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Giustizia: Fini (An); condanniamo i detenuti al lavoro coatto
Ansa, 3 marzo 2008
"Far rifondere il danno attraverso il lavoro" e "sanzioni amministrative per chi assume droghe". Il presidente di An, Gianfranco Fini, nel corso del suo intervento a Firenze alla Fortezza da Basso, nella seconda giornata dei "gazebo days", si concentra sui temi della sicurezza e della legalità e avanza l’idea di introdurre un deterrente per i delinquenti: "Molte volte chi delinque non ha paura del carcere ma ha paura di essere condannato a lavorare. Avanzo qui una proposta prima che Veltroni la faccia sua come ha già fatto con altre, e cioè non di condannarli ai lavori forzati, come qualcuno scriverà domani, né di mettere i delinquenti con la palla al piede come avviene in Alabama. La mia proposta è quella di condannarli a lavorare tanti giorni e tante ore finché non hanno pagato il debito con lo Stato". "Nell’ordinamento giudiziario sono già previste pene alternative al carcere, che vanno ampliate. Non è quindi una novità assoluta. Occorre far rifondere il danno attraverso il lavoro". Fini sottolinea inoltre la necessità della certezza della pena e accusa la sinistra di aver dato vita a una legislatura che invece di porre l’attenzione "sul diritto sacrosanto della vittima si è concentrata piuttosto sui diritti dei colpevoli". Fini ribadisce poi la sua idea di comminare sanzioni amministrative a chi fa uso di sostanze stupefacenti: "A Veltroni chiedo se secondo lui esiste il diritto di drogarsi, di assumere sostanze stupefacenti, di farsi del male. Se non esiste, io credo che ci debba essere una sanzione per chi assume le droghe. Non parlo di galera - precisa - non voglio mandare in carcere chi si fa una canna o assume per uso personale sostanze anche più dure. Parlo di sanzioni amministrative come la sospensione della patente, la revoca del porto d’armi o, se si tratta di minorenni, la necessità di avvertire la famiglia". Giustizia: Di Pietro (Idv); detenuti-lavoratori? costa troppo
Dire, 3 marzo 2008
"È assurdo dire che il detenuto debba andare a lavorare per pagare il danno che ha compiuto alla società, quando neanche i giovani che non hanno commesso reato trovano lavoro! Io vorrei proprio trovare l’imprenditore che dà lavoro e paga un detenuto quando non c’è lavoro per i nostri giovani". Con queste parole Antonio Di Pietro, ministro delle Infrastrutture e leader dell’Italia dei lavoro, intervenendo questa mattina a "Non Stop news" su RTL 102.5, commenta la proposta di Gianfranco Fini. Per Di Pietro, "dire "Falli lavorare", come Fini, in realtà non è semplice né scontato, perché se uno è detenuto come fa a lavorare? Lei si immagina un detenuto che va in giro con piccone e pala a fare le strade? Alla prima curva - aggiunge - scapperebbe all’estero, ma che ragionamenti sono questi?". "Per far lavorare un detenuto in una azienda - prosegue il ministro - ci vogliono 10 poliziotti che lo controllano e allora quanto ci costa? Teniamo i piedi per terra perché la campagna elettorale è una buona cosa, ma le sparate grosse hanno le gambe corte". Giustizia: Osapp; Fini sbaglia, la pena deve essere rieducativa
Dire, 3 marzo 2008
"La proposta avanzata ieri a Firenze dal presidente Fini ci sembra singolare". È questo il commento del Segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, sulla proposta di Gianfranco Fini di far lavorare i condannati per risarcire i danni causati dal reato. Se fosse da prendere in considerazione, per la risposta che si vuole dare alla grave crisi del sistema carcerario - rimarca Beneduci - partirebbe comunque da un assunto sbagliato, quello del "chi sbaglia paga". Non dimentichiamo che la pena deve tendere alla riabilitazione - sottolinea l’Osapp - e certamente non è escluso che il lavoro possa valutarsi come lo strumento migliore per l’obiettivo che ci si propone di raggiungere. Ma qui, aggiunge il segretario Osapp, "sembra che manchino proprio quelle finalità cui deve tendere, appunto, la pena, e ci sbalordisce il modo con cui sono ventilate certe logiche di riscatto che soverchiano i principi democratici, e di considerazione dell’uomo, su cui si basa la Costituzione Italiana". Ci terrorizza, poi, prosegue Beneduci, "il messaggio di chi considera il delinquente ancora come scarto della società, costretto a lavorare "tanti giorni e tante ore quanti ne servono a pagare il debito con lo Stato". Peraltro - dice ancora - già oggi il lavoro è utilizzato all’interno delle sezioni da quanti lo chiedono come attività da affiancare alla detenzione, ma non come misura imposta". Oltre che per la motivazione con cui è stata avanzata, continua il segretario Osapp, "che non esamina essenzialmente il concetto della dignità, l’idea lanciata ci spaventa per quelle ragioni legate più propriamente al discorso dell’applicazione della misura". "Stimato, infatti - aggiunge il rappresentante della polizia penitenziari -, che l’80% del lavoro oggi è svolto dal detenuto per i servizi cosiddetti d’istituto, una volta scontata la pena, il "delinquente" non ha altra alternativa che tornare a commettere reati. L’inserimento sociale, a tutt’oggi, non è minimamente considerato". Fini, aggiunge Beneduci, "parla anche di "rispetto delle forze dell’ordine", e dimentica che ai 42.000 agenti, impegnati attualmente nelle sezioni dei 211 istituti italiani, non interessa il lancio occasionale di politiche che nella realtà sa benissimo non potranno mai realizzarsi". La figura dell’agente di polizia penitenziaria, spiega il rappresentante del sindacato, "è ancora vista come la figura di un secondino, di una guardia che apre e chiude la cella, dimenticando l’apporto fondamentale che ciascun basco azzurro dà ogni giorno alla propria struttura. Neppure la destra - sottolinea -, per l’affanno delle uscite elettorali sorprendenti, è in grado, oggi, di porsi su posizioni nuove e coraggiose". Se proprio, conclude Beneduci, la destra "vuole avere il rispetto dei 42.000 agenti del Corpo che l’Osapp rappresenta, inizi il presidente Fini a chiedersi quali leggi, anche nel passato governo Berlusconi, hanno reso meno dignitosa la vita dei nostri colleghi. Inizi ad interrogarsi sugli effetti che hanno causato i provvedimenti che portano anche il suo nome, e forse - conclude il segretario Osapp -, solo in quel caso, potremo indirizzare il dibattito sulle gravi questioni che tormentano il nostro sistema". Giustizia: Donadi (Idv); servono processi rapidi e pene certe
