo: l’indagato incensurato per reati puniti con pene fino a quattro anni poteva "congelare" il suo processo impugnando una ramazza e ripulendo le strade.

La lista dei reati era suggestivamente lunga: dalla corruzione semplice al furto semplice, dai reati ambientali a quelli stradali fino alla frode informatica. Ma chiunque mastica di tribunali poteva capire che la corruzione e il furto non sono quasi mai "semplici". Il furto è sempre "con destrezza", o "con scasso", oppure è rapina. E la corruzione è quasi sempre accompagnata dal falso, dalla truffa, oppure aggravata dalla violazione dei doveri d’ufficio. Ma anche se così non fosse, il fatto che l’ipotetico beneficiario della messa in prova debba necessariamente essere un "incensurato" fa di lui un soggetto che certamente non sarà condannato al massimo della pena.

Cioè a quei quattro anni di cui si parlava prima. Forse ne prenderà tre. Più probabilmente ne incasserà due. E potrà quindi beneficare dell’affidamento ai servizi sociali (per le pene fino a tre anni), oppure della sospensione condizionale della pena (per le condanne fino a due anni) che già esistono. Questo calcolo semplicistico, ma assolutamente reale, spiega che l’istituto della messa in prova, così era stato congegnato dallo staff del Guardasigilli, poteva davvero deflazionare un carico enorme di processi dall’esito praticamente scontato, che avrebbe prodotto una valanga di condannati destinati, di fatto, a non scontare nessuna pena. Nemmeno quella di svolgere un lavoro socialmente utile. Adesso si pensa di abbassare il tetto delle condanne per accedere al beneficio; e il prezzo della modifica rischiano di pagarlo soprattutto le cancellerie dei tribunali che sono al collasso.

Giustizia: Alfano ci prova nel Governo della destra carceraria 

 

Il Riformista, 20 novembre 2008

 

La mamma dei carcerieri è sempre incinta. Così il nuovo tentativo del ministro Alfano di svuotare un po’ le carceri italiane, introducendo la possibilità per gli incensurati per reati con pena inferiore ai quattro anni di passare ai lavori sociali invece che in carcere il periodo precedente al dibattimento, è stato accantonato dal governo prima ancora di nascere. All’opposizione l’inflessibile Maroni, che già non gradì l’idea del braccialetto elettronico, e l’ineffabile La Russa.

Invece noi pensiamo che l’ispirazione che muove il ministro della Giustizia sia per l’appunto giusta. Conoscendo la situazione delle carceri italiane, e la drammatica carenza di strutture, è ovvio che punti a trasformare le pene, almeno quelle minori, in qualcosa di diverso dalla carcerazione, soprattutto dalla carcerazione preventiva. Non c’è altra via che depenalizzare i reati minori e trovare pene alternative alla galera. Oppure si sceglie la via americana, che usa la galera come misura di semplificazione sociale; ma allora bisogna mettersi a costruire un bel po’ di carceri, moderne ed efficienti, e magari darle in gestione ai privati. Ma siccome non si segue la seconda strada, non resta che la prima.

Ciò che colpisce è che mentre Alfano tenta disperatamente di svuotare le carceri, questo governo, anche per spinta del ministro Maroni e del suo partito, sembra piuttosto proteso a "penalizzare", nel senso di renderlo da codice penale, ogni comportamento appena deviante o asociale. Questo è il governo che propone di mettere in carcere le prostitute e i loro clienti, tutti; e che ha accarezzato l’idea di mettere in carcere i writers che scrivono sui muri. Non poteva dunque dar ragione ad Alfano. Ma resta il fatto che ha ragione Alfano.

Giustizia: siamo campioni nei costi, e non per garantire difesa

di Marzia Paolucci

 

Italia Oggi, 20 novembre 2008

 

L’Italia si conferma campione di spesa giudiziaria: seconda solo alla Germania, spende quasi due miliardi di euro in stipendi, 455 milioni vanno invece alle spese di giustizia, la metà per il mantenimento dei tribunali, un milione e 650 mila euro per la formazione mentre mancano i dati degli investimenti in nuove infrastrutture.

Sono alcuni dei risultati italiani aggiornati al 2006 del rapporto Cepej presentato ieri in Cassazione al presidente Vincenzo Carbone dopo l’uscita del documento in sede europea. La presentazione è stata di Fausto de Santis, presidente della Cepej e direttore generale statistiche del ministero della giustizia.

L’organo nato nel 2002 in seno al Consiglio d’Europa per la promozione della qualità dei sistemi giuridici e del servizio pubblico della giustizia ha messo a confronto i sistemi giudiziari dei 45 paesi membri del Consiglio analizzandone caratteristiche, punti di forza e difficoltà individuali nell’organizzazione e innovazione giudiziaria.

Ed ecco i dati: con pm e legali, i nostri tribunali ci costano 70 euro per abitante l’anno mentre senza, ci costano dai 40 ai 60 euro l’anno. Si spende poco per l’assistenza legale gratuita dove non si arriva nemmeno ai 10 euro l’anno per abitante in rapporto a realtà come quelle di Norvegia e Regno Unito pari a 50 o 60 euro per abitante.

È invece "sostanzioso" l’ammontare delle spese di giudizio dove almeno però non siamo i soli: ci fanno compagnia Germania, Austria, Olanda, Polonia, Romania, Turchia e Regno Unito. E se la maggior parte non ha come noi l’obbligo di fissare un limite temporale per il procedimento, ce l’hanno invece tra i 47 esaminati, otto virtuosi tra cui Francia, Finlandia, Norvegia, Moldavia e Macedonia. Una curiosità.

In almeno 40 paesi, la maggior parte va pagata una tassa di inizio processo civile ed ecco spiegata la crescente diffusione in almeno 25 paesi di assicurazioni in grado di coprire i costi dell’assistenza legale e più in genere le spese di giudizio. Ma è sempre l’arretrato la vera bestia nera della giustizia italiana: 3.687.965 cause civili pendenti davanti al tribunale civile di primo grado contro i numeri ben più esigui di Germania, Spagna e Russia rispettivamente attestate alle 544.751, 781.754 e 480.000 cause. Solo la Francia si attesta sopra il milione di cause pendenti.

Peggio va nel penale dove per i reati più gravi le cause pendenti al 2006 erano di 1.204.151 contro le 70.610 inglesi, le 287.223 tedesche e le 205.898 spagnole. In molti paesi il pm ha un ruolo specifico di protezione delle vittime di reato e può anche decidere di non dar seguito alla causa, decisione, questa, a cui le parti possono sempre opporsi. I nostri tribunali di primo grado continuano a essere troppi rispetto agli abitanti: 849 per 100.000 abitanti, medio il livello di informatizzazione.

Le nostre courts hanno un sistema di valutazione della performance ma gli indicatori sono riferiti sempre all’ufficio e non al magistrato come invece già avviene in Spagna, Grecia, Croazia, Montenegro e Romania. In ben 29 paesi, Italia inclusa, si prevede di riformarne la struttura: nel nostro caso, cita il rapporto, la proposta è quella di ridurre il numero di uffici di giudice di pace e i piccoli tribunali.

La selezione dei magistrati è poi un altro argomento dove c’è varietà di risposte: nel 33% dei casi in Europa un magistrato è scelto sia con un esame sia tenendo conto dell’esperienza lavorativa ma ci sono anche due rispettive fette da 25% che si dividono tra un criterio e l’altro. Gli alti guadagni dei magistrati sono giustificati nel rapporto per la funzione ricoperta e come garanzia contro il rischio di essere soggetti a pressioni che ne mettano a rischio imparzialità e indipendenza.

Giustizia: Italia e Stati Uniti si scambiano assistenza giudiziaria

di Gabriele Ventura e Luigi Chiarello

 

Italia Oggi, 20 novembre 2008

 

Rinnovati gli accordi tra Italia e Stati Uniti sull’estradizione e sulla mutua assistenza giudiziaria: Con un disegno di legge, approvato ieri dal Consiglio dei ministri, che ratifica e dà piena esecuzione agli atti internazionali siglati, in materia, dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. In particolare, il riferimento è al vertice Ue-Usa del 25 giugno 2003, dove è stato firmato l’accordo sull’estradizione, che ha l’obiettivo di dare una rinnovata spinta collaborativa per migliorare e rendere più efficace la cooperazione in materia penale, soprattutto con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo transnazionale.

