Rassegna stampa 12 marzo

 

Giustizia: il Parlamento europeo discute di donne detenute

 

www.europarl.europa.eu, 12 marzo 2008

 

Una detenuta "speciale". La legge è uguale per tutti. Il carcere e le dinamiche di reinserimento nella società dovrebbero però tenere conto delle esigenze specifiche del mondo femminile, come la maternità, la reintegrazione professionale e familiare. La commissione parlamentare diritti delle donne e parità di genere ha votato unanimemente il 28 gennaio scorso un rapporto di iniziativa sulla questione, al dibattito dell’intera Assemblea plenaria questo mercoledì 12 marzo.

Rispetto della dignità umana. Anche se il fenomeno delle donne "dietro le sbarre" è minoritario (5% della popolazione carceraria totale), "la creazione di condizioni di vita che rispettino i loro bisogni specifici è una questione di rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali", ha affermato l’eurodeputata greca e relatrice Marie Panayotopoulos - Cassiotou del gruppo del partito popolare europeo e democratici europei (Ppe-De).

Bambini e famiglia. Per la famiglia, il carcere di una donna può avere conseguenze gravi che possono arrivare fino alla completa distruzione dei legami familiari, soprattutto quando è la madre la sola a occuparsi dei bambini. La relazione della commissione parlamentare suggerisce quindi un maggiore uso delle "pene alternative" alla carcerazione come "le comunità", purché "la pena da scontare sia breve e basso il rischio per la pubblica sicurezza". Tra le misure richieste per tutelare i diritti del bambino, si propongono visite flessibili, luoghi che permettano una certa libertà di colloquio e di privacy familiare, un ambiente a misura di bambino e unità carcerarie separate per donne con figli. Perché "le condizioni di carcerazione delle donne incinta e nel periodo dell’allattamento, spiega la deputata greca, così come quelle che hanno in cura bambini piccoli, devono sempre tenere conto dell’interesse superiore del bambino".

Reintegrazione sociale e professionale. Sebbene le prigioni siano materia di competenza degli Stati membri, gli eurodeputati chiedono alla Commissione europea e al Consiglio di adottare una decisione-quadro sugli standard minimi dei diritti dei detenuti che si fondi sull’articolo 6 del Trattato Ue e che includa il rispetto delle necessità particolari delle donne.

"L’accesso senza alcuna discriminazione all’impiego, al lavoro volontario, alla formazione che segua le vocazioni personali e misure di educazione civica intese a facilitare la loro reintegrazione", sono le specifiche richieste degli eurodeputati. Come sottolinea la relatrice del rapporto, "la promozione del reinserimento professionale, sociale e familiare di tutti i detenuti deve restare un obiettivo primario della detenzione". Il dibattito in plenaria è previsto per la serata di oggi e il voto domani in mattinata.

Giustizia: Gravina; i magistrati che non sanno correggersi

di Giuseppe D’Avanzo

 

La Repubblica, 12 marzo 2008

 

Filippo Pappalardi torna a casa, ma in stato di arresto e attenderà, in stato di arresto, che l’indagine per la morte di Francesco e Salvatore, i suoi figli, trovi una ragionevolezza smarrita. Anche in quest’ultima mossa, soltanto apparentemente più lieve, le decisioni della magistratura appaiono incongrue, incomprensibili. Si dice: non è stato il padre a uccidere i due ragazzi. Non c’è alcun indizio per poter sostenere che abbia voluto cagionarne la morte.

L’accusa nei suoi confronti deve essere corretta: Filippo Pappalardi non è l’assassino, anche perché non c’è stato alcun assassinio. Deve rispondere di non avere avuto cura dei suoi ragazzi, di averli abbandonati al pericolo quella sera del 5 giugno del 2006 (minorenni, non potevano provvedere a loro stessi) e di averne così provocato la morte con l’accidentale caduta nel pozzo-cisterna. È un reato che abitualmente si contesta alla madre che abbandona il neonato all’angolo di una strada; agli infermieri che si allontanano - tutti - da una casa di cura che ospita anziani e inabili.

Sarà l’inchiesta ora a definire la fondatezza di questa nuova accusa. Sorprende che Pappalardi - dopo avere perso i suoi figli, dopo essere stato accusato di omicidio - debba attenderne l’esito in stato di arresto. Era proprio necessario, era proprio "dovuto"? Ci sono tre condizioni per disporre una "custodia cautelare". La reiterazione del reato. Il pericolo di fuga. L’inquinamento delle prove. Nessuna di queste condizioni fa capolino nell’affare. Pappalardi non può più abbandonare i suoi figli che sono morti. Non può danneggiare un’inchiesta già con larghezza compromessa da errori, passi falsi, incertezze investigative. Non è fuggito finora. Non fuggirà oggi. E allora perché Pappalardi resta agli arresti?

Per "l’estrema negatività della sua personalità". Non ha mostrato mai "senso di colpa", scrive il giudice. I suoi comportamenti sono "ripugnanti". "Al di là della gravità del fatto", quel tipo lì - che non piange i figli, non si dispera in pubblico per la loro sorte; che non si mortifica per un matrimonio andato a male; che manda al diavolo il codazzo delle telecamere e, durante gli interrogatori, anche i giudici - è "socialmente pericoloso" e merita di starsene agli arresti in casa.