Ansa, 3 marzo 2008
"Se si vuole rendere efficiente la giustizia ripristinando il criterio di legalità che oggi nel nostro Paese è totalmente finito sotto i tacchi, occorre pensare anche ad alcune riforme del processo penale, che diano maggiore efficacia ad azioni a contrasto della criminalità svolte dalle forze dell’ordine e dalla magistratura". Lo sottolinea Massimo Donadi, capogruppo di Italia dei Valori alla Camera. "Pensiamo ad esempio - spiega - alla possibilità per talune fattispecie di reati di avere l’applicazione della pena già dopo la sentenza di secondo grado e, analogamente a quanto avviene già in molti Paesi europei, ad una interruzione del decorso dei termini di prescrizione dalla data del rinvio a giudizio, in modo da stroncare quella sorta di amnistia perpetua che è rappresentata dalle migliaia di processi che ogni anno si estinguono perché nel frattempo sono decorsi i termini per la conclusione del processo". "Una tale norma dovrà inoltre essere accompagnata da una contestuale depenalizzazione di molte fattispecie oggi previste come reato, - conclude Donadi - ma il cui allarme sociale è scarso se non inesistente e che potrebbero essere quindi agevolmente sanzionate al di fuori del processo penale, in sede amministrativa". Giustizia: certezza della pena? se non c’è certezza della colpa! di Stefania Podda
Liberazione, 3 marzo 2008
C’è un film che ben rende la realtà di una giustizia macchinosa e burocratica che schiaccia il cittadino in un confronto impari, e che soprattutto racconta l’effetto devastante che un errore giudiziario può avere sulla vita di una persona. Il film è "Detenuto in attesa di giudizio", la regia è di Nanny Loy ed è stato girato nel 1971. La 7 lo ha trasmesso venerdì sera, e rivederlo alla luce della vicenda dei fratelli di Gravina fa un certo effetto. Per mesi Filippo Pappalardi è stato l’uomo che ha ucciso i suoi due figli e ne ha nascosto i corpi. Con le accuse di sequestro di persona, duplice omicidio volontario e occultamento di cadavere, il 27 novembre è stato arrestato e oggi è ancora in carcere. Quando i corpi di Salvatore e Francesco sono stati ritrovati, e si è parlato di morte accidentale, i pm e gli investigatori si sono guardati bene dal mettere in discussione l’impianto accusatorio su cui avevano lavorato sino a quel momento. Di più. Senza curarsi di chiarire su quale base fosse formulata la nuova ipotesi di indagine, hanno rilanciato, spiegando che i due fratellini erano caduti nella cisterna inseguiti dal padre. Tesi adottata dai giornali che hanno titolato sul virgolettato prontamente fornito dai magistrati. D’altronde la costruzione del "mostro" a tutto tondo - l’uomo era conosciuto come un uomo violento - era talmente passata nell’immaginario collettivo che Walter Veltroni, nello studio del Tg di Emilio Fede quando è arrivata la notizia del ritrovamento dei cadaveri dei bambini, si è lasciato sfuggire un commento incauto attribuendo di fatto a Pappalardi la responsabilità. Il punto però è che - sia o meno Pappalardi colpevole - per ora si parla di ipotesi investigative. Non c’è stato nessun processo, nessuna sentenza. Invece di parlare nelle sedi appropriate i pubblici ministeri parlano sui giornali, con una visibilità che non è pari a quella della difesa. E i giornali fanno da grancassa ad ogni aggiornamento investigativo arrivi dalle procure. Di processi celebrati sui giornali e mai arrivati in aula se ne contano a decine. Sono casi giudiziari, ma sono anche vite - in questo caso quelle di un’intera famiglia - passate nel tritacarne dei mass media. Una gogna pubblica a cui ci si è oramai assuefatti, senza che né ai magistrati né ai giornalisti venga in mente di fare un passo indietro. Perché prima della certezza della pena, sarebbe più giusto pretendere la certezza della colpa. Giustizia: è terminata l’odissea del detenuto "transgender"
Corriere Adriatico, 3 marzo 2008
Cristian Silla ai domiciliari. Ha girato i penitenziari di mezza Italia, sempre in difficoltà psicologiche con gli altri detenuti. Sotto choc in cella perché ex donna: scarcerato. Forse è il segno che il suo destino sta cambiando umore. Dopo aver girato i penitenziari di mezza Italia Cristian Silla esce dal carcere. Inseguito dall’ombra del cambio di sesso come una colpa da espiare, il 35enne di Montesilvano, per sfuggire a una doppia punizione nella Casa Circondariale di Ancona era andato incontro alla beffa nel carcere di Belluno. A Montacuto la direzione, per tutelare la sua incolumità, lo aveva messo in isolamento perché il suo passato da donna avrebbe potuto solleticare pericolosi istinti dei compagni di cella. L’amministrazione penitenziaria aveva disposto la traduzione nel carcere di Belluno che ospita una sezione di detenuti passati all’altro sesso. Il viaggio era terminato con l’ennesimo sgambetto della fortuna. In quell’ala ci sono solo donne ex uomini. Lui l’unico maschio: ancora pericolo, di nuovo in isolamento. Poi il trasferimento nel carcere romano di Rebibbia. Da lì un’informativa allarmante inviata al Gip Alberto Pallucchini sui disagi psicologici di Silla, già provato da problemi fisici legati alla protesi. La decisione del Gip di accogliere l’istanza dell’avvocato Pietro De Gaetani di alleggerire la custodia cautelare con gli arresti domiciliari gli ha aperto la porta di casa della sorella, adottata come lui, a Sulmona. Forse ha già toccato l’apice la parabola in salita di Silla, paradigma della vita ad ostacoli di chi non si sente a proprio agio con la gonna e infila i pantaloni, o viceversa. Del suo caso si era interessato l’onorevole transgender Vladimir Luxuria, la cui voce autorevole si era aggiunta a quella accorata dell’ex moglie di Cristian, Antonella, già compagna di collegio e amica del cuore che lo aveva sposato nel dicembre 2005 suscitando parecchia curiosità. "È un bravo ragazzo, non è stato ancora processato e già è stato condannato due volte", si era sfogata. Ora Silla attende il processo, il 13 marzo, per l’accusa di rapina in un’abitazione di Senigallia e un tentato colpo in una gioielleria del centro che gli è costata il martirio della detenzione. E può macchiare la fedina penale, non la dignità della scelta di dire addio al vecchio nome di Elena. Emilia Romagna: carceri al "collasso" per il sovraffollamento
Sesto Potere, 3 marzo 2008