Tale accordo disciplina il campo di applicazione dello stesso, sia in relazione a quegli stati membri, tra cui l’Italia, con cui sono già vigenti dei trattati bilaterali in materia di estradizione, sia in relazione a quei paesi sforniti di tali strumenti. E per l’Italia si è reso quindi necessario rivedere, adattare e integrare il trattato bilaterale già in vigore con gli Stati Uniti sull’estradizione, firmato il 13 ottobre 1983.

Il disegno di legge ratifica anche l’accordo sulla mutua assistenza giudiziaria siglato tra Bruxelles e gli Usa il 25 giugno 2003, modificando e integrando il trattato bilaterale già vigente tra l’Italia e gli Stati Uniti sulla mutua assistenza in materia penale firmato il 9 novèmbre 1982. Vediamo alcune delle modifiche.

L’accordo di estradizione: L’accordo di estradizione Ue-Usa regola il metodo di trasmissione e i requisiti riguardanti la certificazione, l’autentica o la legalizzazione della richiesta di estradizione e dei documenti a sostegno. Pertanto, nel testo del trattato di estradizione del 1983 sono stati inseriti due nuovi commi ad hoc. È previsto poi un metodo alternativo di trasmissione della richiesta di estradizione e dei documenti a sostegno successivamente all’arresto provvisorio.

E il testo del trattato è stato quindi integrato disciplinando l’ipotesi in cui lo stato richiesto tiene in stato di arresto provvisorio la persona di cui si chiede l’estradizione. In tale ipotesi, lo stato richiedente può adempiere all’obbligo di trasmettere la richiesta di estradizione e i relativi documenti giustificativi per i canali diplomatici presentando la richiesta e i documenti all’ambasciata dello stato richiesto situata nel territorio della parte richiedente. In tal caso, la data di ricezione della richiesta da parte dell’ambasciata è considerata la data di ricezione da parte dello stato richiesto ai fini della decorrenza del termine che deve essere rispettato per consentire la detenzione continuativa della persona, ossia 45 giorni.

L’accordo di mutua assistenza: L’accordo di mutua assistenza giudiziaria Ue-Usa regola l’identificazione dei conti e delle transazioni finanziarie, in aggiunta ai poteri già previsti ai sensi del trattato del 1982. Il nuovo articolo prevede ora la possibilità per lo stato richiedente di accertare se una persona fisica o giuridica sospettata o imputata di un reato sia titolare di uno o più conti bancari presso le banche ubicate nel territorio dello stato richiesto.

Gli stati contraenti, ai sensi della nuova disciplina, si forniranno assistenza reciproca con riguardo ad attività di terrorismo, di riciclaggio o altre attività punibili secondo le leggi di entrambi gli stati. Al fine di condurre indagini penali che esigono un’azione coordinata e concertata tra i due stati è stata anche prevista e disciplinata la possibilità di costituire una squadra investigativa comune per combattere il traffico di stupefacenti, la tratta di esseri umani e il terrorismo.

Giustizia: detenuti malati; Corte Strasburgo condanna l’Italia

di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone)

 

Italia Oggi, 20 novembre 2008

 

L’Italia per la prima volta dal dopoguerra è condannata per violazione diretta dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani del 1950. Nel caso Scoppola all’unanimità i giudici della Corte di Strasburgo hanno ritenuto che ci fosse stato un trattamento inumano e degradante da parte delle autorità italiane. Il collegio giudicante, presieduto da Françoise Tulkens (belga) e composto da Antonella Mularoni (sanmarinese), Vladimiro Zagrebelsky (italiano), Danute Jociene (lituano), Dragoljub Popovic (serbo), András Sajó (ungherese), Ishil Karakash (turco), ha dovuto affrontare una questione che sta a cavallo tra il diritto alla salute e la prevenzione della tortura.

Nel caso in questione le condizioni di detenzione di Franco Scoppola sono state ritenute incompatibili rispetto al suo gravissimo stato di salute. La Corte ha condannato il governo italiano a pagare un risarcimento di complessivi 10 mila euro, di cui la metà da versare direttamente al detenuto quale compenso per i danni morali subiti. Scoppola, 68 anni, attualmente è recluso nel carcere di Parma, dove vi è una sezione destinata ai paraplegici.

Nel gennaio del 2002 fu condannato dalla Corte di assise di Roma per aver ucciso la moglie e ferito il figlio. Fatti accaduti nel 1999. Franco Scoppola aveva problemi di deambulazione dal lontano 1987. Dal dicembre del 2003 è stato costretto a vivere sulla sedia a rotelle. Nel carcere romano di Regina Coeli, dove fu inizialmente recluso, le barriere architettoniche erano tali da impedirgli ogni movimento. Senza successo chiese il trasferimento in un altro istituto della capitale. Una relazione medica del gennaio 2006 definiva lo stato di salute del ricorrente totalmente incompatibile con lo stato di detenzione.

I suoi avvocati chiesero il ricovero in un ospedale o la detenzione a casa affinché potesse essere assistito 24 ore su 24, essendo totalmente non autosufficiente. Come accade spesso alle persone anziane, qualche mese dopo, a causa di un movimento brusco, si ruppe un femore. Il 16 giugno 2006 la magistratura di sorveglianza gli concesse gli arresti domiciliari affermando esplicitamente che la reclusione in carcere fosse una non necessaria violazione dei diritti umani. Pochi mesi dopo la stessa Corte rivide il suo precedente giudizio rimandandolo in carcere.

Il 29 dicembre del 2006 l’amministrazione penitenziaria decise di trasferirlo a Parma dove vi sono speciali facilitazioni per i detenuti disabili. Il provvedimento restò non eseguito, probabilmente per incuria, per nove lunghi mesi, ossia sino al 23 settembre 2007. Nei cinque anni di detenzione Franco Scoppola ha quindi vissuto senza potersi muovere, senza potersi fare una doccia, senza poter uscire di cella a causa delle insormontabili barriere architettoniche. In questo modo è stato costretto a stare a letto per tantissimo tempo. Secondo quanto ritenuto dai giudici europei tutto il periodo trascorso a Regina Coeli ha costituito sicuramente un trattamento inumano e degradante.

Ma secondo la Corte anche il periodo trascorso nella struttura parmense era da definirsi. inaccettabile, in quanto le autorità italiane non sono riuscite a dimostrare quali fossero le migliori condizioni di detenzione assicurate a Scoppola a Parma. Secondo il collegio presieduto da Françoise Tulkens la condanna per violazione dell’articolo 3 della Convenzione del 1950 è determinata dalla condizione di ansia, inferiorità e umiliazione a cui il ricorrente è stato lungamente sottoposto.

L’Italia aveva tre mesi, scaduti da pochissimo, per poter ricorrere davanti alla Grande Camera della Corte. Questa opportunità non è stata presa in considerazione dal nostro governo. Solo in due casi nel passato l’Italia si era avvicinata a una condanna per maltrattamenti in carcere. I casi erano quelli di Benedetto Labita e Rosario Indelicato. Riguardavano violenze subite nel carcere di Pianosa, ora chiuso. In ambedue le circostanze i giudici hanno condannato l’Italia per non avere sufficientemente indagato sulle violenze subite.

Giustizia: così Tremonti ha riscoperto il diritto penale, e Alfano?

di Nello Rossi (Procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Roma)

 

www.radiocarcere.com, 20 novembre 2008

 

"Se le banche falliscono i banchieri vanno a casa. O in galera". Dopo l’alt intimato alla norma salva-manager, Giulio Tremonti, il ministro più acuminato della compagine governativa, ribatte il chiodo: se la crisi finanziaria metterà in luce "anche" responsabilità penali queste andranno accertate e sanzionate. Qualche giorno prima era stato un altro ministro, Altiero Mattioli, ad invocare il codice penale di fronte alla scelta di una minoranza di dipendenti Alitalia di paralizzare i voli della compagnia con scioperi al di fuori delle regole. Sta cambiando qualcosa nella cultura della destra che governa?

Al pari di quanto era avvenuto nel quinquennio 2001-2006, i partiti della maggioranza di governo hanno esibito, nei primi sei mesi della legislatura, una concezione monocorde della "sicurezza", interpretandola solo come azione di contrasto alla criminalità di strada ed offrendo ai cittadini l’immagine - assai più che la realtà - di strade illuminate e di città ripulite da borseggiatori, scippatori, irregolari di ogni tipo.

