Rassegna stampa 11 luglio

 

Giustizia: inchiesta sulla sicurezza, la paura nasce sui media

di Carlo Ruggiero

 

www.rassegna.it, 11 luglio 2008

 

I poliziotti sulle strade? "Ad averceli". Con una battuta dal palco dell’assemblea annuale della Confesercenti, Silvio Berlusconi ha recentemente ribadito la difficoltà di garantire una maggiore sicurezza sulle strade. "È difficile ingaggiare nuovi poliziotti - ha chiosato il Cavaliere - Dobbiamo quindi approfittare dell’esercito, facendo passare i nostri soldati dal ruolo di forze armate a quello di polizia e carabinieri". Il governo, dunque, si prepara a spedire 2.500 militari sulle strade per pattugliare le città italiane. Quella dei militari con compiti di polizia, però, è solo una delle molte novità contenute nell’ormai famigerato decreto sicurezza, già approvato dal Senato e in procinto di essere esaminato dalla Camera.

Il provvedimento, oltre a contenere la tanto discussa legge "salva premier", rappresenta un deciso giro di vite contro la criminalità comune, contiene norme per rendere più facili le espulsioni dei clandestini, prevede l’aggravante dell’irregolarità per l’immigrato che compie un reato, assegna nuovi poteri per i sindaci e prescrive pene più severe per chi guida in strato di ebbrezza. La sicurezza e la lotta all’immigrazione, d’altro canto, sono state i due cavalli di battaglia della vincente campagna elettorale del Popolo delle libertà, e i primi provvedimenti del governo sembrano voler rispondere a un evidente debito di serenità del popolo italiano. Ma l’Italia è davvero un paese tanto insicuro? Il personale addetto alle attività di repressione è effettivamente così insufficiente? In sostanza, qual è il vero rapporto tra i crimini commessi, la crescente percezione di insicurezza, le richieste dell’opinione pubblica e le più recenti scelte del governo?

 

Quanti reati, quanti poliziotti?

 

L’unico modo per tentare di dare una risposta a queste domande è affidarsi ai dati relativi al numero di crimini concretamente commessi ogni anno in Italia. Ebbene, le uniche cifre ufficiali in circolazione, quelle del ministero dell’Interno, sembrano contraddire l’allarme sicurezza che si è diffuso negli ultimi tempi: dati alla mano, il nostro sembrerebbe un paese ben più sicuro di quanto non appaia e sicuramente meno pericoloso di quanto non fosse 15 anni fa. Tutti i reati, ad eccezione del furto di motocicli, sono infatti in calo e per alcuni, come l’omicidio, la diminuzione è piuttosto vistosa. Nel 2006, ultimo anno per il quale si dispone di dati definitivi, gli omicidi sono stati 621, 393 in meno rispetto al 1995, e addirittura 1.280 in meno rispetto al 1991. In appena tre lustri, insomma, gli assassinii in Italia si sono ridotti a un terzo.

Significativo è il caso di Napoli, la città che nell’immaginario collettivo appare come la più pericolosa d’Italia: all’ombra del Vesuvio il tasso di omicidi ogni 100 mila abitanti è passato dal 9,1 del 1990 al 3,3 del 2006. Sul territorio nazionale non solo sono diminuite le morti violente, ma anche il numero degli scippi risulta in calo: nel 2006 si è registrato un tasso di 37 borseggi ogni 100 mila abitanti, il più basso degli ultimi 30 anni. Stesso discorso va fatto per i furti in appartamento che fanno registrare una diminuzione del 41 per cento tra il 1999 e il 2006. Per quanto riguarda gli immigrati, invece, il rapporto conferma che l’incidenza degli stranieri che commettono reati sul nostro suolo è decisamente più alta dell’incidenza degli stranieri residenti in Italia. Nel 1988 gli immigrati in Italia rappresentavano lo 0,8 per cento della popolazione, mentre gli arrestati erano il 6 per cento. Nel 2006 il divario è aumentato dal 5 al 33 per cento. Come dire che se gli stranieri in Italia sono 1 ogni 20 italiani, quelli che finiscono in prigione sono invece 1 ogni 3 nativi. I reati per cui gli stranieri vanno in carcere, inoltre, sono borseggio, rapina, furto in abitazione e rapina in strada, ovvero quei reati che, pur non essendo gravissimi, risvegliano il rancore dei cittadini e l’insicurezza sociale.

Per quanto riguarda queste cifre, bisogna comunque tener conto che sono soprattutto gli immigrati irregolari a delinquere, mentre i regolari hanno indici di criminalità simili a quelli degli italiani. Se la paura dell’immigrato trova dunque almeno una parziale e incompleta giustificazione nei dati ufficiali, per quanto riguarda l’organico delle forze dell’ordine le cifre sembrano invece "smontare" ulteriormente l’allarme sicurezza lanciato dal governo. Non è affatto vero, come sostiene Berlusconi, che in Italia esiste una preoccupante carenza di poliziotti. Tra i grandi paesi europei, il nostro è quello che sulla carta ha il maggior numero di addetti con compiti di polizia. I dati provengono dall’indagine Onu sul crimine del 2004 (The Eighth United Nations Survey on Crime Trends and the Operations of Criminal Justice Systems): per ogni 100 mila abitanti, in Italia ci sono circa 559 agenti, in Francia ce ne sono solo 210, in Germania 294, in Gran Bretagna 259.

 

Insicurezza percepita

 

Eppure, nonostante queste cifre, negli ultimi anni la percezione del pericolo dei cittadini italiani è cresciuta in maniera esponenziale. Siamo diventati uno dei paesi più sospettosi d’Europa. In base alle indagini dell’Eurobarometro relative al 2005, infatti, il 58,7 per cento degli italiani considera la criminalità una questione rilevante, un dato tra i più alti in Europa. Il 33 per cento, inoltre, sceglie la criminalità come problema "numero uno", a fronte di un 29 per cento che indica l’inflazione e a un 27 per cento che si preoccupa della disoccupazione.

Tra l’altro il senso di incertezza sembrerebbe non rispondere in modo diretto alle statistiche giudiziarie: secondo una ricerca dell’Istat, presente nel rapporto "100 statistiche per il paese", i reati che destano più allarme sono il furto in appartamento e quello di automobili, malgrado la curva di questi due crimini segni una netta diminuzione sia nel medio che nel lungo periodo. Non è un caso, dunque, se le angosce degli italiani si addensano soprattutto nelle regioni del Nord, anche se il maggior numero dei reati vengono invece consumati nel Meridione. Nel 2005, in Italia, ci sono stati 10,3 omicidi ogni mille abitanti, contro una media europea di 14 omicidi, e 2,5 milioni di delitti denunciati. Eppure anche i paesi in cui la media di delitti è ben più alta della nostra registrano una percezione del pericolo inferiore a quella degli italiani. Certo, questi dati risentono delle notevoli differenze esistenti tra i sistemi penali e giudiziari europei e della propensione a denunciare o meno i reati, soprattutto di lieve entità, ma quella italiana resta comunque un’anomalia: la "forchetta" tra sicurezza reale e sicurezza percepita appare fin troppo ampia.

 

Il ruolo dell’informazione

 

Non è un caso, dunque, se l’Istat consiglia di distinguere tra la componente oggettiva dell’insicurezza, rappresentata da comportamenti antisociali o delittuosi, e una soggettiva, costituita dalla percezione dell’allarme sociale da parte della popolazione, e indica l’informazione come uno dei fattori che potrebbero aver contribuito a distanziare ulteriormente queste due componenti. La criminalità e l’immigrazione, in effetti, ricoprono sempre più una dimensione importante nell’economia dell’informazione italiana, soprattutto di quella televisiva. Secondo Mario Morcellini, preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Roma e uno dei massimi esperti italiani di televisione e industria culturale, "quello che è successo in Italia ha dell’inquietante: abbiamo visto un Paese che non è certo alla guerra civile, descritto dai media in modo caricaturale. L’informazione italiana ha prodotto l’immagine di un stato in preda alle invasioni barbariche, pieno di immigrati, unici responsabili del male che ci affligge. Mentre è evidente che gli stranieri in Italia sono ancora pochi rispetto alla media europea e che il male si trova soprattutto nel nostro sistema visivo. Questa è una delle prove più lampanti dell’inadeguatezza culturale del sistema informativo italiano".