In Emilia-Romagna a fronte di una capienza regolamentare di 2.400 posti ben 3.600 persone sono rinchiuse negli istituti penitenziari, di queste 2.253 sono imputate e 975 già condannate in almeno un grado di giudizio. Secondo un’indagine del Sappe, il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, le 13 carceri dell’Emilia-Romagna presentano già problemi di sovraffollamento, sono a norma infatti soltanto la "Casa Lavoro" di Castelfranco Emilia e il penitenziario di Parma. A Bologna i carcerati sono 1.057, contro i 483 posti disponibili sulla carta. A Ferrara i detenuti sono 327, contro un limite regolamentare di 228. A Modena 395, contro 222 posti di capienza massima. A Reggio Emilia 247 persone, contro 161 nella Casa circondariale e 267 contro i 129 previsti nell’Opg. Nella casa di reclusione per minorati fisici di Parma sono detenute 327 persone, contro 303 posti di capienza massima. A Piacenza 271 detenuti al posto di 178 previsti. A Forlì 189 carcerati su 135 di capienza massima. A Ravenna 133 carcerati, su 59 posti di limite regolamentare. A Rimini figurano 147 detenuti, mentre dovrebbero essere soltanto 122. Venezia: un detenuto cinese di 35 anni ritrovato morto in cella
Il Gazzettino, 3 marzo 2008
Morte naturale, probabilmente un infarto nonostante la giovane età. Un detenuto, del quale non è stata fornita l’identità, è morto ieri mattina nella sua cella all’interno della casa circondariale di Santa Maria Maggiore. Dal carcere veneziano fanno unicamente sapere che il giovane, un cinese di 35 anni da poco recluso, era sofferente di ipertensione e le sue condizioni di salute erano notevolmente peggiorate negli ultimi due giorni. Il decesso è stato subito comunicato al sostituto procuratore Giovanni Zorzi, ieri di turno, il quale ha disposto l’autopsia per accertare il motivo del decesso. La visita in cella del medico legale avrebbe comunque già escluso altre possibili cause della morte, in quanto sul corpo del detenuto non è stata trovata nessuna traccia di lesioni. Il corpo del giovane detenuto di Santa Maria Maggiore è stato portato all’ospedale Umberto I di Mestre dove, in serata, è stato effettuato l’esame autoptico. Quello di ieri è il secondo decesso nel carcere maschile veneziano in meno di un mese. All’inizio di febbraio era infatti morto in cella, sempre per arresto cardiocircolatorio, Gianfranco Buschini, 50 anni mestrino finito in carcere nell’ottobre del 2007 nell’ambito di un’indagine sul mercato del sesso a pagamento a Marghera. Bologna: il carcere della Dozza sopra "quota" mille detenuti di Sofia Capone e Francesco Monti
http://lastefani.it, 3 marzo 2008
Dovrebbe contenerne meno di cinquecento. Igiene insufficiente, casi di scabbia e tbc in aumento. E un terremoto ai vertici. Ne parliamo con Desi Bruno, Garante per i diritti dei carcerati. L’effetto dell’indulto è completamente esaurito, e alla Dozza è di nuovo emergenza. Il provvedimento di clemenza aveva fatto scendere il numero dei detenuti dagli oltre 1.100 del 30 giugno 2006 ai 783 del settembre dello stesso anno. Venti mesi dopo, la casa circondariale di via del Gomito ospita 1.057 persone (dato aggiornato al 25 febbraio 2008), ben oltre i limiti regolamentari: nata per ospitare al massimo 483 persone, la struttura può teoricamente "sopportarne" fino a 850. Le condizioni di sovraffollamento hanno portato l’Emilia-Romagna a sfondare - unica regione in Italia - la soglia di massima tollerabilità: 3.770 unità, 16 in più del limite, 1.500 in più della capienza regolare. Quella della Dozza è una realtà difficile da analizzare, essendo un carcere di transito: solo 201 detenuti sono condannati in via definitiva, tutti gli altri sono in attesa di giudizio. Inoltre, due detenuti su tre sono stranieri, un dato alto rispetto alla media nazionale (intorno al 35%). "È il momento più difficile nella storia del carcere," dice Desi Bruno, Garante per i diritti dei detenuti. La sofferenza dell’istituto è evidente soprattutto nelle condizioni igienico-sanitarie. I dati del 2007 parlano di ventuno casi di scabbia, ventisette di tubercolosi, settantotto di epatite (B e C), e di un numero di tossicodipendenti che sfiora la metà del totale. "In teoria ogni nuovo arrivato dovrebbe restare in osservazione per sette giorni, prima di essere trasferito nella sua sezione - spiega la Bruno. - Ma il sovraffollamento rende difficile rispettare rigorosamente le misure di profilassi". Lo conferma lo stesso direttore sanitario del carcere Pasquale Paolillo, che parla inoltre di "difficoltà enormi nel sistemare i malati nelle apposite sezioni, una volta accertate le loro patologie". Basti pensare che la sezione nuovi arrivati, creata per ospitare di due-tre persone al giorno, ora conta otto accessi giornalieri. Per evitare il pericolo di epidemie di tubercolosi, ogni settimana i detenuti che arrivano alla Dozza vengono sottoposti a radiografia del torace dall’unità mobile del presidio di pneumo-tisiologia della Ausl. In realtà, nessuno di questi esami è obbligatorio: tutti gli accertamenti medici sono su base volontaria. "Molti dei detenuti - racconta la Garante - arrivano alla Dozza senza aver mai visto un medico in vita loro". In seguito alle segnalazioni del Garante e alle relazioni della Ausl sul degrado igienico della struttura, il sindaco Sergio Cofferati ha firmato, lo scorso dicembre, un’ordinanza "sul ripristino di adeguate condizioni di permanenza nella casa circondariale". Un provvedimento mai preso a Bologna (e con l’unico precedente di Firenze), che lascia al massimo due anni di tempo all’amministrazione penitenziaria per tamponare l’emergenza igienico-sanitaria. Dal punto di vista dell’assistenza medica, comunque, l’Emilia-Romagna resta una delle regioni più all’avanguardia. È infatti qui che, nel giugno 2007, è partita la sperimentazione in vista del passaggio della sanità carceraria al Servizio sanitario nazionale. C’è però incertezza sul futuro: è ancora da decidere se questa normativa verrà applicata in pianta stabile. Un piccolo passo lo ha fatto anche viale Aldo Moro: il 15 febbraio, l’assemblea legislativa regionale ha approvato una legge di riforma degli istituti penitenziari, che prevede, tra l’altro, interventi sulla tutela della salute. A complicare uno scenario già drammatico, è arrivato lo scontro tra l’amministrazione penitenziaria e i vertici del carcere. La crisi ha origine da un conflitto tra il comandante della polizia penitenziaria Sabatino De Bellis e parte dei sindacati di categoria, sfociato a dicembre nella rimozione del comandante, poi annullata dal Tar. A