Ed è su questa unilaterale idea di sicurezza che si sono progressivamente modellate quasi tutte le innovazioni del diritto e del processo penale. Dalla dilatazione dei giudizi direttissimi alla previsione di tempi di prescrizione dei reati più lunghi per le diverse categorie di recidivi; sino all’escogitazione di norme penali "regionali" per sanzionare l’abbandono, sulle strade della "sola" Campania, di rifiuti ingombranti.

Intendiamoci: i reati di strada sono certamente insidiosi, odiosi, allarmanti, meritevoli della massima attenzione. Ma non sono le uniche minacce alla sicurezza dei cittadini. Almeno se si accetta una idea moderna di sicurezza, che include in sé una pluralità di interessi da tutelare e deve essere declinata anche come sicurezza del risparmiatore, dell’utente di servizi pubblici e privati essenziali, del consumatore.

Oggi la crisi dell’economia finanziaria e reale ed i conflitti che ne scaturiscono stanno mettendo impietosamente a nudo i limiti di questa concezione solo "stradale" della sicurezza. E, parallelamente, rivelano la realtà di un processo penale farraginoso ed impotente a sanzionare in tempi accettabili i reati che richiedono accertamenti più complessi e sofisticati.

Se alle dichiarazioni ed alle invocazioni si vorranno far seguire i fatti occorrerà cambiare cultura. Rinunciando a proseguire sulla strada dei decreti legge a ripetizione e del diritto penale "su misura" per singole persone, evenienze od emergenze e ponendo mano - finalmente ! - ad una "politica" della ragionevole durata del processo penale, sino ad ora neppure avviata dai diversi governi che si sono succeduti alla guida del paese.

Una politica fatta di più tasselli, nessuno di per sé risolutivo, ma tutti necessari a comporre un nuovo disegno: la scelta di conferire centralità al giudizio di primo grado, semplificando i giudizi di appello e di cassazione; l’eliminazione degli effetti più nefasti delle leggi penali di favore che hanno privato di razionalità l’impianto del processo penale; l’immissione di informatica e telematica nell’organizzazione giudiziaria per risparmiare tempo e denaro; la riqualificazione professionale del personale amministrativo della giustizia, divenuto la cenerentola dell’amministrazione statale.

A Tremonti che riscopre il diritto penale, dovrà rispondere, con proposte ed iniziative all’altezza dei problemi, il ministro della giustizia Alfano. Egli si è guadagnato gli applausi dei civilisti promettendo di disboscare la selva dei riti civili e di restituire al processo civile la razionalità e la dignità smarrite. È troppo chiedergli di seguire la stessa rotta anche nelle acque agitate del diritto penale, avendo come stella polare l’obiettivo costituzionale della ragionevole durata del processo?

Giustizia: mancano i Pm, ma il Governo non sembra interessato

di Francesco Puleio (Sostituto Procuratore Dda di Catania)

 

www.radiocarcere.com, 20 novembre 2008

 

Con preoccupazione sempre crescente assistiamo alla difficoltà di coprire gli organici delle procure ed in particolar modo (ma guarda un po’ ) di quelle maggiormente esposte sul fronte del contrasto al crimine organizzato. L’introduzione nel nuovo ordinamento giudiziario di una disposizione che dissennatamente preclude ai vincitori di concorso di ricoprire, in prima sede, l’incarico di sostituto procuratore della Repubblica ha nobilissime motivazioni, ma di fatto inferisce un colpo forse decisivo all’efficienza e soprattutto alla indipendenza degli uffici inquirenti.

Per stare alla Procura di Catania, su 40 posti di sostituto previsti in organico, ne sono attualmente coperti soltanto 33. Altri sette colleghi sono già in trasferimento. E nessuno ha presentato domanda per ricoprire i ruoli attualmente vacanti. Ci avviamo alla paralisi. Sembra essere in atto un preciso disegno volto a depotenziare l’efficienza e la funzionalità di uffici giudiziari, ponendoli nelle condizioni di non essere in grado di funzionare.

Per decenni le nostre procure si sono rette con l’apporto di giovani appena immessi in carriera, vincitori di un concorso, che univano alla solida preparazione tecnica un entusiasmo ed una voglia di lavorare che, purtroppo, dopo anni di carriera, per molti diventa solo un fastidioso ricordo. La sinergia con i capi degli uffici e con quei pochi che, per scelta o per necessità, continuavano a fare i sostituti anche in età sinodale garantiva una discreta resa operativa. Un sistema non perfetto, ma perfettibile, come tutti i campi dell’agire umano. Privare le procure dell’apporto dei giovani magistrati togati, del loro senso civico, vuol dire fare a meno della indipendenza e rettitudine di sentire dei migliori di noi, i giovani. Residuo collante che tiene ancora insieme le nostre Istituzioni.

Sinora, nonostante una martellante campagna mediatica finalizzata alla delegittimazione della giurisdizione come funzione e della Magistratura come istituzione, gli uffici giudiziari sono stati in grado di rispondere sul campo, forti della qualità del lavoro svolto, dovuto all’elevatissimo livello medio di qualificazione professionale dei magistrati, ponendosi quale ultimo e talvolta unico presidio di garanzia a fronte di una illegalità dilagante. La preparazione e capacità tecnica degli appartenenti all’ordine giudiziario trova pochi riscontri nelle istituzioni dello Stato. Ne fa fede la composizione delle burocrazie ministeriali, infarcita ai livelli più elevati quasi sempre di magistrati, che, anziché svolgere, come dovrebbero, funzioni giudiziarie, disimpegnano incarichi di tutti i generi e di tutte le specie, sottobraccio a quello stesso potere politico che tuona contro la Magistratura come Istituzione. Non sappiamo se e fino a quando questa preparazione sarà ancora garantita.

Verità vuole che si dica che un giovane vincitore di concorso non deve ringraziare nessuno e può svolgere il suo lavoro serenamente. Chi viene inserito in una realtà lavorativa per chiamata diretta, per titoli, per cooptazione insomma, in un paese in cui ci si fa raccomandare persino per essere assunti come portiere nel condominio, deve per necessità dar conto e comunque sentirsi debitore del suo sostenitore.

È sinora avvenuto che molti laureati in giurisprudenza, figli di illustri magistrati, di professori od avvocati non siano riusciti a superare l’esame per l’ingresso in Magistratura, mentre altri, magari provenienti da famiglie di coltivatori diretti o di artigiani, siano attualmente in carriera: questo è un segnale indubbio di imparzialità e di corretto operare. Per decenni il perno della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Catania è stato un Professore di eccezionale levatura umana ed intellettuale, uno dei Padri nobili del diritto commerciale italiano. Il figlio del Professore fa oggi il professore, ma i suoi migliori allievi sono tutti magistrati.

Giustizia: storia della detenzione illegale nel carcere di Torino

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 20 novembre 2008

 

Carcere di Torino. Costruito per contenere 920 detenuti, ne ospita invece 1.558. Un po' troppi. Non a caso nelle piccole celle, che misurano tutte meno di 6 mq, ci stanno due persone detenute, invece di una.

Ma non basta. A Torino i detenuti sono talmente tanti che per alcuni di loro lo spazio in cella non c’è. E così vengono messi altrove. Ovvero in luoghi dove la detenzione viene eseguita in modo difforme rispetto a quanto stabilito dalla legge. Così, mentre ci leggete, 42 persone detenute sono costrette a dormire per terra nella palestra del carcere. Alcuni hanno un materasso, altri no. Alcuni hanno una coperta, altri no. Appena fuori dalla palestra del carcere ci sono un paio di docce e tre water. Servizi insufficienti per 42 persone. Servizi che spesso sono resi inutilizzabili per evidenti ragioni.

"È una grave situazione che si ripercuote sulla salute e sulla dignità dei detenuti e degli agenti, costretti a vivere tra il cattivo odore e pericolose carenze igieniche". Sono le parole di Gerardo Romano, segretario regionale del sindacato Osapp della polizia penitenziaria, in servizio da 28 anni nel carcere torinese.

Ma va ancora peggio nella camera di sicurezza dell’infermeria. Si tratta di una piccola stanza senza bagno. Una stanza non pensata per la detenzione, ma come una sorta di sala d’attesa per il detenuto che deve fare una visita medica. Lì per terra ci dormono ammucchiate una sull’altra 15 persone detenute. Difficile parlare di detenzione, di legge, di rispetto della persona detenuta nel carcere di Torino.

Liguria: la denuncia di An; le carceri della regione scoppiano

 

Secolo XIX, 20 novembre 2008

 

Il capogruppo An Regione Liguria Gianni Plinio ha presentato una mozione urgente per discutere sulla situazione carceraria ligure con particolare riferimento alla necessità di sanare le gravi carenze di personale di Polizia Penitenziaria al fine di garantire un servizio adeguato e sicuro.