Anche in questo caso ci sono alcuni notevoli dati oggettivi ai quali fare riferimento. Il Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva, per intenderci il laboratorio di analisi dei mass-media gestito dai Radicali, ha condotto una ricerca dettagliata sulla presenza della criminalità nelle principali edizioni dei telegiornali italiani degli ultimi 5 anni. I risultati che raccolgono sono eclatanti: le notizie di cronaca nera, cronaca giudiziaria e criminalità organizzata risultano raddoppiate, se non addirittura triplicate, in pochi anni, passando dal 10,4 per cento dell’intera durata dei Tg nel 2003, al 23,7 per cento in quelli del 2007. Questa proliferazione del crimine in tv, tra l’altro, non conosce confini. Coinvolge tanto la Rai quanto Mediaset e La7 e, nell’ultimo periodo analizzato, sembra addirittura inarrestabile. Mentre nel periodo 2003-2005, infatti, la rappresentazione di eventi criminosi si è mantenuta sostanzialmente costante, a partire dal 2006 si è registrata una vera e propria esplosione del tempo dedicato a omicidi e affini, con un ulteriore aumento nel corso del 2007. Così, nel 2006, in 3 delle 7 testate rilevate (Tg2, Tg5 e Studio Aperto), la cronaca nera è stato l’argomento più in vista, addirittura prima della cronaca politica, mentre nel 2007 oltre 200 volte i fatti di cronaca nera sono stati l’argomento di punta, quello che ha "aperto" i telegiornali.

Secondo Morcellini, però. "il problema non riguarda solamente le televisioni ma anche tutti i giornali, tanto di destra quanto di sinistra, che hanno cooperato alla costruzione di quella che io chiamo "la gigantografia della cronaca nera". Rispetto alla criminalità, infatti, tranne le testate economiche, nessuno è riuscito a trovare un’autonomia di racconto: tutti hanno cooperato, con le stesse modalità, alla creazione di questo clima collettivo". Si tenga conto, però, che le edizioni dei Tg esaminati in questa analisi del Centro d’ascolto sono quelle maggiormente seguite dai telespettatori italiani, con dati di ascolto degni dei programmi più visti, e che in un anno corrispondono a circa 5.100 singole edizioni per oltre 2500 ore di programmazione. Dati alla mano, insomma, il dubbio che il sistema informativo italiano e in particolare le televisioni abbiano contribuito a infondere un certo senso di insicurezza degli italiani non appare del tutto infondato.

Giustizia: blocca-processi ritoccato; Ghedini: ora il Pd lo voti

 

L’Unità, 11 luglio 2008

 

Il governo presenta in Aula alla Camera le modifiche alla norma blocca-processi. "È una riformulazione dell’emendamento in cui rimane fermo il principio generale di dare priorità a determinati processi - spiega Niccolò Ghedini, legale di Berlusconi e parlamentare Pdl - cioè ai processi più gravi, ma si dà assoluta discrezionalità ai dirigenti degli uffici, quindi ogni singolo tribunale farà la propria valutazione su come gestire i ruoli d’udienza. Non c’è più una norma rigida che impone determinate decisioni, ma ogni singolo tribunale potrà attagliare la norma alle sue esigenze". Con questa riformulazione, secondo Ghedini, l’opposizione "può ora votarla".

Il governo in realtà ha presentato due emendamenti al decreto sicurezza: uno per ogni proposta di modifica inserita al Senato dai presidenti delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali, Filippo Berselli e Carlo Vizzini. Una che introduceva un elenco di priorità dei reati da perseguire e un’altra, subito ribattezzata blocca-processi, che sospendeva automaticamente per un anno tutti i processi per reati punibili con condanne fino a 10 anni commessi entro il 30 giugno 2002. E il governo, in sostanza, modifica la blocca-processi servendosi dell’elenco delle priorità per dare la precedenza ad alcuni processi rispetto ad altri.

E così, alla luce delle modifiche proposte dal ministero, dovranno essere celebrati subito i processi che prevedono il rito per direttissima, quelli con imputati detenuti e quelli per reati più gravi come mafia, terrorismo e anche incidenti sul lavoro. In più i capi degli uffici giudiziari, si legge nell’emendamento, nell’individuare i criteri di rinvio, dovranno tener conto della "gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa".

In questo modo, spiegano i tecnici di Largo Arenula, "si renderà possibile la celebrazione dei processi qualificati dalla legge come prioritari senza, al contempo, introdurre alcuna automatica e necessaria sospensione dei procedimenti non prioritari e creando pertanto uno strumento flessibile e adeguabile alle esigenze di ogni singolo ufficio e alle, spesso notevolmente distinte, realtà locali". Il rinvio, che non potrà superare i 18 mesi, sospende anche i termini di prescrizione e non potrà essere disposto se l’imputato si oppone e se è già stata chiusa la fase del dibattimento. Gli elenchi delle priorità disposti dai singoli Capi degli uffici dovranno essere comunicati al Csm e al Guardasigilli che esprimerà la sua valutazione in sede di relazione annuale alle Camere sull’amministrazione della Giustizia. La parte civile potrà trasferire l’azione in sede civile. E in questo caso i termini a comparire saranno abbreviati fino alla metà e il giudice dovrà dare precedenza a queste azioni trasferite.

Nell’emendamento che riguarda esclusivamente l’elenco delle priorità, si amplia la lista dei procedimenti che dovranno essere celebrati prima degli altri. I considerati prioritari dovranno così essere quelli nei quali l’imputato è detenuto o in stato di fermo; quelli che riguardano reati come mafia e terrorismo, ma anche incidenti sul lavoro e circolazione stradale, immigrazione clandestina e reati che siano puniti con pene superiori ai quattro anni; quelli nei quali ci sono casi di recidiva reiterata.

"Rimane ferma la sospensione della prescrizione nei casi di rinvio - aggiunge l’avvocato a capo del pool di difensori di Berlusconi - e quindi non c’è nessun documento per la persona offesa che potrà trasferire l’azione in sede civile con tempi dimezzati. A noi sembra una soluzione che tiene conto delle critiche che erano state avanzate e della funzionalità dei processi e dei tribunali".

"L’opposizione - è la "candida" idea di Ghedini - aveva fatto una polemica sbagliata su queste norme. Il lodo Alfano ha una precisa funzione, mentre il blocca-processi serve a far sì che si possano celebrare i processi davvero urgenti. È certamente diversa la norma così come verrà approvata da quella che era passata in Senato, quindi io penso che anche l’opposizione potrà tranquillamente votarla".

Niccolò Ghedini, si dice convinto che da parte dell’opposizione ci siano state "polemiche strumentali". Così come era "sbagliato", dice, sostenere che Lodo Alfano e blocca-processi andassero di pari passo: "Dall’opposizione c’è stata una polemica sbagliata su queste norme, erano assolutamente l’una scollegata dall’altra. Il Lodo Alfano ha una sua precisa funzione, l’altra norma serve a far sì che si possano celebrare i processi davvero urgenti".

Ma l’Idv è irriducibile. "Adesso c’è la prova che il presidente del Consiglio era pronto a mandare all’aria 100 mila processi per salvarsi", afferma il capogruppo di Italia dei Valori alla Camera Massimo Donadi. Berlusconi, aggiunge, "ha ottenuto dal Parlamento sequestrato il riscatto, che non è il lodo Alfano ma la porcata Alfano, e adesso lascerà libera la giustizia perché si è messo in salvo".

Ma non è l’unico commento di questo tipo. Anche Donatella Ferranti, capogruppo del Pd in commissione Giustizia alla Camera, nota ""strane coincidenze e singolari sincronie temporali". Prima il via al Lodo Alfano poi le modifiche della salva premier a premier già salvato, insomma. "Questa vergogna che avrebbe avuto effetti dirompenti nell’ordinamento giudiziario, come più volte denunciata con forza dal Pd, viene finalmente fermata - dice la Ferranti - e questo accade all’indomani dell’approvazione del cosiddetto Lodo Alfano a dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, che era stato tutto architettato per mettere al riparo il premier dai suoi problemi giudiziari. Ottenuto ciò con il ddl approvato ieri, la maggioranza toglie il blocca-processi ma non perché avrebbe avuto l’effetto di lasciare impuniti reati gravi come lo stupro, la rapina e la corruzione ma perché il premier è stato messo al sicuro".

Quanto al lodo Alfano, il disegno di legge sull’immunità per le quattro alte cariche dello Stato, approvato nel pomeriggio di giovedì dall’assemblea di Montecitorio, è arrivato ora a Palazzo Madama dove è assegnato alle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia. È previsto per lunedì 14 luglio nel tardo pomeriggio un ufficio di Presidenza delle due commissioni per stilare il calendario dei lavori. Intenzione della maggioranza è di accelerare i tempi e con ogni probabilità le due commissioni nella prossima settimana esamineranno e voteranno il lodo Alfano in modo da mandarlo in aula da lunedì 21 luglio, nella seduta delle ore 17 già fissata. Già ieri è stata calendarizzata per martedì 15 luglio, alle ore 10, la Conferenza dei capigruppo che deciderà sul calendario dei lavori.