febbraio, è caduta anche la testa della direttrice Manuela Ceresani, trasferita dal Provveditorato con una decisione da lei definita "illegittima", e contro cui anche lei ha fatto ricorso al Tribunale amministrativo. Questa incertezza politica rischia di rendere ancora più difficile l’intervento sulle condizioni dei carcerati. "La Dozza, che già di per sé è un carcere complicato, non può permettersi situazioni indefinite - è il grido d’allarme della Garante. - Chi ha responsabilità istituzionali deve farle valere subito. Evidentemente l’indulto non ha funzionato, e ora, per quanto possibile, bisogna correre ai ripari". Le misure di emergenza devono arrivare dalle istituzioni statali: "L’indulto - afferma Laura Astarita, dell’associazione Antigone, che effettua un continuo monitoraggio dei penitenziari italiani - in realtà era un provvedimento indispensabile per decongestionare le carceri, ma andava gestito diversamente. Ora i problemi dei detenuti non sono più nell’agenda politica, e non si vedono vie d’uscita". Bologna: Antigone; troppi farmaci e... poca comprensione di Francesco Monti
http://lastefani.it, 3 marzo 2008
Parla Laura Astarita di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti dei detenuti. "Non c’è attenzione alle persone: nessuna vera terapia, solo ansiolitici". Ed è ancora operativo il discusso "repartino" di osservazione psichiatrica. Un aspetto non secondario del problema sanitario all’interno della Dozza è il trattamento delle patologie psichiatriche. I dati sul disagio psichiatrico sono incerti, difficili da monitorare sia a livello nazionale che locale, soprattutto perché non è sempre possibile distinguere le effettive patologie e disagi di natura diversa. Infatti, se l’incidenza di malattie psichiatriche conclamate è di circa il 5%, arriva al 30% la percentuale di detenuti a cui vengono somministrati psicofarmaci (soprattutto ansiolitici come Lexotan e Tavor). A questi vanno aggiunti i tossicodipendenti in terapia con metadone. Da molti anni, l’associazione Antigone si batte per i diritti dei carcerati. Laura Astarita, specialista in tutela dei diritti umani, è stata a lungo la coordinatrice dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione. Tra il 2005 e il 2006, ha realizzato una ricerca sul trattamento delle patologie psichiatriche nel carcere della Dozza: il lavoro, presentato nel febbraio 2007, denunciava un eccessivo ricorso ai farmaci, la mancata distinzione tra disagio psichico e sociale e la scarsa utilità del cosiddetto repartino di osservazione psichiatrica. Un anno dopo, non sembra ci siano stati cambiamenti significativi. "Manca la coordinazione tra interno ed esterno del carcere - spiega la Astarita. - Quando una persona con disturbi arriva alla Dozza, si crea subito un problema di attribuzione di competenze: non è chiaro chi debba farsi carico del problema". Il reparto di osservazione psichiatrica (detto repartino) esiste dal 2004. Può ospitare fino a quattro detenuti (tutti uomini), è costituito da celle singole, con arredamento ridotto, servizi igienici in acciaio e nessun oggetto che possa essere usato per ferirsi. I detenuti restano in osservazione per trenta giorni, poi lo psichiatra invia all’autorità giudiziaria una relazione, in base a cui viene stabilito se il paziente debba rimanere in carcere o essere trasferito in un ospedale psichiatrico giudiziario. Da quando esiste il repartino, i ricoveri esterni sono diminuiti. "Ma il trattamento psichiatrico in carcere - continua la Astarita - si limita di fatto alla somministrazione di farmaci. Diventa difficile quantificare gli interventi sanitari e i diversi tipi di disagio, perché spesso vengono trattati come malati quei detenuti che, semplicemente, sono depressi per la lontananza dalle famiglie e la segregazione". Insomma, tante pillole, poca comprensione di cosa c’è dietro certi sintomi. E per i casi più gravi, una cella di isolamento. "Il detenuto non viene considerato nella totalità della sua persona, ma a pezzi: se manifesta un problema, si pensa di poterlo risolvere solo con i farmaci. Invece servirebbero colloqui, terapie complete, e soprattutto bisognerebbe puntare su misure alternative al carcere". Di questo aspetto Antigone ha da sempre fatto una battaglia. "Il carcere è di per sé una fabbrica di disagio psichico, ma soprattutto peggiora situazioni già difficili: tossicodipendenti e malati psichiatrici, nel momento in cui vengono arrestati, devono interrompere le loro terapie". Bologna: Cistaro (Sappe); solo 300 agenti per 1.100 detenuti di Sofia Capone
http://lastefani.it, 3 marzo 2008
Per Renato Cistaro, sindacalista della Polizia Penitenziaria, le condizioni di lavoro delle guardie continuano a peggiorare, tra sovraffollamento e ore di straordinario
Quali sono, dal punto di vista degli agenti, i problemi che rendono difficile il lavoro alla Dozza? Sicuramente la carenza di organico e il sovraffollamento. Sulla carta dovremmo essere più di 500, ma in realtà lavoriamo solo in poco più di 300. Tutti gli altri ci sono solo "virtualmente" perché lavorano in altri uffici o in sedi diverse. In questo modo controllare più di mille detenuti è ogni giorno più complicato. Come affollamento siamo ritornati alle condizioni pre-indulto e la situazione non sembra migliorare.
I detenuti aumentano e quindi anche il carico di lavoro per ogni agente. Questo cosa comporta nell’organizzazione del lavoro quotidiano? Ogni giorno lavoriamo su quattro turni ognuno di sei ore, ma per poter assicurare i servizi in carcere, quasi tutti facciamo almeno un paio d’ore di straordinario, al massimo tre, visto che di più non è consentito dalla legge. In periodi particolari come l’estate facciamo più fatica, ma riusciamo comunque a garantire ferie e riposi a tutti. Noi facciamo il possibile ma sembra peggio di prima. In tutti i casi se la struttura è stata costruita per ospitare 500 persone, e gli agenti sono molti meno che in passato, dobbiamo necessariamente fare i conti con ritardi e rallentamenti.
Quali? Ci vorrebbe più personale di sorveglianza e abbiamo problemi al nucleo traduzioni. I detenuti stranieri aumentano e quindi anche gli agenti che lavorano in questo settore hanno spesso carichi di lavoro raddoppiati. Anche il semplice spostamento dei detenuti da un istituto all’altro, soprattutto se si tratta di penitenziari fuori regione, diventa difficile. Si fa solo quando gli agenti sono liberi, a meno che non ci siano urgenze particolari.