Il sen. Giorgio Bornacin (Pdl) ha, a sua volta, indirizzato una interrogazione al Ministro della Giustizia Angelino Alfano per chiedere sia l’adeguamento degli organici che di non distogliere dalle carceri liguri personale da impiegarsi altrove. "È necessario affrontare l’emergenza carceraria ligure sia in Regione che in Parlamento -hanno detto Plinio e Bornacin. Con queste iniziative intendiamo corrispondere alle sollecitazioni degli agenti di custodia ed in particolare del Sappe.

Stiamo assistendo, infatti, ad un progressivo depauperamento degli organici della Polizia Penitenziaria nei sette istituti di pena della Liguria. La situazione numerica del personale risulta essere, in oggi, di 791 uomini e 93 donne con una carenza di ben 373 uomini e 7 donne. Tutto ciò a fronte di una popolazione carceraria ligure di 1.400 unità rispetto ad una capienza di 1.140 posti letto disponibili.

Dal punto di vista sanitario risulta che il 40% dei detenuti liguri abbia l’epatite C e che più della metà siano tossicodipendenti oltre a quelli con problemi psichiatrici. Con questi numeri e con queste tipologie non soltanto si abbassano i livelli di sicurezza ed aumentano i carichi di lavoro per gli agenti di custodia ma si riducono anche le condizioni di vivibilità all’interno delle carceri.

Facciamo presente che nell’ultimo anno si sono verificati numerosi eventi critici che vanno dalle aggressioni al personale, alle risse e fino alle tentate evasioni. Ad essere particolarmente grave è la situazione delle poliziotte cui spettano incombenze di servizio particolari: emblematico è il caso del carcere femminile di Pontedecimo ove operano soltanto 39 agenti rispetto ai 70 previsti e con una unica poliziotta che deve sorvegliare tre piani detentivi".

Messina: detenuto malato di sclerosi multipla, rischia di morire

 

Ansa, 20 novembre 2008

 

"Nostro figlio non può stare in carcere, perché così morirà". Lo dicono Antonino Sottile, 54 anni, operaio di una fabbrica di laterizi, e Antonina Damiana, casalinga di 48 anni, genitori di Carmelo Sottile, 23 anni di Torregrotta, arrestato quattro anni fa nell’ambito dell’operazione antimafia Musco, e affetto da sclerosi multipla.

Per i genitori il regime carcerario non appare compatibile con la cura della grave malattia scoperta nel maggio scorso, mentre il ragazzo si trovava ai domiciliari, quando ha ottenuto dal Tribunale di sorveglianza permessi per i controlli clinici necessari. Poi però è arrivata la sentenza definitiva di condanna a sei anni e dieci mesi di reclusione per associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di droga; con la detenzione già scontata, dunque, rimane una pena di due anni e mezzo. Per l’avvocato Tommaso Calderone, che assiste il detenuto, Carmelo Sottile ha dovuto rinunciare ad alcune sedute di fisioterapia a causa di intoppi dovuti alla gestione carceraria. Il legale aveva inoltrato al Tribunale di sorveglianza richiesta di commutare il provvedimento restrittivo in carcere in arresti domiciliari; la richiesta è stata rigettata.

Milano: a Bollate il record degli "occupati", 444 detenuti su 735

 

Ansa, 20 novembre 2008

 

Numeri da record, per quanto riguarda l’occupazione, al carcere di Bollate. Sui 735 detenuti dell’istituto di pena 444 sono impiegati in attività professionali - 63 all’esterno - contro i 500 detenuti complessivi impiegati in attività lavorative in tutta Italia. A fornire i numeri, è l’organo informativo dello stesso carcere milanese, "Carte Bollate", secondo cui, l’alto livello di occupazione rappresenta non solo un vantaggio per le imprese e per l’amministrazione carceraria ma, soprattutto, per gli stessi detenuti.

Le attività di manutenzione interna - viene osservato - rappresentano il grosso dell’occupazione con più di 220 impiegati mentre sono 130 i detenuti che operano a favore di aziende esterne. Al lavoro fuori della struttura, per aziende pubbliche e private, 63 persone; 32, invece, i detenuti soci di cooperative interne.

I settori che impiegano il maggior numero di detenuti, sono quelli dell’informatica, della telefonia e dei call-center.

Roma: Camera Penale; altro carcerato morto, fermare strage

 

Agi, 20 novembre 2008

 

"Ennesima morte nelle carceri del Lazio. Fermare la strage". Il presidente della camera penale di Roma, Giandomenico Caiazza, interviene così dopo il decesso di un detenuto avvenuto ieri nel carcere di Viterbo. "La camera penale di Roma - si legge in un comunicato - da sempre denuncia l’intollerabile degrado delle condizioni di vita nel carcere - di detenuti, agenti e operatori penitenziari - dovuto all’incontrollato incremento della popolazione carceraria.

Quella politica che, per ragioni cinicamente demagogiche, individua nel carcere la sola risposta legislativa da dare ad ogni istanza di sicurezza, porta la responsabilità di queste morti, di quelle che purtroppo si aggiungeranno e del livello di degrado e di inciviltà complessiva che essa alimenta.

Ci chiediamo quante morti saranno ancora necessarie perché si comprenda finalmente come l’abuso della custodia cautelare da un lato, e la continua mortificazione della legge Gozzini, sono destinate a produrre nient’altro che disperazione e vanificazione dei principi fondanti della nostra Costituzione". Caiazza ricorda ancora che "in occasione dell’ennesima morte in un istituto penitenziario del Lazio - il diciassettesimo caso in dieci mesi - il Garante dei detenuti della Regione non ha esitato a parlare di strage".

Torino: Osapp; carcere a "rischio epidemie", intervenire subito

 

La Stampa, 20 novembre 2008

 

Sporcizia diffusa, assenza totale dei minimi livelli di salubrità e "rischio epidemie". Li denuncia l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp), chiedendo agli organi competenti di effettuare una "opportuna attività ispettiva" presso il carcere Lorusso-Cotugno di Torino, meglio conosciuto come Le Vallette.

"La situazione è veramente preoccupante", scrive il segretario regionale del sindacato, Gerardo Romano, che parla di "drammatico sovraffollamento della popolazione carceraria" e chiede una "verifica urgente dei locali". A cominciare dalla palestra del padiglione E, "dove sono ospitati tra i 30 e i 50 detenuti con materassi per terra", e dalle "celle singole con finestre chiuse al piano terra del padiglione A, dove secondo l’Osapp i detenuti sono stipati". Per non parlare delle camere di sicurezza per le matricole e l’infermeria, "prive di finestre e di bagno". Non meno grave, sempre secondo il sindacato, è il mancato pagamento degli straordinari agli agenti della polizia penitenziaria e la penuria di fondi per le trasferte.

Ed è ancora una volta sovraffollamento nelle carceri torinesi, con i 1.603 detenuti registrati ad oggi nel penitenziario Lorusso-Cotugno, non un picco storico, ma un numero che desta preoccupazione. Il dato è emerso oggi durante la presentazione a Torino del vademecum per le imprese che intendono portare il lavoro tra i carcerati. Lo stesso direttore Pietro Buffa ha parlato di sovraffollamento, con tutte le problematiche ad esso collegate.

"Abbiamo in questo momento 30 detenuti nelle palestre e, nel complesso un numero certamente molto più elevato di detenuti rispetto a quelli teorici - ha detto Buffa - stiamo cercando di fare il nostro meglio per garantire la massima vivibilità. D’altronde non è per noi possibile fare molto altro, se non il nostro lavoro con la massima dedizione, il carcere è di per sé una realtà molto complessa. Fortunatamente in questo momento non abbiamo nessuno nelle camere di sicurezza".

Buffa ha poi sottolineato quanto possa essere positiva per i detenuti la possibilità di lavorare e come sia un’ottima cosa il vademecum per le imprese. Il presidente della Provincia di Torino, Antonio Saitta, raccogliendo le parole di Buffa ha detto: "Condivido le preoccupazioni per il sovraffollamento per le carceri di Torino, occorrono a questo punto interventi da parte del governo".

Rovigo: Uil; degrado e celle affollate, situazione è vergognosa

 

Il Resto del Carlino, 20 novembre 2008

 

Una delegazione del sindacato in visita alla struttura. "Gli agenti lasciati al freddo. Nel reparto maschile i detenuti dovevano essere 32 e sono 65". Una struttura inadeguata e che avrebbe bisogno di urgenti interventi di tipo igienico. È una pagella dai pessimi voti quella che Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari, dà al carcere di Rovigo.