Con il Lodo Alfano, spiega ancora Ghedini, si introducono "delle norme che riguardano le alte cariche dello Stato e che sono poste a tutela della funzione per evitare che si debba continuare a fare polemica ogni volta che si presenta un ddl sul fatto che quella norma si attagli o meno a un processo in corso". "È una norma - sottolinea - che serve al buon andamento della politica. Tutto il resto erano polemiche strumentali. Ad esempio, sulla blocca-processi Berlusconi aveva detto pacificamente che mai l’avrebbe utilizzata, e comunque la nuova formulazione non si applica ai suoi processi in corso".

Giustizia: Onida e Zagrebelsky; viene forzata la Costituzione

 

La Repubblica, 11 luglio 2008

 

Mentre la Camera approva il lodo Alfano, a Milano due presidenti emeriti della Corte Costituzionale demoliscono i provvedimenti sulla giustizia targati Berlusconi. Per Valerio Onida e Gustavo Zagrebelsky il modo in cui quella norma è stata appena licenziata dall’aula di Montecitorio non trova tracce nel nostro ordinamento: "Lo si potrebbe anche approvare - spiega Onida - ma solo con una procedura di modifica costituzionale". Conclusione: "Non è serio, non è possibile che una classe politica agisca in questo modo". E Zagrebelsky, a proposito della sentenza con cui l’Alta Corte nel 2004 bocciò il lodo Schifani: "Non pensavo che dopo quella sentenza l’argomento sarebbe tornato all’ordine del giorno, anche se nel dispositivo non si parlava di modifica della Costituzione, che è la cosa fondamentale".

La reprimenda dei due costituzionalisti arriva in una saletta della Camera del lavoro di Milano, dove l’associazione Libertà e Giustizia cerca di fare il punto sul "momento difficilissimo che stiamo vivendo", come dice la presidente Sandra Bonsanti. Prima di entrare, i due professori si fermano a un banchetto per lasciare le loro impronte, il tutto verrà mandato al ministro Maroni. Poi l’affondo: "Lo status delle alte cariche dello Stato - dice dal palco Zagrebelsky - è definito dalla Costituzione, che afferma il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge".

Dunque per bloccare i processi che li riguardano bisogna cambiare la Carta, non si scappa. "Purtroppo - aggiunge - chi ora governa ha aperto un conflitto tra due principi, legalità e legittimità: il primo è improntato al rispetto delle leggi, il secondo viene usato dal premier per dire "mi hanno votato anche sapendo che avevo quei processi in corso"". La conclusione è amara: "La premessa per cui tutti accettano i principi della Costituzione oggi non è più condivisa nel Paese".

C’è Alessandro Amadori, il sondaggista, a confermarlo, gettando lo sconforto in platea: ha ragione Berlusconi, i consensi per lui sono saliti ancora, ora è al 60 per cento della fiducia. Certo, il suo pacchetto giustizia ha indici di gradimento assai meno elevati (tra il 50 e il 55 per cento), ma questo non influisce affatto sul giudizio complessivo dato al premier. Forse, insinua la Bonsanti, c’è qualcosa da obiettare ai leader del centrosinistra "che mi sembrano un po’ assenti". O forse - ma questo lei non lo pensa - hanno ragione quelli di piazza Navona?

Umberto Eco lo esclude, e nella sua lettera parla addirittura di "esito circense di quella manifestazione". Corrado Stajano scuote la testa: "Se il Pd avesse aderito, non sarebbe finita così". Ma qualche cenno autocritico sui mali della giustizia, arrivano pure dai due ospiti d’onore. Soprattutto da Onida: "Alcune delle reazioni del centrosinistra a questa situazione criticabile hanno lo stesso difetto di chi la prodotta: la faziosità; in piazza Navona mi è sembrato che fosse così". Per non essere faziosi, servirebbe riconoscere che "il modo in cui la giustizia ha funzionato in Italia non è sempre stato corretto". Un paio di esempi: l’indagine su Sandra Mastella, o anche gli "abusi" commessi nel perseguire il reato di abuso d’ufficio, che "è stato giustamente ridimensionato dal Parlamento". Insomma: "Non sarebbe male fare una riflessione sul giustizialismo".

Giustizia: Garante nazionale dei detenuti, proposta di Fleres

 

Dire, 11 luglio 2008

 

Non è caduto nel dimenticatoio l’appello lanciato prima delle elezioni dal Coordinamento nazionale dei garanti dei diritti dei detenuti. Il budget per le attività del 2008 previsto è di 10 milioni di euro.

Non è caduta nel dimenticatoio la richiesta di costituire un Garante dei diritti dei detenuti unico per tutto il territorio nazionale. A riproporre la questione, interrotta "in un momento quasi decisivo" a causa della fine anticipata della scorsa legislatura, è il senatore del Pdl Salvo Fleres, che raccoglie l’istanza in un disegno di legge ad hoc. Sulla questione interviene anche il Coordinamento nazionale dei garanti dei diritti delle persone limitate nella libertà personale, con la richiesta però che il Garante sia nominato dal Parlamento e non dal Consiglio dei ministri (come previsto nel nuovo ddl).

Con diversi garanti provinciali o regionali presenti a macchia di leopardo sul territorio, l"Italia è l"unico paese dell’Europa occidentale a non avere una figura di calibro nazionale dedicata al rispetto dei diritti dei detenuti. Il ddl 343, firmato da Fleres, Mario Ferrara e Salvatore Piscitelli (tutti senatori Pdl) è stato presentato il 6 maggio scorso e sarà discusso all’interno della Commissione permanente per la Giustizia presieduta da Filippo Berselli.

Tra i poteri attribuiti al "Garante nazionale per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale", ed estesi anche ai garanti locali e ai loro collaboratori, il libero accesso senza preavviso all’interno di carceri, Cpt, ospedali psichiatrici giudiziari, camere di sicurezza dentro commissariati, caserme dei carabinieri e della guardia di finanza e strutture in cui sono ospitate persone che usufruiscono di pene alternative, con la possibilità di parlare direttamente con i detenuti e di accedere ai loro fascicoli personali.

Tra le figure soggetto di tutela anche gli italiani all’estero. Ponte tra i detenuti, il Garante dovrà vigilare sul rispetto delle regole e delle leggi stabilite dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali sulla tutela dei diritti umani, con l’obbligo di relazionare ogni anno al Parlamento e alle istituzioni locali. Tra i suoi compiti, anche il controllo dell’adeguatezza dei locali di detenzione, la raccolta e la segnalazione di istanze e reclami di tutte le persone private della libertà, la promozione del reinserimento sociale e lavorativo degli ex detenuti, l’informazione e la sensibilizzazione sul tema. Il budget per le attività del 2008 proposto dal ddl è di 10 milioni di euro, di cui 400 mila di retribuzione per il Garante e il suo vice.

Punto "caldo" della discussione sul Garante resta la modalità di nomina della figura e del suo vice: secondo il ddl Fleres, entrambi sono nominati dal Consiglio dei ministri su proposta del Presidente del Consiglio e restano in carica per 5 anni rinnovabili una volta sola. Di diverso avviso il Coordinamento nazionale dei garanti, intervenuto con una nota firmata dal Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Bologna Desi Bruno.

Dopo aver chiesto l’istituzione del Garante già nel corso della campagna elettorale di quest’anno, il Coordinamento non nasconde la soddisfazione per l’iniziativa del senatore Fleres e si dice "disponibile ad un confronto affinché la proposta accolga la più ampia condivisione possibile nel definire le caratteristiche di indipendenza, autonomia e imparzialità di questa figura di garanzia". Caratteristiche che però, scrive Bruno, "devono e possono essere assicurate solo da una nomina espressa dal Parlamento".

È poi "necessaria" la condivisione sulle competenze del Garante "nei confronti dei cittadini italiani detenuti nelle carceri all’estero" ed è auspicabile "l’apertura di un dibattito che coinvolga tutta la società". Nell’ottica del Coordinamento nazionale, l’istituzione del Garante dovrà portare inoltre "alla piena valorizzazione del ruolo e delle esperienze sinora realizzate dai Garanti istituiti nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni".

Giustizia: Sappe; bene Ionta a Dap, servono subito interventi

 

Comunicato stampa, 11 luglio 2008

 

"Auguriamo davvero buon lavoro al nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta, nominato oggi dal Consiglio dei Ministri, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Roma. Molto c’è da fare per gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria e per il sistema carcere in Italia e ovviamente molte sono le nostre aspettative verso il presidente Ionta, che ci auguriamo prosegua nella strada tracciata dal suo predecessore Ettore Ferrara per una maggiore valorizzazione professionale del Corpo.".