Alla Dozza le condizioni igieniche sono state più volte definite critiche. Voi agenti come vivete questa situazione di disagio? Se ci fossero stati investimenti più consistenti non saremmo arrivati a questo punto. Con più soldi si poteva avere più personale e quindi anche più pulizia. La struttura fa letteralmente "acqua da tutte le parti" perché i tubi, in diversi punti, perdono, ma c’è da dire che, anche se è difficile, i locali vengono sempre puliti. I topi sono arrivati perché i detenuti buttano tutto fuori dalle grate e la spazzatura si accumula fuori per giorni. Caltanissetta: quando dalle celle si vedeva solo un po’ di cielo di Walter Guttadauria
La Sicilia, 3 marzo 2008
Da cent’anni è una presenza di rilievo in questa città, dapprima ai suoi margini - quando l’abitato finiva in via Redentore - poi in pratica nel cuore di essa, a monte della via Messina, quando la crescita urbana questa presenza l’ha inglobata. Il carcere "Malaspina" raggiunge quest’anno il traguardo del secolo di esistenza, un traguardo significativo specie se si considera come sono mutati, in tutto questo tempo, i canoni dell’originario rapporto detenzione - punizione - espiazione. Oggi è una struttura che va al passo coi tempi, che ha saputo conquistare una sua dimensione sociale tramite l’impegno di polizia penitenziaria e operatori lì impegnati in servizio, sempre più in un’ottica di recupero. E non a caso è una struttura che si apre, adesso, anche a particolari e significative manifestazioni, come quella - di cui abbiamo già dato notizia ieri - della programmata visita del capitano della Real Maestranza (che un tempo aveva la facoltà di far liberare un detenuto per pene lievi), evento che consentirà di rileggere una pagina di storia di questa città e della sua comunità, carcere dunque compreso. L’occasione dà lo spunto per una veloce rilettura di questo centenario, ricordando innanzitutto come nell’Ottocento il carcere borbonico operava nell’edificio di via Mauro Tumminelli, mentre dopo il 1860 una parte del Collegio gesuitico venne adibita a carcere femminile; ma anche alcuni locali sotterranei del palazzo Bauffremont (dove avrebbe operato il Tribunale) aveva celle di detenzione. In attuazione della riforma penale e penitenziaria della seconda metà dell’Ottocento, e con l’opera del direttore generale delle Carceri del tempo Martino Beltrami Scalia, si decide la nascita dei nuovi istituti penitenziari. Per Caltanissetta viene individuato il fondo Gaggiano, lungo la strada consolare per Palermo, vicino il luogo dove nel 1857 una missione di padri Cappuccini aveva piantato una delle tre croci a ricordo del loro arrivo. È il progettista del nuovo carcere, l’ing. Spina, a scegliere quel luogo ai piedi del monte San Giuliano, in quanto all’epoca particolarmente isolato, e in ciò seguendo i dettami dell’edilizia carceraria secondo i quali l’istituto doveva sorgere in un luogo periferico, quasi a volerne rievocare una condizione monastica. Il nuovo carcere verrà pertanto denominato "Monte Spina", in relazione appunto al luogo e al progettista, per essere poi ribattezzato "Malaspina" in riferimento all’analoga struttura palermitana adibita a custodia minorile. La consegna del primo ed allora unico padiglione avviene il 5 aprile 1908 al direttore del tempo, il siracusano Angelo Carelli. La costruzione, a due piani oltre il piano terra, è inizialmente destinata ad accogliere 225 detenuti e 16 detenute, nonché l’infermeria, la cucina, la lavanderia, il parlatorio, e inoltre gli uffici di matricola, direzione, ragioneria e contabilità, il corpo di custodia, gli alloggi di servizio, con un piccolo edificio a parte destinato a celle d’isolamento e di punizione. Il tutto compreso in un’area rettangolare (con dimensioni 117 x 80 metri) sul cui perimetro è costruito il muro di cinta con relativo camminamento per le sentinelle. Ma è col direttore Corrado Fiaccavento Rizzo - originario di Noto, medaglia d’oro per la redenzione e direttore di altre case di pena - che negli anni seguenti c’è il vero e proprio sviluppo della struttura, che fino al 1934 sarà notevolmente ampliata e potenziata. Viene infatti costruito un altro padiglione analogo al primo, e successivamente la caserma per gli agenti, mentre il piccolo edificio sorto per l’isolamento verrà trasformato a reparto per detenuti affetti da tbc mediante l’elevazione di due piani sull’esistente piano terra. Più tardi arriveranno anche il terzo e quarto padiglione, e la palazzina per gli uffici e gli alloggi. Tali innovazioni conferiscono al "Carcere giudiziario centrale" di Caltanissetta - questa la denominazione ufficiale - un’importanza notevole, in quanto all’epoca unica struttura del genere nel meridione d’Italia. Da una vecchia pubblicazione traiamo questa descrizione del "Malaspina": "A quel tempo doveva prevalentemente assolvere a compiti custodialistici e coercitivi e quindi la struttura doveva riflettere tali dettami. Le celle, tutte singole, possedevano una sola apertura a "bocca di lupo" che non consentiva la "visione del mondo" ma solo quella di "un piccolo spazio di cielo", quanto poteva bastare per meditare, riflettere ed espiare. Ed era in questa cella che il recluso trascorreva in solitudine buona parte della sua giornata essendo del tutto insufficienti i servizi diretti a rieducare e risocializzare i ristretti. Le condizioni di vita, che venivano imposte ai reclusi, consentivano pertanto una detenzione statica poiché la struttura edilizia certamente impediva la piena attuazione di una detenzione dinamica che prevedesse ad esempio lavoro, sport, etc.". "Nel corso degli anni - prosegue la pubblicazione - vennero comunque inserite nell’istituto le lavorazioni di falegnameria, calzoleria, fabbriceria e sartoria, ma la produzione dei manufatti, venduti a prezzi estremamente concorrenziali, determinò la protesta degli artigiani locali e pertanto il fallimento pressoché totale delle iniziative. Tali condizioni perdurano fino agli anni Settanta". Oggi il quadro è decisamente diverso e la struttura, diretta dal 1994 dal dott. Angelo Belfiore, da tempo, come detto, persegue ormai i canoni della riabilitazione, e su questo è impegnato il personale in servizio ai vari livelli. Attualmente il corpo di polizia penitenziaria annovera 230 unità, agli ordini del comandante Michelangelo Aiello e del suo vice Francesco Calì. Vi sono circa 240 reclusi, tra detenuti comuni e ad alta sorveglianza, che usufruiscono di istruzione (scuole elementari e medie), vari corsi di formazione, così come di un ampio ventaglio sanitario, che annovera anche il Sert. Quanto alla logistica, tre padiglioni sono già stati ristrutturati mentre si attende di ristrutturare la palazzina degli uffici, la sala colloqui, la caserma agenti, oltre alla cappella, che da lungo tempo vede l’opera di don Michele Quattrocchi, il cappellano del carcere. Benevento: in carcere un corso per arbitri promosso dalle Acli