Non c’è dubbio che Filippo Pappalardi abbia una faccia che può non piacere. È violento, arrogante. È un "padre padrone", prepotente e manesco. Ma la fisiognomica e comportamenti primitivi non possono essere condizione sufficiente per tenere agli arresti un padre "sbagliato" che ha perso due figli, è stato accusato senza alcuna prova di essere l’assassino, è stato incarcerato, innocente.

Negli affari giudiziari bisogna diffidare di chi mena fendenti forsennati nella convinzione di avere tra le dita la corda della verità. Ma in questo affare di Gravina c’è di più e di peggio. C’è la sgradevole sensazione di trovarsi alle prese con una magistratura che, indispettita dai suoi errori, non riesce a correggere se stessa. Anzi non accetta di vedere censurate le sue decisioni e pretende - in ogni caso - un castigo anche a costo di ritorsioni contro il malcapitato che ha davanti. Una ritorsione, ecco che cosa sembra la decisione del giudice.

Sono decenni che il processo italiano è in crisi di efficienza, di risultati e di credibilità, un ordigno maligno che sanziona prima dell’accertamento e, quando accerta le responsabilità, non riesce a punirle. In questa scena così critica - di cui la magistratura è corresponsabile ma inabilitata a riformare - la responsabilità delle toghe dovrebbe essere raddoppiata e non attenuata, soprattutto a fronte degli errori commessi. Quando questo non accade, le toghe dimenticano che possono sperperare giorno dopo giorno il loro prestigio dinanzi a un’opinione pubblica che non ne comprende gli orientamenti; non ne apprezza l’ostinazione; non capisce le sue decisioni, contrarie soprattutto al senso comune.

Sono queste le condizioni, sostengono gli studiosi che hanno le loro radici nelle scienze sociali e nella scienza politica, che mettono in movimento contrappesi tecnici, istituzionali, politici. Gli ultimi sono naturalmente i più importanti. Prevedono che venga aumentato il numero dei giudici; che si riformi la procedura; che si abolisca un tribunale; che si modifichi la giurisdizione; che si diminuiscano le risorse assegnate al sistema giudiziario; che si emendi la Costituzione. Sono i contrappesi politici alla fine a potenziare i contrappesi tecnici perché sono utili a incentivare nei giudici un atteggiamento di autolimitazione (self-restraint); sono in grado di essere un buon deterrente alla manipolazione delle norme.

Alla vigilia di una nuova stagione politica, la magistratura dovrebbe ricordare che non può reggere, all’infinito, un conflitto con le opinioni diffuse e condivise. Pena, perdere ogni credibilità. È quel che già è affiorato nelle ultime legislature. Un’opinione pubblica stanca, diffidente, sospettosa della consorteria togata ha "autorizzato" la politica a individuare contrappesi. La Bicamerale era questa cosa qui. È stato il varco politico e istituzionale dentro il quale si è mosso poi il contro-riformismo del centro-destra, di Berlusconi, dei suoi avvocati. Ci si augura che, nel prossimo Parlamento, non si debba ancora assistere al conflitto infinito tra le toghe e la politica. Anche i magistrati dovrebbero capirlo ed evitarlo. Soltanto applicando la legge con equilibrio e saggezza. Come a Gravina, purtroppo, non è accaduto.

Giustizia: in carcere stranieri tossicodipendenti discriminati

 

Comunicato stampa, 12 marzo 2008

 

A proposito delle problematiche legate alla salute in carcere, questo Ufficio ha ripetutamente segnalato ai ministeri competenti la situazione degli stranieri tossicodipendenti e alcool dipendenti seguiti in carcere dal Ser.T., il cui numero è in aumento. Per i cittadini extracomunitari clandestini è il Servizio Tossicodipendenze che segnala che non c’è nessuna possibilità di concretizzare percorsi di cura fuori dal carcere, sia per ragioni economiche, ma anche per l’ambiguità normativa del T.U. Immigrazione.

Di fatto i tossicodipendenti irregolari restano in carcere, anche se richiedono di sottoporsi a programma terapeutico (e fatta salva la somministrazione del metadone). Si tratta di un problema di gravità assoluta, che si inserisce in un contesto di forte disagio per la popolazione extracomunitaria. L’art. 35 del D.L. vo n. 286/ 1998 e succ. modifiche prevede che ai "cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno, sono assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed in infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva".

Segue poi un elenco, non esaustivo, di prestazioni garantite, tra cui anche la profilassi, la diagnosi e cura di malattie infettive, da cui si desume che i tossicodipendenti stranieri irregolari malati di Aids o comunque sieropositivi rientrano con certezza nella previsione normativa. Ritiene la scrivente che la tossicodipendenza debba rientrare tra le malattie per le quali va garantita la possibilità di cura, da ritenersi essenziale, per ovvi motivi, a tutela del diritto alla salute individuale e collettiva. La presenza sempre più significativa di stranieri in carcere con problemi di tossicodipendenza e alcool dipendenza, che sul territorio nazionale è nell’ordine di migliaia di casi, impone un chiarimento e un indirizzo sull’applicabilità dell’art. 35 citato anche alle cure per le dipendenze.

