Rassegna stampa 15 maggio

 

Giustizia: il Quirinale; "no" a norme penali in decreto-legge

di Claudio Sardo

 

Il Messaggero, 15 maggio 2008

 

Al Viminale si lavora per definire il pacchetto sicurezza da presentare al Consiglio dei ministri di Napoli, mercoledì prossimo. Tante le aspettative create. Troppe le misure annunciate dagli stessi esponenti della maggioranza (alcune sono state già smentite o ridimensionate). Ma gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e del ministero dell’Interno non devono vedersela solo con le sortite e i rilanci interni alla coalizione. Ci sono anche due robusti paletti, posti a suo tempo dal Quirinale. Paletti con i quali dovette già fare i conti il predecessore di Maroni, Giuliano Amato, e che costarono al governo Prodi la riscrittura di precedenti provvedimenti sulla sicurezza.

Ancora il nuovo governo non ha presentato alcuna bozza a Giorgio Napolitano. Dovrà farlo con almeno un paio di giorni d’anticipo, se vorrà varare mercoledì un decreto-legge. Ma le "condizioni" del Quirinale sono ben note. La prima è il rispetto della normativa e dei trattati europei. Insomma, nessuna sospensione unilaterale del trattato di Schengen, se mai qualcuno l’aveva davvero progettata. La seconda condizione è il rispetto della Costituzione e della giurisprudenza della Consulta, che ha posto limiti severi alla decretazione d’urgenza su materie penali.

Il governo deve tener conto soprattutto di questo punto, se vuole evitare una tensione con il Quirinale. Le modifiche del Codice penale o di norme penali contenute in altre leggi dovranno passare, insomma, in prevalenza attraverso un disegno di legge e non un decreto. Ormai pare certo che il pacchetto del governo comprenderà sia il ddl che il decreto.

Bobo Maroni ha anche precisato che questo ddl godrà di una "corsia privilegiata". E l’opposizione ha assicurato che non ritarderà i tempi. Nel ddl, e non nel decreto, finirà così il reato di immigrazione clandestina (o meglio, la rielaborazione che gli uffici stanno studiando) e l’aumento delle pene per alcuni reati. Il decreto potrebbe concentrarsi invece sull’attuazione della Bossi-Fini, intervenendo sui Cpt, sui ricongiungimenti familiari e su altre norme amministrative.

Giustizia: il nuovo ministro? è già "con le mani nei capelli"!

di Francesco Bonazzi

 

L’Espresso, 15 maggio 2008

 

Costruire carceri per l’ondata record di detenuti, trovare soldi per i processi, mediare con le toghe. E rimandare nei tribunali tutti i magistrati in servizio al ministero. Ecco i piani di Angelino Alfano.

Sabato sera, il primo divieto di tornarsene a Palermo con un normale volo di linea. Domenica, la notizia che il suo appartamento romano di Via del Paradiso, a un passo da Campo dei Fiori, va svuotato e abbandonato il più in fretta possibile perché totalmente indifendibile. Nel suo primo fine settimana da guardasigilli, archiviate pacche e buffetti, Angelino Alfano ha dovuto subito fare i conti con una realtà meno pacioccona: la sua dorata giovinezza di avvocato della Palermo-bene è finita. L’essere nato e cresciuto nella regione che ha regalato al mondo anche Cosa nostra lo inserisce per la prima volta nella lista dei soggetti a rischio attentato.

Il leghista Castelli, per dire, girava tranquillo sugli aerei normali e non aveva problemi di sicurezza perché era di Lecco. Clemente Mastella usava la scorta più che altro per arginare i clienti a caccia di raccomandazioni e favori vari. Invece Alfano, che le raccomandazioni dice di respingerle e in televisione affermò che "la mafia fa schifo", già vive mezzo segregato. Deve chiedere il permesso alla scorta della polizia penitenziaria anche per un semplice aperitivo palermitano da Spinnato, in via Principe di Belmonte. Ed è solo l’inizio, perché i costi politici e finanziari del pacchetto sicurezza, preparato dall’avvocato personale di Berlusconi Gustavo Ghedini, ricadranno interamente sulle spalle del ministro di Giustizia.

Il quale, oltre ad averne appreso i contenuti praticamente dai giornali, dovrà far fronte a una nuova ondata di detenuti entro l’estate, con le patrie galere che sono tornate a rigurgitare di esseri umani già da qualche mese. Poi ci sarebbe da cominciare a regolare un po’ di conti con i magistrati, da sempre poco amati dalle parti di Arcore, ma presenti in massa al ministero di via Arenula. Alfano sta pensando di rimandarli tutti a lavorare nei tribunali e questo scatenerà la prima guerra con la casta togata, che a quelle poltrone ministeriali tiene tanto.

Il rischio di un agosto con le carceri in rivolta è già stato prospettato ad Alfano dai vertici del Dap, l’amministrazione penitenziaria, nei primi incontri informali. "Niente spargimenti di sangue all’ora dell’aperitivo", consigliava Fabrizio De André ai ministri degli Interni democristiani. Niente rivolte in carcere a Ferragosto, si potrebbe consigliare oggi a chi deve reggere il dicastero della Giustizia.

Il problema è che le cifre consegnate al giovane ministro sono terribili: "Galera Italia" ospita 52.850 persone, contro i 43.149 posti letto ammessi dalle leggi. Insomma, il ministero è responsabile di un’illegalità che grava innanzitutto sui detenuti, e in secondo luogo sui 41.000 "secondini" (il cui tasso di suicidi sfiora ormai quello dei detenuti). Insomma, è già ampiamente sfumato l’effetto di quell’indulto voluto dal centrosinistra nella scorsa legislatura, e cattolicamente votato anche dai deputati di Forza Italia. Ghedini e Alfano compresi, naturalmente.

L’impatto carcerario dell’annunciato pacchetto-sicurezza, che nel giro di un paio di mesi potrebbe essere operativo, non è stato ancora calcolato. Ma stime che circolano nell’ambiente giudiziario parlano di 10 mila detenuti in più entro fine anno. In massima parte saranno extracomunitari clandestini, ma molte migliaia saranno italiani che perderanno i benefici della legge Gozzini e dovranno rimanere in cella, anziché scontare la pena in altri modi. Servirebbero tanti soldi e nuove carceri, ma i tentativi di costruirle in leasing ai tempi di Castelli naufragarono di fronte alle inchieste giudiziarie sui personaggi ai quali il ministro s’era affidato.

Ora, con scelta di tempo perfetta, i consulenti britannici di Kpmg hanno già spedito in via Arenula un dettagliato dossier nel quale si spiega che "l’unico sistema per risolvere il drammatico problema del sovraffollamento è affidare la costruzione di nuovi penitenziari a operatori privati e ricorrere al project financing". Loro hanno ovviamente tanto gli operatori quanto i capitali privati, anche se per fare lobby si sono affidati all’ex banchiere socialista Gianfranco Imperatori. Alfano studierà e deciderà con la sua testa, certo.

Forse non avrà il coraggio di passare alla storia come il primo ministro che privatizzò la pena, spaventato dal prevedibile fuoco di sbarramento della magistratura, ma intanto gli piace l’idea di vendere le vecchie galere in centro città e di costruirne di nuove e più grandi in periferia. Incubi umanitari come San Vittore e Regina Coeli si trasformeranno in complessi residenziali da sogno (e da 5 mila euro al metro quadro in su), però i furbetti del quartierino sono già avvertiti: Alfano farà gare d’appalto europee. Insomma, per fare i soldi con le sbarre bisognerà essere minimo euro-furbetti. E se per avere qualche soldo fin da subito servirà cartolarizzare gli edifici e ricoprirli di pubblicità sulle mura esterne, il ministro-ragazzino non si tirerà indietro.

Certo, i soldi sono sempre il primo problema della giustizia italiana, nota in tutto il mondo per la lentezza disumana (la prova è che circa il 70 per cento dei carcerati è ancora in attesa di giudizio). E lunedì 12 maggio, Alfano ha subito voluto affrontare il tema in un primo incontro riservato con il ministro Giulio Tremonti. Il guardasigilli è convinto che Mastella non gli abbia lasciato in cassa un euro e ha chiesto al collega nientemeno che una due diligence sui conti di via Arenula. Non è che servano gli ispettori di via XX Settembre per scoprire che i processi sono infiniti perché mancano perfino i soldi per le notifiche o per gli straordinari dei cancellieri.

Però l’idea della due diligence dev’essergli sembrata un bel colpo d’immagine, specie alla vigilia di una stagione che si preannuncia assai calda. Certo, ci sarebbero i 60 milioni di euro della Cassa delle ammende gelosamente custoditi dal numero due del Dap, Emilio Di Somma, e in gran parte inutilizzati. Ma poi chi li sente i tanti operatori del non profit che ottengono le briciole di quel tesoretto per i loro progetti di recupero a favore dei detenuti?

Insomma, Alfano si è già messo le mani nei pochi capelli. E anche all’incontro di martedì 13 sul pacchetto sicurezza con La Russa, Frattini e Maroni, andato in scena mentre gli agenti della penitenziaria sbaraccavano casa Alfano, il ministro della Giustizia ha parlato di soldi. Soldi che non può mettere tutti lui e che comunque non ci sono proprio.