Asca, 3 marzo 2008
Mercoledì prende il via la seconda parte del progetto Zona Cesarini promosso dall’Unione Sportiva delle Acli di Benevento, in collaborazione con il Coni, Diocesi di Benevento Pastorale Tempo Libero, Turismo e Sport e la sezione provinciale dell’Associazione Italiana Arbitri, con il patrocinio di Provincia Assessorato allo sport e Comune di Benevento Assessorato allo Sport e Politiche Sociali. Il progetto prevede lo svolgimento di attività ludico - sociali - sportive finalizzate all’integrazione dei detenuti della Casa Circondariale di Benevento. Mercoledì 5 marzo dalle 13,30 alle 14,30 inizierà il corso con la prima lezione per aspiranti arbitri. Il corso prevede due lezioni settimanali il lunedì e il mercoledì che saranno tenute dai docenti Caldora Vincenzo, Mazzulla Daniele e Formato Paolo, arbitri della sezione AIA di Benevento. L’operato dell’US Acli all’interno della Casa Circondariale si è ormai consolidato nel corso degli anni, soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione di attività ludiche che permettono al detenuto di "evadere" mentalmente da quella posizione statica a cui è costretto. "L’obiettivo che il progetto si prefigge" - dichiara il coordinatore del progetto Alessandro Simeone - "è quello di trasmettere quei valori di lealtà e rispetto degli altri e delle regole che sono propri dello sport in generale e nello specifico del gioco del calcio. Si pone l’accento sul ruolo di responsabilizzazione dello sport, quale strumento formativo che permette ai detenuti di diventare loro stessi garanti delle regole: arbitri". Pistoia: uno spettacolo teatrale rappresentato per i detenuti
Agi, 3 marzo 2008
Sarà rappresentato il 7 marzo presso la sala teatrale della Casa Circondariale di Pistoia lo spettacolo "Vite immaginarie Storie di mare, naufraghi e isole", di Gianfranco Pedullà, in collaborazione con Francesco Rotelli e Roberto Caccavo. Le parti musicali sono state elaborate da Marco Magistrali. Il progetto nasce dalla volontà della Provincia di Pistoia, in collaborazione con la Casa Circondariale di Pistoia, di proseguire l’esperienza già avviata due anni fa. Il progetto è diretto artisticamente dalla Compagnia Teatro Popolare D’arte in collaborazione con la Compagnia Distilleria Teatrale Cecafumo. Il laboratorio è stato sostenuto anche dalla Regione Toscana - Progetto regionale di teatro in carcere. Milano: il boss Totò Riina ricoverato d’urgenza in ospedale
Corriere della Sera, 3 marzo 2008
La procedura d’emergenza è scattata nel primo pomeriggio di ieri. Totò Riina, il capo di Cosa Nostra catturato nel 1993 a Palermo, è stato trasportato all’ospedale San Paolo di Milano per problemi al cuore, n ricovero del boss, detenuto a Opera, non era previsto. Ma le sue condizioni si sono aggravate. Nessuno può dire se il malore abbia a che fare con la notizia della scarcerazione del figlio, Giuseppe Salvatore, che giovedì scorso ha lasciato il penitenziario di massima sicurezza di Sulmona per "decorrenza dei termini". Il boss corleonese, 78 anni, è ora ospite del reparto dell’ospedale riservato ai detenuti. Per Riina questo è il quinto ricovero all’esterno dell’istituto di pena. Anche le altre volte era ricorso alle cure dei medici per problemi al cuore. Le sue condizioni in questo caso sarebbero un po’ più serie rispetto al passato. Il 15 giugno dell’anno scorso i suoi legali avevano presentato una richiesta di scarcerazione: "Mantenere Riina in carcere in queste condizioni - spiegavano - significa volersi accanire su un detenuto anziano e malato, ben oltre la pena inflitta". Insufficienza cardiaca, due infarti, diverse patologie gravi: secondo gli specialisti che lo hanno visitato, il cuore del superboss funzionerebbe solo a metà. Condannato a 12 ergastoli, Riina è stato rinchiuso fino al luglio del 1997 nel supercarcere dell’Asinara, in Sardegna. Successivamente è stato trasferito nel carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli Piceno, e infine a Opera. Immigrazione: e la destra soffia sulla paura degli stranieri di Maurizio Chierici
L’Unità, 3 marzo 2008
Roma ha paura. Gli stranieri macchiano la città e minacciano la dolce vita. Ogni giorno nuove banlieu negli angoli abbandonati. Con le buone o con le cattive la Roma dei colonnelli di Fini tornerà Città Eterna. Casini insegue Alemanno in Sicilia: si aggrappa alla paura per far dimenticare le coppole di Cuffaro. Sistemiamo la paura; dopo parleremo di mafia. Se mai. Per il momento Berlusconi non si mescola oltre il dovuto sul rilancio della Bossi-Fini. Alla larga dal pantano ma se l’erosione continua diventerà l’estrema unzione del serrate finale: le città hanno paura, noi possiamo rasserenare. Come dimostrano Alemanno e l’alleato siciliano Casini, la manovalanza non gli manca. Per il nord affiderà il lavoro sporco alla Lega: Calderoli, Borghezio, Castelli and company, teologi della supremazia ariana. Soffiano sulle angosce di noi gente perbene: ombre islamiche in agguato, lingue sporche che minacciano la tradizione, ronde verdi moltiplicate con l’impegno dell’allargare il panico criminalizzando le braccia straniere. La paura è l’arma segreta che spaventa le anime deboli. Ha aiutato Bush a diventare presidente col thrilling che ne tiene a galla il governo dei disastri. Negli ultimi otto giorni della campagna elettorale, Marianno Rajo, figlio spirituale di Aznar, prova a rimontare Zapatero esasperando i pregiudizi della piccola borghesia spagnola: gli stranieri ci impiccheranno. Deliri antichi. Nel 1999 Barry Glassner, sociologo californiano, ipnotizza migliaia di lettori nel saggio "La cultura della paura". Ma un libro non ha la forza persuasiva di mezz’ora Tv, neri e cicanos che sconvolgono la felicità americana. Un libro va sfogliato con pazienza mentre le immagini della violenza fanno tremare il cuore e subito accendono la rabbia. Glassner ha convinto i cittadini di buona educazione: la paura maschera la debolezza di chi non sa cosa dire ma gli uomini dalle mani dure non perdono tempo sui libri e hanno avuto ragione. Il presidente che bombarda e innalza muri per frenare la disperazione di chi arriva e fa risparmiare le industrie accettando qualsiasi paga, è il presidente che malgrado i disastri non ha smesso di imperversare. Glassner mette in guardia sulle distorsioni di un panico irrazionale da consolare con la repressione. La paura fa sparire i