Martedì, infatti, una delegazione di quadri dirigenti territoriali del sindacato ha fatto visita alla Casa Circondariale per verificarne lo stato e le condizioni. Sarno è categorico: "La struttura è assolutamente inadeguata in termini strutturali, funzionali e operativi". D’altro canto da diversi anni un decreto ministeriale, ricorda la Uil, ne ha decretato la dismissione e anche questo, "impedisce i necessari interventi di ristrutturazione, anche in termini igienico-sanitari come già rilevato dalla competente Asl".

Il viaggio all’interno del carcere rodigino è fatto di degrado e scarsa sicurezza. A cominciare dalla portineria "dove opera una sola unità e che è adibita anche a sala regia e a centralino. All’occorrenza funge anche da postazione per il rilascio colloqui, per il controllo pacchi (che avviene manualmente senza ausilio di strumenti di rilevamento) e per il deposito valori", spiega Sarno. L’accesso alle sale colloqui dei parenti in visita avviene attraverso il corridoio dove sono ubicati diversi uffici amministrativi, tra cui quello del comandante di reparto. "L’ingresso al corpo detentivo dell’istituto - continua Sarno - è garantito attraverso il transito del cosiddetto piazzale: ovvero un’area aperta pari a due campi di calcio dove opera un’unità di polizia penitenziaria abbandonata alle intemperie e agli sbalzi termici senza alcuna protezione".

Il sindacalista non usa mezzi termini: "Definire tale posto di servizio una vergogna è esercizio di moderazione verbale e lessicale". Il sindacalista spiega che l’addetto a questo servizio deve "percorrere svariate volte nel corso del turno tratte anche di 120 metri, all’aperto e alle intemperie, per aprire manualmente l’ingresso sezione maschile, l’ingresso sezione femminile e la porta carraia. Per di più deve anche dare un’occhiata alla cucina detenuti. Nemmeno il più cinico e insensibile degli schiavisti avrebbe potuto immaginare poter attivare una simile barbarie. Lo fa, purtroppo, un’amministrazione dello Stato. Non c’è evidentemente ragione che tenga di fronte a simile bruttura".

"Non si possono certo invocare - continua Sarno - ragioni di sicurezza essendo la Casa Circondariale di Rovigo una groviera dalla quale evadere (se si volesse e come è già capitato) è un gioco per bambini". Quanto alle condizioni dei detenuti, quelle del reparto maschile, secondo Sarno, lasciano molto a desiderare. "All’ingresso il visitatore è investito da fumi e odori non proprio gradevoli. D’altro canto tutte le celle ospitano il doppio dei detenuti - aggiunge il sindacalista - per le quali erano state costruite". Al momento della visita c’erano "65 detenuti maschi a fronte dei 32 previsti)". Insomma, spazi angusti e degrado dilagante, che "offende la dignità umana".

Treviso: il direttore; numero detenuti doppio, siamo al collasso

 

La Tribuna di Treviso, 20 novembre 2008

 

Il carcere di Santa Bona a rischio collasso. È il direttore dell’istituto penitenziario di Treviso, Francesco Massimo, a lanciare l’ennesimo allarme: "Oggi ospitiamo 278 detenuti, quando il massimo della capienza è di 134 - ha detto ieri al prefetto Capocelli -. E il personale che va in pensione non viene sostituito". Sono 130 gli agenti a disposizione nel carcere, ma per garantire il funzionamento della struttura ne servirebbero almeno 190. "Soffriamo di carenze di bilancio, non abbiamo nemmeno i soldi per comprare la carta - ha continuato - Abbiamo passato momenti difficili in passato, ma una situazione così non l’avevo mai vista".

Il messaggio, forte e chiaro, è stato inviato nel corso della conferenza permanente per la visita del ministro dell’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, che arriverà a Treviso sabato. "Mi auguro che i problemi della giustizia penitenziaria siano portati all’attenzione del ministro - dice Francesco Massimo - Si tende a pensare che l’iter della giustizia si fermi con il processo. Ma esiste il problema della permanenza dei detenuti in carcere".

Udine: finito Corso ortofloricoltura, per i detenuti di Tolmezzo

 

Messaggero Veneto, 20 novembre 2008

 

Vivo interesse ha suscitato il corso di ortofloricoltura che ha visto come protagonisti alcuni detenuti del carcere di Tolmezzo. Il corso si è sviluppato in 400 ore, suddivise tra l’insegnamento teorico e quello pratico sotto la guida del diacono Diego Mansutti, con il quale ha collaborato l’assistente di Polizia penitenziaria Giampietro Perissutti.

La struttura carceraria dispone di due serre a tunnel per la coltivazione di prodotti speciali (tra cui i crisantemi) e un’area scoperta dove si coltivano ortaggi, poi utilizzati nella mensa. Una quindicina di giovani hanno affrontato con molto impegno il corso e hanno prodotto varie essenze orticole, ben 3.500 crisantemi e circa 200 vasi sempre di crisantemi.

Fiori che sono stati posti in vendita, grazie all’attività di molti volontari, all’esterno delle chiese di Tolmezzo, Villa Santina, Gemona, Qualso, Cassacco, Cividale e altre località del Friuli. In questo periodo si parla spesso del problema carcerario e spesso si mettono in evidenza solo gli aspetti negativi, questa iniziativa invece mette sotto un’altra luce questi giovani, persone colpevoli di vari crimini, ma che hanno saputo impegnarsi preparandosi poi per un’attività da poter avviare al momento della loro uscita.

Livorno: gli enti locali contrari al ritorno del "41-bis" a Pianosa

 

www.greenreport.it, 20 novembre 2008

 

L’emendamento proposto dal senatore Pd Giuseppe Lumia per riaprire i carceri di massima sicurezza destinati al 41-bis a Pianosa ed all’Asinara, aveva sollevato non poche preoccupazioni all’Elba e sorpreso sia il Presidente dell’Associazione dei Comuni delle Isole minori (Ancim) Catalina Schezzini, sia il Presidente del parco nazionale dell’Arcipelago toscano Mario Tozzi.

Ieri il direttivo del parco aveva espresso un netto no contro l’ipotesi per Pianosa, rimanendo aperto verso attività di "carcere leggero" e volte al reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti, anche perché questo vorrebbe dire la fine del turismo naturalistico contingentato avviato proprio dopo la chiusura del carcere.

In soccorso di parco ed Ancim arrivano la deputata del Pd Silvia Velo e il ministro dell’Ambiente del governo ombra del Pd Ermete Realacci: "Il destino di Pianosa non può cambiare e indietro non si torna. L’emendamento proposto dal collega del Pd Giuseppe Lumia, pone una questione di carattere generale che riguarda la migliore collocazione possibile dei carceri di massima sicurezza destinati alla custodia di detenuti in regime di 41 bis e per ovvie ragioni recita: "collocati preferibilmente in aree insulari".

È chiaro però che questo non può configurare assolutamente percorsi diversi da quelli elaborati negli ultimi anni da enti locali, regione Toscana e parco nazionale dell’Arcipelago Toscano per la valorizzazione del territorio. Il futuro di Pianosa è nella salvaguardia e valorizzazione del patrimonio naturale e paesaggistico dell’Arcipelago Toscano".

Una cosa che farà molto piacere a chi come Legambiente, aveva lanciato l’allarme sulla riproposizione del 41 bis a Pianosa e chiesto un intervento politico immediato, ma anche agli operatori economici ed alle guide ambientali che aspettano di sapere se Pianosa sarà ancora accessibile o verrà nuovamente blindata dallo Stato.

Cosenza: carcere di Rossano; gli agenti fanno sciopero in mensa

 

Ansa, 20 novembre 2008

 

Sciopero della mensa nel carcere di Rossano per protestare contro la carenza di personale in servizio nella struttura carceraria. A proclamarlo sono le organizzazioni sindacali del comparto sicurezza Sappe, Sinappe, Uil, Cgil, Cisl e Cnpp che hanno scritto ai vertici nazionali e regionali della polizia penitenziaria.

"Il grido di allarme sulla carenza di personale lanciato da queste organizzazioni sindacali in un documento unitario lo scorso 7 novembre - è scritto nel documento - non ha sortito al momento alcun effetto o reazione da parte degli organi centrali e regionali.