L’altra grande occasione nella quale si vedrà quanto conta davvero è la prevedibile battaglia con la magistratura. Il ministro-ombra Ghedini la scatenerebbe volentieri dal primo giorno, spingendo al massimo sulla separazione delle funzioni. Basta rendere talmente complicato e dannoso il passaggio tra pm e giudice per realizzare in modo surrettizio la famigerata separazione delle carriere. Alfano, invece, sarà assai più prudente e graduale. L’esperienza di ex segretario giovanile della Dc in Sicilia gli ha insegnato a guardarsi dalle trappole degli amici.

Più recentemente, la lunga guerra di posizione per colpire e affondare la leadership isolana di Gianfranco Miccichè gli ha insegnato pazienza e lungimiranza. Se avrà davvero la possibilità di dettare l’agenda giustizia, Alfano comincerà da un piccolo gesto che sembra simbolico, ma che simbolico non è: la restituzione al Csm di quegli 80 magistrati che "assistono" il Guardasigilli in Via Arenula. Con il clima da assalto alle caste che c’è in Italia, la loro difesa da parte del sinedrio di Palazzo dei Marescialli non sarà né facile né popolare.

Alfano, intanto, manderà così un segnale ben preciso a tutte le toghe: al ministero comanda solo e soltanto la politica. Quanto alle carriere, il ministro ha già spiegato ai collaboratori più stretti che farà di tutto per non consentire più certe furbate che stanno accadendo in molte città. Dove i procuratori capo giunti a fine mandato si scambiano la sedia con il procuratore generale della stessa città, al solo scopo di aggirare la riforma Mastella sulla rotazione degl’incarichi.

Sul fronte mafia, Alfano sarà un sorvegliato speciale per il solo fatto di essere siciliano e il primo campo di prova sarà il regime di carcere duro noto come 41-bis. Da uomo di legge, sa perfettamente che si tratta di un abominio giuridico. Ma da persona concreta sa anche che è un male necessario, vista l’anomalia tutta italiana delle tante e fortissime mafie. E allora, che fare?

Ironia della sorte, il suo primo atto è stato proprio la firma di alcuni provvedimenti di 41-bis che Mastella non aveva potuto smaltire. L’ha fatto di slancio, ma si è già reso conto che il sistema fa acqua da tutte le parti. Introdotto subito dopo le stragi Falcone-Borsellino, il 41-bis era appeso a decreti legge che scadevano continuamente.

A farlo diventare legge dello Stato, sottraendo un tema così velenoso alle varie campagne elettorali, è stato il centrodestra nel suo penultimo governo. E si tratta di un grande vanto di Berlusconi in materia di lotta alla mafia. A conti fatti, però, da quando il 41-bis è legge, il numero dei boss sottoposti al carcere duro è diminuito di molte decine perché i provvedimenti sono impugnabili più facilmente. Così, al primo deputato forzista che ebbe il coraggio di dire che la mafia fa schifo, toccherà risolvere il dilemma di una legge-feticcio che funziona all’incontrario.

Giustizia: la clandestinità sarà reato, ma solo per chi delinque

 

Il Corriere della Sera, 15 maggio 2008

 

Una clausola "salva-badanti" per sciogliere il nodo del reato di immigrazione clandestina da introdurre nel pacchetto sicurezza. È l’ipotesi a cui stanno lavorando i ministeri interessati al provvedimento (Interno, Giustizia, Difesa, Esteri e Politiche comunitarie) che sarà approvato nel Consiglio dei ministri in programma mercoledì prossimo a Napoli, come ha ribadito oggi il premier Berlusconi.

Reato clandestinità solo per chi delinque - Il reato di ingresso clandestino prevederebbe l’arresto in flagranza, il processo per direttissima, una pena da 6 mesi a 4 anni e l’espulsione immediata. Il clandestino attenderebbe così il processo o l’espulsione in carcere o nei Cpt, con conseguente ingolfamento dei luoghi di detenzione ed allungamento dei tempi di permanenza. Per ovviare a questi problemi si pensa a limitare il reato di immigrazione clandestina solo per coloro che delinquono, tenendo fuori invece l’esercito di colf, badanti e lavoratori extracomunitari irregolari. Per evitare poi un aggravio di lavoro ai magistrati si starebbe poi ipotizzando una serie di agevolazioni processuali, tra cui la riproduzione fonografica, così da risolvere il problema della verbalizzazione senza ricorrere ai cancellieri.

Si impone svolta profonda - Berlusconi ha annunciato una "svolta profonda nelle politiche sulla sicurezza". Il Governo, comunque, ha assicurato, "non adotterà mai svolte repressive, incompatibili con la nostra tradizione liberale, attenta ai servizi civili di ogni essere umano, prima ancora che alle regole alle quali ci vincola la convivenza in Europa. Garantiamo però - ha aggiunto - che nell’ambito di queste tutele agiremo con tutta la durezza e la severità che si impongono per difendere soprattutto i cittadini più deboli e per colpire quella vasta criminalità che purtroppo constatiamo esistere nel nostro paese".

Decreto e disegni di legge - Gli uffici legislativi dei ministri coinvolti, Interno e Giustizia in primis, stanno lavorando a tappe forzate al provvedimento. Il primo nodo è quello di definire cosa andrà nel decreto legge - diventando così immediatamente operativo - e cosa nei disegni di legge collegati, che avranno comunque corsia preferenziale in Parlamento. "Vedremo anche - ha detto Maroni - il presidente della Repubblica e sentiremo cosa secondo lui ha carattere di necessità e urgenza e cosa no". Tra le misure che potrebbero andare nel decreto sul fronte contrasto all’immigrazione ci sono - oltre al reato di immigrazione clandestina - la reintroduzione del visto anche per motivi di turismo per gli extracomunitari; una stretta sui ricongiungimenti familiari allargati dal precedente Governo: saranno limitati a coniugi e figli (sembra invece poco praticabile la via dell’esame del dna); restrizioni in vista anche sull’asilo; l’allungamento a 18 mesi dei tempi di trattenimento degli immigrati nei Cpt, con l’apertura di un Centro per regione.

Giro vite contro reati allarme sociale - Il pacchetto conterrà poi una serie di misure contro i reati che causano allarme sociale, con l’introduzione, ad esempio, del reato di rapina in abitazione; maggior severità, con aumento dei minimi di pena, per violenze sessuali, scippi, maltrattamenti dei minori; giro di vite alla legge Gozzini sui benefici carcerari e alla sospensione condizionale della pena.

Giustizia: il magistrato; aiutiamo governo a scrivere riforme

di Fabio Fiorentin (Giudice presso il Tribunale di Sorveglianza di Torino)

 

www.radiocarcere.com, 15 maggio 2008

 

 

La questione della giustizia agita da tempo la vita politica italiana, caratterizzata fino a tempi recentissimi per una contrapposizione dai toni aspri, a tratti drammatici, tra politica e magistratura sul tema delle riforme della giustizia, in un clima avvelenato da reciproci sospetti e pregiudizi, che hanno largamente contribuito a rendere impossibile un confronto serio e pacato sulle riforme da realizzare e a zittire le persone di buona volontà dall’una e dall’altra parte, messe all’angolo dalla logica del "muro contro muro", che non ammette ragionamenti né distinguo.

Ne è nata una stagione di leggi varate senza confronto con coloro che sarebbero stati chiamati poi ad applicarle nella realtà quotidiana (il che è come fare la riforma della sanità senza sentire il parere dei primari ospedalieri), con intenti - in parte - punitivi, e ne è derivata una speculare reazione della magistratura di pregiudiziale chiusura a riccio (la politica dei "no" ad oltranza e degli scioperi "contro") su qualsiasi ipotesi di riforma che mutasse l’assetto vigente.

Ora si apre una nuova stagione, dove uomini nuovi e nuove idee si presentano sulla scena politica e istituzionale, apprestandosi a intraprendere il cammino delle riforme che si giudicano necessarie: un ministro della giustizia giovane e con una mentalità moderna e non legata agli stereotipi del passato; una magistratura profondamente rinnovata nei suoi componenti, che negli ultimi anni ha visto il numero delle donne magistrato superare quello degli uomini, e il rilevante numero dei giudici giovani entrati in servizio portare idee nuove ed un modo nuovo di intendere la professione del magistrato.

Le ultime elezioni dell’Anm, non ha caso, hanno visto la storica affermazione dei gruppi apertamente contrari ad ogni logica politica e "militante" della magistratura, portatori di ideali moderati e più attenti agli aspetti concreti della professione che inclini a sostenere irrealistiche visioni non più in linea con i tempi.

Si profila la possibilità di un incontro tra mentalità e persone giovani, un’ occasione storica, forse l’ultima, per pensare una riforma della giustizia in grado di funzionare effettivamente e di portare risultati sul piano dei tempi dei processi e dei risultati in termini di certezza della pena, così come chiedono i cittadini, e tale che possa durare oltre lo spazio della legislatura che ora nasce. Ma su alcuni punti occorre chiarezza.

Quali interventi fare, quali riforme introdurre, è prerogativa del governo stabilirlo. Nella fase della manifestazione dell’indirizzo politico nulla vieta certamente di cogliere i suggerimenti degli operatori sulla direzione da imprimere al cammino riformatore, ma ciò non implica un dovere del governo di previa consultazione di tali soggettività né un potere di veto preventivo di queste ultime.