problemi quotidiani, intontisce; esaspera il tremore di chi si allontana dalla giovinezza. Quei bastardi non li vogliamo. Prigioni senza speranza, tanti rimpatri senza ragione. Rifiutare l’emigrazione è la furbizia elettorale dei neocon di ogni paese G8. Le Pen, profeta del Fronte Nazionale francese, è stato il primo ad usarla come grimaldello elettorale. Anni fa. Accanto alla sua fiamma prestata dal Msi di Almirante, Gianfranco Fini lo abbracciava sorridendo. Per le fiamme di Parigi gli stranieri rubano il lavoro agli operai francesi, vivono pericolosamente fra le rovine dei quartieri abbandonati o nelle cantine che gli speculatori (ariani) fanno pagare come palazzi. Immigrazione vuol dire terrorismo, delitti atroci, insicurezza che vuota le strade appena tramonta il sole. Gli ariani non accoltellano, non sterminano famiglie, non violentano ragazze inconsapevoli, non rubano armi alla mano o in doppiopetto. Siamo gente a posto. Bisogna dire che il genio Le Pen aveva visto giusto. I partiti della borghesia senza cultura ne hanno seguito l’esempio in ogni Europa. Borghesia vorrebbe dire attenzione alle idee, dubbi e decisioni meditate. Ormai le parole si confondono assimilando alla dignità borghese padroncini incantati dal vitello d’oro: soldi, vacanze, macchinone e case al mare. Senza i soldi non sei nessuno e nessun opulente ha tempo da perdere per capire cosa c’è dietro la faccia degli intrusi. Pensieri, emozioni, dolore, speranze. Problemi loro, noi cosa c’entriamo? Si allevano nuove cravatte per allargare all’infinito la xenofobia dei padri intimoriti dagli stranieri. "Hanno una cultura diversa che spaventa la nostra cultura, distruggendola". 1969, catastrofi distribuite dal dottor Schwarzenbach: animava il referendum per buttar fuori dalla "casa di Guglielmo Tell" 750 mila lavoratori arrivati da fuori, quasi tutti italiani. Erano scappati dall’Italia mediterranea, convalescenza senza lavoro del dopoguerra. Scappati dal Veneto con le fabbriche in rovina; altolombardi, friulani e piemontesi, quel grande Nord che la Lega vuole salvare dall’inciviltà dei popoli del sud dimenticando i brontolii dei leghisti ticinesi: Lecco e Varese sono il sud di Lugano. Osservano con le dovute precauzioni. Mi rendo conto che è inutile far capire il dolore dell’emigrazione alle orde delle camice verdi, eppure suggerisco un libro appena uscito da Einaudi: "L’ha ucciso lei" di Thar Ben Jellou, scrittore marocchino consacrato a Parigi. Nei suoi racconti straordinari tradotti in chissà quanti paesi, sradicamento ed emigrazione accompagnano lettori nei ricordi e nel dolore. Si riconoscono nelle donne e negli uomini costretti a cercare la sopravvivenza della solitudine in posti sconosciuti. Abitano case ormai pezzi di case dove i francesi non vivono più. Dopo trent’anni in tuta alla Renault, Mohamed, protagonista in pensione, ha imparato ad ascoltare a bocca chiusa le voci dei compagni di lavoro quando immaginavano le folle dell’Islam "con la bomba legata alla vita". Pronti a distruggere. Mohamed parla ancora un francese con tante spine che i figli ormai francesi deridono. "La domenica vede gli amici alla moschea, poi al bar dove non servono bevande alcoliche". Angoli di una Parigi lontana dai Campi Elisi. Giocano a domino, guardano la Tv marocchina che informa sul costo dei terreni ad Agadir". Soffre per il figlio che ha sposato una spagnola, per la figlia che ha sposato un italiano. Anche loro emigranti, ma lontani dalle abitudini del padre e della madre. La moglie trema quando sente parlare Le Pen, ma Mohamed la consola ridendo: "Stai tranquilla, Le Pen ha bisogno di noi. Immagina questo paese ripulito dagli immigrati! Il caos. Non potrebbe più spaventare dicendo che siamo la radice del male, dell’insicurezza; che approfittiamo della previdenza sociale... Le Pen ha paura che questo succeda. Ha due mani grasse, se ti dà uno schiaffo vedi stelle finte, stelle finte perché lui sa di essere finto. Non riesco non riesco a prenderlo sul serio". Viene in mente Calderoli, tutore della razza pura. Alla fine Mohamed torna in Marocco per costruire una casa dove la famiglia possa un giorno ritrovarsi. Quando la casa è finita, dà appuntamento ai figli, ma i figli sono ormai francesi e non arrivano. I nostri Le Pen, vecchi amici di Le Pen, si prendono sempre sul serio. Vogliono vincere e subito impacchettare gli intrusi o ridurli a braccia senza pensieri, desideri, libri di scuola, la pizza del sabato sera. Non possono; hanno colori che non somigliano ai nostri. "Parole che feriscono", è il titolo di un piccolo libro- testimonianza, scritto da Esoh Elamè, immigrato del Camerum in Italia. Col pudore di chi non ha voce, prova a chiedere: "Per favore non chiamatemi uomo di colore". Ma gli immigrati continuano a sperare. Del resto cosa possono fare? Tornare a casa non è possibile. Come si è accorto il Mohamed di Ben Jellou, a casa non è cambiato niente. La colonia resta colonia anche se ha cambiato faccia. Una volta, check del volo Madrid-Tangeri, sono in coda fra manager e impresari, profeti della dislocazione. Nella regione Tangeri - Tetuan ogni anno fioriscono nuove fabbriche, capitali spagnoli e francesi. Sul volo Venezia - Bucarest manager italiani; nel traghetto Otranto - Valona, pugliesi: hanno chiuso i capannoni del Salento per far cucire le scarpe in Albania. Da Madrid scendono in Marocco per costruire il grande porto, la grande autostrada, reti di laboratori attorno alla zona franca di Tangeri. Le camere di commercio sventolano contratti che ingolosiscono. Operai a 0,87 euro l’ora. Specializzati 0,95. Dirigenti 500 euro al mese. Se in Italia o in Spagna la paga media è di 1.600 euro, in Marocco non supera i 160 e il costo generale viene tagliato del 75 per cento. "Non sapevano come tirare avanti prima del nostro arrivo", racconta l’orgoglio un compagno di viaggio. "Adesso mangiano due volte al giorno. Lavorano anche le donne e il costume cambia". Invece non cambia. Chi confeziona camice non potrà mai comprare le camice che escono dalle sue mani. Volano via o si illuminano nelle vetrine della loro città che agli ultimi resta proibita: servono due mesi di paga per comprare una cosa cucita in dieci minuti. La disillusione li travolge: non sopportano di fabbricare il lusso e di non poterne approfittare. Come il Mohamed di Ben Jellou ricominciano a scappare. O protestano, o scioperano sfidando le polizie impegnate a difendere il trionfo delle esportazioni. E appena la corda diventa tesa e la globalizzazione traballa, le fabbriche cambiano tropico. Sempre verso il sole. Dopo la Romania, il Bangladesh e dopo il Bangladesh c’è la Corea del Nord che prima o