È l’augurio e l’auspicio di Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’Organizzazione più rappresentativa del Personale con 12mila iscritti, alla notizia che il Consiglio dei Ministri di oggi ha nominato il nuovo Capo dell’Amministrazione Penitenziaria.

È per noi doveroso, per prima cosa, ringraziare per quanto ha fatto il Capo Dap uscente Ettore Ferrara, che ha lavorato molto bene per il Corpo di Polizia penitenziaria e si è dimostrato interlocutore serio, affidabile e altamente qualificato. Siamo contenti che è stata confermata la titolarità del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ad un magistrato, in grado di garantire il principio della terzietà rispetto alle aspettative dei dirigenti provenienti dai ruoli della nostra amministrazione. Ci auguriamo che anche nella scelta dei suoi più stretti collaboratori si avvalga di esponenti della magistratura. Per altro, ringraziamo quanto ha fatto il Capo Dap uscente Ettore Ferrara, che ha lavorato molto bene per il Corpo di Polizia penitenziaria e si è dimostrato interlocutore serio, affidabile e altamente qualificato.

Il nostro auspicio è che Ionta prosegua nel compiere le importanti riforme che sono state messe in cantiere con Ettore Ferrara, importanti e strutturali riforme che riguardano il Corpo di Polizia Penitenziaria. Mi riferisco, in particolare, ai progetti che prevedono l’affidamento al Corpo dei controlli sulle misure alternative alla detenzione e sull’esecuzione penale esterna, le riforme del Gruppo Operativo Mobile e dell’Ufficio per la Sicurezza Personale e per la Vigilanza (Uspev) oltre ad una serie di interventi mirati per quanto concerne il potenziamento degli organici del Corpo e per arrivare ad istituire finalmente la Direzione generale del Corpo di Polizia Penitenziaria nell’ambito del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

Nell’ambito del Ministero della Giustizia conclude Capece è indubbio che le problematiche che riguardano il settore penitenziario debbano essere poste tra le priorità d’intervento. Il Corpo patisce una carenza di organico di oltre 4mila unità, mancano 2.500 unità nei diversi profili professionali del Comparto Ministeri e, a fronte di ben 550 dirigenti, ci sono ancora penitenziari che non hanno un direttore in pianta stabile. Attendiamo da più di un anno il previsto avvicendamento dei dirigenti generali che guidano i Provveditorati regionali, ma la macchina dell’Amministrazione penitenziaria è ingolfata e non parte.

Il fallimento del provvedimento d’indulto hanno portato le carceri del Paese a livelli allarmanti di affollamento, con conseguente aggravio della già difficoltose condizioni di lavoro delle donne e degli uomini appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. È palese, infatti, che la grave situazione penitenziaria che si registra oggi nei nostri Istituti di pena si ripercuote principalmente sulle donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Ed è quindi su queste priorità che, a nostro avviso, deve muoversi il nuovo Capo Dap Franco Ionta, al quale rinnoviamo il nostro sincero benvenuto.

Giustizia: è ora che il Parlamento modifichi la legge Merlin

di Alfonso Papa (Magistrato e deputato del Pdl)

 

www.radiocarcere.com, 11 luglio 2008

 

Si fa un gran parlare in questi giorni di modifiche normative alla disciplina del reato di sfruttamento della prostituzione. In effetti dati ufficiali testimoniano cifre da capogiro in ordine ai soggetti che con maggiore o minore frequenza hanno rapporti sessuali mercenari. Singolare è il fatto che nell’ipocrita dibattito sul sesso a pagamento, nessuno ha il coraggio di mettere adeguatamente in risalto le atroci caratteristiche assunte, anche grazie alla normativa vigente.

Ai tanti padri di famiglia ai quali periodicamente capita di accostare utilitarie, berline o suv da loro guidati a ragazzine semivestite ai bordi delle strade che poi li riportano a casa, prima di abbracciare figlie e figli della stessa età, raccontiamo una storia che non ha niente a che vedere con bordelli, goliardate o esperienze pruriginose da boudoir.

La protagonista della storia può chiamarsi Alina, Nina, Svetla o come vi pare. Vive nella infinita periferia del cuore di un impero che non esiste più e che oggi si chiama Ucraina, Moldavia o come vi pare. Abitualmente arriva in Italia dopo l’esito di trattative condotte da uomini senza scrupoli, suoi connazionali, direttamente con la famiglia e con la prospettiva dorata di un buon lavoro, come badante, baby sitter, o magari, se la ragazza ha i numeri, anche in un night club di lusso, come quelli sfarzosi che si vedono da qualche anno nel centro di Mosca.

La trattativa, si badi bene, riguarda quello che la famiglia della ragazza si impegna a riconoscere ai mediatori per quella che è un’ occasione che viene offerta. Raramente la ragazza arriva in Italia con un visto italiano. Quasi sempre è un visto di altri paesi di area Schengen, attraverso il quale riesce a raggiungere il nostro territorio. Perché? Molto probabilmente perché negli altri paesi dove la prostituzione è regolata, non c’è spazio per la prostituta "a nero" o minorenne.

In Italia la ragazzina proveniente dal paesino dal nome impronunciabile ai confini del confine col nulla, viene accolta nelle periferie delle grandi città o in province più o meno sperdute, da cittadini della sua o di etnie vicine e trattenuta in squallidi appartamenti. Dopo averle requisito il passaporto, queste persone la sottopongono normalmente a un "tirocinio" fatto di stupri collettivi, violenze, vessazioni fisiche e psichiche.

Alle ragazze che rifiutano di prostituirsi, vengono poi riservate ustioni, piccole mutilazioni, asportazione di unghie, notti passate legata a testa in giù finché non cambiano idea.

Attualmente la legislazione italiana punisce il lenocinio ma in effetti non era forse pronta a questa nuova forma di schiavismo, senza precedenti, fatto di assoggettamenti che hanno più a che vedere con la barbarie che non con la prostituzione.

Il controllo di queste persone sulle ragazze si avvale di un contatto più o meno costante con i familiari i quali, tenuti all’oscuro dagli aguzzini di quel che accade a figlie e sorelle, sono anche orgogliosi che la loro bella ragazza ce l’abbia fatta.

Ci siamo mai chiesti perché le nostre strade sono ormai le ultime realtà europee di prostituzione, anche di minorenni, a cielo aperto? Forse perché siamo l’ultimo paese occidentale puttaniere e ipocrita che, vietando il fenomeno, ne patisce gli effetti più atroci e irrimediabili.

I fatti orribili delle cronache recenti ci raccontano storie di raccapriccio e orrore metropolitano, generate dall’indifferenza e dall’arretratezza di una legislazione che non lascia giustificazioni a nessuno. Anni fa, nel corso di incontri tenuti a supporto delle iniziative giudiziarie della procura di Napoli contro il racket della prostituzione delle ragazze dell’est, un importante diplomatico di un paese ex sovietico mi chiese perché l’Italia non faceva nulla per segnalare che da noi, contrariamente ad altri paesi europei la prostituzione è di fatto proibita, ma lo Stato non riesce ad arginare forme di schiavitù.

Questo sarebbe stato un ottimo deterrente per tante ragazze inconsapevoli ed allettate dal (un tempo) bel paese. Oggi si parla con insistenza di riformare la legislazione. Per favore, facciamolo, e ben venga l’iniziativa referendaria "Strade Protette" lanciata da Daniela Santanché sulla modifica della Legge Merlin e subito ripresa dal Governo con un provvedimento ad hoc.

Può essere un ottimo punto d’inizio, non per legalizzare la prostituzione ma per porre fine alla più indecente e orribile delle forme di schiavitù del terzo millennio. Sarà certo un regalo per le vite di migliaia di giovani vittime, probabilmente per la salute di altrettanti partner inconsapevoli, ci auguriamo un principio di resipiscenza per quei padri ben pensanti di ritorno la sera a casa.

Giustizia: un padre separato e un figlio negato, l’atto inutile

di Emile

 

www.radiocarcere.com, 11 luglio 2008

 

L’atto inutile. Una storia di straordinaria ingiustizia. Purtroppo non un caso isolato. Il 26 marzo 2003 viene alla luce in una clinica romana un bambino di circa tre chili. Romolo (i nomi sono di pura fantasia ma la storia è vera), bambino sano, a cui dei genitori senza molta fantasia gli appioppano il nome del nonno.

I primi quattro anni di Romolo non differiscono di molto da quelli di tanti altri bambini. Il 28 maggio 2007 però la vita del giovane rampollo cambia drammaticamente. I genitori decidono di separarsi. L’evento già di per sé traumatico acquisisce una valenza catastrofica poiché determina la perdita del padre.

Il 17 settembre 2007 Riccardo e Margherita dopo mesi di liti giungono ad un accordo. Mettono nero su bianco. Il piccolo sarà affidato ad entrambi e vivrà a Roma nell’abitazione della madre. Il padre potrà tenerlo due pomeriggi infrasettimanali, due weekend al mese. Le feste natalizie le passerà ad anni alterni con la madre o il padre.