Le riforme devono poi essere tradotte in disegni di legge. E qui certamente la magistratura può esercitare un ruolo indispensabile, di fattiva collaborazione con il legislatore, suggerendo la migliore via sul piano tecnico per la realizzazione degli obiettivi prefissati dalla politica. Il caso che viene immediatamente alla mente, quale esempio in cui potrebbe proficuamente esercitarsi questa collaborazione, è il punto più aspro di scontro: la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri.

Che si debba fare è il programma proposto dall’attuale governo che gli elettori hanno votato a larga maggioranza. La contrarietà della magistratura associata è nota, ma la scelta politica può legittimamente indirizzarsi diversamente. Lo stesso vale per la questione della competenza a giudicare sulla responsabilità disciplinare dei magistrati, che il programma di governo intende "esternalizzare" ad un organo di garanzia dai contorni ancora incerti.

Anche qui i timori della magistratura per il rischio di un uso punitivo di tale meccanismo sono comprensibili. Ma il punto di incontro tra le scelte di indirizzo politico e i soggetti chiamati ad applicare le leggi che ne saranno il prodotto deve essere trovato sul piano della concreta realizzazione degli strumenti normativi, e dunque sul "come" le riforme in programma si possano concretamente realizzare.

E qui è opportuno che sia la magistratura a suggerirlo, poiché sotto il profilo tecnico è necessario che siano gli operatori a preparare la legge. È il buon senso prima ancora che l’opportunità di non rinnovare uno scontro esiziale tra istituzioni a suggerirlo. È il dovere che la nuova generazione di politici e magistrati, sui quali inevitabilmente ricadranno gli effetti delle future riforme, ha verso il Paese.

Giustizia: la legge "Gozzini" è l’unica medicina che funziona

di Giorgio De Neri

 

L’Opinione, 15 maggio 2008

 

Prima di lanciarsi un po’ demagogicamente all’assalto della legge Gozzini, maggioranza e opposizione, ossia il ministro vero Angelino Alfano e quello ombra del Pd, Lanfranco Tenaglia, farebbero bene a leggersi i numerosi studi del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che dimostrano come la recidiva sia più che tripla tra ex detenuti che non abbiano mai beneficiato di provvedimenti premiali rispetto a quelli che invece vi sono stati ammessi.

Lo studio più recente è del maggio di un anno fa e riguardava le persone scarcerate dopo l’indulto a nove mesi dal voto di quest’ultimo. I detenuti usciti per il tanto biasimato indulto del primo agosto 2006 (se non lo si fosse votato oggi avremmo in galera circa 90 mila persone. dove c’è posto per meno di 43 mila) erano stati 26.210.

Di essi il 9 maggio del 2007 ne erano rientrati solo 4.428 pari al 16,89%. Se si calcola che il tasso di recidiva media supera il 50%, se ne deduce che anche chi ha usufruito dell’indulto tende a non ricascarci, dato che la percentuale è un terzo di quella normale. Ma c’è di più di quei 4.428 che erano tornati in carcere dopo essere stati liberati per via dell’indulto, solo l’11,90% era composto da soggetti che usufruivano di misure alternative di detenzione.

Insomma come la si gira la si gira, la legge Gozzini più che criminogena, così come rappresentata dai media che fanno allarmismo per vendere qualche copia in più è un deterrente per il ripetersi dei reati. E non a caso quando l’Unione delle camere penali, poco prima delle elezioni di aprile, organizzò un convegno su questi argomenti si scomodò proprio il numero due del Dap, Emilio di Somma, magistrato, per perorare la causa della Gozzini.

Che peraltro, se fosse abolita, riporterebbe in galera qualcosa come 50 mila persone, quasi tutte reinserite nella società. Le quali andrebbero ad aggiungersi alle quasi 53 mila già presenti a tutt’oggi. Ma il dato di questa ricerca sugli effetti dell’indulto è confermato anche da indagini più datate, come quella svolta nel 2006 da Fabrizio Leonardi, direttore dell’Osservatorio per le misure alternative presso la direzione generale dell’esecuzione penale esterna.

L’indagine aveva per oggetto la percentuale di quelli che terminata la misura alternativa al carcere nel periodo di sette anni dopo il 1998 e quindi entro il 2005 erano tornati a delinquere. E anche in quel caso il tasso di recidiva non superava il 19%. Contro il 50-55% di media della recidiva per chi la pena la sconti tutta in galera. D’altronde la percezione di chi viene affidato in prova, da Previti in giù, non è quella di una piena libertà ma di un periodo, per l’appunto, di prova. E per i tossicodipendenti, inoltre, sono previsti continui esami, due volte a settimana di media, delle orine e del sangue per essere sicuri che non sono tornati a drogarsi.

Per concludere, dall’esame dello studio di via Arenula, su indulto e recidiva esce fuori un altro dato destinato a sfatare il luogo comune che siano gli extra comunitari a delinquere di più e a detenere il record sulla recidiva: dei 26.210 detenuti che usufruirono a suo tempo del provvedimento di clemenza il 61,86% era italiano e il 38,14% straniero mentre dei 4.428 che ad un anno di distanza era già rientrato in carcere il 65,27% era italiano e il 34,73 straniero.

Siccome, come dice anche Pannella, prima di deliberare occorrerebbe pure conoscere, sarebbe bene che tutti quanti si leggessero questo studio di trentatré pagine scritto da Giovanni Jocteau e Giovanni Torrente dell’Università di Torino (con l’ausilio del Cnr) prima di andare in tv da Vespa a creare allarmismo sociale e a contribuire ad alimentare quell’insicurezza percepita che è sicuramente superiore a quella reale.

Giustizia: pene diverse? ad Agrigento l’ozio, a Bollate lavoro

 

www.radiocarcere.com, 15 maggio 2008

 

Domenico 28 anni, carcere di Agrigento: la mia condanna è stata la noia.

Sono stato tre anni nel carcere Contrada Petrusa di Agrigento. Tre anni di "intensa attività"… in cella: restare chiusi per 22 al giorno. Di cultura: guardare la Tv in orari stabiliti. Di sport: giocare a carte. E di formazione: incontrare gli altri detenuti all’ora d’aria. Insomma un trattamento avanzato. Sperimentale.

Questa la nostra giornata tipo. Ore 7 del mattino: "Sveglia!!!". È il gentile urlo di un agente. Ci si alza dalle brande e si fa la fila davanti alla porta dell’unico bagno della cella. Ore 8. "Conta!!". Lo stesso aggraziato urlo. È l’appello dei detenuti presenti in cella. Dopo averci contato, arriva il carrello del latte. Il liquido giallastro è la nostra colazione. Ore 9. È il primo appuntamento formativo della giornata. Si scende in cortile per fare l’ora d’aria. In un ambiente confortevole, fatto di cemento e di una rete metallica che copre il cielo, si apprendono le novità del carcere. Chi è entrato, chi è uscito, chi si è tagliato le braccia. Molto istruttivo! Ore 10.30. Si torna in cella. Inizia l’attività culturale del carcere: guardare la televisione! Segue un breve ma intenso confronto sul programma visto in Tv. "Miii! La Carfagna jè beddissima!"

Ore 11.30. Passa il carrello del pranzo. Si mangia in cella. Oggi, come ieri e come domani, è servita un’ottima pasta scotta e scondita. Chi ha uno sgabello mangia seduto. Gli altri sulla branda. Ore 13.00. È il secondo momento formativo della giornata: un’altra ora d’aria. I temi, ovviamente, sempre gli stessi. Ore 14.30. Di nuovo in cella. Inizia l’attività sportiva. I detenuti indossano tuta e scarpe da ginnastica e, seduti intorno al tavolo della cella, danno il via alla partita di carte.

Se non che, verso le 15, il mach viene interrotto. "Conta!!" un’altra volta. Dopo una pausa di quindici minuti, la partita ricomincia. Il clima è teso. Chi perde dovrà lavare i piatti alla sera. Ore 17.30. La partita a carte è finita. Ha perso Mohamed, marocchino, non ancora pratico del tresette. Ore 18.00. Passa il carrello per la cena. Qui c’è una variante. Una delle poche. Perché se è domenica o giorno festivo la cena non arriva affatto. Si fa dieta. Altro pregio del carcere di Agrigento. Ore 19.30. È l’ora delle gocce, dei tranquillanti. C’è chi urla perché ne vuole di più. Ma una sberla istituzionale riporta la calma nelle celle. Alle 20 ancora: "Conta!" e si ripete per la terza volta il teatrino dell’appello. Ore 21. Nelle celle si spengono le luci. E i detenuti di Agrigento, dopo una giornata estenuante, si addormentano. Per tre anni ho vissuto così. Lo stesso giorno moltiplicato per 1095.

 

Franco, 34 anni, carcere di Bollate: la mia pena è stato lavorare

Per anni mi sono drogato. E per anni sono stato un piccolo spacciatore. Mi hanno arrestato più volte. Mi processavano per direttissima, mi condannavano a 5 o a 6 mesi e poi mi rilasciavano. Vivevo così, fino a quando mi hanno arrestato per scontare quattro anni. Ovvero la somma di tutte le condanne che avevo accumulato. All’inizio mi hanno portato nel carcere di San Vittore. Eravamo in 6 dentro una cella. Ed è stata molto dura. Le crisi di astinenza mi massacravano. E in più temevo di essere entrato in un labirinto senza uscita. Droga, carcere. Carcere, droga.