È del tutto evidente che una lettura restrittiva della norma pone problemi seri di compatibilità costituzionale, violando il disposto degli artt. 3 e 32 Cost., anche con riferimento alla recente disciplina in materia di stupefacenti (l. n. 49/2006), che favorisce, almeno nelle intenzioni espresse, la sottoposizione a cura delle persone tossicodipendenti in carcere, sia con programmi territoriali che con ingresso in comunità terapeutiche, ma che di fatto potrebbe essere applicata solo a persone di nazionalità italiana o regolari sul territorio oppure, per l’inserimento comunitario, a persone irregolari economicamente in grado di sostenere le spese relative alle rette, situazione difficile da verificarsi.

A tutt’oggi nessuna risposta è giunta dalle autorità competenti , a fronte di un continuo aumento dei reclusi stranieri in condizioni di dipendenza e che richiedono un intervento terapeutico.

 

Desi Bruno, Garante dei detenuti di Bologna

Giustizia: Bolzaneto; torture e pestaggi... chiesti 76 anni 

 

La Repubblica, 12 marzo 2008

 

Più di 76 anni di reclusione, che confermano ancora una volta "la necessità di indagare più a fondo su tutta la gestione complessiva delle giornate del G8 genovese. Verifiche più approfondite si potrebbero ottenere attraverso l’azione di una Commissione parlamentare d’inchiesta, cosa che chiediamo da ben sette anni", afferma la senatrice della Sinistra Arcobaleno Haidi Gaggio Giuliani, madre di Carlo, ucciso in Piazza Alimonda durante gli scontri a Genova del 2001.

La linea accusatoria dei pm sostiene che nella caserma di Bolzaneto furono inflitte alle persone fermate almeno quattro delle cinque tecniche di interrogatorio che, secondo la Corte Europea sui diritti dell’Uomo, configurano "trattamenti inumani e degradanti". Si parla di abuso d’ufficio, abuso di autorità contro detenuti o arrestati, falso ideologico, violenza privata, violazione dell’ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Dei 45 imputati, di cui la maggior parte agenti delle forze dell’ordine, solo per Giuseppe Fornasier, Ispettore di Polizia Penitenziaria è stata chiesta l’assoluzione. Per tutti gli altri sono state chieste pene che vanno dai sei mesi di reclusione ad un massimo di cinque anni e otto mesi per Antonio Biagio Gugliotta, Ispettore della Polizia Penitenziaria che era di servizio nella struttura di Bolzaneto.

Quest’ultimo è accusato di abuso d’ufficio e di autorità contro i fermati, di aver agevolato o comunque non impedito la condotta degli altri agenti e di aver in prima persona percosso con calci, pugni, sberle e manganello gli arrestati in attesa d’identificazione.

Tre anni e sei mesi di pena invece sono stati chiesti per Alessandro Perugini, il funzionario più alto in grado presente allora nella caserma ed ex numero due della Digos di Genova, per Anna Poggi, Commissario Capo di Polizia all’interno del carcere, per il generale della Polizia Penitenziaria Oronzo Doria e infine per i due responsabili della custodia, i capitani Ernesto Cimino e Bruno Pelliccia. Per sapere se finalmente verrà fatta giustizia sui fatti di Genova e in particolare sui pestaggi nella caserma di Bolzaneto bisognerà ora aspettare la sentenza che, secondo quanto riferito, dovrebbe arrivare a fine maggio o agli inizi di giugno.

 

Sappe e Osapp: la responsabilità è dei vertici

 

La responsabilità di quanto avvenne nella caserma di Bolzaneto "non è della Polizia Penitenziaria ma di coloro che hanno dato gli ordini, dei vertici che non hanno saputo prevedere e prevenire i gravi fatti di Genova".

È corale la difesa che i due maggiori sindacati di polizia penitenziaria, Sappe e Osapp, fanno dei "baschi azzurri" per i quali la procura di Genova ha chiesto pesanti pene (quella maggiore, di 5 anni e 8 mesi, è per Antonio Biagio Gugliotta, Ispettore in servizio nella caserma di Bolzaneto nel 2001).

"Le richieste di condanna fanno pensare a una giustizia a senso unico - afferma Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp -, per cui eventuali responsabilità vengono attribuite, come sempre, agli ultimi. Riteniamo invece che i poliziotti penitenziari siano innocenti e che si siano trovati ad affrontare un’emergenza inaspettata, perché non addestrati e impreparati. Non è plausibile che, dopo una vita spesa per i detenuti e per la loro risocializzazione, alcuni poliziotti penitenziari possano aver agito in quel modo".

Sulla stessa linea Donato Capece, segretario generale del Sappe: "Le responsabilità sono di chi ha dato gli ordini, non degli esecutori. Non possiamo che difendere i poliziotti penitenziari. Abbiamo piena fiducia nella magistratura, alla quale chiediamo di fare approfondimenti perché le responsabilità sono più in alto. Dell’Ispettore Giugliotta - aggiunge il segretario del Sappe - conosciamo la responsabilità e la capacità, dimostrate in tanti anni di comando a Taranto". A chi gli obietta la possibilità di non eseguire gli ordini, Capece fa presente che "il poliziotto penitenziario che ha dubbi sulla legittimità di un ordine, può chiedere che gli venga ribadito per iscritto. Ma in quel caos, chiunque abbia ricevuto un ordine non poteva far altro che eseguirlo".