L’accordo viene formalmente siglato e il 29 gennaio 2008 il tribunale di Roma emette un decreto di affidamento congiunto che recepisce e ratifica l’accordo raggiunto dalle parti. L’atto inutile. Riccardo è soddisfatto. Illuso. Non conosce l’ingiustizia italiana. Non immagina che il 29 gennaio 2008 ha di fatto perso i figlio e che questo ha perso il padre.

Margherita senza nessuna ragione nega a padre e figlio la possibilità di stare insieme. L’accordo tamquam non esset. Margherita non risponde al telefono e ignora le richieste che Riccardo gli fa personalmente e tramite il suo avvocato.

Nel febbraio 2008 Massimiliano incontra Romolo una sola volta. L’ultima. Il 26 febbraio 2008 comunica a Margherita che avrebbe preso il figlio il 29 febbraio. Margherita risponde che non è possibile poiché è a Cortina per la settimana bianca. Il 28 febbraio Riccardo insiste, un ulteriore telegramma, nel quale fa presente che sarebbe andato a prendere il minore a scuola martedì 4 marzo e giovedì 6 marzo.

Margherita è lapidaria, niente da fare è a Milano. Riccardo si rende disponibile ad andare a prendere il figlio a Milano per tenerlo con sé dal 28 marzo al 30 marzo e dal 4 al 6 di aprile. Margherita risponde che non sarebbe stato possibile in quanto era già stata programmata una partenza per Montecarlo. Uno spiraglio: Margherita comunica che sarà a Roma il giorno 25 e 26, giorni in cui Romolo sarebbe stato a disposizione del padre. E aggiunge che per la Pasqua trovandosi Montecarlo qualora Riccardo avesse voluto vedere il figlio si sarebbe dovuto recare nel principato.

Roma, l’abitazione materna, Riccardo trova solamente la domestica. Il viaggio a Montecarlo. Margherita chiede di essere raggiunta presso un ristorante. All’arrivo Riccardo apprende che Romolo non potrà andare con lui, ma che se vuole può pranzare con il figlio la madre e il suo nuovo compagno. Riccardo si allontana muto per cercare di non creare traumi al figlio. Ennesimo telegramma nel quale Riccardo si lamenta dell’accaduto e chiede di vedere il figlio nel weekend successivo.

Un’altra risposta positiva: Romolo è a disposizione del padre sabato 5 aprile alle ore 10. Stessa sorte delle precedenti: la domestica non sa cosa dire e Riccardo non sa più che cosa fare. Chiede aiuto all’avvocato. Vuole che il giudice che ha siglato l’accordo intervenga. L’avvocato gli risponde che nulla può e gli consiglia di contattare un collega penalista per sporgere una denuncia. Atto presentato alla stazione dei carabinieri il 10 aprile 2008.

Il calvario di Riccardo e Romolo però non muta. Il 26 maggio vi è udienza presso il Tribunale dei minorenni. Il giudice in seguito alle lamentele di Riccardo consiglia di iniziare ad azionare il decreto di cui dispone, quello famoso del 29 gennaio. Nuovo scambio di telegrammi. L’appuntamento è a Milano. Nessuna risposta al citofono. Tentativo sul telefonino, ovviamente staccato. Ore 18 si aprono le porte del comando dei carabinieri di via Moscova.

Il maresciallo chiama Margherita. Dopo un breve colloquio afferma che non ci sono problemi e che Margherita gli aveva chiesto di richiamare alla presenza di Riccardo. Nessuna risposta. Giunge invece la telefonata dell’avvocato di Margherita, terminata la quale il Maresciallo inizia a sporgere la denuncia. Il 28 giugno 2008 Riccardo credeva che sarebbe stato il giorno buono. L’avvocato gli aveva detto di avere concordato con l’avvocato di Margherita la possibilità di prender il figlio per il fine settimana a Porto Cervo. La stazione dei carabinieri di Porto Cervo non ha nulla da invidiare a quella di via Moscova. Il lunedì telefonata disperata all’avvocato, la risposta: nulla posso, è utile contattare il penalista che sicuramente potrà fare qualcosa. Seconda telefonata.

L’avvocato quasi vergognandosi risponde che nessuno avrebbe potuto costringere la madre a dargli il figlio e che la denuncia era ferma da più mesi in attesa di un adempimento burocratico: l’elezione di domicilio. Riccardo chiude la telefonata: ho perso un figlio e lui ha perso un padre.

Giustizia: caso Contrada; sì al ricovero, ma in "day hospital"

 

Apcom, 11 luglio 2008

 

Permettere che gli accertamenti diagnostici ritenuti necessari avvengano sì presso il centro nutrizionale del II Policlinico di Napoli, ma in day hospital e non in stato di ricovero. Lo chiedono i difensori di Bruno Contrada, gli avvocati Giuseppe Lipera e Grazia Coco, in una istanza al tribunale di sorveglianza di Napoli.

I penalisti chiedono ai giudici di disporre "ancor meglio, una perizia medico-legale, collegiale o meno, al fine di verificare quanto reiteratamente assunto dalla Direzione Sanitaria del Carcere Militare (oltre che da tutti i medici di parte del dottor Contrada) e cioè che le condizioni di salute del detenuto sono incompatibili con il regime carcerario". Bruno Contrada, 77 anni, sta scontando una condanna a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. L’ex funzionario del Sisde, in una lettera inviata al tribunale, ha scritto: "La detenzione ospedaliera con piantonamento ha influenza negativa sul mio stato di salute psichica, come si è verificato nei quindici giorni di ricovero ad Aprile 2008 all’ospedale civile di Santa Maria Capua Vetere. Mi assumo in pieno la responsabilità della mia decisione di rifiuto del ricovero di cui trattasi".

Teramo: i bambini disabili fanno visita a detenuti Castrogno

 

Asca, 11 luglio 2008

 

I piccoli ospiti del centro diurno di riabilitazione e avviamento al lavoro di Atri hanno mostrato ai detenuti i lavori realizzati nei laboratori di pittura e poi hanno messo in scena la fiaba "Biancaneve e i sette nani". Quindici gli attori sul palco. Hanno varcato le porte del carcere per portare un po’ di allegria a chi vive dietro le sbarre. È accaduto nei giorni scorsi a Teramo, presso la casa circondariale Castrogno, dove i bambini disabili del centro diurno di riabilitazione e avviamento al lavoro Domenico Ricciconti di Atri hanno incontrato i detenuti e hanno mostrato alcune delle loro creazioni: i disegni e la terracotta dei laboratori artigianali e la favola "Biancaneve e i sette nani", messa in scena da quindici giovani attori. Il laboratorio teatrale, unico in Abruzzo, è stato realizzato grazie alla collaborazione della cooperativa sociale L’Aquilone che, con sociologi e psicologi, gestisce il centro diurno per conto della Fondazione Ricciconti.

Vicenza: ex direttrice carcere ricorre contro il trasferimento

 

Giornale di Vicenza, 11 luglio 2008

 

Irene Iannucci, alla guida del carcere cittadino da tre anni e mezzo, martedì scorso ha lasciato via Della Scola per raggiungere la casa circondariale di Udine, dove da anni ricopre l’incarico di vicedirettore. Ma l’ha fatto annunciando un ricorso contro la sua rimozione, decisa dal capo del personale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

Lo segnalano i sindacati, in particolare Gianpietro Pegoraro della Funzione pubblica regionale della Cgil che, fin dalla notizia del suo trasferimento - avvenuta ancora all’inizio di luglio - non ha perso tempo scrivendo una lettera firmata anche da Francesco Colacino del Cnpp e da Leonardo Angiulli coordinatore regionale dell’Uilpa.

Nella lettera si segnalava il disappunto per una decisione che i sindacati consideravano non solo inopportuna, ma che avrebbe messo a rischio l’equilibrio che si era instaurato tra i vertici della casa circondariale e tutta una serie di progetti che, in questi anni, erano stati avviati sia con i detenuti (corsi di giardinaggio, agricoltura, pittura, panificazione, lavorazione di vari metalli, attività ricreative con incontri di calcio, corsi di yoga e la convenzione con i mediatori culturali), sia con il corpo di polizia penitenziaria chiamato a svolgere servizio allo stadio piuttosto che in fiera, durante le rassegne più importanti.

"Nel documento ministeriale - spiega Pegoraro - non si fa alcun accenno alla dott. Iannucci e questo è inconcepibile dopo tutto quello che ha programmato. Per cui non solo comprendiamo il suo ricorso, ma rimaniamo in attesa di una risposta alla nostra lettera. E infine vogliamo verificare quanto prevede il decreto ministeriale che riguarda la riorganizzazioni delle carceri e le motivazioni dei trasferimenti dei direttori".