Poi, sono stato trasferito nel carcere di Bollate. E per me è ricominciata la vita. Mi hanno messo in una cella con un altro detenuto. Tutto era ordinato e pulito. Passate un paio di settimane ho incontrato la Commissione del carcere. Dopo aver ascoltato la mia storia mi dicono: "Qui puoi imparare un lavoro e prendere uno stipendio. Accetti?". Io non credevo alle mie orecchie. Ho accettato subito, e sono stato assegnato alla falegnameria.

La falegnameria è una grande stanzone, pieno di attrezzi. Dentro, 15 detenuti intenti a lavorare. Io non avevo mai fatto il falegname, e per questo sono stato affiancato da un altro detenuto anziano. È lui che mi ha insegnato il mestiere. Giorno dopo giorno, imparavo a lavorare il legno. Prima mansioni più semplici e poi più difficili. E, cosa incredibile, alla fine del mese mi pagavano. 350 euro.

La giornata del carcere di Bollate inizia presto. Alle 6.30: la sveglia. Ci si fa la doccia e si prepara la colazione. Alle 8.00, le celle vengono aperte e i detenuti escono per andare al lavoro. Di mattina il carcere di Bollate è una via vai di detenuti. Sembra un grande collegio! Chi va al forno. Chi alla serra. Chi a fabbricare serrature. Ognuno ha un pass, che gli consente di attraversare il carcere per raggiungere il posto dove deve lavorare. Alle 12.30, si torna in cella per il pranzo. E poi di nuovo a lavorare. L’ora d’aria non c’è a Bollate. Semplicemente perché non serve.

Alle 17, finisce la giornata di lavoro e si torna in cella. Il resto del pomeriggio lo si passa o in palestra, oppure a studiare. Tanti si diplomano a Bollate! Alle 8 di sera le celle vengono chiuse. È l’ora della cena, che di solito ci cucinavamo da soli. Un giorno, quando mi mancava un mese al fine pena, la commissione del carcere mi dice: "Franco, ti abbiamo trovato un lavoro da falegname a Milano. Accetti?" Confesso che in quel momento, dopo 4 anni di carcere-lavoro, mi sono commosso. Ho accettato. Ora sono un uomo libero. Non mi drogo più. Faccio il falegname a Milano.

Giustizia: "patto di legalità" tra maggioranza e opposizione?

di Alessio Di Carlo

 

www.giustiziagiusta.info, 15 maggio 2008

 

Che il 13 aprile si sia consumata una vera e propria rivoluzione nel panorama politico italiano è ormai chiaro a tutti: non tanto (o non solo) per il risultato che è venuto fuori dalle urne ma, soprattutto, per il clima insolitamente civile in cui s’è svolta la campagna elettorale e quello altrettanto costruttivo che - fatta eccezione per Antonio Di Pietro - sembra prepararsi in questi giorni in Parlamento.

Se, dunque, sembrano maturi i tempi per superare la contrapposizione tra anti e pro di vario genere, per mettere da parte il clima da eterna guerra civile strisciante che da Mani Pulite in poi ha attraversato il Paese, è forse giunto il momento di ristabilire un ordine logico e di buon senso nell’approccio con cui le opposte fazioni si sono fino ad oggi accostate al tema della Giustizia.

Era il tempo in cui ai cosiddetti giustizialisti si contrapponevano i cosiddetti garantisti: considerati spregiativamente irriducibili del cavillo giuridico quando non addirittura amici e collusi con i farabutti, quest’ultimi hanno finito per rappresentare la voce critica e mal digerita che, da sola, si è contrapposta allo straripante potere del partito dei magistrati dall’inizio degli anni 90 in poi.

La nuova stagione che sembra essersi avviata lascia sperare che possa superarsi questa contrapposizione che, persino dal punto di vista strettamente terminologico, sembra davvero fuor di luogo. È da auspicare, dunque, che al termine "garantista" riesca finalmente a sostituirsi quello di "legalitario". Già, perché altro non è, il tanto vituperato "garantista", se non un intransigente assertore della supremazia della legge, della necessità che - comunque - sia la legge il punto fermo da cui partire e verso il quale approdare.

Pretendere che l’indagato sia - non solo considerato - ma trattato da innocente (ché tale è) altro non è che pretendere che sia data attuazione al principio di presunzione di innocenza. Principio di legalità e quello di certezza della pena, legati tra loro, sono i principi cardine posti a base dell’ordinamento liberale. Principi che non ammettono eccezioni, che non tollerano ammorbidimenti, nemmeno quando tanto rigore dovesse risolversi in un ipotetico vantaggio verso chi si considera (o si pretende) colpevole.

Ciò che sembra una banalità (poiché è del tutto evidente che proclamandosi legalitari nessuno avrebbe l’ardire di dirsi illegalitario!), può risultare meno scontato prendendo ad esempio casi come quello dell’indulto recentemente approvato dal parlamento nonostante le ferma avversione delle ali giustizialiste di entrambi gli schieramenti

Ebbene, se in un’ottica giustizialista l’indulto non ha da essere, al giudizio opposto deve giungere chi crede, come il legalitario, per l’appunto, che il principio costituzionale che prevede il diritto del detenuto alla rieducazione non debba patire eccezioni. Che i detenuti italiani vivano in condizione di illegalità permanente - costretti a condizioni di detenzione non conformi alle previsioni della legge in termini di affollamento, condizioni igieniche e sanitarie ecc. ecc. - è un dato di fatto.

Tollerare il protrarsi di questa situazione, tanto per fare un esempio, vuol dire, semplicemente, collocarsi al di fuori della legge: condizione che il "legalitario", a differenza del giustizialista, non può accettare.

Tolleranza zero, dunque: ma non in nome di un cinico e bieco rigorismo ma, più semplicemente, nel nome della legge: di quella legge che "certa" deve essere per realizzare in concreto il cardine principale dello stato liberale di diritto. Su queste basi potrà misurarsi il confronto tra maggioranza e opposizione parlamentare, con l’auspicabile stipula di un inedito "Patto per la Legalità" a cui tanto le forze di maggioranza quanto quelle di opposizione dovrebbero informare l’iniziativa e l’attività politica e amministrativa degli anni a venire per realizzare quel paese che - non sarà forse "normale" come negli auspici di alcuni - ma certamente "legale" come nelle aspettative di tanti altri.

Giustizia: Minniti (Pd); sì linea dura, no reato clandestinità

di Paolo Biondani

 

L’espresso, 15 maggio 2008

 

No alla proposta di Maroni. Ma via libera al pugno duro con i criminali e alle polizie locali. Il giudizio del ministro-ombra. Che fa autocritica sull’indulto. Un Cpt in Puglia.

La sicurezza non è di destra né di sinistra, "ma le politiche per la sicurezza sì". Marco Minniti, 51 anni, viceministro dell’Interno del governo Prodi, oggi titolare della Sicurezza nell’esecutivo-ombra di Veltroni, ammette "gli errori della coalizione di centrosinistra". Apre al "confronto" con il governo Berlusconi e rivendica con orgoglio "una più efficiente lotta alla criminalità", come "patrimonio storico della sinistra italiana".

 

Il Partito democratico accetterà il dialogo offerto da Berlusconi su questi temi?

"È chiaro che siamo interessati a un confronto di merito sulle politiche per la sicurezza. Ma vogliamo discutere di proposte concrete. In questi giorni abbiamo visto vari ministri procedere per annunci, tanto confusi e contraddittori da far insorgere una figura autorevole come Pisanu. La campagna elettorale è finita, ora bisogna parlare agli italiani con sincerità e chiarezza. Se l’opposizione ha cavalcato la paura, il governo deve dare risposte".

 

Per fermare i clandestini il ministro Maroni una proposta ce l’ha: trasformare i Cpt in centri di detenzione fino a 18 mesi…

"Oltre che ingiusto, è sbagliato far credere all’opinione pubblica che esista un nesso diretto fra immigrazione e criminalità. I dati delle forze di polizia ci dicono che tra gli stranieri regolari c’è esattamente lo stesso tasso di criminalità che fra i cittadini italiani. Questo significa che la carta più importante anche per la sicurezza è l’integrazione. Bisogna favorire chi viene in Italia per lavorare onestamente e sta facendo crescere del 6 per cento all’anno il nostro Pil. Si vuole davvero mandare i carabinieri ad arrestare le badanti? La verità è che la Bossi-Fini non ha funzionato: non ha favorito l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, ma ha creato più clandestinità e più delinquenza. L’idea di incarcerare tutti gli immigrati senza distinguere tra chi vuole lavorare e chi delinque, produrrà la classica eterogenesi dei fini: il carcere favorirà l’ingresso nella criminalità. Il governo non potrebbe fare errore più clamoroso. Il vero problema è l’effettività delle espulsioni".

 

Molte delle proposte annunciate, dal trasformare in reato la stessa presenza del clandestino all’attaccare in mare le navi-carretta, vengono giustificate proprio con l’inefficacia delle espulsioni…

"Il reato di immigrazione clandestina è una dichiarazione di fallimento delle espulsioni. Per renderle effettive, la strada è una sola: rafforzare gli accordi con i Paesi disposti a riprendersi gli espulsi. Oggi è la Libia il punto d’incontro di tutta la spinta migratoria africana: si calcola che su quelle coste si accalchino tra 500 e 800 mila immigrati in attesa. In dicembre abbiamo firmato un trattato importantissimo, che prevede addirittura controlli comuni tra forze di polizia libiche, italiane ed europee. Il nuovo governo invece si muove come l’elefante nella cristalleria. Il contrasto in acque internazionali è un’assurdità irrealizzabile. Parliamoci chiaro: pensiamo che basti mostrare la faccia feroce in tv o minacciare 18 mesi di Cpt per fermare persone disperate che, pur di arrivare in Italia, affrontano la morte attraversando mari e deserti?".