È questa una prima azione di protesta - è scritto ancora nella nota - per cercare di fare sentire la voce di chi si trova in una situazione di vera, reale e cruda difficoltà e con la speranza che alle orecchie di chi versa in una situazione di oggettivo disagio, finalmente, giunga un segnale che possa ridare speranza per recuperare quella serenità da tempo perduta". I sindacati, nel documento, parlano di situazione di estremo allarme e chiedono l’invio di almeno 30 unità.

Ascoli: "Un’ora a colori"… è un progetto per i figli dei detenuti

 

Il Messaggero, 20 novembre 2008

 

Il Comune di Ascoli Piceno, il mondo della scuola e la Casa Circondariale, organizzano quest’anno il progetto "Un’ora di aria a colori", dedicato a quei bambini che hanno i genitori in carcere. L’obiettivo principale dell’iniziativa è permettere ai figli dei carcerati di vivere in maniera meno traumatica l’esperienza della visita al proprio papà o alla propria mamma.

Grazie alla disponibilità della direttrice, la dott.ssa Di Feliciantonio, si cercherà di favorire, per quanto possibile, un clima più sereno ed accogliente per i colloqui. Nella Casa Circondariale verrà quindi allestito uno spazio apposito in cui i figli minori e i genitori potranno incontrarsi in un contesto più confortevole. Con questo progetto - ha commentato l’assessore alla Pubblica Istruzione, Gianni Silvestri - si cerca di favorire, per quanto possibile, un ambiente più sereno, dove i figli minori e i genitori detenuti potranno colloquiare, facilitando così l’instaurarsi di relazioni positive tra il minore, i genitori, l’agente preposto ai controlli e volontari eventualmente coinvolti.

Inoltre, per sviluppare nei bambini lo spirito di solidarietà (vista anche la vicinanza al periodo natalizio), il progetto realizzerà nelle scuole anche una raccolta di libri, quaderni, giocattoli (tutti in buono stato) da donare ai compagni che si trovano in questa situazione.

Busto: "Storie da mondi diversi", i detenuti raccontano le fiabe

 

Varese News, 20 novembre 2008

 

Il libro, a cura di Carla Bottelli, nasce da un progetto di arte-terapia nel carcere di Busto. Verrà presentato sabato 6 dicembre alla Galleria Boragno.

Dedicato ai bambini, ma certo non riservato solo ai più piccoli. È "Storie da mondi diversi" un libro di fiabe a cura di Carla Bottelli che nasce a sua volta da una storia: quella di un gruppo di persone detenute nella Casa Circondariale di Busto Arsizio, in provincia di Varese. I dieci racconti proposti sono, infatti, il risultato di un progetto di arte-terapia che ha coinvolto giovani reclusi provenienti da culture e Paesi diversi nell’ambito del loro processo rieducativo.

Il laboratorio creativo, iniziato nel 2007 e condotto da due psicologhe terapeute, Emanuela Coerezza e Valeria Alpi e da Carla Bottelli insegnante di Lingua e Letteratura italiana, assistente volontaria in carcere, è stato, così, un viaggio attraverso tradizioni, linguaggi e vissuti emotivi che ha portato alla creazione di narrati in cui confluiscono ricordi d’infanzia ed esperienze personali. "Abbiamo scelto la fiaba perché semplice, immediata, densa di significati e, soprattutto, universale -, commenta Bottelli -. Con i suoi scenari e ritmi, infatti, sa non solo educare ma anche offrire narrazioni confortanti a chi la racconta, a chi la legge e a chi la ascolta".

Ogni favola è stata raccontata e scritta in lingua madre e, dopo una comune rielaborazione, tradotta in Italiano e commentata da immediate illustrazioni di Barbara Parini, architetto e designer. Storie da mondi diversi è, dunque, una colorata scoperta di miti, sogni ed emozioni che, pur intimamente legati a un preciso contesto territoriale e culturale, trovano proprio nella fiaba il comune strumento di comunicazione. "Il progetto di arte-terapia - prosegue la curatrice del libro - è stato un’esperienza davvero intensa che mi ha coinvolto e arricchito culturalmente ed emotivamente. Per questo ringrazio tutti i componenti del gruppo e mi auguro di lavorare di nuovo con loro".

I proventi della vendita del libro, per volontà dei partecipanti alla sua realizzazione, sono destinati all’Associazione Fata Onlus, che si occupa di assistenza sociale, sociosanitaria e di istruzione a minori in gravi difficoltà, all’istituzione di borse lavoro per i carcerati, all’organizzazione di nuovi progetti e alla copertura delle spese di stampa. Un regalo di Natale ideale per scoprire come "C’era una volta..."sia l’inizio di infinte fiabe in ogni Paese.

Storie da mondi diversi sarà disponibile in un numero selezionato di librerie che aderiranno al progetto. La sua prima apparizione pubblica sarà giovedì 20 novembre in occasione dell’incontro sul tema della riabilitazione in carcere che si svolgerà alle 21 nella biblioteca di Cassano Magnano. Sabato 6 dicembre verrà invece presentato alle18 alla Galleria Boragno di Busto Arsizio. Per informazioni: carlabottelli@fastwebnet.it

Immigrazione: gli italiani sono razzisti… ma non lo ammettono!

di Cesare Fiumi

 

Corriere della Sera, 20 novembre 2008

 

Per l’85% degli italiani non un immigrato in più, il 51% pensa che abbiano già abbastanza diritti: fotografia di un paese in cui il disagio-stranieri sta diventando intolleranza e violenza. Era l’alba di Obama: le 5 del mattino, ora italiana, del 5 novembre. E la possibilità - augurabile o temuta - che l’America, nel segreto dell’urna, non avrebbe votato un presidente nero, s’era appena squagliata in qualche residuale pillacchera di livore. Lasciando il posto a uno stupore molto italiano, quasi avessimo misurato gli umori americani - ripassando la storia dell’apartheid e incrociandola con l’11 settembre e la dirompente immigrazione, ispanica e no, di quel Paese - con il nostro metro di oggi: un po’ più corto e intimorito, un po’ più intollerante e preoccupato. Tanto da chiederci se quel "razzismo", più o meno sottotraccia, attribuito agli Stati Uniti e mandato a gambe all’aria dall’elezione del presidente nero, non fosse in realtà una riserva tutta nostra. Un disagio a nostra immagine e somiglianza: l’Italia spaventata di oggi.

Sì, razzismo, la parola infine sdoganata. Dalla politica. Dalla Chiesa. E, almeno tre volte nell’ultimo mese, dalla Cassazione: la remissione di querela non ferma un processo per ingiuria a sfondo razziale (2 novembre); i sentimenti di disprezzo e ostilità alimentano l’odio razziale e costituiscono perciò un’aggravante (9 ottobre); condanna annullata per la segretaria di una ex-sezione Ds di Roma che accusava due esponenti di An di alimentare intolleranza e odio razziale: su questi temi, ha decretato la Corte, "è lecita una polemica politica aspra" (24 ottobre).

Sì, razzismo. Quel crescendo di ostilità che ha fatto dire a Gianfranco Fini: "Siamo onesti, negli ultimi tempi in Italia ci sono stati episodi di discriminazione razzista e xenofoba, in alcuni casi anche violenti. Negarlo sarebbe sbagliato ". Messaggio rivolto a chi tira il sasso dell’intolleranza e poi, dinnanzi alle aggressioni, nasconde la mano, guantandola di "non c’è nessuna emergenza", "solo episodi isolati", e " in fondo non si può parlare di razzismo". Come se le denunce di Napolitano e Ratzinger, il loro grido di allarme, fossero il capriccio di due anziani signori, un po’ esagerati. Come se negli ultimi mesi - tra campi rom assaltati, neri pestati e clochard bruciati - la violenza xenofoba non si fosse tolta la cinghia, per picchiare un po’ ovunque. Picchiando duro. Soprattutto il nero: il più "straniero". E il più facile da: ingiuriare ("riporti suo figlio nella giungla", ha detto una maestra di Milano a una mamma); malmenare (l’aggressione a colpi di "confessa, scimmia" subita a Emannuel Bonsu, di cui sono accusati dieci vigili di Parma); perfino ammazzare (l’omicidio dello "sporco negro" Abdul Guibre, italiano di Milano, che avrebbe rubato dei biscotti). Il nero come il colore preferito dalla paura e dall’insicurezza in una società neo-depressa e un po’ più povera, parola di Istat.