Intanto martedì è arrivato il nuovo direttore Fabrizio Cacciabue che già ricopriva il medesimo incarico della casa circondariale di Rovigo e che aveva già diretto il carcere di Vicenza negli anni Ottanta.

"Il primo effetto del passaggio delle consegne - continua Pegoraro - è sotto gli occhi di tutti: ogni attività è stata bloccata. Ci rendiamo conto che tutto questo sia normale, evidentemente il nuovo direttore dovrà prendere visione di quanto è stato costruito finora. Ci auguriamo solo che i tempi non si allunghino, anche perché operiamo in una struttura che ospita più di 300 detenuti quando ne dovrebbe contenere poco più di un terzo".

Ma non è finita: i sindacati sono spaccati. In una nota il segretario regionale della funzione pubblica della Cisl, Ruggero Bellotto, prende nettamente le distanze dalle altre sigle. "La dott. Iannucci non rivestiva la qualifica dirigenziale adatta alla direzione del carcere vicentino, pertanto la sostituzione era quantomeno prevedibile e colloca una professionalità adeguata, il dott. Cacciabue, laddove è prevista. Se così non fosse accaduto si potrebbe supporre - conclude la nota della Cisl - che l’Amministrazione penitenziaria non tiene in giusta considerazione il carcere di Vicenza". A questo punto l’ultima parola spetterà all’esito del ricorso dell’ex direttore.

Matera: interrogazione sul carcere, fuori da standard europei

 

Ansa, 11 luglio 2008

 

"Il carcere di Matera ha gravi carenze infrastrutturali e di personale che lo pone al di fuori degli standard previsti dal Consiglio d’Europa". Lo denunciano i sen. Carlo Chiurazzi, Maria Antezza e Filippo Bubbico con un’interrogazione al ministro della Giustizia nella quale ricordano "la casa circondariale versa in condizioni assolutamente gravi sotto i profili dell’igiene e della sicurezza, dell’adeguatezza infrastrutturale e del presidio della polizia penitenziaria".

"In particolare - spiegano - le numerose barriere architettoniche presenti nell’edificio limitano significativamente gli spazi e la stessa vivibilità dell’istituto, costringendo i detenuti e il personale assegnato a tale carcere, a trascorrere intere giornate in spazi assolutamente sottodimensionati rispetto agli standard e ostacolando il passaggio da una zona all’altra dell’istituto. Inoltre, sono poi del tutto inadeguate agli standard di sicurezza e igiene normativamente previsti, le condizioni strutturali dell’istituto e in particolare quelle relative alla sala adibita alla mensa, che esigerebbe invece la massima conformità ai canoni prescritti".

"Una situazione che rende ancor più difficile la vita penitenziaria per i detenuti come per il personale impiegato nel carcere, al punto da indurre i primi ad atti di autolesionismo in segno di protesta e i secondi a manifestare la propria preoccupazione in diverse sedi ed occasioni. La fonte di preoccupazione principale degli agenti di polizia penitenziaria risiede nelle gravi carenze di personale che caratterizzano questo istituto, ove a fronte di un organico che, relativamente alla polizia penitenziaria, prevede la presenza di 170 unità, dispone allo stato di soli 116 agenti".

"Tale sottodimensionamento del personale di polizia penitenziaria, rispetto all’organico previsto, è suscettibile di determinare gravi disagi e disfunzionalità nella gestione dell’istituto, che rischia di sfociare in atti di violenza o grave insubordinazione da parte dei detenuti, come dimostra il caso dell’11 giugno scorso, quando diversi agenti di polizia penitenziaria sono stati feriti e colpiti, riportando gravi lesioni. Tale condizione di forte criticità è suscettibile di aggravarsi ulteriormente nel periodo estivo, in ragione della temporanea riduzione del personale per le ferie".

"È necessario - concludono i senatori del Pd - che il ministro intervenga per l’adeguamento strutturale e la messa in sicurezza della casa circondariale di Matera, conformandola agli standard normativamente previsti e alle prescrizioni sancite in proposito dal Consiglio d’Europa, oltre a disporre un complessivo riequilibrio a livello nazionale del personale di polizia penitenziaria, al fine di garantire, in primo luogo per il periodo estivo e quindi stabilmente, la presenza, nel carcere di Matera, di un numero di agenti sufficiente rispetto alle esigenze e alle caratteristiche dell’istituto e conforme alle previsioni di organico".

Napoli: detenuto 67enne malato… vuole tornare in Sardegna

 

Agi, 11 luglio 2008

 

"Affetto dal morbo di Parkinson, da una forma di paraplegia, dalla psoriasi e da gravi disturbi claustrofobici, un detenuto sardo, che ha scontato 24 anni girovagando per i penitenziari d’Italia, chiede di poter tornare in Sardegna e di essere adeguatamente curato". Lo denuncia il consigliere regionale socialista Maria Grazia Caligaris (PS) facendosi interprete della condizione di Francesco Catgiu, 67 anni, di Orgosolo, attualmente recluso a Secondigliano. "Non pecco di vittimismo - ha scritto il detenuto in una lettera in cui ripercorre le tappe della sua vicenda personale - ma le mie condizioni di salute richiedono cure costanti e medicinali costosi che non posso permettermi di comprare perché non possiedo denaro sufficiente. Sono in carcere dal marzo 1984. Nella mia lunga odissea ho attraversato i peggiori penitenziari d’Italia e ho subito maltrattamenti. Sono ricoverato nell’Infermeria Centrale di Secondigliano".

Lanciano: detenuto-spazzino trova e restituisce borsa rubata

 

Il Centro, 11 luglio 2008

 

Ha trovato una borsa abbandonata a Mottagrossa e l’ha restituita alla proprietaria. Protagonista del gesto, che dopo i recenti fatti di cronaca di Pescara assume un rilievo positivo, è un detenuto della casa circondariale di Torre Sinello, impegnato nel progetto "Marina mia", l’iniziativa finalizzata alla risocializzazione e al reinserimento sociale dei reclusi attraverso l’attività di pulizia e bonifica del tratto di costa che ricade nella riserva naturale di Punta Aderci. Il detenuto stava pulendo la spiaggia di Mottagrossa, insieme ad altri reclusi, quando ha rinvenuto la borsa. Non ha esitato e l’ha consegnata agli operatori della cooperativa Cogecstre, i quali, a loro volta, hanno avvertito i carabinieri. I documenti contenuti all’interno hanno consentito di risalire alla proprietaria. "La signora aveva lasciato la borsa nel baule dell’auto", racconta Alessia Felizzi, referente locale della Cogecstre, "l’hanno aperto ed è stata derubata.

I ladri hanno portato via il denaro contante, ma forse per una svista, hanno lasciato gli orecchini d’oro che erano custoditi in una tasca. La donna ha ringraziato tutti di cuore, ed in modo particolare il detenuto". Per il direttore della casa circondariale di Vasto, Stefano Liberatore, il gesto dimostra la validità delle azioni messe in campo per il recupero di quei reclusi che, per la pena da scontare e per il percorso riabilitativo effettuato all’interno dell’istituto possono usufruire di permessi da parte del magistrato di sorveglianza.

"È la conferma del raggiungimento degli obiettivi che ci eravamo prefissati", commenta il direttore, "il progetto, che va avanti da due anni in collaborazione con l’amministrazione comunale, è finalizzato al recupero dei detenuti e al loro reinserimento attraverso l’attività lavorativa". Fra gli obiettivi a medio e lungo termine del progetto c’è anche quello di costituire una cooperativa di tipo B di servizi di pulizia e manutenzione.

Napoli: la Festa di Sant’Egidio nel carcere di Poggioreale…

 

Comunicato stampa, 11 luglio 2008

 

Oggi, 11 luglio 2008, nella chiesa della Casa Circondariale di Poggioreale la Comunità di Sant’Egidio organizza una festa per 200 detenuti. La Comunità di Sant’Egidio è presente nell’istituto napoletano da vari anni svolgendo attività di sostegno ai detenuti ed iniziative di carattere culturale, religioso e sociale.