 

A Roma e nel Nord-Est molti elettori sembrano aver incolpato il governo Prodi del boom della criminalità romena…

"Sul problema di quei rom che vivono di reati, non certo dei romeni in generale, come centrosinistra abbiamo scontato un’innegabile crisi di credibilità. La mancata conversione del decreto sul rimpatrio dei cittadini comunitari è un fatto politico che non nascondo. Ma poi abbiamo trovato il modo di farlo diventare legge. E i prefetti lo stanno già applicando. È questa misura che consente l’espulsione per ragioni di sicurezza. E quindi non riguarda i romeni, ma qualunque straniero comunitario che venga in Italia a delinquere. Se avessimo avuto la forza di approvare il pacchetto sicurezza, avremmo fatto un favore all’Italia e agli immigrati onesti. Dimostrando che è di sinistra un’azione di lotta senza tregua contro i delinquenti abituali, che oggi sono il vero problema".

Giustizia: Sappe; Governo consideri le ricadute sulle carceri

 

Il Velino, 15 maggio 2008

 

Il "pacchetto sicurezza" dovrà tenere nel debito conto le ricadute che ciò comporterà sui nostri penitenziari, già abbondantemente sovraffollati con 53mila detenuti presenti a fronte di poco più di 42mila posti.

È il commento della segreteria generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’organizzazione di categoria con oltre dodicimila iscritti, in relazione al "pacchetto sicurezza" allo studio del governo. "Non si può immaginare - spiega il Sappe - l’equazione più sicurezza uguale più carcere. Le nostre strutture non sono in grado di sostenere un ulteriore aumento di detenuti. E gli organici del corpo di Polizia penitenziaria sono carenti di ben quattromila unità. Questo vuol dire più assunzioni e un generale ripensamento del sistema carcerario nazionale. Mi auguro si vorrà tenere in debito conto questa pesante criticità".

"Mi auguro - aggiunge il segretario generale Donato Capece - ma credo di poter dire che ce lo auguriamo tutti, che le lodevoli dichiarazioni di intenti di governo, maggioranza ed opposizione parlamentare per una ampia collaborazione bipartisan nell’interesse del paese che prescinda dalle appartenenze sulla questione penitenziaria produca effetti benefici per il paese e per le donne e gli uomini del corpo di Polizia penitenziaria.

Per altro, lo stesso capo dello Stato Giorgio Napolitano ha spesso parlato della necessità di ripensare l’intero sistema sanzionatorio e della gestione della pena nel nostro paese ritenendo indispensabile che in Parlamento si cercassero soluzioni condivise per la trasformazione dell’amministrazione della giustizia e del mondo penitenziario, soluzioni che tengano nel dovuto conto un nuovo impiego operativo della Polizia Penitenziaria e un necessario adeguamento degli organici (mancano ben quattromila agenti, come ha recentemente ricordato anche la commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati che ha reso pubblica l’indagine conoscitiva sullo stato della sicurezza in Italia, sugli indirizzi della politica della sicurezza dei cittadini e sull’organizzazione e il funzionamento delle Forze di Polizia)".

Giustizia: Radicali; interrogazione su morte detenuta incinta

 

Agenzia Radicale, 15 maggio 2008

 

Interrogazione di Donatella Poretti e Marco Perduca al ministro della Giustizia. Premesso che l’Associazione Antigone ha denunciato lo scorso 8 maggio la morte in circostanze non chiare nel carcere di Venezia di una donna al sesto mese di gravidanza; la donna sarebbe giunta all’ospedale ormai in coma e con il bambino morto in grembo; la donna, straniera, era apparentemente appena giunta in Italia ed aveva confessato al magistrato di aver ingerito alcuni ovuli di cocaina; l’articolo 275, comma 4, del Codice di procedura penale vieta la carcerazione preventiva per donne incinta a meno che non sussistano esigenze di rilevanza eccezionale: "Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, ovvero persona che ha superato l’età di settanta anni".

Per sapere: quali fossero le "esigenze eccezionali" che hanno determinato la carcerazione preventiva della donna invece di un ricovero in struttura ospedaliera; se sono stati effettuati, prima della carcerazione, accertamenti sanitari per verificare l’effettivo stato di salute della donna e del feto, anche a seguito dell’ammissione della stessa al magistrato di aver ingerito ovuli di cocaina; se nel carcere la donna è stata seguita adeguatamente dal presidio medico lì presente; se e come intende punire eventuali responsabilità del magistrato e/o del direttore del carcere in questione.

Enna: progetto per detenzione "produttiva e responsabile"

 

Affari Italiani, 15 maggio 2008

 

Si chiama detenzione produttiva responsabile ed è opera di otto recluse del carcere di Enna. Le donne, guidate dall’Associazione "Mani libere" creano oggetti di artigianato pronti ad entrare sul mercato attraverso una coop. L’incontro nasce dal un progetto, al quale la Casa Circondariale lavora da oltre 9 mesi, rivolto alle detenute che, guidate da una esperta, Ninni Fussone, sociologa con la passione per la lana e i tessuti, e una stilista Tamuna Kiria, hanno insegnato alle donne una tecnica antica per fare il feltro. Con la lana di Enna, ma non solo, quella grezza, colorata con piante tintoree, le detenute realizzano accessori di moda e di arredamento, corredini per neonati, coperte, cappelli e tanti altri oggetti.

"Tra i nostri obiettivi, come istituzione carceraria, c’è quello di favorire i percorsi che possano portare ad un completo inserimento dei detenuti - dice la direttrice Bellelli - Ecco perché di fronte al talento che alcune delle detenute stanno mostrando in questo progetto vogliamo capire se può esserci un futuro". "All’inizio era un gioco, un passatempo, poi abbiamo capito che poteva diventare un lavoro creativo, - aggiunge la direttrice del carcere ennese - ora è una produzione incontrollabile: le detenute portano il lavoro in cella e non dormono per lavorare".

Ognuna di queste donne ha un passato da dimenticare e una speranza da costruire. C’è Giuseppina Sorrentino di Canicattì, madre di cinque figli che spera in un domani migliore. Salvatrice Licata, giovanissima di Ribera, con già sette anni trascorsi di carcere, ha raccontato alla madre dell’attività artigianale che ha intrapreso. Rita Romeo, anche lei madre di cinque figli, pensa al figlio più grande che per il momento non è in Italia. C’è pure chi uscirà fra sei mesi come Franca Gentilini e non vede l’ora di riabbracciare il figlio. Fra gli oggetti che realizzano ci sono fiori di lana, borse, tappeti, golfini per neonato, bracciali e pantofole.

La loro attività è stata organizzata dall’associazione "Mani libere"e da tutto il giro della formazione e della cooperazione sociale che ruota intorno alla Casa circondariale di Enna, diretta da Letizia Bellelli. Per potere vendere i prodotti realizzate dalle detenute verrà creata una cooperativa ad hoc. Sono già arrivate pure le prime richieste. Il negozio "Linea casa" di Palermo chiede oggetti di arredamento mentre lo stilista Eugenio Vazzano che produce con il marchio "Fatto in Sicilia" è pronto a firmare i primi accordi. La casa circondariale di Enna, per il momento, chiede un sostegno per avviare l’impresa. Fra coloro che sono pronti ad impegnarsi c’è pure don Luigi Ciotti, presidente di Libera. L’artigianato carcerario di Enna è già stato presentato, pure, al salone del benessere di Bologna e ad alcune galleriste milanesi.

Firenze: Sappe; ancora due agenti aggrediti, servono rinforzi

 

Il Velino, 15 maggio 2008

 

"È una aggressione annunciata, l’ennesima. E il grave fatto, avvenuto mentre l’agente apriva la cella per permettere al detenuto di fare la doccia, ripropone drammaticamente all’ordine del giorno la questione della sicurezza individuale dei Baschi azzurri in servizio nelle prigioni della Toscana".

Pasquale Salemme, segretario regionale per la Toscana del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, organizzazione di categoria con oltre dodicimila iscritti, commenta così l’aggressione da parte di un detenuto albanese a due agenti di Polizia Penitenziaria avvenuta ieri nella Casa circondariale di Firenze Sollicciano.

Gli agenti sono ricorsi alla cure del Pronto Soccorso di un ospedale fiorentino, dove è stato constato per un agente la frattura dello zigomo e una distorsione di un dito della mano destra per l’altro collega. "Servono - prosegue il sindacalista del Sappe - risposte certe e urgenti da parte dell’Amministrazione penitenziaria. Quella di ieri è stata un’aggressione violenta e ingiustificata, avvenuta di sorpresa e senza alcun motivo, e purtroppo è l’ennesima che si verifica in Toscana. Ora basta! Bisogna con urgenza adottare opportuni provvedimenti".