Così, alle 11 di quel 5 novembre, a sei ore di distanza dall’elezione di Barack Obama - quando certi commenti (Umberto Bossi: "Da noi mai un presidente nero") e certe carinerie erano ancora là da venire - abbiamo chiesto alla Ipsos di lanciare un sondaggio per fotografare l’atteggiamento italiano nei confronti dei 3.432.651 stranieri (il 5,8% della popolazione) che vivono da noi, con noi. Per capire se, e quanto, il montare dell’intolleranza abbia a che fare con la presenza degli immigrati in Italia. E quanto il mutamento sociale del paesaggio urbano (costumi, lingue, religioni) armi il nostro recente "cattivo umore".

"Gli immigrati in Italia sono troppi, bisogna ridurne il numero", dice la maggioranza degli italiani. Aggiungendo: nessun diritto in più deve essere loro concesso, e anzi per il 30% del campione intervistato, gli immigrati che vivono da noi dovrebbero vedere "ristretti i loro diritti". Già, ma quali, se il ministro Bossi ha spiegato che "il voto sarà concesso sempre e solo agli italiani, che non sceglieranno mai un nero"?

C’è davvero soltanto l’equazione un po’ semplicistica "immigrati=delinquenza", alla radice delle opinioni espresse nel sondaggio? Marzio Barbagli, sociologo, autore di Immigrazione e sicurezza in Italia (Il Mulino), è convinto di no: "Certo, una delle motivazioni è che gli immigrati delinquono di più, ma ce n’è anche un’altra che non riguarda né la differenza culturale né la diversa religione ed è il welfare.

E quando dico welfare non penso al lavoro o alla casa, piuttosto alla sanità e a tutte le code nei pronto soccorso e nella diagnostica, perché tanti immigrati cercano assistenza gratuita; o agli asili nido e alle scuole materne, dove le graduatorie, dato l’alto tasso di fertilità degli stranieri, riservano esclusioni. Il tema-razzismo è di quelli capaci ancora di suscitare passioni forti e contrastanti, ma più che di razzismo, in molti casi parlerei di paura e di ostilità.

Altro discorso invece sono i raid contro i rom o le violazioni del codice penale. Certo, il sondaggio dimostra tutte le difficoltà che abbiamo in Italia nel gestire l’integrazione". In Italia più che in Europa, dove Sarkozy ha appena nominato il primo prefetto di colore e Rotterdam, la città che diede i natali al leader anti-immigrati Pym Fortuyn, ha eletto un sindaco marocchino. Nonostante il nostro Paese (un solo parlamentare di colore su 945) sia alle prime armi con l’immigrazione, o forse proprio per questo.

Ha ricordato Sergio Romano a un lettore del Corriere che chiedeva se e quando un Obama da noi "che gli americani hanno impiegato un secolo e mezzo perché il rappresentante di una forte minoranza divenisse presidente e non si può pretendere che la stessa cosa accada ora in Italia all’esponente di una piccola e recente immigrazione".

Piccola davvero, se paragonata ai numeri di Francia e Germania, eppure secondo il recente VI rapporto su Immigrazione e cittadinanza in Europa, gli immigrati sono una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza per il 50,7 degli italiani, a fronte del 21,6 dei francesi e del 29,2 dei tedeschi. Numeri che si ribaltano alla domanda, se "gli immigrati sono una risorsa per il Paese": sì per il 59,3 dei francesi e il 61,7 dei tedeschi, ma soltanto per il 46,5 degli italiani, una minoranza.

A conferma che, da noi, l’ostilità è un rumore sordo che cresce: questa è l’aria che tira oggi in Italia, e non è una bella aria. Lo spavento fa il suo giro, come un vecchio arrotino, affilando il rancore e l’intolleranza. Tanto da far dire a Don Black, ex Ku-Klux-Klan, uno dei capi del suprematismo bianco anti-Obama, in un’intervista rilasciata a Mario Calabresi per Repubblica: "Ci piace il vostro Paese: c’è molta eccitazione sul nostro sito per quello che sta succedendo da voi, siete i primi a reagire e a dimostrare che non vi fate sottomettere dagli immigrati". Attestato che forse farà gonfiare il petto ai Borghezio e ai Gentilini (lo sceriffo di Treviso, indagato il mese scorso per "razzismo"), ma preoccupa non poco, per la fonte che l’ha rilasciato e il gran festeggiare dei siti razzisti in rete.

Quel "gli immigrati in Italia sono troppi" è anche un modo per comprendere il recente successo elettorale della Lega che, perfettamente in linea con la maggioranza espressa dal sondaggio Magazine-Ipsos, vuole chiudere il rubinetto dei flussi e, parola di Bossi, non intende rinunciare ai "pregiudizi nei confronti degli immigrati", nonostante l’invito, giovedì scorso, del presidente Napolitano.

Niente di nuovo, la Lega da sempre cavalca a pelo il temasicurezza e continua a servire una fantasia di proposte, piatto tradizionale della casa, senza soluzione di continuità: introduzione del reato di clandestinità, impronte ai bimbi rom, medici obbligati a segnalare i malati clandestini in cura, patente di italianità a punti, campi-rom solo dopo referendum cittadino, classi separate per i piccoli stranieri. Non tutte diventeranno legge, ma leggerle tutte assieme fa un certo effetto, anche se il sondaggio non dice se l’intolleranza cavalca la paura o è la paura di perdere i connotati (culturali, religiosi, sociali) a farti prendere la smania di "sbiancare" tutti. Come hanno fatto, insultanti, gli ignoti che a Varese hanno dipinto di bianco le sagome dei bimbi neri sistemate dagli studenti elementari nel giardino della scuola. E come hanno fatto, provocatoriamente, per irridere il razzista di turno, i fotografi svizzeri che abbiamo scelto per la copertina dedicata a questa inchiesta.

E ha voglia la Comunità di Sant’Egidio a puntare il dito contro "chi non si vergogna, da posizioni di responsabilità nelle amministrazioni pubbliche e in Parlamento, ad incitare al disprezzo verso immigrati, rom, romeni, islamici, in un clima irresponsabile e irrespirabile di "caccia al diverso" che rischia di ammalare la convivenza nelle nostre città, dove la sequenza di atti di razzismo è impressionante ". Il fatto è che la paura porta voti e la tolleranza, oggi in Italia, li fa perdere.

La Chiesa sembra in effetti l’unica diga alla xenofobia, visto che non si presenta all’elezione e conferma la sua missione, battendo il tasto dell’accoglienza anche quando si sente rispondere, dallo Speroni di turno: "Se li prendano in Vaticano i clandestini". Eppure il cardinale Scola, patriarca di Venezia, lo spiega molto chiaramente: "Il meticciato culturale è la realtà del nostro tempo e va affrontato con coraggio. Le persone che si muoveranno in questo secolo saranno più di un miliardo e noi qui a spaventarci per i 14 milioni di islamici in Europa… I grandi processi non domandano permesso per accadere". Come a dire che alzare muri d’intolleranza, arroccati nel fortino indifendibile, non è la soluzione: è come svuotare il mare della paura armati di un cucchiaio. O peggio, di un coltello.

Ed è stata proprio la Chiesa, la settimana scorsa, a intervenire, indirettamente, su un altro dato del nostro sondaggio; quello che segnala gli immigrati da Est, romeni in testa, come i meno integrati in Italia, a dispetto di una radice latina e di una lingua facilmente assimilata. Opinione che risente della confusione romeno-rom e del fatto che gli zingari sono, in questo Paese, la comunità "meno sopportata ". Lo studio della Cei, commissionato all’università di Verona, ha dimostrato che non esiste un solo caso di rapimento di bambino ad opera di nomadi negli ultimi vent’anni e che la leggenda degli zingari rapitori è solo un pregiudizio e, anzi, "troppo spesso, i bambini rom vengono tolti alle famiglie, con la scusa dei maltrattamenti, e dati in adozione con troppa facilità".

Uno studio dettagliato che ha già scatenato il fastidio di tanti che preferiscono credere alle loro ossessioni, fino a restarne prigionieri, come quei membri di Facebook, il social network più famoso del mondo, che hanno aderito entusiasti ai gruppi, gestiti da italiani, del tipo Odio gli zingari (più di 7mila iscritti), Bruciamoli tutti o Diamo un lavoro agli zingari: collaudatori di camere a gas. E pensare che proprio un finto rapimento, l’accusa senza prove nei confronti di una nomade 16enne, innescò due mesi fa il pogrom di Ponticelli: l’assalto impunito al campo rom e il via libera a quella serie di aggressioni a sfondo razziale, contro tutti i colori del "nero" - anche contro ragazzi cinesi, albanesi, romeni - che ha scandito questo autunno italiano al grido di "Ve ne dovete andare". Più o meno quello che ha risposto al sondaggio, all’alba di Obama, l’Italia di oggi.