In questo periodo di forte caldo e di grande difficoltà per molti detenuti, nel cuore del 40° anno di vita di Sant’Egidio, si vuole regalare un pomeriggio di svago e di serenità a chi vive ristretto carcere napoletano che oggi conta la presenza di 2.200 detenuti. La Comunità di Sant’Egidio regalerà all’Istituto alcune copie della Guida "Dove mangiare, dormire, lavarsi" edizione 2008, che contiene tutti gli indirizzi utili (mense, ambulatori, posti letto) dove in Campania si può avere aiuto e accoglienza. La guida verrà data ai detenuti che escono dal carcere e che non hanno dimora e riferimenti familiari. Alla manifestazione interverrà Sal da Vinci che con le sue canzoni allieterà il pomeriggio, e alla fine un gelato per tutti. Per info Antonio Mattone: 339.2205000

Immigrazione: sciopero fame in Cpt Milano, proteste a Roma

di Olivia Fiorilli

 

Carta, 11 luglio 2008

 

La prima scintilla della protesta è stata una piccola rivolta scoppiata nel Cpt di via Corelli a Milano il primo luglio. I detenuti hanno divelto panche e telecamere e rotto alcuni vetri per protestare contro le condizioni nelle quali sono costretti a vivere. La rivolta - non certo la prima, dato che una situazione simile si era già prodotta nel 2005-è scoppiata in seguito alla protesta di un recluso di origini egiziane che chiedeva l’accelerazione della procedura di espulsione a suo carico, data l’invivibilità della situazione dentro il Cpt.

Da sabato 5, invece, i detenuti e le detenute di via Corelli sono in sciopero della fame. E intendono proseguire la protesta a oltranza, per rivendicare la propria liberazione dal centro di detenzione e per denunciare le condizioni di vita all’interno del centro: vitto scarso e scadente, continue espulsioni, condizioni igieniche pessime, intimidazioni e maltrattamenti da parte della polizia e mancanza di cure mediche, in particolare per i detenuti sieropositivi. Nonché reazioni rabbiose da parte della polizia e degli operatori della Croce rossa ogni volta che i detenuti denunciano questa situazione. La protesta dei reclusi di via Corelli è sostenuta dall’esterno dal Comitato antirazzista di Milano, a cui si sono affiancati altri gruppi a Torino e Bologna.

Il Comitato milanese ha protestato davanti al Cpt di via Corelli sia sabato che lunedì scorso, non riuscendo però, a causa del divieto della prefettura, ad entrare nel centro di permanenza temporanea. In contemporanea un presidio si svolgeva anche davanti al centro di detenzione di Torino. Domenica si sono invece mobilitati gli antirazzisti bolognesi. La situazione non è semplice per chi protesta all’interno del centro, dal momento che il rischio di espulsione immediata è sempre presente: due dei detenuti che hanno preso parte alla rivolta sono già stati deportati, raccontano gli attivisti del Comitato antirazzista, in contatto con i reclusi del Cpt.

Ma a via Corelli i detenuti cercano di organizzarsi: è in preparazione un dossier che racconterà i casi più anomali di detenzione all’interno del centro. "Tutti devono sapere la profonda ingiustizia che stiamo subendo qui dentro: persone, costrette a lavorare in nero, prelevate direttamente dal posto di lavoro. Persone in possesso di documenti regolari e rinchiuse perché ancora in attesa di un rinnovo. Persone a cui non è stata convalidata la detenzione, riportate in questura per un nuovo decreto di espulsione, convalidato poi dal giudice successivo", scrivono, in un comunicato diffuso attraverso il Comitato antirazzista, i detenuti di via Corelli, che fanno appello "a tutti gli antirazzisti perché sostengano la nostra lotta in nome dei principi di giustizia, uguaglianza e dignità umana che devono essere garantiti a tutti e senza condizioni". "Noi ci presenteremo periodicamente davanti al centro, anche se è blindato - dice un attivista del Comitato - e sicuramente abbiamo in cantiere una visita al cpt".

Anche a Roma l’esasperazione del clima di persecutorio nei confronti dei migranti ha portato ad una protesta improvvisata. Ieri, nel tardo pomeriggio, un gruppo di senegalesi che vivono nel quartiere Pigneto, si sono ribellati all’ennesima perquisizione della palazzina dove abitano e al sequestro della merce che vendono per vivere. Il Corriere della sera, questa mattina, raccontava di 5 fermi e del sequestro di merce contraffatta. "Un’operazione di routine" alla quale gli altri abitanti della palazzina avrebbero risposto con "insulti, minacce e qualche spintone ai militari, che si sono difesi", ma senza alcun contatto fisico. La "calma", secondo il quotidiano, sarebbe stata riportata dall’arrivo della polizia, che ha condotto i 5 fermati a San Vittore.

Ma i racconti dei presenti e delle persone direttamente coinvolte, ieri, davano un’altra versione dei fatti. La guardia di finanza sarebbe entrata per l’ennesima volta nella palazzina, sequestrando la merce ma rifiutandosi di rilasciare documenti scritti o di stilare un verbale dell’operazione che ufficializzasse in qualche modo l’avvenuto sequestro. Secondo i racconti degli abitanti della palazzina di via Campobasso questa non è la prima volta che accade una cosa simile: si tratta ormai di una procedura quasi quotidiana. Questa volta gli abitanti della palazzina, esasperati, hanno provato ad opporsi al sequestro della merce.

È volata qualche manganellata e la guardia di finanza, affiancata ad un certo punto dalla polizia, se n’è andata dopo circa un’ora. Nel frattempo una piccola folla si era radunata intorno alla scena. "Questa situazione non è possibile - spiega un abitante della palazzina - ormai vengono spessissimo, entrano in casa, a volte sfondando la porta, senza alcun mandato e portano via la roba senza rilasciarci nulla, senza fare multe. Questa volta si è provato ad attirare l’attenzione della gente qui intorno su questa situazione che non può più continuare".

Immigrazione: operaio clandestino lasciato morire in campo

 

L’Unità, 11 luglio 2008

 

Non hai il permesso di soggiorno? E allora non ti soccorro. Anzi, ti nascondo. È così che è morto Vijai Kumar, l’indiano di 44 anni clandestino in Italia trovato morto in un campo a Viadana, paesano del mantovano a fine giugno.

L’uomo si è sentito male il 27 giugno scorso sul campo dove stava lavorando in nero ma il proprietario avrebbe dato ordine ad altri braccianti di spostarlo in un altro luogo. Per non rischiare una multa, lo ha fatto morire. Vijai è stato poi trovato distante dal campo, accanto ad un filare di alberi dove poi i soccorritori, lo stesso giorno, lo hanno trovato ormai morto. Il titolare dell’azienda agricola "Mario Costa" in cui lavorava l’indiano è stato denunciato a piede libero per omicidio colposo e multato di 90 mila euro per utilizzo di manodopera irregolare.

Le campagne del ricco nord si confermano prontissime a sfruttare la manodopera in nero, sfruttando i disperati che arrivano, sottopagandoli con il ricatto del mancato permesso di soggiorno. Il titolare di una cooperativa viadanese (cooperativa Facchini Vitellini, G.M. 63enne residente a Viadana) che aveva fornito all’azienda otto lavoratori, oltre all’indiano morto, è stato denunciato per caporalato. Durante il blitz dei carabinieri e dei funzionari dell’ispettorato del lavoro sono stati trovati al lavoro altri quattro extracomunitari impiegati in nero.

Droghe: Cassazione; di religione "rasta", può fumare spinello

 

La Repubblica, 11 luglio 2008

 

L’uomo, sorpreso con un etto di marijuana, era stato condannato a 16 mesi di carcere. La Corte ha riconosciuto che per la sua religione fumare spinelli ha un valore sacro.

"La fumano i dottori, la fumano le infermiere, la fumano i giudici e persino gli avvocati". Così nel 1976 cantava Peter Tosh in Legalize it, uno dei più celebri inni alla liberalizzazione della marijuana. La star del reggae non immaginava che 32 anni dopo a dargli ragione sarebbe stata niente meno che la suprema corte di giustizia italiana. Non è esattamente la legalizzazione dell’erba ciò che ha stabilito la sentenza numero 28720 della Sesta Sezione penale della Cassazione, ma il diritto per chi - come Peter Tosh - professa la fede rasta a fumarla a volontà senza incorrere in sanzioni.

Secondo quanto stabilito dai giudici, chi crede in Jah e nella sua reincarnazione nel negus d’Etiopia Haile Selassie I, può liberamente circolare con qualche dose di "ganja" in più del lecito perché "secondo le notizie relative alle caratteristiche comportamentali degli adepti di tale religione di origine ebraica, la marijuana non è utilizzata solo come erba medicinale, ma anche come erba meditativa".

La Cassazione è stata chiamata al pronunciamento in seguito al ricorso di un 44enne di Perugia condannato perché sorpreso dalle forze dell’ordine con un etto scarso di marijuana nella macchina. L’uomo si era difeso sostenendo di essere un adepto alla religione rastafariana e che quindi "l’erba sacra doveva essere consumata fino a 10 grammi al giorno". Una giustificazione "spirituale" che il tribunale di Terni non aveva ritenuto di prendere in considerazione, dichiarando l’imputato colpevole per illecita detenzione a fine di spaccio, condannandolo quindi a un anno e quattro mesi di carcere. Verdetto confermato dalla Corte d’appello di Perugia nel dicembre del 2004 con una sentenza nella quale si specificava che la quantità sequestrata non poteva essere considerata per esclusivo uso personale.