"Non più tardi di un mese fa - racconta Salemme - altri due colleghi sono stati aggrediti nel carcere di Pistoia e proprio ieri ero a Roma, nel corso dell’incontro sulle problematiche penitenziarie della Toscana con il capo dipartimento Ettore Ferrara, rimarcammo la grave carenza di organico dei reparti di Polizia penitenziaria toscani. Attualmente, a fronte di un organico di Polizia penitenziaria previsto in 3.021 unità per i 19 penitenziari regionali, abbiamo in servizio circa 2.300 uomini e donne appartenenti al Corpo.

Da evidenziare che al numero reale di unità in servizio vanno detratti ulteriori centinaia di poliziotti impiegati in servizio presso i Nuclei traduzioni e piantonamenti per assicurare i precipui compiti istituzionali, numero questo per altro anch’esso insoddisfacente rispetto alle reali necessità. È evidente che il numero di poliziotti penitenziari impiegati nel servizio di sorveglianza all’interno dei reparti detentivi dell’Istituto è, in proporzione ai detenuti presenti, veramente insufficiente. E quindi ribadiamo con fermezza che la direzione generale del personale dell’Amministrazione penitenziaria deve provvedere ad assegnare con urgenza almeno 50 unità del Corpo da assegnare in Toscana".

Orvieto: disordini in carcere, detenuto racconta sua versione

di Stefania Tomba

 

www.orvietosi.it, 15 maggio 2008

 

Un detenuto che prende una pasticca prescritta dal medico e si sente male; i compagni di cella che chiedono aiuto e la Polizia Penitenziaria che non interviene. È questo il racconto fatto spontaneamente da uno dei detenuti di via Roma sui fatti del 2 maggio scorso, finiti adesso al centro di un’indagine ministeriale e giudiziaria.

La dichiarazione emerge dal fascicolo che la procura della Repubblica presso il tribunale di Orvieto ha aperto a seguito della denuncia per minacce da parte della Polizia Penitenziaria in servizio quella notte. In questo ambito figurano quattro indagati: ovvero gli occupanti della cella in questione, da cui sarebbero partiti i disordini. Da appurare ora le contrastanti versioni dei fatti.

La Procura, per il momento, ammette, soltanto di non aver avuto segnalazioni di rivolte nei mesi scorsi (niente che trascenda l’ordinaria amministrazione per un carcere) e che - così come dichiarato anche dal direttore della casa di reclusione, - ben difficilmente il dottor Donato si sarebbe reso disponibile ad entrare nella cella (come invece avrebbe fatto) se ci fosse stata in atto una rivolta. Sarà comunque la doppia indagine avviata a fare piena luce sulla vicenda che ha prestato il fianco al Sappe, alla funzione pubblica della Cgil e al Sialpo per chiedere la rimozione del direttore da venticinque anni al vertice della struttura. Sul caso si è innescata anche una polemica politica col senatore umbro Benedetti Valentini di An che si è fatto promotore di un’interrogazione parlamentare.

Benevento: "Recidivo Recital"... la saggezza dietro le sbarre

 

Il Giornale, 15 maggio 2008

 

Uscire da una sala teatrale con la sensazione di aver ricevuto una commovente, profonda e al tempo stesso divertente lezione di vita, è un "dono" che raramente viene elargito al pubblico delle nostre sale. Alcuni potrebbero puntualizzare che il ruolo del teatro è un altro. E forse è così. Resta il fatto che sentirsi "arricchiti" è sempre una bella sensazione. Come accade di certo a chi frequenta fino al prossimo 18 maggio il Teatro Sette di via Benevento dove è in programma Recidivo Recital.

Piccole e umili pillole di saggezza, che provengono da un mondo che non ti aspetti e che soprattutto non conosci, sono quelle offerte da Enrico Maria Lamanna che firma la regia dello spettacolo scritto da Salvatore Ferraro (finito dietro le sbarre a suo tempo con l’accusa di omicidio colposo per la morte di Marta Russo). Un racconto tragicomico sulla vita dietro le sbarre e - soprattutto - una lucida riflessione sull’utilità del sistema carcerario nei sempre più frequenti casi di recidiva, cioè di quei casi in cui il soggetto non fa altro che entrare e uscire dal carcere come se il ritmo della vita fosse scandito da quel continuo ma inesorabile aprirsi e chiudersi del portone della prigione.

La scena è monopolizzata da un gruppo di attori molto validi pur nelle loro goffe asprezze di debuttanti. Otto attori che non si limitano a recitare ma che trasferiscono al pubblico l’immediatezza di un’esperienza vissuta sulla propria pelle, visto che si tratta di ex carcerati. Affiancati in questo caso dalla gentile disponibilità di due interpreti collaudati come Barbara Marzoli e Andrea Martella.

Dietro l’interrogativo sull’utilità del sistema carcerario si nascondono urgenze ben più profonde, esistenziali. Perché nell’angusta dimensione carceraria l’uomo si trova a sperimentare in maniera concentrata i grandi interrogativi della vita. Magari camuffati da piccole necessità "senza importanza", da prosaici problemi pratici.

Alla fine si esce confortati da questo spettacolo che Lamanna cuce sugli attori con la sapienza di un sensibile demiurgo. E si scopre quanto bene può fare il recupero di ex-detenuti, emancipati al punto da salire sul palco per insegnarci, sorridendo delle proprie sventure, ad essere più tolleranti e comprensivi.

Pesaro: il teatro-carcere torna in scena con "Minotaurus"…

 

Il Messaggero, 15 maggio 2008

 

Domenica 18 maggio TeatrOltre torna a Pesaro con Minotaurus. Il Teatro Sperimentale di Pesaro ospita Minotaurus, penultimo appuntamento di TeatrOltre, rassegna che dà voce alle esperienze più significative della scena contemporanea promossa dagli Assessorati alla Cultura dei Comuni di Urbino e Pesaro, dalla Fondazione Teatro della Fortuna di Fano, dalla Provincia di Pesaro e Urbino, dall’Amat, dalla Regione Marche e dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Liberamente tratto da Il Minotauro di Friedrich Dürrenmatt, Minotaurus rappresenta l’evento conclusivo del progetto di attività di teatro in carcere realizzato da Cristian Della Chiara e Ciro Limone insieme ai detenuti della Casa di Reclusione di Fossombrone per l’associazione culturale Teatroaponente. Affiancati dalla danzatrice Anna Rebecchi, sono loro gli interpreti e i veri protagonisti di uno spettacolo costruito su continue analogie e confronti - il labirinto ed il carcere, il minotauro ed il detenuto - capaci di dare voce a chi vive in un mondo a parte.

L’opera di Dürrenmatt, composta nel 1985, rielabora il mito del Minotauro, di Teseo e di Arianna in una chiave moderna: il dramma è quello dello smarrimento di ogni individuo di fronte all’incontro con la propria coscienza. L’autore descrive il mostruoso essere dal punto di vista del diverso, dell’escluso, di colui che non può entrare nella relazione sociale e quindi non ha accesso al logos raffigurato dal filo di Arianna. Metà uomo e metà toro, creatura buona e cattiva insieme, colpevole ed innocente allo stesso tempo, il Minotauro è un essere anomalo, escluso e recluso, innocente della propria non appartenenza alle regole. Le pareti del labirinto in cui vive sono di vetro: e così, ad ogni momento, la creatura ha di fronte a sé le immagini delle sue immagini. Non può avere consapevolezza di dove si trovi, né di cosa possano volere quelle creature accovacciate attorno a sé: vive un’esistenza totalmente artificiosa, sempre al limite della conoscenza delle sensazioni di amore, gioia, felicità e infelicità, paura e tormento.

L’Associazione Culturale Teatroaponente opera all’interno della Casa di Reclusione di Fossombrone dal 2005; per i primi due anni all’attività teatrale è stato affiancato uno studio scientifico promosso dall’Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", volto a stabilire i risultati positivi del teatro sul disagio psichico dei detenuti. Dallo scorso anno l’associazione Teatroaponente ha proposto autonomamente alla Direzione della Casa di Reclusione la prosecuzione del progetto, il quale è stato accolto con pareri più che favorevoli. L’attività teatrale è resa possibile grazie alla preziosa collaborazione di tutto il personale della Casa di Reclusione; a partire dalla direttrice, Maria Lucia Avantaggiato, gli educatori Angela Rutigliano e Maurizio Proietti, il commissario Andrea Tosoni, l’Ispettore superiore Silvano Simoncelli e tutto il corpo di polizia penitenziaria. Per informazioni e biglietti (posto unico numerato euro 10, ridotto euro 8): biglietteria Teatro Rossini 0721.387621, Amat 071.2072439, www.amat.marche.it (vendita biglietti on line). Inizio spettacolo ore 17.30.

Varese: cantautore Van De Sfroos, per i detenuti del Miogni

 

Varese News, 15 maggio 2008

 

Si è tenuto oggi, giovedì 15 maggio, il concerto acustico del cantautore comasco alla presenza del sindaco di varese Fontana e del presidente della Provincia Galli.