Giustizia: Osapp; ma la politica non si dimentichi del carcere

 

Dire, 12 marzo 2008

 

Roma - "Vogliamo rafforzare l’appello del Monsignor Bagnasco a far sì le forze politiche si concentrino sui temi scottanti del quotidiano, dalla difesa del potere d’acquisto degli stipendi, alle iniziative per le case, e la sicurezza sul posto di lavoro e calarlo non solo nella dimensione del carcere, ma farlo nostro affinché quei politici che ora chiedono il voto sappiano, una volta al potere, quello per cui sono stati eletti".

È quanto afferma il segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci. "La situazione attuale della Polizia Penitenziaria, e la grave crisi delle carceri italiane - sottolinea -, non sono stati un motivo di orgoglio per l’azione del governo Prodi e nulla fa presumere che la prospettiva cambi dopo il 14 aprile".

Se, aggiunge, "nel corso di questi venti mesi la politica non è riuscita a far altro che determinare un provvedimento come quello dell’indulto, che a conti fatti si sta rivelando più dannoso che utile, questo si deve a quella mancanza di prospettiva di rinnovamento che si vuole dare al Paese". Su 27.236 beneficiari, sottolinea Osapp, "a cui devono aggiungersene 7.061 per misure alternative al carcere, 8.508 sono già rientrati, e se questo non è simbolico della grave crisi carceraria, poco ci manca".

E Beneduci aggiunge: "Ci accorgiamo, infatti, che sempre più spesso le 42.000 unità impiegate nei servizi di mantenimento delle sezioni carcerarie servono a far sì che tutto si conservi così come è, senza l’apporto di nuove risorse e nuovi mezzi per la salvaguardia della sicurezza dei detenuti, all’interno di strutture da destinare ormai all’incanto". Vogliamo sperare, conclude Beneduci, "che il prossimo Esecutivo che metterà piede a Palazzo Chigi non abbia intenzione di continuare ancora sulla strada del degrado. Ricordiamo ai candidati premier, che chiedono il voto anche ai nostri lavoratori, che lo Stato è costituito anche da noi: anche noi contribuiamo a questo nostro Paese, senza il riconoscimento dell’attività che svolgiamo".

Veneto: linee guida 2008 per la protezione e tutela dei minori

 

Ansa, 12 marzo 2008

 

Approvate le linee guida regionali 2008 per la protezione e tutela dei minori nel Veneto. Ne dà notizia l’Assessore regionale alle politiche sociali che ha proposto il provvedimento, dal titolo "La cura e la segnalazione. Le responsabilità nella protezione e nella tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Veneto. Linee guida 2008 per i servizi sociali e sociosanitari" alla Giunta regionale.

Il documento è stato definito dal Gruppo di studio istituzionale in materia di vigilanza e segnalazione composto: dal tribunale per i minorenni; dal pubblico tutore dei minori della Regione Veneto; dal direttore della direzione regionale per i Servizi Sociali, dal Presidente dell’Anci veneto, da un referente dell’Osservatorio regionale per l’infanzia e l’adolescenza.

"Nel lavoro di elaborazione - afferma l’Assessore regionale - sono stati coinvolti tutti gli attori istituzionali e professionali, pubblici e privati del percorso di protezione e tutela dei minori. Le nuove linee guida comprendono alcune innovazioni di sistema e alcuni approfondimenti tecnici e di concetto di particolare rilievo per una buona concertazione e integrazione delle funzioni di protezione e tutela dei minori e dell’assunzione delle relative responsabilità, in ordine soprattutto all’essenzialità e crucialità del ruolo dei servizi sociosanitari, del rapporto tra questi e l’autorità giudiziaria e in particolare con la procura minorile.

Dobbiamo continuare in questa direzione - ha detto ancora - con politiche che aiutino i bambini a restare nelle famiglie d’origine, che supportino il nucleo familiare con tutta le rete dei servizi territoriali, dal Comune all’Ulss, con operatori formati alle nuove esigenze e al mutato quadro sociale che vede, ad esempio, la presenza consistente di minori stranieri".

Il documento di linee guida 2008 si affianca alle linee guida per l’affido familiare e a quelle sulla collaborazione tra scuola e servizi. Questi elaborati e altri provvedimenti già presi o in via di attuazione (inserimenti in struttura o in affidamento familiare, la messa a regime dei centri regionali di cura e protezione per le situazioni di abuso e maltrattamento grave) troveranno collocazione in una successiva deliberazione che inquadrerà complessivamente i servizi, le attività e il coordinamento nell’area della protezione minorile.

Trani: taralli fatti dai detenuti sono in vendita all’Ipercoop

 

Trani Informa, 12 marzo 2008

 

Fra tante notizie comparse in questi giorni, proponiamo per i nostri lettori una storia davvero straordinaria raccontata dal "Corriere del Mezzogiorno" e che vede protagonisti alcuni detenuti del carcere di Trani. I taralli della cooperativa "Campo dei miracoli" di Gravina, realizzati all’interno del carcere di Trani da sei detenuti, saranno venduti nelle Ipercoop di Andria, Barletta, Molfetta, Bari, Japigia e Santa Caterina.