poi aprirà per fame e bisogna battere sul tempo i cinesi. Marocchini in Spagna, Francia, Italia. Rumeni che invadono l’Europa della quale fanno ormai parte non sopportando la colonizzazione delle fabbrichette o fabbricone italiane. Ecco la notizia che non interessa le borse: dall’inizio dell’anno 24 mila bambini di Bucarest sono finiti in strada. Padri, madri, fratelli emigrati in cerca di fortuna. Soprattutto di dignità. E loro lì a diventare uomini e donne alla periferia delle periferie. La speranza del non emigrare finisce nel torchio della speculazione. Ecco perché arrivano e perché la loro solitudine resta disperata. Scappa chi vuol solo lavorare e chi vuole solo guadagnare ma le colpe di pochi infangano la speranza di tutti nutrendo le campagne di Alemanno o Calderoli, amici duri e puri. Durante il referendum anti italiani, Svizzera 1969, i giornali amici del dottor Schwarzenbach condivano le notizie col disprezzo della xenofobia: prostituta aggredita da giovane italiano, ladri italiani rubano nel supermercato, vecchia signora accoltellata da un italiano, italiani contrabbandieri, italiani che non si lavano, italiani che imbrogliano. Sempre noi, mai loro. Gli svizzeri rubavano o sparavano come in ogni parte del mondo, ma l’onore della patria non doveva essere sfiorato. Quarant’anni dopo i giornali amici del grande amico ricopiano gli stessi titoli nell’Italia degli ex migranti. Algerino, albanese, rumeno, marocchino. Sta per partire la carica degli Schwarzenbach 2000 mentre il giorno del voto si avvicina. Droghe: Fini e Casini; contrari a qualsiasi liberalizzazione
Notiziario Aduc, 3 marzo 2008
Chi assume sostanze stupefacenti "va sanzionato". Lo ha detto il leader di An Gianfranco Fini, durante un comizio elettorale a Firenze. "Parlare di sicurezza e legalità vuol dire avere idee chiare su quel flagello dei tempi moderni che è la droga. Chiedo a Veltroni, che ha imbarcato nel Pd i radicali di Pannella: "pensi che esista il diritto di drogarsi, di farsi del male?". "Se questo diritto non c’è, non ci può essere come logica conseguenza il fatto che chi assume sostanze stupefacenti va sanzionato. Il che non vuol dire la galera, ma sanzioni amministrative. Se hai la patente te la levo, se sei minorenne avviso la famiglia". "Noi siano contro la droga. E anche se sulla liberalizzazione era d’accordo Miccichè noi siamo contrari". Lo ha detto il leader Udc Pier Ferdinando Casini rivolgendosi alla platea dei giovani del partito durante un incontro organizzato a Palermo. Droghe: guidare sotto gli effetti è "voler uccidere qualcuno"
Il Gazzettino, 3 marzo 2008
Guidare sotto l’effetto della droga è quello che il Procuratore della Repubblica Antonio Fojadelli ha definito pochi giorni fa "voler uccidere qualcuno" e che quindi potrebbe in futuro - con una modifica di legge - essere definito "omicidio volontario per dolo eventuale". E non si tratta di raffinatezze, ma di cambiamenti di pena: l’omicidio volontario può comportare una pena fino a ventuno anni, nella migliore delle ipotesi. "Con la parola dolo - spiega il Procuratore - si indica la volontarietà dell’azione. Se si tratta invece di un fatto colposo, vuol dire che non c’è stato dolo, cioè non c’era volontà di far male; nel caso dell’omicidio colposo per incidente stradale infatti la pena si ferma a 5 anni. Ma in un Paese in cui la gente si comporta da incosciente e si mette al volante ubriaca o sotto effetto di stupefacenti ogni giorno, allora bisogna introdurre una nuova fattispecie di pena. Quella in cui la possibilità di provocare la morte di qualcuno (o anche un semplice incidente) è perfettamente chiara a chi si mette al volante non sobrio: se uno guida alterato vuol dire che sa di poter uccidere o ferire gravemente ma deve sapere che sta rischiando grosso".
A parte il fatto che uno che si droga o si ubriaca deve ben sapere quali sono gli effetti che lo stato di alterazione comporta… "Esatto. Sono ormai anni che accadono questi fatti, i giornali e la tv ne parlano in continuazione: se la legge venisse cambiata, venisse consentito l’arresto per questo genere di reato e la fattispecie diventasse "omicidio volontario", ci sarebbe la paura di quello che può accadere. In Italia si sa che per un omicidio commesso con un’auto non succede in pratica niente: la condanna a un anno o due, con la condizionale. E poi con l’indulto... assurdo".
L’Italia, malgrado le stragi sulla strada quasi quotidiane, a livello istituzionale non si muove... "Io faccio il pubblico ministero, cioè quello che insegue e punisce il ladro. Io cambierei la patente: metterei una specie di tesserino con un "x" numero di caselle. Ogni infrazione grave l’agente che la rileva ne elimina uno; quando le ha finite, via la patente per sempre". Droghe: Firenze; 70% degli studenti ha fatto uso di sostanze
Notiziario Aduc, 3 marzo 2008
Il 70% degli studenti delle superiori del territorio fiorentino ha sperimentato o usa sostanze psicoattive e lo sport costituisce spesso l’ultima ancora positiva con la società per chi si perde nella tossicodipendenza. Questo, in sintesi, il senso di una ricerca presentata ieri a Firenze in occasione di un incontro dedicato al ruolo dello sport nella prevenzione dell’uso delle sostanze psicoattive. L’ha organizzato da "La conchiglia" del Centro di solidarietà di Firenze, una comunità terapeutica che ha condotto lo studio su un campione di 600 giovani che hanno partecipato ai corsi di recupero. Obiettivo della ricerca quello di verificare il rapporto che intercorre tra malessere giovanile e sport per poi dare vita a corsi dedicati a operatori, dirigenti sportivi, allenatori e genitori, per insegnare loro a individuare i segnali di disagio dei giovani. Al convegno hanno preso parte, tra gli altri, l’assessore comunale alle politiche sanitarie Graziano Cioni e l’assessore regionale alle politiche sociali Gianni Salvadori che ha ricordato che "l’attività sportiva è un’importante forma di prevenzione del disagio giovanile soprattutto per quelle forme che arrivano poi nella dipendenza. Noi dobbiamo costruire con tutti i soggetti, dai genitori ai dirigenti sportivi un grande intervento perché tali elementi siano affrontati preventivamente". Presente anche don Giacomo Stinghi, presidente del Centro di solidarietà, che ha spiegato come "andando nelle scuole gli stessi ragazzi mi dicono che nel 70-80% fanno uso di sostanze. E lo fanno in maniera disinvolta come un tempo erano per noi le sigarette. Occorre far sapere loro cosa sono certe sostanze e dove portano. Gli allenatori devono essere anche educatori perché sono più vicini ai ragazzi".
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