Il cantautore comasco Davide van de Sfroos ha tenuto nel pomeriggio di oggi, giovedì 15 maggio, un concerto per i detenuti del carcere cittadino dei Miogni. Alla performance, che il cantautore ha iniziato con la storia di Adamo ed Eva e con la canzone "Per una poma", hanno partecipato anche il direttore del carcere Gianfranco Mongelli, il sindaco di Varese Attilio Fontana e il presidente della Provincia Dario Galli. I due rappresentanti delle istituzioni si sono detti vicini ai detenuti spronandoli a non commettere più stessi errori e sottolineando il modello rieducativo delle carceri italiane. Van De Sfroos ha ricordato, prima di cominciare, i precedenti concerti tenuti al Bassone di Como e nel carcere di Lodi, con una battuta: "Fino ad adesso sono sempre entrato in carcere con una chitarra, spero sarà sempre così ma dipenderà solo da me".

Immigrazione: i nuovi Cpt? collocati nelle caserme dismesse

di Liana Milella

 

La Repubblica, 15 maggio 2008

 

La bozza Ghedini cammina, viene studiata, discussa, corretta dal Guardasigilli Alfano, spedita al Viminale dove Maroni, che si riserva di intervenire, la passa al sottosegretario Mantovano.

Un decreto e un disegno di legge. Nel primo c’è il reato d’immigrazione clandestina, la stretta sulla Gozzini per recidivi e autori di reati di strada e sulla sospensione condizionale della pena, i processi per direttissima se chi commette il reato confessa o il giudice ne presume la colpevolezza, l’espulsione per lo straniero condannato a una pena superiore a due anni. Nel ddl ci sarà il lungo capitolo dell’inasprimento delle pene per i reati che provocano grave allarme sociale, maltrattamenti, rapine, furti, violenze, violazioni di domicilio e la nuova fattispecie del reato di rapina in casa.

Ma il piatto forte è il nuovo delitto d’immigrazione clandestina che, al momento, suona così: rischia una pena da sei mesi a quattro anni lo straniero che entra o permane nel nostro territorio, violando le disposizioni della legge Bossi-Fini, e per il quale il giudice accerti, sulla base di elementi oggettivi, che possa commettere dei reati o che risulti pericoloso socialmente. Con questa norma finirebbe in carcere solo chi, tra gli extracomunitari, risulta effettivamente a rischio crimine, e non chi, pur essendo entrato illegalmente in Italia e pur non essendo in possesso di documenti, lavora, ha un reddito, punta a una sanatoria della sua posizione e quindi non rappresenta alcun pericolo per gli stessi italiani. Insomma, colf, badanti, e tutti gli altri che conducono una vita onesta e cercano di integrarsi possono stare tranquilli.

Non solo. Rispetto alla prima versione del reato, che prevedeva sic et simpliciter il carcere di fronte alla condizione di manifesta clandestinità, su chi lavora al decreto (il Guardasigilli e il deputato Niccolò Ghedini nelle vesti di consigliere giuridico del premier), hanno fatto breccia le notazioni dei costituzionalisti e in particolare quanto ha scritto sul Sole 24 ore il presidente emerito della Consulta Valerio Onida. Che affermava: "Lo Stato, che non riesce a impedire l’ingresso e ad eseguire le espulsioni, non troverebbe di meglio, per rimediare all’impotenza della propria amministrazione, che applicare allo straniero una pena detentiva. Un caso tipico di uso improprio dello strumento penale".

Ecco, allora, che nel decreto legge del governo lo stato di mera clandestinità non basta più da solo a giustificare il reato e quindi l’arresto. Ma serve, come notava lo stesso Onida, "una valutazione concreta della pericolosità sociale dell’interessato". Resta da capire, non solo se il nuovo reato possa passare per decreto e se Napolitano sarà disposto a controfirmare il testo, ma soprattutto come sarà possibile, di fronte a gente senza un nome, senza documenti, di cui spesso s’ignora la provenienza, capire, sapere o quantomeno presumere la pericolosità. Il governo s’avvia sulla stessa strada del decreto rumeni dove si prevedeva di allontanare solo chi aveva precedenti penali e quindi era potenzialmente pericoloso. Una via, come s’è visto, irta di difficoltà.

Immigrazione: da sud a nord, intolleranza contro campi rom

di Andrea Milluzzi

 

Liberazione, 15 maggio 2008

 

A Ponticelli, quartiere napoletano dove martedì i residenti hanno fatto irruzione in tre campi nomadi lanciando sassi e dando fuoco alle baracche e ripari di fortuna, la situazione ieri è tornata alla normalità. Anche perché i nomadi se ne sono andati con tutti i mezzi possibili, soprattutto con vecchi furgoni, scortati dalla polizia che li ha trasportati in un luogo tenuto segreto, come si fa con i familiari dei pentiti di mafia.

A Genova, un centinaio di abitanti del quartiere Teglia hanno interrotto il traffico per protestare contro la presenza del campo nomadi antistante. I cittadini si lamentano del fatto che i circa 300 nomadi del campo vivano senz’acqua e senza servizi igienici in mezzo a mosche e rifiuti in quella che, per ironia della sorte, era una fabbrica di sapone. Date le scarse condizioni igieniche, l’assessore alla sicurezza, Francesco Scidone, ha annunciato che entro giugno il campo sarà sgomberato nell’ambito della campagna "È ora di cambiare aria" (sic).

A Novara nella notte fra sabato e domenica (ma si è saputo solo ieri) durante la Notte Bianca alcuni ignoti hanno tentato una "strage" all’interno del campo nomadi di via Fermi. Quattro bombe molotov e i nomadi che "correvamo da un fuoco all’altro per spegnerli, bruciava tutto contemporaneamente" come ha raccontato una donna del campo.

A Padova si organizza la prima ronda di cittadini extracomunitari. L’idea è venuta al conduttore egiziano di un programma sull’immigrazione su La 8, una tv locale. "Voglio lanciare un messaggio a tutti gli stranieri integrati come me nella società italiana - ha detto Ahmed - non devono avere paura di scendere in strada, anche perché la sicurezza appartiene anche ai loro figli e a loro personalmente e non possiamo nasconderci dietro al fatto di non avere il tempo. Più saremo e meglio sarà per tutti. Dobbiamo unirci agli italiani in queste iniziative, perché essere integrati non vuol dire solo lavorare ma far parte della società e dare il proprio contributo".

Un clima che i giornali e i loro intervistati non faticano a capire ed interpretare: Ecco quanto ci costano gli zingari: un milione e duecentomila euro spesi dalla vecchia amministrazione comunale per gli scuolabus dei bambini rom, che a scuola neanche ci vanno è il titolo di ieri di un articolo su Roma de Il Tempo . I rom sono la nuova mafia del nord strillava invece Il Giornale qualche giorno fa riportando le parole del pm Ezio Basso, da Mondovì con furore, che ha accusato alcune "bande di nomadi" locali del reato di associazione a delinquere. Basta? Macché. Sempre Il Giornale il giorno dopo è tornato sull’argomento intervistando l’ex procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna, titolando Giusto trattare i rom da mafiosi . Anche se nell’intervista Vigna sottolineava che l’accusa è giusta "solo se si può provare che l’associazione esiste" e non in quanto si sta parlando di nomadi.

Meno male che comunque c’è la politica, e l’opposizione soprattutto. Per rispondere al livore del sindaco di Milano Letizia Moratti, il presidente della Provincia milanese Filippo Penati (ex Ds ora Pd) ha lanciato il suo slogan: "Obiettivo: zero campi nomadi". Qualcosa si muove invece in Europa, con l’interrogazione urgente di Vittorio Agnoletto, Roberto Musacchio e Giusto Catania, deputati europei di Rifondazione comunista: "L’istituzione del commissario straordinario per i rom si profila come un tentativo di criminalizzare cittadini stranieri, spesso comunitari, a causa della loro etnia. Tale scelta è in contrasto con la direttiva europea sulla parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

Abbiamo chiesto - continuano i tre eurodeputati - che la Commissione Europea intervenga per bloccare questa azione del governo italiano che non applica correttamente una direttiva che prevede, tra l’altro, l’istituzione di un organismo per la promozione per la parità di trattamento indipendentemente dalla razza o dall’origine etnica". In Italia è l’Arci che fa sentire la sua voce: "Gli attacchi ai campi rom sono il frutto avvelenato di un clima culturale che si sta pericolosamente diffondendo nel Paese e che rischia di farci piombare nelle barbarie. - si legge nel loro documento - E nominare un commissario straordinario è come soffiare sul fuoco. La campagna elettorale è finita". Così è, ma non sembra.

Immigrazione: il vento dell’intolleranza che spira in Europa

di Pasqualina Napoletano (Vice-Presidente del Gruppo Pse)

 

www.articolo21.info, 15 maggio 2008

 

Mentre in Italia il nuovo governo è alle prese con l’ennesimo "pacchetto sicurezza", in Europa si discute della direttiva sui rimpatri degli immigrati illegali. La prima osservazione, a questo proposito, è che l’Europa inizia ad armonizzare le disposizioni che riguardano il contrasto dell’illegalità senza aver stabilito un quadro legale comune riferito all’immigrazione. Per dirlo più chiaramente, alla domanda: "a che condizione è possibile per un cittadino extraeuropeo aspirare a vivere ed a lavorare legalmente in Europa?", non esiste a tutt’oggi risposta, perché, in questo caso, ciascun Paese ha e mantiene le sue regole, per lo più ispirate al principio "immigrazione zero".