Per ora il quantitativo commercializzato sarà di 30 kg a settimana. La produzione dei taralli - come racconta il Corriere - occupa sei detenuti che lavorano per conto della cooperativa "Campo dei miracoli". Per produrre i taralli sono stati impiegati carcerati con condanne definitive, o per lo meno, condannati in primo grado.

I sei detenuti ora producono taralli per due volte alla settimana, impiegando quattro ore al giorno. Ma è possibile che presto dedichino più tempo alla produzione. A sostenere l’idea di produrre taralli è stata la direttrice, Valeria Piré, che spiega al Corriere: "Abbiamo pensato a questo genere alimentare perché fortemente legato al territorio".

La Coop Estense, da parte sua, ha deciso di commercializzare questi taralli dopo aver compiuto verifiche di igienicità sui prodotti e sugli ambienti di produzione. Ai taralli fatti dai detenuti si è deciso di dedicare un apposito corner nei reparti vendita, per sottolineare il valore sociale del prodotto. Il progetto è stato presentato oggi nell’Ipercoop di Barletta.

Palermo: detenuto di 210 chili, è incompatibile con carcere

 

La Sicilia, 12 marzo 2008

 

Pesa duecentodieci chili e per lui, in tutta Italia, non c’è una cella abbastanza capiente: è grazie alla sua stazza, dovuta a una forma patologica di obesità, che Salvatore Ferranti, 36 anni, indagato con l’accusa di associazione mafiosa come appartenente ad uno dei clan fedeli ai boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, ha ottenuto gli arresti domiciliari. Lo ha deciso il tribunale del riesame di Palermo, che ha accolto la richiesta degli avvocati Raffaele Bonsignore e Giuseppe Giambanco.

La Procura, che aveva espresso parere contrario, non ha però fatto appello e la decisione non è più impugnabile in Cassazione. Per la vicenda Ferranti è stato il sistema carcerario, più che i magistrati, ad alzare bandiera bianca: il reato di associazione mafiosa prevede infatti sempre la custodia in un istituto penitenziario, a meno di gravissimi motivi di salute, E Ferranti non era considerato "ammalato", né a rischio.

I giudici hanno deciso però di concedergli i domiciliari perché nessuna delle quattro "case circondariali" che ha girato è stata in grado di assicurargli un trattamento che tutelasse e rispettasse la sua dignità umana. A Palermo, nel carcere di Pagliarelli, il primo in cui era stato rinchiuso, il 9 agosto scorso, con l’accusa di far parte della famiglia mafiosa di Torretta, non c’era una bilancia dalla portata adeguata al peso di Ferranti.

Il trasferimento a Pesaro aveva obbligato la direzione ad assegnare al detenuto un "piantone", che doveva occuparsi, notte e giorno, di aiutare Ferranti nelle sue necessità giornaliere, fisiologiche e di movimento.

La Spezia: giudice danneggia auto a collega, ripreso da TV

 

Il Giornale, 12 marzo 2008

 

Un giudice spezzino, noto per la sua severità, è finito sotto inchiesta dopo essere stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza a bucare, con un punteruolo, gli pneumatici dell’automobile di una collega. A scatenare il rancore, sarebbe stato un contrasto con la giudice, che si occupa di cause civili, per la composizione di una commissione, alcuni anni fa. L’episodio di danneggiamento, del quale scrivono stamani i quotidiani locali, risale ai mesi scorsi ma non sarebbe stato un atto isolato, perché la donna si era già trovata le gomme a terra. Proprio per questo, aveva sporto denuncia al tribunale di Torino, competente per i fatti che coinvolgono i magistrati liguri.

A far scattare l’indagine interna era stato un dettaglio preciso: il parcheggio sotto il tribunale non è aperto al pubblico ed è accessibile solo agli addetti ai lavori, come i giudici e i militari che accompagnano i detenuti. La notizia ha provocato sconcerto alla Spezia, dove i due protagonisti sono molto conosciuti. Il magistrato "vendicatore" rischia grosso, anche un trasferimento, poiché appare difficile che possa rimanere a operare accanto alla sua "vittima". In pericolo anche il delicato equilibrio dei procedimenti giudiziari spezzini: il magistrato compare in numerosi collegi giudicanti relativi a processi di spessore.

Diritti: Papa; è assurdo torturare detenuti per motivi ideali

 

Il Velino, 12 marzo 2008

 

"È assurda la condizione di chi viene torturato senza altro motivo se non le proprie convinzioni ideali, politiche e religiose", lo ha detto il Papa nel corso dell’udienza generale di oggi, indicando il martire Boezio come il simbolo di tutti coloro che come lui sono stati ingiustamente incarcerati o accusati e che "subiscono la stessa sorte a causa dell’ingiustizia presente in tanta parte della giustizia umana".

E ha aggiunto: "Ogni detenuto per qualsiasi motivo sia finito in carcere intuisce quanto sia pesante questa particolare condizione umana soprattutto quando essa è abbrutita come accadde a Boezio dal ricorso alla tortura". Boezio infatti era stato ingiustamente accusato di complotto contro il re Teodorico, condannato a morte e giustiziato. Benedetto XVI ha anche sottolineato come l’esperienza del carcere si sia rivelata per Boezio l’occasione di "distinguere tra i beni apparenti che nel carcere scompaiono, e anche le amicizie apparenti, e i beni veri che non scompaiono e l’amicizia vera. Il bene vero che non scompare è Dio".