Immigrazione: i medici; non denunceremo i clandestini malati

di Mario Reggio

 

La Repubblica, 20 novembre 2008

 

Denunciare gli irregolari ammalati come vuole il governo? I medici non ci stanno e si scagliano contro l’emendamento al pacchetto sicurezza all’esame del Senato presentato dalla Lega e condiviso dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi. "Siamo indignati e preoccupati, non denunceremo i clandestini perché è contro le norme morali della professione medica", è il commento degli specialisti della Società italiana di Medicina delle Migrazioni. "Per gli immigrati il Servizio sanitario nazionale è a rischio", afferma Roberto Lala, segretario del Sindacato unico di medicina ambulatoriale italiana. Una posizione condivisa dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici.

E contro la richiesta del ministro dell’Interno Roberto Maroni di bloccare per due anni i flussi migratori, escludendo per il 2008 colf e badanti, si schiera l’Arci: "Una norma invocata in nome della crisi finanziaria ed economica, una scelta sbagliata e pericolosa - commenta il responsabile immigrazione Filippo Miraglia - il blocco produrrà altre ingiustizie e sofferenze, senza risolvere i problemi creati dalla recessione". Dell’emergenza integrazione ha parlato ieri anche il cardinal Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale italiana: "L’integrazione è un versante problematico rispetto al quale la Chiesa sa di dover dire il suo sì agli italiani, indicando la strada della moralità sociale e della legalità pubblica".

Ma torniamo all’assistenza sanitaria agli immigrati clandestini. Le associazioni dei medici ribadiscono il loro dissenso nei confronti della proposta della Lega. "Il pacchetto sicurezza modifica la norma per la quale l’accesso alle strutture ospedaliere e territoriali dello straniero non in regola non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano".

L’obbligo di denuncia, infatti, "metterebbe in serio pericolo l’accesso alle cure mediche degli immigrati irregolari, violando il principio universale del diritto alla salute, fortemente affermato dalla nostra Costituzione" che "tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti". Per i medici, "vale la pena sottolineare come la Carta costituzionale non subordini al possesso di alcun requisito il riconoscimento del diritto alla salute e quindi all’assistenza". E ancora: con l’impostazione illustrata dal ministro Sacconi e le proposte della Lega si costringerebbe il medico ad andare "contro le norme morali che regolano la sua professione contenute nel codice deontologico"regolano la sua professione contenute nel codice deontologico e si rischierebbe inoltre "una clandestinità sanitaria, pericolosa per l’individuo e per la collettività".

Se il governo tenta di isolare gli immigrati clandestini, la Regione Toscana va nella direzione opposta. Il presidente Claudio Martini ha illustrato il testo della proposta di legge che, tra gli altri provvedimenti come mense e dormitori, conferma l’assistenza sanitaria ai clandestini: "Vogliamo ampliare l’offerta per costruire un modello civile di convivenza civile". E l’Associazione italiana pneumologi ospedalieri lancia l’allarme: "C’è il rischio reale che si diffonda la malattia tubercolare con danno per la sanità pubblica, perché un clandestino, costretto anche a pagare le prestazioni, eviterà di sottoporsi ai controlli medici".

Stati Uniti: e il Texas scoperchia le sue "Guantanamo private"

di Glauco Maggi

 

La Stampa, 20 novembre 2008

 

Il vicepresidente Dick Cheney e l’ex ministro della giustizia Alberto Gonzales sono stati incriminati da un tribunale del Texas meridionale, nella Contea di Willacy al confine con il Messico, per reati legati alla gestione di carceri federali da parte di società private. Cheney è accusato dal Grand Jury di conflitto di interesse, perché ha investito 85 milioni di dollari in un colosso della gestione dei patrimoni, il Vanguard Group, che tra le compagnie di cui detiene azioni annovera anche quella che amministra le galere per conto del governo di Washington. Secondo l’incriminazione, il ministro della Giustizia di Bush avrebbe abusato del suo potere per bloccare nel 2006 un’inchiesta sui maltrattamenti commessi in una galera gestita da privati.

George Terwilliger III, avvocato dell’ex ministro, ha rilasciato in proposito una dichiarazione scritta: "È un’imputazione artefatta, come ogni buon procuratore può riconoscere". E ha detto di sperare che le autorità del Texas fermino "questo abuso del sistema giudiziario criminale".

L’agenzia che ha diffuso la notizia, l’Associated Press, ha notato che la Contea di Willacy è stata una fonte di battaglie legali e politiche "bizzarre" sotto l’attuale Giudice Distrettuale Antonio Guerra, democratico, che sta per lasciare l’incarico dopo due decenni, avendo perso nel marzo scorso le primarie del suo partito per poter concorrere alla rielezione.

I legali di Cheney e di Gonzales hanno detto che l’avviso di reato non è ancora stato consegnato ai loro assistiti, e ciò si spiega con il fatto che, in realtà, i documenti d’accusa non sono ancora stati firmati dal giudice presidente, e quindi nessuna azione può essere presa finché ciò non avverrà.

Le incriminazioni, rese pubbliche prima di essere messe a conoscenza degli stessi accusati, sono sette e riguardano anche il senatore democratico dello Stato del Texas Eddie Lucio e altri pubblici ufficiali connessi alle battaglie legali che hanno coinvolto lo stesso giudice Guerra. Il quale si è detto "profondamente rattristato" dalle incriminazioni di Cheney e Gonzales, precisando che "è stato il Grand Jury a prendere quelle decisioni, non il sottoscritto". Lo stesso Guerra è stato sotto inchiesta del tribunale per un anno e mezzo e il suo fascicolo è stato chiuso solo il mese scorso, senza incriminazioni.

Le accuse a Cheney e Gonzales legate alle prigioni sono una questione nazionale, ha detto Guerra, aggiungendo che esperti da varie parti del Paese sono venuti a testimoniare davanti al Grand Jury. Cheney è accusato di essere coinvolto in una attività criminale organizzata, connessa agli investimenti nel Vanguard Group, che detiene interessi finanziari nelle compagnie private di management specializzate nell’amministrazione delle prigioni federali.

L’accusa di conflitto di interessi e di violenza privata sui detenuti è dovuta al legame del vicepresidente con le società di gestione delle galere nelle quali ha messo i suoi soldi. Non sono noti i dettagli dell’investimento di Cheney, ma se si tratta di quote di un fondo comune, che è l’attività basilare della Vanguard, accusare di conflitto di interessi il vicepresidente a causa di reati commessi da una società nel portafoglio di un suo fondo comune diventa un precedente dalle conseguenze incalcolabili. La portavoce Megan Mitchell non ha finora commentato, non avendo Cheney ancora ricevuto i dettagli dell’incriminazione.

Nepal: Human Right Wacht; la polizia tortura i bambini detenuti

 

Ansa, 20 novembre 2008

 

Lo Human Right Wacht, l’organizzazione internazionale per i diritti umani, ha accusato la polizia nepalese di torturare i bambini. Secondo uno studio appena pubblicato alla vigilia del Giorno dei Bambini in Nepal, lo Hrw ha indirizzato una richiesta al governo nepalese per far cessare queste torture che avverrebbero anche solo per divertimento da parte degli agenti.

Tra i metodi più usati dagli agenti ci sonno i pugni nello stomaco e in altre parti del corpo, calci, infilare pezzi appuntati di metallo sotto le unghie, bruciare la pianta dei piedi, percosse con stecche di bambù o di plastica.

Secondo l’organizzazione oltre 200 casi sono stati registrati contro agenti di polizia nepalese solo quest’anno, con accuse di tortura nei confronti di bambini di strada o di coloro che vengono arrestati per piccoli crimini. Alcuni di questi bambini non raggiungono neanche i 13 anni.

Lo studio ha rivelato che nessuna azione è mai stata presa nei confronti del personale di polizia che è accusato di questi crimini. Human Right Wathc accusa anche la polizia nepalese di non rispettare le convenzioni internazionali e di mettere i bambini in cella con i detenuti adulti, cosa che li espone a violenze anche sessuali. Ma il governo nepalese ha rigettato le accuse. Il portavoce del ministero degli esteri Navin Kumar Ghimire, ha detto che lo studio è scorretto, non reale e senza fondamento.

 

 

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