Contro questa decisione l’uomo ha fatto ricorso in Cassazione, ottenendo soddisfazione dalla Corte Suprema che ha rinviato la condanna alla Corte d’Appello di Firenze affinché riconsideri il caso tenendo presente che la tradizione religiosa rasta prevede l’uso della marijuana come "erba meditativa, come tale possibile apportatrice dello stato psicofisico inteso alla contemplazione nella preghiera, nel ricordo e nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone, chiamato il re saggio, e da esso ne tragga la forza, come si evince da notizie di testi che indicano le caratteristiche di detta religione".

 

Cassazione: i rasta possono legalmente consumare marijuana

 

Non va condannato l’adepto rasta sorpreso con una busta di marijuana: la sua religione, infatti, impone l’uso quotidiano di erba sacra da consumare da soli fino a 10 grammi al giorno. Lo si evince da una sentenza della Cassazione, con la quale è stata annullata con rinvio la condanna a un anno e 4 mesi di reclusione inflitta dalla Corte d’appello di Perugia ad un 44enne per illecita detenzione al fine di spaccio di marijuana. L’imputato, trovato in possesso di quasi un etto di erba, da cui potevano essere ricavati 70 spinelli, aveva presentato ricorso alla Suprema Corte contro il verdetto dei giudici del merito, spiegando che, data la sua religione, era giustificata la detenzione della sostanza stupefacente e la conferma che fosse destinata solo ad uso personale.

Gli ermellini della sesta sezione penale hanno accolto il ricorso dell’uomo: "non sfugge infatti che, secondo le notizie relative alle caratteristiche comportamentali degli adepti di tale religione di origine ebraica - si legge nella sentenza n.28720 - la marijuana non è utilizzata solo come erba medicinale, ma anche come erba meditativa, come tale possibile apportatrice dello stato psicofisico inteso alla contemplazione nella preghiera, nel ricordo e nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone, chiamato il Re saggio e da esso ne tragga la forza, come si evince da notizie di testi che indicano le caratteristiche di detta religione".

I giudici della Corte d’appello, secondo la Cassazione, non hanno "operato una logica ricostruzione del fatto", essendo "pacifico" che fu proprio l’imputato a consegnare spontaneamente ai carabinieri una busta contenente marijuana non preconfezionata, precisando subito che il possesso dell’erba era "da lui destinato ad esclusivo uso personale, secondo la pratica della religione rastaferiana di cui si era detto adepto". Dai dati emersi nel procedimento, conclude la Suprema Corte, non si può escludere "l’invocato uso esclusivamente personale" di marijuana e per questo i giudici perugini dovranno riesaminare la questione.

Dichiarazione di Marco Perduca, Segretario della Lega Internazionale Antiproibizionista eletto al senato nelle liste del PD: Non può che essere accolta con un sorriso amaro, specie dal Vaticano, l’accoglimento del ricorso del signor Giuseppe G. contro la condanna a 1 anno e 4 mesi e 4.000 euro di multa per illecita detenzione di marijuana a fine di spaccio (quasi un etto!) inflittagli dalla Corte di appello di Perugia quattro anni fa. Da oggi infatti, se per i seguaci della religione rasta che verranno trovati in possesso di erba in quantità "non modiche" da fumarsi tranquillamente perché aiuta la contemplazione e la preghiera "nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone", per i fumatori cattolici, anche devoti, restano invece previste pesanti sanzioni amministrative prima - e penali poi - frutto della Legge Fini-Giovanardi.

Ora, conoscendo e condividendo le posizioni della Chiesa contrarie al carcere, non si potrebbe correre ai ripari designando un santo a cui votarsi, almeno per l’estate?

"Ecco, ci mancava anche questo, la Cassazione che legittima l’uso di droghe in base alla religione. Se non fosse il 10 luglio sembrerebbe un pesce d’aprile", il deputato leghista Paolo Grimoldi, coordinatore federale del Movimento Giovani Padani, ricorre all’ironia per commentare così la sentenza della Suprema Corte che consente l’uso dell’erba per i rasta. "Una sentenza incredibile e indecente. La Cassazione - prosegue - non è la prima volta che stupisce con decisioni alquanto stravaganti e originali. A questo punto perché non legittimare anche il cannibalismo di alcune tribù equatoriali o le mutilazioni femminili islamiche? Chiunque oggi si potrà definire rasta solo per possedere la droga che gli serve. E poi ci si stupisce - conclude Grimoldi - che la maggioranza voglia fermare il delirio di onnipotenza di alcuni giudici?".

"Finalmente una sentenza che non demonizza una sostanza". Don Andrea Gallo, fondatore e animatore della comunità di San Benedetto al Porto di Genova, plaude ala sentenza della Cassazione che dà l’ok al consumo di erba per gli adepti della religione rastafari. "Il fatto è che non si può continuare a demonizzare una sostanza - afferma il sacerdote che aiuta i giovani con problemi di tossicodipendenza e nel disagio sociale -. C’è da rispettare un principio di auto determinazione. È da trent’anni che favoriamo l’offerta di sostanze stupefacenti demonizzandole, mentre ora la Suprema Corte ha capito che demonizzare una sostanza in quanto tale non è la strada giusta. Si deve colpire l’abuso, non l’uso". Don Gallo dice: "pensiamo allo zucchero: in sé, se non se ne abusa, non è certo dannoso, ma se si esagera si rischia il diabete. È tutta una questione di auto determinazione." Un esempio che a don Andrea serve per affermare che "l’obiettivo è la legalizzazione delle droghe, non la liberalizzazione. Insomma, bisogna darsi delle regole nuove che rispettino il principio di auto determinazione e bisogna distinguere tra uso e abuso, tra spaccio e uso. Questo dovrebbe tenere presente una legge. Perciò ringrazio i giudici della Cassazione perché offrono uno spiraglio in questa direzione", conclude don Gallo.

Uno "stravolgimento della normativa vigente": è questo il commento del Dipartimento per le politiche antidroga alla sentenza con cui la Cassazione ha accolto il ricorso di un seguace "rasta" che era stato condannato perché trovato in possesso di circa un etto di marijuana. "Siamo in attesa - afferma il Dipartimento in una nota - di acquisire le motivazioni della sentenza della VI sezione penale della Corte di Cassazione relativa alla detenzione e distribuzione di Marijuana agli adepti della setta rasta da parte di un correligionario. Se le cose stessero davvero in tal modo, ci troveremmo davanti allo stravolgimento della normativa vigente, che vieta e sanziona penalmente qualsiasi cessione, a qualsiasi titolo, di qualsiasi quantitativo di qualsiasi sostanza stupefacente a terze persone".

Usa: da cani antidroga a segugi sniffa-cellulari nelle prigioni

 

Associated Press, 11 luglio 2008

 

"Cerca!" gli ordina l’agente penitenziario. Il cane entra nella cella, annusa, trova un paio di jeans piegati sul letto e poi si siede, segnale che ha trovato qualcosa. "Good Girrrrrl" (Brava ragazza!), esclama l’agente David Brosky, dando al segugio un premio per aver trovato un cellulare infilato nei pantaloni. Come ci sia riuscito non si sa. Ma è la nuova frontiera del Maryland e della Virginia, i primi due Stati americani ad aver letteralmente sguinzagliato i cani "sniffa" cellulare (in inglese: phone-sniffing dogs) per arginare il contrabbando dei telefonini nelle prigioni.

I detenuti normalmente li nascondono nei calzini, tra i libri o sotto i materassi. Alle volte li usano per chiamare i familiari o gli amici. Ma secondo le autorità il telefonino serve per orchestrare i crimini dal carcere, coordinare le fughe o ordinare le rappresaglie contro altri detenuti. I prigionieri non usano solo i telefonini, li commerciano pure: per averne uno c’è chi paga fino a 350 dollari. Altri Stati hanno preferito approvare delle leggi per punire le guardie carcerarie o i visitatori che glieli procurano. Il Maryland ha tre cani "cerca-cellulare": Alba (la "Good Girl"), che ha effettuato una dimostrazione - scrive il "Washington Post" - nell’ex Casa di correzione di Jessup, Tazz e Rudd. I tre cani sono stati addestrati a trovare i telefonini con le stesse tecniche usate per trovare la droga. Non è chiaro quale parte del telefonino il cane individui, forse si tratta di una combinazione di vari odori. "È più difficile per loro trovare i cellulari che non la marijuana", ha commentato il maggiore Peter Anderson, che coordina le operazioni statali K9 per le prigioni.

 

 

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