Forte è la sensazione di vivere sempre più in un mondo rovesciato, dove i più forti dettano le regole anche contro il buon senso. In ogni caso, la menzionata proposta di direttiva si applica alle persone che, entrate temporaneamente e legalmente in Europa (ad esempio con visti di studio, turistici e quant’altro) si trovino a permanervi oltre il limite consentito, passando così in una condizione di illegalità. Per ulteriore chiarezza, essa non si applica né ai cittadini dell’Unione e tanto meno agli immigrati di Paesi terzi che dovessero arrivare, per mare o per terra, alle frontiere dell’Europa.

Il tratto garantista che l’Europa, a tutt’oggi, era riuscita a mantenere, ad esempio nella lotta al terrorismo internazionale e rispetto alle politiche di cittadinanza, è messo a dura prova dall’impostazione del Consiglio e dei 27 governi europei, alcuni dei quali sembrano non accontentarsi neanche dell’attuale discutibile versione condivisa dal relatore del Parlamento europeo, il popolare tedesco Manfred Weber, richiedendo misure ancor più drastiche.

Nel merito, i punti più controversi riguardano il periodo di detenzione (si parla di persone che non hanno commesso reati) che si vorrebbe portare fino a 18 mesi anche quando le cause non sono ascrivibili al comportamento dei soggetti implicati (ad esempio la non cooperazione con le autorità), come nel caso di ritardi amministrativi.

Altra questione sensibile è la convalida della detenzione da parte dell’Autorità giudiziaria che, in genere è fissata in 48 ore. Ammesso che si voglia avere più tempo, è doveroso fissare un limite e non ricorrere, come è nell’attuale versione della direttiva, alla nozione arbitraria del "più presto possibile".

Altro errore è puntare tutto sul rientro forzato, non considerando il fatto che sarebbe preferibile per tutti privilegiare il ricorso al rientro volontario, possibilità esistente, ma che spesso gli immigrati neanche conoscono e che, tuttavia, potrebbe aver bisogno di più tempo rispetto a quello concesso dalla direttiva, cioè 7 - 30 giorni. Lasciare un Paese, infatti, soprattutto per una famiglia, comporta occuparsi della scuola dei figli, della casa, ecc...

Altro aspetto è quello che riguarda i minori non accompagnati, che possono essere detenuti, seppur separati, nelle stesse strutture degli adulti, senza garanzia di una continuità dell’istruzione. Per loro la prospettiva è quella di essere rimpatriati, anche senza aver identificato la famiglia di provenienza, purché vi sia un istituto che se ne prenda carico. L’ultimo aspetto riguarda l’interdizione alla riammissione. Anche in caso di circostanze che dovessero motivare eventuali richieste di asilo, essa è fissata a 5 anni anche per chi accetta il rimpatrio volontario che, pure per questa via, risulta scoraggiato.

Su questi aspetti, il Gruppo Socialista Europeo, presenterà una serie di emendamenti e, dal loro accoglimento, dipenderà il voto finale. Dal punto di vista procedurale, ciò cambia totalmente il quadro ipotizzato dal relatore del Parlamento, cioè l’ipotesi di chiudere la procedura attraverso il "trilogo", ovvero un compromesso preliminare tra Consiglio, Parlamento, Commissione.

L’articolazione delle posizioni sia in seno al Parlamento che, per opposti motivi, nel Consiglio, quasi sicuramente richiederà il ricorso alla procedura di codecisione, che vuol dire doppia lettura da parte di Parlamento e Consiglio e conciliazione nel caso in cui le divergenze dovessero permanere.

D’altra parte, una materia così sensibile merita il dispiegarsi pieno della dialettica istituzionale ed il protagonismo del Parlamento. C’è da augurarsi che, come nel caso della direttiva Bolkestein, quest’ultimo sia capace di far prevalere un punto di vista rispettoso della persona, con regole almeno paragonabili a quelle che ispirano i provvedimenti che si riferiscono ai cittadini europei. Quanto al pacchetto sicurezza che il governo Berlusconi si appresta a varare, consiglierei cautela rispetto alle preannunciate forzature nei riguardi del diritto comunitario ed in particolare rispetto al Trattato di Schengen sulla libera circolazione. Una sua sospensione sarebbe infatti giustificata soltanto da eventi eccezionali. Essa si presterebbe, in caso contrario, ad infiniti contenziosi di fronte alla Corte di Giustizia Europea, con un doppio rischio: quello di non spostare di una virgola il problema e nel frattempo di aver ancora di più esasperato gli animi. Senza contare il fatto che in Europa, quando si rompe il quadro condiviso di regole vale il principio:"oggi a me, domani a te".

Europa: sieropositivo 10% dei detenuti… e 20% delle donne

 

Asca, 15 maggio 2008

 

L’Aids è un problema sempre più al femminile. Lo evidenziano gli ultimi studi e le rilevazioni illustrate oggi a Roma in occasione del Seminario Europeo "European In and Out Project", dedicato alla diffusione e alla cura della malattia nelle carceri, secondo i quali la percentuale delle donne non tossicodipendenti che risultano sieropositive è arrivata a toccare il 10% dei detenuti (circa 63%) che hanno accettato di sottoporsi al test.

Più precisamente - ma i dati, avvertono i clinici, sono in divenire - secondo uno studio effettuato in Spagna, Germania, Scozia, Lombardia per l’Italia, e nel carcere di Odessa per l’Ucraina, su 19.772 detenuti 12.560 hanno accettato di sottoporsi al test per l’Hiv e 1.351 (circa il 10,8%) sono risultati positivi. Le donne erano 1.414, il 7,1% del campione. Di queste, hanno fatto il test l’80,4%, risultando positive nel 21,1% dei casi. Ma il dato preoccupante è che le non tossicodipendenti rivelano percentuali di positività superiori almeno 25 volte al dato relativo ai sieropositivi nella popolazione generale.

Spiega all’Asca il prof. Sergio Babudieri, dell’Istituto Malattie Infettive dell’Università di Sassari: "Mentre ci si aspetta il dato di una percentuale di sieropositive del 28,6% fra le tossicodipendenti, sorprende il 15,8% registrato fra donne non tossicodipendenti. Si tratta, dunque, di soggetti che vivono in situazioni di marginalità e per i quali il carcere diventa il luogo dove la malattia viene intercettata. Sono donne per le quali la salute non è un bene primario perché vivono al limite della sopravvivenza e il carcere è l’unico luogo dove possono trovare educazione sanitaria e cure".

Gli Istituti penitenziari, dunque sarebbero non un amplificatore, "ma un concentratore di patologia dal momento che ospitano prevalentemente individui appartenenti a strati socio-culturali che, soprattutto durante la permanenza in libertà meno sentono il bisogno di salute come necessità primaria". "Il penitenziario - spiega Babudieri - per il 17,1% dei pazienti è l’occasione per iniziare la terapia" , anche se poi solo il 42,% assume regolarmente i farmaci, non perché questi non siano disponibili ma perché tutto è molto è affidato alla buona volontà del paziente. "Non si ricorda mai abbastanza che la Salute in carcere è salute pubblica. Protezione della salute all’interno è anche salute fuori".

Dalla sua identificazione ad oggi l’Aids ha ucciso nel mondo più di 20 milioni di persone e la pandemia, nonostante i fondi erogati e gli sforzi per consentire l’accesso alle terapie antiretrovirali, continua ad espandersi. Secondo stime Unaids alla fine del 2005 erano circa 39 milioni gli adulti ed i bambini affetti dall’infezione, di cui circa la metà costituita da donne di età superiore ai 15 anni. In Italia la Lombardia è la regione più colpita con un tasso di incidenza del 5,8 su centomila abitanti, seguita dall’Emilia Romagna, la Liguria, l’Umbria e il Lazio.

Usa: turista italiano arrestato perché gli è scaduto il visto

 

Adnkronos, 15 maggio 2008

 

Ha vissuto una brutta avventura il 35enne italiano Domenico Salerno quando il 29 aprile scorso è volato negli Stati Uniti a trovare la sua ragazza americana, Caitlin Cooper. Sbarcato all’aeroporto internazionale Dulles di Washington, il giovane ha mostrato il passaporto alle autorità dell’immigrazione e si è visto rifiutare l’ingresso. Dopo ore di domande e richieste di spiegazioni, gli agenti hanno vietato al connazionale anche di rientrare con il primo volo in Italia e lo hanno spedito nel carcere regionale di Hannover, in Virginia, sostenendo che aveva mostrato paura al pensiero di tornare in patria e aveva chiesto asilo negli Usa.

Salerno si è trovato così a passare diversi giorni in cella in compagnia di altri 75 detenuti, alcuni dei quali gli hanno raccontato che avevano richiesto asilo da un anno, fino a quando gli avvocati ingaggiati dalla famiglia della sua ragazza sono riusciti a farlo scarcerare la scorsa settimana. A raccontare la vicenda kafkiana è il quotidiano americano New York Times, commentando che l’avventura vissuta da Salerno è probabilmente un "caso limite", ma significativo dei rischi che possono correre le migliaia di visitatori in arrivo negli States dai 27 paesi europei che fanno parte del cosiddetto Visa Waiver Program. A denunciare la storia è stata la ragazza di Salerno, la 23 enne Cooper che mercoledì scorso in una mail al quotidiano ha scritto: "Un europeo innocente, che non ha mai infranto la legge o commesso alcun reato o rimasto negli Usa oltre la scadenza del suo visto viene tenuto in carcere". Il quotidiano americano ha così deciso di andare a fondo e ricostruire la storia nel dettaglio.

 

 

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