Boezio ha anche imparato, continua il Papa, "a non cadere nel fatalismo che poi non ha più speranza: non governa il fato, la fortuna; governa la Provvidenza. E la provvidenza ha un volto, con la Provvidenza si può parlare perché Dio è la Provvidenza e così anche nel carcere gli rimane la possibilità della preghiera, del dialogo con Colui che ci salva".

Insegna Boezio: "Combattete i vizi, dedicatevi a una vita virtuosa orientata dalla speranza che spinge in alto il cuore fino a raggiungere il cielo con le preghiere nutrite di umiltà. L’imposizione che avete subito può tramutarsi, qualora rifiutate di mentire, nell’enorme vantaggio di avere sempre davanti agli occhi il giudice supremo che vede e sa come stanno veramente le cose".

Immigrazione: record di arrivi in Sicilia, 36 morti in Europa

 

http://fortresseurope.com, 12 marzo 2008

 

Sono 36 i migranti e rifugiati morti lungo le frontiere europee nel mese di febbraio: 24 vittime al largo delle coste marocchine, due in Spagna, uno a Ceuta e sei in Algeria lungo le rotte per la Sardegna. In Egitto si torna a sparare: tre richiedenti asilo ammazzati dalla polizia di frontiera sul Sinai. La Libia firma un accordo con Malta, dopo quello con l’Italia, e apre al negoziato con l’Ue per un accordo quadro, mentre è allarme per i 200 rifugiati eritrei rimpatriati da Kufrah. In Algeria finiscono in manette un prete francese e un medico algerino mentre assistevano dei migranti nelle baracche di Maghnia. Intanto dalla Francia parte il primo rimpatrio collettivo verso il Pakistan e Bruxelles dà il via libera all’entrata in vigore dell’accordo di riammissione tra Ue ed Ucraina.

I faraoni. L’hanno ammazzata alle spalle. Non aveva più di trent’anni. Stava tentando con un gruppo di dieci eritrei di scavalcare la barriera di filo spinato lungo la frontiera con Israele. Ma la polizia egiziana ha sparato. La donna è morta sul colpo. Altre tre persone sono state ferite. I cinque bambini si sono salvati. Era il 25 febbraio 2008. È la sesta vittima dall’inizio dell’anno, dopo i tre morti dell’estate scorsa. Cambiano le rotte. E cambiano i carnefici. Ma le vittime sono sempre le stesse. Sudanesi, eritrei, ivoriani. Ormai quella del Sinai è una frontiera bollente. Dati ufficiali del governo israeliano parlano di 7.500 migranti transitati irregolarmente dal confine egiziano nel 2007. Più di mille solo nelle scorse settimane. La maggior parte sono eritrei, ma anche sudanesi dal Darfur e ivoriani. Detenuti da mesi nei campi di detenzione del sud del Paese, ormai sovraffollati, adesso rischiano tutti l’espulsione. Tel Aviv ha infatti recentemente deciso di deportare il maggior numero di persone in Egitto, lo stesso paese, dove il 30 dicembre 2005, ben 4.000 agenti in tenuta antisommossa assaltarono 3.500 sudanesi disarmati che da tre mesi erano accampati in segno di protesta nel parco "Mustafa Mahmoud" del quartiere residenziale di Mohandessin, al Cairo, a poche centinaia di metri dagli uffici dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Fu una strage. In mezzo ai 25 cadaveri contati a fine giornata, venne trovato anche quello di una bambina di 4 anni.

Amara Asmara. Per gli eritrei non va meglio in Libia. A Misratah continua, da ormai due anni, il calvario dei 600 esuli detenuti e in attesa di espulsione. Mentre da Kufrah, nel sud della Libia, 200 eritrei sono stati rimpatriati a metà febbraio verso l’Eritrea. Della notizia, non confermata, sono sicuri gli eritrei romani. Sette famiglie hanno confermato il rimpatrio dei figli, che sarebbero finiti in galera, nella località di Wea, vicino ad Assab. Un cittadino eritreo impiegato all’aeroporto di Asmara avrebbe confermato la notizia. Che sarà di loro? Le testimonianze dei deportati del video "Eritrea - Voice of Tortures" non lasciano dubbi. Per loro sarà la tortura nel migliore dei casi; la morte nel peggiore. E viene da chiedersi chi abbia pagato quel volo. Strano che la Libia abituata ad abbandonare i migranti in mezzo al deserto investa tanto denaro per un volo diretto per Asmara. Ha pagato l’Italia? La domanda è legittima, visto che nel 2004 l’Italia pagò il rimpatrio di 109 eritrei dalla Libia. Ma per il momento rimarrà senza risposta. Di sicuro l’Italia ha stanziato 6.243.000 euro alla Guardia di Finanza per il pattugliamento congiunto in Libia. L’accordo bilaterale del 29 dicembre 2007 è stato ratificato dal governo libico il 19 febbraio e a breve sarà operativo. Il 27 gennaio la Libia ha firmato un accordo di cooperazione per il soccorso in mare con Malta. E da Bruxelles l’Unione europea ha aperto il negoziato per un accordo quadro con Tripoli. Notizie che non devono essere sfuggite ai dallala (gli organizzatori delle traversate), dato che a febbraio si è registrato un record nel numero di arrivi sulle coste siciliane: 1.855 contro i 355 del febbraio 2007. Tutti vogliono fare presto. I dallala perché se i pattugliamenti funzioneranno rischiano di perdere un sacco di soldi. E i richiedenti asilo perché se i pattugliamenti funzioneranno rischiano di perdere la vita.

Sequestro di persona. Chiedevano tempi più celeri per il riconoscimento dell’asilo politico, adesso saranno processati per direttissima con l’accusa di sequestro di persona. Succede anche questo in Sicilia, nel centro di identificazione di Cassibile. I fatti risalgono al 23 gennaio. Intorno alle dieci del mattino un gruppo di 110 eritrei occupa per protesta il cortile antistante il cancello dell’ingresso, impedendo di fatto l’uscita di un infermiere e due operatori sociali dell’ente gestore Alma Mater. Fanno parte di due gruppi. Il primo sbarcato il 30 ottobre a Portopalo, l’altro arrivato ad Agrigento il 23 Novembre del 2007. Dopo tre mesi di trattenimento, le prime convocazioni sono iniziate soltanto il 21 gennaio. Dopo la prima udienza, il processo è stato aggiornato al 23 maggio. L’accusa propone il patteggiamento a una condanna di 2 mesi e 20 giorni con la condizionale. Se la manifestazione, durata soltanto due ore, era pacifica e legittima poco importa. In Italia gli stranieri non hanno diritto di parola. E non solo in Italia, a giudicare dalle proteste che da mesi animano alcuni campi di detenzione francesi a Vincennes, vicino Parigi: scioperi della fame e insubordinazioni puniti con pestaggi e espulsioni. Un’associazione è in contatto telefonico con i detenuti. Sul sito di Migreurop-Pajol potete leggere gli aggiornamenti.

Amen. Un anno di carcere con la condizionale. Pierre Wallez non avrebbe mai immaginato che una preghiera potesse costargli tanto cara. Ma succede anche questo in Algeria. Per una volta però il terrorismo islamico non c’entra. La colpa è dei camarades, come gli algerini chiamano i neri che attraversano senza documenti il Paese alla volta del Marocco per poi imbarcarsi per la Spagna. Il 26 dicembre scorso, il prete francese, cattolico, aveva celebrato una preghiera di Natale tra i fedeli di una baraccopoli alle porte di Maghnia, una città algerina a pochi chilometri dalla frontiera marocchina. Ci vivono centinaia di migranti sub-sahariani in transito verso il Marocco, diretti a Ceuta e Melilla. E ci trovano rifugio i migranti che le forze armate marocchine deportano ogni giorno dall’altro lato della frontiera, anche nelle ultime settimane, abbandonandoli a se stessi in una terra di nessuno. Wallez non era uno sconosciuto nel campo. Visitava i baraccati da otto anni, cercando di dare loro un aiuto. Quella del 26 dicembre è rimasta la sua ultima visita. Il 9 gennaio è stato arrestato. Il tribunale di Oran, lo ha condannato "per celebrazione di un culto in un luogo non riconosciuto dal governo", un reato introdotto da un’ordinanza presidenziale sulla regolamentazione dei culti non musulmani risalente al 28 febbraio 2006. Un anno di carcere con la condizionale e una multa di 200.000 dinari algerini, l’equivalente di circa 2.000 euro. Un’acrobazia giuridica per condannare la solidarietà. Lo prova il fatto che ad essere stato condannato non è stato soltanto il prete. Con lui quel giorno c’era un medico algerino. Anche lui è finito sotto processo. I giudici gli hanno inflitto due anni di carcere e la stessa multa di Wallez con l’accusa di aver sottratto dei farmaci dal centro sanitario di Maghnia con i quali aveva curato i malati delle baracche

C’era una volta Dublino. La Norvegia ha sospeso la Convenzione di Dublino II con la Grecia. Tutti gli ordini di riammissione di richiedenti asilo verso la Grecia sono congelati. La Grecia è accusata di violare i diritti dei rifugiati. Il regolamento Dublino II stabilisce che lo Stato membro responsabile della richiesta d’asilo politico di un cittadino di un paese terzo, è il primo Stato dove il cittadino ha fatto ingresso nell’Ue. Il regolamento è in vigore dal settembre 2003, sostituisce la convenzione di Dublino del 1990 ed è applicato in tutti i paesi dell’Ue, in Norvegia e Islanda, con tempi di attesa che possono arrivare fino a 18 mesi. Tuttavia, ignari del regolamento, molti richiedenti asilo attraversano nella clandestinità tutta l’Europa dopo essere passati dalla Grecia, per raggiungere familiari in altri Stati o per godere del migliore welfare dei paesi scandinavi. Il rapporto Pro Asyl dell’ottobre 2007 denuncia sistematici respingimenti collettivi alle frontiere con la Turchia e episodi di abusi e torture nei campi di detenzione sulle isole greche dell’Egeo. Accuse confermate da un’inchiesta della sezione turca di Amnesty International: 13 richiedenti asilo afgani, otto dei quali minorenni, accusano la Guardia costiera greca di essere stati respinti in Turchia al largo dell’isola di Mytilene il 7 gennaio 2008. I due ragazzi più piccoli, di 9 e 13 anni, hanno dichiarato di essere stati costretti a togliersi i vestiti e lasciati in mutande. Telefonini e soldi sono stati sequestrati. Le poche borse sono state aperte con dei coltelli per ispezionarne il contenuto. E i rifugiati sono stati costretti a ritornare verso le coste turche a rischio della propria vita, dato che i due gommoni su cui viaggiavano erano stati forati dagli agenti della Guardia costiera greca.

Caos a Patrasso. In tutto questo, mentre la Norvegia indaga, l’Italia continua a respingere rifugiati in Grecia. Soltanto dal porto di Ancona a febbraio i respinti sono stati almeno 92 secondo le nostre informazioni. Li rimandano a Patrasso. E a Patrasso intanto continuano arresti e deportazioni. Dopo il blitz di gennaio, la polizia ha sospeso la distruzione del campo dove vivono almeno 700 rifugiati, tra afgani e kurdi, dopo la manifestazione del 30 gennaio, che ha visto la partecipazione di 4.000 persone. Ma gli arresti continuano, sebbene in modo meno eclatante. Secondo i rapporti delle associazioni greche, una cinquantina di persone al giorno sono arrestate per strada e nei dintorni del porto e inviate ad Atene. Nella capitale, dopo alcuni giorni di detenzione, sono rilasciati con un ordine di espulsione. Secondo altre fonti invece molti rifugiati sarebbero stati trasportati nei centri di detenzione alla frontiera nord orientale con la Turchia, in particolare a Filakio e Venna, in attesa di essere espulsi in Turchia. "Un mondo a Colori" è andato a Patrasso, vi consigliamo il video.

Europa - Pakistan solo ritorno. È partito il 13 febbraio da Parigi il primo volo charter comunitario di espulsi pakistani detenuti in diversi Paesi europei. Un unico volo per tutti. In nome dell’efficienza e del risparmio. Con scali in Inghilterra, Olanda, Spagna e Slovenia. La notizia è stata diffusa dall’associazione francese Cimade. L’aereo è partito dalla Francia con 27 cittadini pakistani e 75 poliziotti. E si è riempito negli altri Paesi. "Una espulsione collettiva", denuncia la Cimade, contraria all’articolo 4 del Quarto protocollo della Convenzione europea sui diritti umani. A maggior ragione vista la situazione politica del Pakistan. "Andate a domandare alle vittime degli attentati della campagna elettorale se il Pakistan è un Paese sicuro! - ha dichiarato il presidente della Ligue des droits de l’Homme (Ldh), Jean-Pierre Dubois - Chi ha firmato gli atti di espulsioni non ci spedirebbe certo i propri bambini". Dubois dice tutto: "Ci sono due standard di protezione e di diritto alla vita: uno per gli europei e un altro per gli indesiderabili". Non c’è molto altro da aggiungere. L’ipocrisia si commenta da sola. Che dire dei 53,4 milioni di euro con cui l’Ue sosterrà il contrasto all’immigrazione clandestina in Turchia, quando la Turchia i suoi clandestini li bombarda! E già perché ad attraversare le montagne del Kurdistan turco, oggi teatro della guerra dell’esercito turco contro il Pkk, sono i profughi kurdi in fuga dall’Iraq, gli esuli afgani e iraniani. Fossero bianchi li chiamerebbero rifugiati.

Il mare di mezzo. Lungo le frontiere i rifugiati non ci sono. E se ci sono, da Bruxelles non si vedono. Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, 29 gennaio 2008. Pagina 24: "L’accordo di riammissione tra l’Unione europea e l’Ucraina è entrato in vigore". L’Ucraina non è un paese sicuro. Lo dice il duro rapporto di Human Rights Watch "On the Margins" e lo ribadisce il rapporto Ecre. L’allarme è per i rimpatri dei rifugiati ceceni, uzbeki e pakistani. Ma da Bruxelles non si vedono rifugiati. Con la distanza della burocrazia diventano tutti clandestini. In una comunicazione della Commissione europea del 13 febbraio 2008 sulla "valutazione e il futuro sviluppo dell’agenzia Frontex", la parola rifugiato non compare nemmeno una volta in 12 pagine. Il che è tutto un dire. La comunicazione informa che "Frontex ha concluso accordi di lavoro volti a stabilire una cooperazione a livello tecnico con le polizie di frontiera in Russia, Ucraina e Svizzera. Le negoziazioni sono a buon punto anche con la Croazia. E il Consiglio di amministrazione ha dato mandato di negoziare ulteriori accordi con la Macedonia, Turchia, Egitto, Libia, Marocco, Mauritania, Senegal, Capo Verde, Moldavia e Georgia".

Lungo le frontiere i rifugiati non ci sono e non ci sono nemmeno i minori. Almeno a giudicare dalle continue deportazioni di minorenni da Ceuta verso il Marocco, per le quali l’ex governatore è finito sotto processo. Lungo le frontiere non ci sono in generale soggetti deboli, ma soltanto orde di barbari. Così il Mediterraneo, il "mare di mezzo" da un mare che univa diventa sempre più un mare che divide, da via di comunicazione a barriera difensiva, con il rischio di far saltare il processo di Barcellona per il partenariato euromediterraneo. Dopotutto l’unica cooperazione euromediterranea che i governi riescono ad immaginare oggi è quella per il contrasto all’immigrazione anziché quella per lo sviluppo economico dell’intera area.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva