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Giustizia: stiamo diventando un paese senza legge e libertà di Giorgio Bocca
La Repubblica, 10 luglio 2008
Guardavo la festa nei giardini del Quirinale per gli atleti che vanno alle Olimpiadi: i corazzieri con l’elmo rilucente, le bandiere tricolori, il capo dello Stato affabile e paterno, i giovani atleti nel pieno della loro vigoria, e il meglio della società civile ad assistere e applaudire, un’Italia pacifica, educata, concorde nell’affettuoso rispetto per i suoi reggenti. E a un certo punto mi è parso di vivere in un sogno, di essere stato trasportato a volo in un altro paese, in uno reale dove i giochi mafiosi sembrano quasi fatti, dove un nuovo sultanato affaristico e criminale è ormai al potere e dispone di corpi armati, di leggi ad personam, di privilegi, di impunità. Ci siamo quasi! A ciò che nella storia risorgimentale e unitaria sembrava impossibile, assurdo, da incubo: vivere in uno stato mafioso, fuorilegge, senza più una Costituzione rispettata, dove in alcune regioni è già sovvertito il rapporto fondamentale della democrazia parlamentare, il voto dei cittadini ai delegati di cui si condividono le idee, la capacità di governo, il voto democratico alle idee e alle persone meritevoli sostituito dal voto al partito di raccolta dei ricchi sempre più ricchi, dei potenti sempre più potenti, quali che siano i simboli e le bandiere dietro cui si presentano. Lo specchio magico della televisione ogni tanto riflette il paese come è anche senza volerlo. Una recente trasmissione dalla città di Catanzaro ci ha mostrato, con una sincerità non sai se candida o perfida, che in quella città come in molte altre al Sud come al Nord, la democrazia è un gioco delle parti indecente: che i partiti vengono scelti e scambiati in continuazione, usati per violare le leggi, ottenere privilegi, prebende, finanziamenti, per fare affari comodi e abusivi. E che tutto avviene fuori da ogni controllo legale e persino professionale. Nel linguaggio e nell’ideologia mafiosi, non a caso la parola amicizia ha sostituito le altre virtù, quali onestà, giustizia, bontà; a una persona non si chiede più di avere queste virtù impegnative, difficili, basta che sia amico. Il modo di pensare mafioso, la catena mafiosa degli amici degli amici sta sovrapponendosi ad altri caratteri italiani, nobili e meno nobili: il familismo, l’attivismo, l’anarchico e il melodrammatico, la reverenza e la sottomissione ai potenti. L’onda lunga del berlusconismo ha radici profonde in due modi di essere: il piacere di servire e il piacere di approfittare, che sono i passi obbligati verso l’autoritarismo. Chi di noi è passato per il lungo viaggio dentro i fascismi ha visto in questi anni e mesi, passo dopo passo, ripetersi il cammino verso la riduzione o la perdita della libertà: la paura borghese per ogni riformismo, il progressivo distacco dall’antifascismo come vigilanza continua, impegno continuo, il revisionismo storico presentato come rigore intellettuale per far passare la diffamazione della democrazia, le piccole e grandi viltà, i piccoli e grandi profitti di chi salta sul carro del vincitore. Passo dopo passo, goccia dopo goccia, ripetendo pedissequamente e quasi con compiacimento gli errori, le debolezze degli anni dell’avvento dei fascismi europei. Poi la marcia all’autoritarismo si è accelerata, è diventata una carica forsennata, una voglia di distruggere ogni forma della democrazia. Che vuol dire in sostanza la legge che stabilisce l’impunità non solo per i capi di Stato, ma per le più alte cariche dello Stato? Vuol dire che si annulla, che si viola il fondamento della democrazia, la legge è eguale per tutti, come abbiamo scritto in tutti i nostri palazzi di giustizia. Le lasciamo, quelle scritte, come abbiamo lasciato per anni sui muri delle nostre case le scritte del regime? Cancelliamo l’indipendenza della magistratura, l’obbligatorietà dell’azione penale? Molti ignorano, amano ignorare che un culto assoluto e deviato della giustizia può diventare dittatura, che furono i giuristi nazisti a imporre le leggi più disumane sull’igiene razziale e sullo sterminio delle razze inferiori. Via i giudici faziosi, via le intercettazioni telefoniche che violano la sacra privacy. Certo, la privacy. Ma chi autorizza un capo di governo a usare un funzionario della televisione di Stato per sistemare le sue amiche? E già che ci siamo, perché non dare subito un avviso forte alla stampa che non rispetta le gerarchie, perché non comminare subito qualche anno di galera a chi pubblica le intercettazioni? La progressione autoritaria è stata denunciata nella manifestazione romana promossa da Di Pietro e dai girotondini e disertata dal Partito Democratico, che si riserva per quella da farsi in autunno. Ma se aspettiamo i giorni in cui cadono le foglie forse saranno anche cadute le nostre residue libertà. Giustizia: se l’immunità per le alte cariche è "il male minore" di Vittorio Grevi (Giurista)
Il Corriere della Sera, 10 luglio 2008
Il male minore di i fronte alle critiche di irragionevolezza che da ogni parte sono piovute sul ben noto emendamento Berselli-Vizzini, inserito a forza dal Senato in sede di conversione del decreto legge sulla "sicurezza pubblica" (allo scopo di sospendere per un anno tutti i processi relativi a reati commessi fino al 30 giugno 2002, per i quali non fosse stabilita una corsia di "precedenza assoluta" nella trattazione), gli schieramenti di maggioranza hanno scelto di accelerare la approvazione del "lodo Alfano", diretto ad assicurare uno scudo immunitario ai "presidenti" titolari delle quattro più alte cariche dello Stato, mediante la sospensione temporanea dei processi che li vedano imputati per reati comuni, fino alla cessazione della carica ricoperta. Una scelta certo discutibile nella forma (per via dell’obiettiva forzatura rispetto all’ordinaria tempistica parlamentare), ma significativa nella sostanza, perché sembra riflettere un salutare ripensamento critico circa la compatibilità con il nostro sistema del suddetto emendamento, tanto impresentabile sul terreno costituzionale, quanto foriero di ulteriori e più gravi disfunzioni per la macchina della giustizia. E, all’origine di tale ripensamento, non è azzardato pensare vi siano state anche le preoccupazioni più volte espresse dal Presidente Napoletano, nel suo difficile compito (oggi più che mai difficile, al cospetto di certe sconsiderate derive populiste) di garante degli equilibri istituzionali. Se siamo dinnanzi, come sembra, ad un mutamento di strategia politico legislativa, nel senso di anticipare l’approvazione del menzionato "lodo" rispetto all’emendamento "blocca processi", e ciò in vista del definitivo accantonamento di quest’ultimo, si tratta di una svolta importante, e per certi aspetti apprezzabile, sia pure secondo la logica (un po' deprimente) del "male minore". È vero, infatti, che nessuno "scambio" in termini di fungibilità è ammissibile tra l’uno e l’altro dei due progettati interventi legislativi, data l’enorme differenza nei rispettivi contenuti e nei conseguenti effetti (salvo restando, in concreto, un effetto comune ad entrambi, rappresentato dalla loro incidenza sospensiva sul processo milanese per corruzione giudiziaria nell’"affare Mills-Berlusconi"). Tuttavia è altrettanto innegabile che le anomale ricadute sull’intero ordinamento processuale derivanti dall’infausto emendamento Berselli-Vizzini sarebbero assai più devastanti rispetto a quelle provocate dalla immunità processuale che si vorrebbe attribuire ai quattro "presidenti", attraverso la sospensione dei processi al loro carico (in pratica, nell’attuale momento storico, tali ricadute si produrrebbero soltanto in rapporto al suddetto processo milanese, ed esclusivamente nei confronti dell’imputato Berlusconi a parte gli sviluppi delle inchieste di origine napoletana sull’"affare Saccà-Berlusconi"). Stando così le cose, e cioè ragionando entro un quadro politico in cui la forza dei numeri della maggioranza potrebbe condurre a qualunque epilogo, anche di allarmante gravità, quella che si va profilando sembra essere la via d’uscita meno traumatica (e, come tale, probabilmente l’unica possibile hic et nunc, anche dal punto di vista del capo dello Stato, alla cui "vigile attenzione" si deve la fondamentale funzione moderatrice esercitata su queste vicende nelle ultime settimane). Purché, da un lato, all’approvazione del "lodo Alfano" corrisponda davvero l’abbandono di una previsione inaccettabile, come quella della sospensione automatica, per un anno, dei processi indicati nell’emendamento Berselli-Vizzini (altro discorso potrebbe farsi, invece, per quanto riguarda il solo criterio della "precedenza assoluta" per altri determinati processi denunciato nel medesimo emendamento, in quanto affidato alle valutazioni dell’autorità giudiziaria). E purché, dall’altro, si sia consapevoli che un privilegio immunitario come quello previsto dal "lodo Alfano" perle più alte cariche dello Stato, anche nei processi per reati comuni, comportando una evidente deroga al principio della "parità di trattamento rispetto alla giurisdizione", richiede per sua natura di essere approvato con legge costituzionale. Con la conseguenza che, se fosse approvato con legge ordinaria (pur non potendosi pretendere un rifiuto di promulgazione da parte del presidente Napolitano, anche alla luce della linea seguita a suo tempo dal presidente Ciampi di fronte al "lodo Schifani"), la relativa disciplina potrebbe correre il rischio di essere dichiarata illegittima dalla corte costituzionale. Un privilegio immunitario come quello previsto dal "lodo Alfano" comporta una evidente deroga al principio della "parità di trattamento rispetto alla giurisdizione" L’unica via d’uscita. Giustizia: cambia il blocca-processi, sceglieranno i magistrati di Liana Milella
La Repubblica, 10 luglio 2008
"Cotto e mangiato" in tre giorni. Con le dichiarazioni conclusive e il voto previsto per stasera, sotto i riflettori della diretta tv (il che esclude sorprese). Il lodo Alfano brucia le tappe alla Camera e si prepara a bissare al Senato. Dove, la prossima settimana, sarà esaminato in commissione per approdare in aula in quella successiva. Toccherà al presidente Schifani decidere se avrà la precedenza sul dl sicurezza che, con la radicale modifica della norma blocca-processi (via la sospensione di un anno, potere ai giudici di accantonare i procedimenti per reati fino a tre anni, quindi indultati, commessi fino al maggio 2006), deve ottenere l’ultimo via libera prima del 24 luglio. Entro fine mese Berlusconi potrà mettersi tranquillo, lo scudo sarà legge e le sue pendenze giudiziarie congelate. La sua tranquillità è tale che si può permettere di essere "magnanimo" coi magistrati e l’opposizione. Tant’è che il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha preparato, "un’ampia riformulazione" della norma, inserita al Senato nel dl sicurezza, che avrebbe dovuto bloccare per 12 mesi i processi per reati fino a dieci anni (compresi quelli di Berlusconi). Per l’Anm sarebbero saltati 100mila processi per reati gravissimi. Adesso la situazione cambia profondamente, il governo sonda il leader del Pd Veltroni, il risultato può tornare utile ai giudici, l’opposizione può cambiare atteggiamento visto che l’ex Guardasigilli Clemente Mastella, dopo l’indulto, si era battuto per una misura simile a quella ora sta per proporre Alfano. Resta l’indicazione ai giudici di dare priorità ai processi per reati gravi e gravissimi. Cade l’obbligo ex lege di sospendere per un anno i procedimenti, i capi degli uffici potranno accantonare i procedimenti con pene fino a quattro anni per reati commessi fino al maggio 2006. Crimini non gravi e commessi a ridosso dell’indulto del 29 luglio. Per evitare un’amnistia mascherata per i processi congelati non correrà la prescrizione. Ieri sera l’ufficio legislativo di via Arenula era al lavoro, ma il ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito ne ha annunciato la presentazione. Con una chiosa politica: "Di nessuna di quelle righe si potrà dire che giovano a Berlusconi". L’obiettivo è che in aula, sul lodo, cambi il clima con l’opposizione. Il Pd ha continuato a martellare il governo su un testo che Massimo D’Alema considera "rozzo e inappropriato", "costituzionalmente molto discutibile", da non discutere in tre giorni perché Berlusconi ha un problema da risolvere". I deputati hanno letto un intervento fotocopia, cui ha risposto Alfano: "Aumentare stipendi e pensioni? Parlate di emergenze che ci avete consegnato voi. Abbiamo tolto i rifiuti da Napoli che ci avete lasciato, l’Ici che ci avete lasciato, preso contromisure contro l’immigrazione clandestina determinata dalla vostra cattiva applicazione di una nostra buona legge". Il voto contrario del Pd è scontato. L’Udc di Pier Ferdinando Casini si asterrà perché "a noi non interessa votare no, ma eliminare la blocca-processi". Il lodo Alfano "è un rattoppo, non è blindato da un voto costituzionale e soprattutto non è un provvedimento condiviso", manca "la via maestra di un’immunità all’europea", ma c’è stata "una riduzione del danno e non salteranno 100mila processi". In casa centrista quasi scontato il no di Bruno Tabacci, che già fu contro il lodo Schifani, e che ieri polemizzava con il "ministro ombra Ghedini" per il doppio ruolo di avvocato e deputato. Con atteggiamento buonista, il Pdl che con Cicchitto e Gasparri, nella riforma del regolamento parlamentare, riconosce un ruolo al governo-ombra in cambio del sì a dl e ddl in 60 giorni, accetterà di modificare il lodo votando un emendamento di Mantini (Pd). Scudo solo una volta, anche in caso di cambio di incarico o funzione nella stressa legislatura. Giustizia: la lotta alla mafia non può fare a meno del 41-bis di Gian Carlo Caselli (Procuratore Generale di Torino)
L’Unità, 10 luglio 2008
C’era una volta che i mafiosi nessuno li cercava. Poi si cominciò a catturarne qualcuno, ma non sempre restavano in carcere. Robusti killer allenati alla ferocia, spietati torturatori e compiaciuti esecutori di efferate sentenze di morte, di colpo diventavano fragili omiciattoli, cagionevoli di salute, afflitti da mali d’ogni tipo che li rendevano incompatibili col carcere. Quei pochi che in carcere ci rimanevano, vivevano ben diversamente dai detenuti comuni. Per loro, la prigione era un grand hotel. Tanto che la storia della mafia è stata - per certi versi - anche storia del potere mafioso "nonostante" il carcere e persino "dentro" il carcere. Il detenuto mafioso, abituato a dettar legge ovunque, per decenni è riuscito a trasformare anche il carcere in una porzione del territorio nel quale esplicare il suo dominio, una dépendance della borgata dove spadroneggiava prima della cattura. Un paradossale rovesciamento dei rapporti di forza, dove la parte debole - invece del detenuto - era lo Stato. E il fatto che il mafioso detenuto potesse mantenere intatto il suo potere, nonostante la carcerazione, costituiva un’esibizione di forza che ne accresceva l’autorevolezza, rafforzava il mito dell’impunità mafiosa, vanificava quelle iniziative di contrasto dell’organizzazione mafiosa che una minoranza di uomini onesti cercava di portare avanti. Giovanni Falcone, che ben conosceva questa vergognosa situazione di favore per criminali che avrebbero dovuto essere fronteggiati senza sconti, quando (di fatto cacciato da Palermo) cominciò a lavorare a Roma al Ministero della Giustizia, mise in cantiere - tra l’altro - la normativa sui "pentiti" e l’adozione di nuove norme per i mafiosi detenuti allo scopo di realizzare un trattamento differenziato, modulato sulle specifiche e concrete esigenze di quel tipo di reclusi, senza per altro indulgere ad istanze di tipo meramente vendicativo - retributivo. Mentre Falcone metteva a punto questo progetto, la Cassazione (forte di una presidenza diversa rispetto al passato) confermava le condanne del "maxi processo". Per la prima volta, pesanti pene definitive da scontare in un carcere di giusto rigore. Per i mafiosi, una vera rovina, insopportabile. La strage di Capaci nasce anche di qui: una vendetta postuma contro Falcone e al tempo stesso il tentativo di soffocare nel sangue le riforme progettate. Riforme che di fatto saranno approvate soltanto dopo la strage di Via d’Amelio, soltanto dopo che all’assassinio di Falcane seguì quello di Paolo Borsellino. Per cui quella sui "pentiti" e l’art. 41-bis dell’ordinamento giudiziario (parentesi: ancora una volta la dimostrazione che la legislazione antimafia è piena zeppa di tris, ter, quater, quinquies...: una legislazione sempre soltanto del "giorno dopo") sono norme letteralmente fecondate dall’intelligenza e intrise del sangue di Falcone e Borsellino. Un "particolare" che non si dovrebbe mai dimenticare. L’efficacia del regime del 41-bis, combinato con la legislazione premiale sui collaboratori di giustizia, fu all’origine di una vera e propria slavina di "pentimenti", che consentirono di infliggere a Cosa nostra colpi durissimi e che avrebbero potuto essere definitivi se qualcosa non si fosse messo di traverso non appena l’azione degli inquirenti venne doverosamente indirizzata - oltre che verso i mafiosi "doc" - anche contro i loro compici eccellenti. Frattanto, col trascorrere degli anni, il regime del 41-bis registrò sostanziali modifiche nell’attuazione pratica, tali da indebolirne la capacità di corrispondere alle finalità per cui era stato pensato e approvato (recidere o quanto meno ostacolare i collegamenti dei mafiosi detenuti con l’esterno del carcere). Finché si sono addirittura moltiplicate - ed è il problema oggi sul tappeto - le decisioni della Corte di Cassazione e di vari Tribunali di Sorveglianza che hanno revocato e continuano a revocare i decreti di 41-bis volta a volta emanati del Ministro della Giustizia. In punto revoche, per vero, la giurisprudenza non è univoca. Vi sono sentenze (ad esempio la n. 163/07 della Cassazione) secondo le quali, accertata la "persistente operatività della cosca sul territorio di appartenenza", "per affermare il venir meno della pericolosità sociale del condannato e della sua capacità di mantenere collegamenti con la cosca, occorre individuare elementi specifici e concreti in grado di supportare tale convincimento, che non possono identificarsi né con il mero trascorso del tempo dalla prima applicazione del regime differenziato, né, tanto meno, essere rappresentati da un apodittico e generico riferimento a non meglio precisati risultati di trattamento penitenziario". La giurisprudenza decisamente prevalente, invece, fa leva proprio sul decorso del tempo e sulla regolare condotta del detenuto per escluderne la pericolosità attuate: di qui le numerose sentenze che decretano, anche in casi clamorosi, la fine del 41-bis. Ora, poiché si tratta di sentenze che secondo l’orientamento giurisprudenziale non univoco ma nettamente prevalente corrispondono ai parametri di legge, è evidente che la normativa del 41-bis deve essere rivista alla ricerca di un giusto punto di equilibrio fra rispetto dei diritti dei detenuti ed esigenze di giusto rigore, quando si tratta di mafiosi che non hanno mai dato nessun segnale concreto (neppure minimo) di distacco dall’organizzazione criminale cui appartengono in forza di inoppugnabili condanne. Dando per scontato (salvo che si voglia, come dicono i siciliani, fare solo del "babbio") che la questione del regime carcerario dei mafiosi rimane un nodo centrale nell’azione statale di contrasto alla mafia, e che ogni erosione - o peggio svuotamento - della funzionalità ed efficacia di tale regime carcerario rischia di vanificare i risultati raggiunti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Il ministro Alfano - gliene va dato atto - si è detto convinto che occorrano modifiche legislative per stringere le maglie del 41-bis. Speriamo che non si tratti di uno di quei casi in cui, agli annunzi suggestivi, non seguono poi fatti concreti. Giustizia: un dossier sui "pentiti" che tornano a delinquere…
Il Giornale, 10 luglio 2008
Nei dossier segreti di polizia e carabinieri i nomi di centinaia di collaboratori che usciti di galera hanno continuato a delinquere. Pentiti con licenza di uccidere. Se si dà un’occhiata alle statistiche riservate sui criminali "redenti" che continuano a delinquere a spese dello Stato, si scoprono centinaia di segnalazioni. Il principe dei recidivi è Balduccio Di Maggio, quello del bacio Riina-Andreotti: nel ‘97, già sotto protezione, compie attentati, estorsioni, combatte i vecchi nemici a San Giuseppe Jato. Poi taglieggia un imprenditore in Toscana, a gennaio 2001 viene sorpreso a far da consulente per un traffico di droga. Idem il socio mafioso Salvatore Contorno, beccato a smerciare partite di stupefacenti a Formello, vicino Roma, quindi a ricettare gioielli e merce rubata (secondo il testimone di giustizia Matteo Litrico), a tentare estorsioni a un ex compagno di cella. Gioacchino La Barbera, reo confesso della strage di Capaci, maneggia impunemente esplosivi. Giuseppe Ferone, detto "Camisedda", fa uccidere la moglie del capomafia Santapaola e nel 1996 ordina la strage al cimitero di Catania dove muoiono un ragazzino e la figlia del boss Antonino Puglisi. Quanto ad Alfredo Giordano, camorrista del clan Moceia, finisce in manette nel ‘98 per estorsione a un antiquario. Senza freni il romano Alceo Bartalucci che, prima di assassinare il poliziotto Massimiliano Turazza, a Fumane, mette a segno oltre 150 colpi in banca. E che dire ancora di Paolo Cianciolo, mafioso di Bagheria, che nel dicembre ‘99 (approfittando di una pausa di un processo a Palermo) ammazza con 20 coltellate l’ex fidanzata. Per far fuori l’algerino Mohammed Hallal, il pentito di "Cosa Nostra" Vito Lo Forte, spara invece a Roma con una 38. Proprio come il pentito Roberto Salvatore Menzo che a marzo, nelle campagne di Gubbio, elimina così il "collega" Salvatore Conte. E ancora. Due rapinatori hanno perso il pelo ma non il vizio in Lombardia: Nino Monti, che agisce in proprio, e Vincenzo Antonino, che nel 1999 arruola persino un carabiniere nella sua banda. Il picciotto siracusano Concetto Cassia è catturato dalla polizia all’uscita di una gioielleria appena svaligiata a Pontedera. Arrestati per colpi in banca nel centro di Roma, Gaudio Severino Samperi e Maurizio Avola, due collaudati "confessori" della procura etnea. Poi ci sono Andrea Gallo e lo zio Guglielmo, testi anti-camorra: delinquono fino al 2002 quando vengono pizzicati con 4 chili di eroina. Se il messinese Luigi Forami torna in galera con l’accusa d’omicidio per esser stato assoldato come killer dalla moglie di un salumiere, un ex mafioso dei clan Cursoti, Piergiorgio Pantano, viene prima "ripreso" per ripetute molestie sui bambini e poi arrestato per aver tentato un’estorsione millantando poteri paranormali. Per cinque anni nessuno si accorgerà della doppia vita del siciliano Pierluigi Sparacio, che non smette praticamente mai di gestire gli affari sporchi della cosca. Nella disponibilità dell’ex camorrista Pasquale Loreto nel 1995 viene rinvenuto quasi un miliardo di lire, frutto di usura. A capo della gang dei sequestri-lampo sgominata a Roma nel marzo del 2000 spicca il pugliese Francesco Leone. S’è invece inventato il rapimento del figlio per accusare un rivale tal pentito Salvatore Zirpoli. Un altro Salvatore, Maimone, lo rintracciano i poliziotti in una bisca a San Severino Marche. A proposito di sequestri di persona: va male ad Aldo Mastini che a gennaio del 2000 prova, senza riuscirci, a rapire l’industriale modenese Luigi Cremonini. Sul fronte del traffico di droga, sono esemplari le seguenti storie. Quella del boss della ‘ndrangheta Giacomo Lauro, arrestato a giugno perché frequentava pregiudicati, precedentemente intercettato mentre spacciava in famiglia. Interrogato, s’è difeso così: "Mio fratello Bruno non è in grado di mantenersi se non spacciando droga. Cosa dovevo fare, non dovevo aiutarlo?". Quella del sicario della Scu, Giuliano Giorgi, arrestato con la fidanzata Pamela appena sbarcata a Fiumicino con un chilo di coca; la terza storia riguarda l’ex boss Marcello Rapisarda, incastrato in Emilia Romagna a coordinare una rete di mercanti di stupefacenti; l’ultima vede protagonista l’esattore del racket messinese Orlando Galato Giordano, divenuto spacciatore sotto protezione. Il veronese Franco Alberti un bel giorno confessa ai giudici d’aver venduto dosi anche lui "perché è impossibile troncare tutte le vecchie relazioni". Vincenzo Reder si pente due volte e per altre due volte si pente d’essersi pentito. Così, tra un pentimento e l’altro, spara. Il collaborante di Gela, Salvatore Dominante, il 13 aprile è condannato a due anni a Lanciano per aver chiesto il pizzo a un imprenditore. A Caltanissetta i carabinieri ammanettano, nel luglio 2007, Calogero Pulci intenzionato a far saltare una caserma e ad attentare al sindaco del suo paese. A Catania nei guai finiscono Giovanni Pellegritti (accusato di far parte del clan di Adrano) e Angelo Mascali (per il pm gestiva il racket delle estorsioni). A Bologna, recentemente, Giuseppe Gagliandro "Danieli" è coinvolto in una maxi inchiesta sull’aeroporto. Un caso a parte, quello della collaborante Giacoma Filippello, vedova di un capomafia, arrestata per aver messo su un bordello a Trastevere, proprio come il pentito di Lecco, Antonio Parisi, che aveva fatto del suo domicilio una casa d’appuntamenti. Per finire la "stupefacente" pupa dei boss della Magliana, Fabiola Moretti: per traffico di droga viene arrestata una prima volta nel luglio 1998. Fa il bis nel 2001, insieme a un pentito di ‘ndrangheta: Giovanni Gulla. Chiusura d’obbligo per Angelo Izzo, il mostro del Circeo: uccide madre e figlia nelle campagne di Campobasso. Si comportava bene, era in semilibertà… Giustizia: ddl anti - prostituzione; multe e carcere per i clienti di Francesca Angeli
Il Giornale, 10 luglio 2008
Togliere le prostitute dalla strada e contrastare il fenomeno dello sfruttamento e della riduzione in schiavitù di ragazze spesso minorenni. Questo l’obbiettivo che il governo vuole raggiungere con il disegno di legge sulla prostituzione elaborato di concerto dal ministero dell’Interno e da quello delle Pari opportunità, primi firmatari proprio i ministri Roberto Maroni e Mara Carfagna. La volontà politica c’è e gli uffici tecnici stanno lavorando al testo ma non è certo che si arrivi ad una versione definitiva entro questa sera in modo da presentare il ddl domani in consiglio dei ministri. Tra i punti ancora controversi proprio il primo articolo che, modificando la legge Merlin, vieta la prostituzione nelle strade, nei luoghi pubblici o in quelli aperti al pubblico. Il principio stabilito è quello di punire nello stesso modo sia chi si vende sia chi usufruisce della prestazione: prostituta e cliente commettono dunque un reato ugualmente grave agli occhi del legislatore. E proprio su questo principio non ci sarebbe l’unanimità. Ancora da mettere a punto poi le sanzioni che dovrebbero essere di carattere amministrativo. Soltanto in caso di reiterazione si prevederebbe l’arresto. Dunque una prostituta maggiorenne ed ovviamente non sottoposta a costrizione ed il suo cliente rischierebbero una multa da 200 a 3.000 euro se individuati per prima volta. Previsto invece l’arresto da 5 a 15 giorni e una sanzione da 200 a 1.000 euro in caso di reiterazione del reato. Non viene considerata punibile la prostituta costretta a vendersi con la violenza o le minacce. Per quanto riguarda le straniere in stato di costrizione o ridotte in schiavitù vale il programma di protezione previsto dalla legge sull’immigrazione. Suscita perplessità anche la sanzione che dovrebbe ricadere su chi affitta una casa a chi si prostituisce. L’ipotesi è quella di punire severamente soltanto il locatore che impone alla squillo un canone superiore a quello di mercato. In questo caso si prevede l’arresto da due o sei anni e la multa da 250 a 10.000 euro. Chi invece assiste una prostituta senza fini di lucro o profitto non sarebbe imputabile di favoreggiamento. Visto che di fatto si riaprirebbero ufficialmente le porte delle case private per l’esercizio della prostituzione il ddl stabilisce che le assemblee di condominio possano sia approvare regolamenti che vietino l’esercizio della prostituzione all’interno dello stabile in questione sia prevedere provvedimenti urgenti se l’esercizio della professione in questione da parte di qualche condomino recasse disturbo e turbasse la quiete degli altri condomini oltre il consentito. Pene particolarmente severe sono previste per i clienti delle giovanissime. Per chi compie atti sessuali con minori dai 14 ai 18 anni offrendo denaro o altri tipi di remunerazione scatta la reclusione da sei mesi a tre anni e una multa non inferiore a seimila euro. In caso di minorenni straniere è previsto un programma di protezione ed il rimpatrio assistito. Giro di vite infine per l’associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione: tutte le pene vengono aumentate fino a due terzi per i promotori dell’associazione. Non si parla più invece dell’ipotesi di quartieri a luci rosse. Contrari all’ipotesi del governo i volontari dell’associazione fondata da don Oreste Benzi, Comunità Papa Giovanni XXIII, perché, dicono, trasferendosi nelle case il racket della prostituzione agirebbe "più tranquillamente".
Comunità Giovanni XXIII: ipocrita il ddl del governo
"Denunciamo con forza" lo schema del disegno di legge sulla prostituzione di cui i ministri delle Pari opportunità Mara Carfagna e dell’Interno Roberto Maroni ne sono i firmatari, poiché è "intollerabile l’ipocrisia di chi pensa che si possa risolvere un fenomeno così complesso eliminando esteticamente il problema permettendo che esso si possa trasferire nelle nuova case di appuntamento". È un giudizio sferzante quello dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, che da oltre venti anni lotta per la liberazione delle donne schiavizzate a causa della prostituzione e per il loro recupero. "È vergognoso - si legge in una nota diffusa dall’associazione - e senza ritegno affrontare il dramma della vita di migliaia di giovanissime donne schiavizzate, sfruttate e vendute come merce di scambio legalizzando il meretricio e permettendo di fatto il suo esercizio all’interno di case dove le organizzazioni criminali possano agire indisturbate insieme alla compiacenza dei clienti e delle istituzioni. Restiamo costernati - prosegue l’associazione fondata da Don Benzi - che una giovane donna, ministro delle Pari Opportunità da appena due mesi nel Governo, possa diventare responsabile di una eventuale legge così devastante: per tutelare la sicurezza dei cittadini si invita il cliente a poter sfruttare e violentare inosservatamente il corpo di una schiava facendo favorendo il racket della prostituzione che potrà agire ancora più tranquillamente". Il ministro Maroni, va avanti la nota dell’associazione fondata da Don Benzi, "che tanto desidera garantire la sicurezza dei cittadini sa benissimo che dietro al traffico delle donne fatte prostituire c’è il mondo della criminalità organizzata. Tale proposta legislativa inoltre non colpisce neppure la domanda bensì la maschera - scrivono ancora dalla comunità Giovanni XXIII - invitando il cliente a contrattare il corpo di una donna in un ambiente dove non venga disturbata la cittadinanza". L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, promettono, "non starà a guardare e farà di tutto per impedire che un tale ddl venga approvato. Se sarà necessario - si legge - manifesteremo in tutta Italia il nostro dissenso, in ogni parrocchia e ambito in cui potremmo sensibilizzare l’opinione pubblica e se necessario promuovendo anche un referendum abrogativo per abbattere questa ingiustizia e sappiamo che il mondo cattolico e anche tante associazioni laiche impegnate ci appoggeranno e sosterranno. Chiediamo - si chiude la nota - al presidente del Consiglio e al ministro Carfagna di essere ricevuti per esporre la nostra ventennale esperienza accanto alle vittime della prostituzione schiavizzata e proporre iniziative che vadano a colpire questo mercato criminale fermando la domanda come sta accadendo in Svezia con ottimi risultati e in altri Paesi Europei". Piemonte: la Regione sulla Riforma della Sanità penitenziaria
Comunicato stampa, 10 luglio 2008
Oggetto: Assistenza Sanitaria Penitenziaria. Recepimento del Dpcm 01.04.2008. "Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di Sanità Penitenziaria". Il Dpcm 01.04.2008, predisposto dal Ministero della Salute di concerto con il Ministero della Giustizia, dell’Economia e della Funzione Pubblica, disciplina le modalità, i criteri e le procedure per consentire il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, delle risorse finanziarie, umane e strumentali relative alla sanità penitenziaria, attualmente afferenti al Ministero della Giustizia. Il Dpcm 01.04.2008 viene disposto su indicazione della Legge Finanziaria 2008, Legge 24 Dicembre 2007 n. 244, dove all’articolo 2 commi 283 e 284 vengono individuate le risorse complessive da trasferire alle Regioni e le modalità del trasferimento. Attraverso tale decreto viene posta in essere la riforma della medicina penitenziaria prevista dal decreto legislativo n. 230 del 22 giugno 1999 "Riordino della medicina penitenziaria, a norma dell’articolo 5 della legge 30 novembre 1998, n° 419", e volta a realizzare una più efficace assistenza sanitaria negli istituti penitenziari, negli istituti penali per minori, nei centri di prima accoglienza, nelle comunità e negli ospedali psichiatrici giudiziari. Con tale riforma si equipara il diritto alla salute dei detenuti a quello degli altri cittadini utenti del S.S.N. È pertanto compito del S.S.N., cui è demandata la funzione della tutela della salute dei cittadini, realizzare nell’ambito regionale un sistema in grado di prendersi cura della salute dei detenuti. La Regione Piemonte, in ossequio ai suoi compiti di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari, attraverso i quali si garantiscono a tutti i cittadini del territorio le azioni di prevenzione e le prestazioni sanitarie di cui abbisognano e indicate nei livelli essenziali e uniformi di assistenza, ha da sempre rivelato interesse per la sanità penitenziaria. Le azioni intraprese a tutela del diritto alla salute delle persone detenute sono molteplici. Da subito, con l’emanazione del D.Lgs. 230/99, si è attivata per garantire una assistenza sanitaria efficace e di qualità ai detenuti tossicodipendenti: con la costituzione di un Tavolo ad hoc, la firma di un Protocollo d’Intesa con il Prap, l’avvio di un percorso di formazione integrata rivolto al personale che opera negli istituti penitenziari. Ha inserito la Medicina Penitenziaria nel Piano Socio Sanitario 2007-2010; ha aderito, partecipando alle iniziative di confronto sul piano nazionale con le quali le Regioni interessate operavano per l’individuazione di una linea comune che potesse realizzare la riforma della Sanità Penitenziaria. Con l’emanazione del Decreto 01.04.2008 si conclude la fase della riflessione, dell’analisi e del dibattito, e si apre quella della concretizzazione e della costruzione di un sistema di sanità penitenziaria, i cui riferimenti, i principi sono connessi a quelli stessi che hanno ispirato e costituito il Servizio Sanitario Nazionale. Come tutte le Regioni, anche la nostra Regione è chiamata a concorrere alla realizzazione di un sistema di sanità penitenziaria che sia in grado di creare, come cita lo stesso decreto, condizioni di protezione della salute dei detenuti, attraverso sistemi di informazione ed educazione sanitaria, misure di prevenzione, svolgimento delle prestazioni di diagnosi, cura e riabilitazione. Nella consapevolezza della complessità del progetto, la Regione Piemonte intende affrontare il processo di riforma in modo graduale al fine di raggiungere risultati concreti e duraturi, conformi ai principi che ispirano l’intero processo. La prima fase che si intende affrontare è quella del passaggio di competenze, che presuppone l’ideazione di un intervento che gestisca la fase di transizione. A tal fine, in considerazione di quanto esplicitato, tenuto conto della necessità di individuare i primi interventi finalizzati a garantire la continuità dell’assistenza sanitaria all’interno degli Istituti Penitenziari, si dà mandato alla Direzione Sanità di assumere i provvedimenti necessari. Considerato che la riforma della Sanità Penitenziaria si realizza attraverso l’azione in loco da parte delle Asl sedi di carcere, si ritiene necessario il loro coinvolgimento fattivo, attraverso i referenti aziendali, già individuati con determinazione dirigenziale n. 31 del 23.01.2008. I referenti aziendali assicurano la gestione della fase di riordino nel territorio di pertinenza dell’Asl cui afferiscono, secondo le indicazioni dell’Assessorato Tutela della Salute e Sanità. tutto ciò premesso, la Giunta Regionale, unanime, delibera di recepire il Dpcm 01.04.2008 "Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di Sanità Penitenziaria"; di dare mandato alla Direzione Sanità di assumere i provvedimenti necessari per la presa in carico delle funzioni sanitarie in ambito penitenziario da parte del Servizio Sanitario Regionale, individuando i primi interventi finalizzati a garantire la continuità dell’assistenza sanitaria in carcere; di dare mandato alle Asl sedi di carcere, attraverso i referenti aziendali individuati come esplicitato nella premessa, di assicurare la realizzazione del processo di riordino della Sanità Penitenziaria nel territorio di pertinenza, secondo le direttive operative della Direzione Sanità. La presente deliberazione sarà pubblicata sul Bur ai sensi dell’art. 61 dello Statuto.
Accordo sindacale su Sanità penitenziaria
L’Assessore Regionale alla Sanità e le OO.SS Confederali Cgil-Cisl-Uil nell’incontro tenutosi in data odierna per affrontare i problemi inerenti la riforma della medicina penitenziaria hanno concordato quanto segue: "Il percorso di applicazione del Dpcm 1.4.08 deve consentire la più completa e celere attuazione dei principi stabiliti dal Dl 230/99 riguardanti il diritto di parità dei detenuti e degli internati riguardo alle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste nei livelli essenziali ed uniformi di assistenza e deve permettere l’avvio delle strategie generali di sviluppo declinate nell’apposito capitolo del Piano Socio- Sanitario regionale; in applicazione di tali principi la Regione svilupperà le azioni di collaborazione interistituzionale tra il Ssr e l’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile al fine di rendere compatibili le esigenze di tutela della salute e di recupero sociale dei detenuti e dei minorenni con le esigenze di sicurezza all’interno degli Istituti, dei centri di accoglienza, delle comunità e dei centri clinici; le aziende sanitarie locali attiveranno azioni di rilevazione dei bisogni assistenziali presenti nel contesto penitenziario e delle risorse disponibili nel territorio e progetteranno interventi finalizzati ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni di salute, della domanda di cure, a garantire la continuità dell’assistenza a favore del personale di Polizia penitenziaria e ad avviare il superamento delle maggiori criticità riguardanti i problemi di salute mentale, di natura infettivologica, di tutela della salute delle donne, dei minori e degli stranieri; il sistema della sanità penitenziaria regionale sarà riorganizzato in modo progressivo, adottando soluzioni di carattere sperimentale, sulla base delle progettazioni di cui sopra e col procedere dei previsti percorsi di trasferimento delle risorse professionali e della loro integrazione nel Ssr previa concertazione con le OO.SS. di categoria. per consentire la piena attuazione dei richiamati principi di parità ed integrazione si ritiene necessario che i presidi sanitari dedicati siano inseriti organizzativamente all’interno dei distretti socio-sanitari nel cui ambito territoriali sono ubicate le strutture penitenziarie e che siano inizialmente costituite due strutture complesse, a Torino e ad Alessandria. al fine di assicurare l’omogeneità metodologica ed organizzativa il sistema sarà coordinato tramite un dipartimento funzionale, con sede ad Alessandria, il cui comitato di dipartimento vedrà la partecipazione di tutti i responsabili dei servizi aziendali e delle strutture complesse che lo costituiscono. Le parti auspicano, infine, che il trasferimento delle risorse da parte del ministero sia congruo al funzionamento del nuovo servizio e che si identifichino forme di compensazione della mobilità interregionale ed inoltre concordano di monitorare lo stato di attuazione del presente accordo con cadenza semestrale.
Cgil: importante tappa del percorso di riforma
La Cgil, confermando l’impegno da tempo assunto nei confronti del mondo penitenziario, ha dimostrato particolare attenzione al percorso di riforma della sanità penitenziaria, svolgendo nel territorio piemontese una concreta azione di stimolo e supporto ad una pronta e corretta attuazione del Dlgs 230/99. Un momento significativo nel percorso è stato rappresentato dal convegno "Un progetto di salute per il carcere", svoltosi presso la Camera del Lavoro di Torino nel Maggio 2007 con la partecipazione dei sottosegretari dei Dicasteri interessati, amministratori e politici locali, numerosi operatori del settore. In tale occasione la Cgil Piemonte e la Fp-Cgil Piemonte hanno promosso con l’Associazione Antigone e il Forum Nazionale per i diritti dei detenuti la costituzione di un Forum piemontese, il primo in Italia ad intensificare e declinare nella realtà regionale l’esperienza di sensibilizzazione e di sostegno dell’iter attuativo del Dlgs 230/99. La significativa convergenza di diverse sensibilità e realtà piemontesi a cui la Cgil ha dato fin da subito un determinante slancio e un qualificato apporto, ha visto la Regione Piemonte protagonista del percorso di riforma della sanità penitenziaria con un interesse e un’attenzione non comuni nel panorama nazionale. I contatti con l’Amministrazione Penitenziaria sono stati attivati in maniera tempestiva. Nel novembre 2007, con Deliberazione della Giunta regionale N.4-7657, è stata formalizzata l’istituzione del Gruppo Tecnico per la tutela della salute in carcere, col compito di definire un piano di lavoro finalizzato ad assicurare il trasferimento delle competenze. Si è curato che la composizione del Gruppo fosse rappresentativa delle varie parti coinvolte nel processo, e per tale motivo oltre a componenti designati dall’Assessorato e altri designati dall’Amministrazione Penitenziaria, con determinazione dirigenziale N.142 del 19/03/08 è stata formalizzata anche la partecipazione del Forum. Nel frattempo, con funzioni strettamente connesse a quelle del gruppo tecnico, è stato istituito con determinazione dirigenziale N.31 del 23/01/08 il tavolo dei referenti delle Aziende Sanitarie sedi di carcere. L’attività di ricognizione dei vari aspetti delle realtà esistenti in merito all’Assistenza Sanitaria negli Istituti Penitenziari, già suggerita dalle linee di indirizzo allegate al Dpcm, è stata avviata per tempo, e contemporaneamente si è attivato il confronto per definire priorità e criticità da attenzionare nel percorso di riforma. Il 10 giugno 2008 è stata approvata la delibera di recepimento del Dpcm, in cui la Giunta regionale ha dato mandato alla Direzione Regionale della Sanità di assumere i provvedimenti necessari per la presa in carico della funzioni sanitarie e l’individuazione dei primi interventi atti a garantire la continuità dell’assistenza. Al contempo, si è dato mandato alle aziende sanitarie sedi carcere di assicurare la realizzazione del processo di riordino della sanità penitenziaria attraverso i referenti aziendali e secondo le direttive della Direzione sanitaria regionale. Con l’obbiettivo di garantire la continuità dell’esercizio di tutte le funzioni sanitarie, e di avviare il processo di riordino, si è proceduto a delineare una organizzazione temporanea centrata a livello di singola Asl e caratterizzata dall’azione sinergica di due poli di riferimento, uno interno e l’altro esterno al carcere. Nel frattempo si è proceduto ad attivare il confronto con le parti sindacali, nel corso del quale la Cgil ha sempre richiamato la necessità di definire un modello organizzativo rispondente alle linee guida del Dpcm 1/4/2008, realmente aderente alla domanda di salute proveniente dal carcere e attento alla valorizzazione delle competenze e delle professionalità maturate nell’ambito della medicina penitenziaria. Il 4/7/2008 è stato siglato un accordo tra l’Assessore Regionale alla sanità e le OO.SS. confederali Cgil Cisl e Uil in cui viene confermata la necessità di una completa e celere attuazione dei principi stabiliti dal Dlgs 230/99 circa l’effettiva realizzazione di una condizione di parità dei detenuti e degli internati riguardo il diritto alla salute. La Regione si è impegnata a sviluppare le necessarie azioni di collaborazione interistituzionale con l’Amministrazione Penitenziaria e l’Amministrazione della Giustizia Minorile, e ad attivare tramite le Asl competenti la rilevazione dei bisogni, delle criticità e delle aree prioritarie di intervento, nonché a garantire la continuità dell’assistenza a favore del personale di polizia penitenziaria. Si è concordata una riorganizzazione progressiva e sperimentale del sistema sanitario penitenziario, da realizzare anche tramite la prevista concertazione del trasferimento delle risorse e della loro integrazione nel Ssr. Si è concordata la costituzione di presidi sanitari inseriti organizzativamente all’interno delle Asl competenti, l’iniziale costituzione di due strutture complesse con sede a Torino e ad Alessandria, la definizione di un coordinamento tramite un dipartimento funzionale con sede ad Alessandria per garantire la necessaria omogeneità metodologica e organizzativa. È una svolta importante, in un cammino che ancora si presenta complesso e vedrà il massimo impegno di questo Sindacato. La nostra attenzione sarà rivolta ad un puntuale monitoraggio del processo di riordino, ad una sollecita azione di contrasto alla campagna di disinformazione che delinea strumentalmente scenari di caos e di riduzione del livello di sicurezza degli Istituti, ad una concreta tutela degli operatori coinvolti, per una riforma che realmente innalzi la qualità del livello di assistenza sanitaria in carcere e comporti una maggiore qualificazione delle professionalità interessate, riducendo sia per detenuti che per i lavoratori la cronica condizione di separatezza dalla società libera. Reggio Emilia: nell’Opg aperta sezione speciale per i mafiosi
La Gazzetta di Reggio, 10 luglio 2008
Una piccola sezione speciale dedicata a detenuti sottoposti al 41bis - il regime di carcere duro riservato ai boss della mafia per evitare che continuino a guidare le cosche anche dal carcere - è stato allestito nell’Opg di Reggio. La sezione è operativa dallo scorso mese di novembre e oggi ospita pochissimi detenuti. Solo alcune unità, provenienti da carceri dell’Italia del sud, sorvegliate 24 ore su 24, così come previsto dalla legge, da agenti appartenenti a nuclei speciali di polizia giudiziaria sottoposti a una lunga preparazione per svolgere questo delicatissimo compito. L’allestimento della zona destinata ai detenuti con regime di 41-bis ha comportato una notevole impegno organizzativo all’interno dell’Ospedale psichiatrico giudiziario. La piccola sezione dedicata ai mafiosi è stata infatti ricavata in un’area speciale prima riservata ad altri detenuti. Si sono dovuti rivedere anche i sistemi di sicurezza del carcere perché - come previsto dalla legge - chi viene sottoposto al 41-bis necessita di straordinarie misure di sicurezza. L’articolo 41-bis, infatti, è stato concepito proprio per annullare ogni possibilità di contatto con il mondo esterno a chi vi viene sottoposto. Una necessità, prevista dal legislatore, dopo che si erano verificati casi di capi cosche che, anche se incarcerati, avevano continuato a dettar legge alle organizzazioni mafiose che comandavano da dietro le sbarre. Malgrado il regime di carcere duro previsto dal 41-bis, però, i magistrati hanno segnalato anche in tempi recenti casi di scambi di missive e messaggi fra i capi mafia detenuti. Ma anche situazioni in cui volontari sono stati trasformati in latori - più o meno consapevoli - di "pizzini" contenenti scritti in codice o di presunte malattie accusate dai padrini per essere trasportati fuori dal carcere. Il ministero della giustizia - da cui proprio in queste ore è stato ribadito l’importanza del regime di carcere duro per i mafiosi - si è quindi mosso per individuare strutture carcerarie che potessero garantire il massimo rispetto delle misure di sicurezza previste dalla legge. Tra queste anche l’Opg di Reggio. Dopo la necessaria riorganizzazione della struttura, nel novembre dello scorso anno è stato trasportato il primo detenuto sottoposto al regime speciale previsto dall’articolo. Da allora se ne sono aggiunti solo pochissimi altri provenienti dai carceri del Sud Italia. Personaggi considerati pericolosi e ritenuti avere un ruolo di primo piano in diverse organizzazioni mafiose. L’allestimento della sezione speciale non è stata l’unica novità che ha riguardato l’ospedale psichiatrico giudiziario reggiano. Da poco tempo, la dottoressa Valeria Calevro - per anni direttrice della struttura carceraria - ha assunto un nuovo ruolo diventando responsabile delle funzioni sanitarie dell’Opg. Un decreto del presidente della Repubblica ha infatti trasferito tutte le funzioni sanitarie relative agli ospedali psichiatrici giudiziari al Servizio sanitario nazionale: un trasferimento che ha implicato la creazione di una figura specifica all’interno di ogni Opg. "Sono al lavoro - spiega la dottoressa Calevro - per costruire ruoli e rapporti nuovi con tutta la parte della sicurezza. Ora non mi occupo più di questioni amministrative, di cui è stata investita la dottoressa Casella". Se l’Opg reggiano si è trovato in poco tempo a dover riorganizzarsi, la casa circondariale di via Settembrini si trova alle prese con un altro tipo di problemi. Il carcere della Pulce si trova infatti alle prese con il sovraffollamento. Nei giorni scorsi sono stati raggiunti 287 detenuti: il numero comprende tanto i cosiddetti "detenuti comuni" quanto chi è sottoposto ai regimi di media e alta sicurezza e ad elevato indice di sicurezza. L’emergenza con cui deve fare i conti la casa circondariale reggiana sta comportando un imponente sforzo da parte della dirigenza, dei dipendenti e degli agenti del carcere. Trieste: il tempo del carcere per la formazione professionale…
Il Piccolo, 10 luglio 2008
La fabbrica del lavoro: un’opportunità di trasformare il tempo del carcere in formazione professionale. Il progetto, stipulato tra la Casa circondariale di Trieste e gli enti di formazione professionale Enaip, Asseform, Ial, Villaggio formazione e Lega delle Cooperative del Friuli Venezia Giulia, ha lo scopo di realizzare una collaborazione continuativa nell’intento di ideare, progettare, proporre e attuare percorsi di inserimento sociale e lavorativo a favore della popolazione detenuta, sia maschile sia femminile. La cooperativa sociale di Produzione Lavoro darà quindi la possibilità di creare numerose occasioni di lavoro sia all’interno del carcere stesso che al termine della detenzione: diverse sono le cooperative firmatarie del progetto che da lungo tempo si occupano di formazione professionale all’interno del carcere triestino. Tra queste l’Asseform, che dal 1998 ha realizzato corsi di informatica, grafica, orientamento linguistico, lavorazione della pietra, cucina e pasticceria, l’Enaip, la Demos e lo Ial. "Si tratta - ha spiegato il direttore della Casa circondariale Enrico Sbriglia - di una svolta epocale per la formazione professionale all’interno del circuito penitenziario, un polo regionale formativo rivolto alla popolazione detenuta unico in Italia e aperto anche alle fasce più deboli. Il progetto poggia su un’esperienza di formazione ultra decennale e bisogna rendersi consapevoli che un detenuto che si integra socialmente grazie al lavoro diventa un investimento a lungo termine. In questo senso, la sicurezza - ha concluso Sbriglia - è una sicurezza "fredda", che non necessita di telecamere per il controllo ma soltanto del buon senso". Far emergere le migliori abilità di natura artistica, artigianale e professionale presenti in ciascuna persona detenuta appare quindi come la soluzione ideale non solo al problema del reinserimento professionale ma anche alla possibilità di realizzare una responsabilizzazione per la ricostruzione e la rinascita dei "cittadini ristretti". Alla presentazione del progetto erano presenti, oltre al direttore della Casa circondariale Enrico Sbriglia, Paola Stuparich, direttore dell’Enaip, Massimo Tierno, direttore di Villaggio formazione, Gabriella Randino, direttore dell’Asseform, Gabriele De Simone, direttore dello Ial, Mauro De Mauro presidente della cooperativa Demos, l’assessore regionale alla cultura Roberto Molinaro, l’assessore provinciale alle politiche attive Adele Pino e l’assessore alla promozione e protezione sociale del Comune di Trieste Franco Grilli. "Si tratta di un intervento - ha detto l’assessore Molinaro - che si inserisce in un quadro ampio che, a livello regionale, vede impegnato anche il carcere di Tolmezzo in un corso di formazione destinato alla popolazione carceraria. L’attività avrà un futuro e per questo sarà necessario un intervento congiunto da parte delle istituzioni e del mondo del volontariato che, sull’intero territorio regionale, vede coinvolte cinquanta mila persone". Le istituzioni presenti hanno dimostrato piena adesione all’iniziativa, consapevoli dell’importanza di operare in sinergia condividendo gli obiettivi sociali alla base del progetto. La cooperativa sociale di Produzione Lavoro si impegna a presentare alla Regione dei progetti di formazione professionale e concorre nell’orientare le aziende che intendono investire nel lavoro delle persone detenute. In questo modo rende possibile la formazione professionale anche in relazione ai bisogni delle singole imprese e alla necessità di queste ultime di competere sul mercato nella produzione di beni e servizi. Roma: nigeriana espulsa per reati del 2000 e già condonati…
Comunicato stampa, 10 luglio 2008
Nigeriana 35enne con marito e tre figli, espulsa per reati commessi nel 2000 e già condonati. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: "un’ottusa applicazione della legge rischia di ingrossare le statistiche del Ministero dell’Interno e di distruggere una famiglia". Era stata arrestata nel 2000 per reati commessi alla prostituzione ma poi, grazie all’aiuto del marito e di tre figli, era riuscita a rifarsi una vita. Ma ora, sta per essere espulsa verso il suo Paese di origine e rischia di perdere tutto. Protagonista di questa vicenda - segnalata da Angiolo Marroni, Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio e presidente della Conferenza Nazionale dei Garanti dei Diritti dei Detenuti - una cittadina nigeriana di 35 anni, Becky O. La donna è residente a Selvazzano Dentro (Padova), in un appartamento concesso dal comune, con il marito e tre figli. La famiglia è seguita da anni dai Servizi Sociali del Comune per gli aspetti legati in particolare alla salute di uno dei figli. Lo scorso 11 giugno, Becky è stata fermata dalla Polizia a Padova e, subito dopo, trasferita al Cie, ex Cpt di Ponte Galeria (Roma) con il decreto di espulsione perché priva dei documenti di soggiorno e con l’aggravante della presunta pericolosità sociale per i reati commessi nel 2000; requisiti, questi, che comportano l’allontanamento dello straniero dall’Italia. Il 16 giugno - ha raccontato al Garante l’avvocato della donna - il Giudice di Pace ha convalidato il trattenimento di Becky, "limitandosi a valutare la regolarità formale del provvedimento nonostante la Corte Costituzionale abbia affermato che, a tutela dei diritti dello straniero, il giudice deve valutare la legittimità dell’atto per garantire l’esercizio dei diritti di difesa. L’omissione del giudice è stata particolarmente grave in virtù del fatto che la donna ha tre figli minori regolarmente soggiornanti con il padre". A Bedcky, invece, è stato già chiesto di prepararsi a partire e in tal senso, le autorità italiane avrebbero già incontrato l’ambasciata nigeriana in Italia per organizzare il tutto. "Questi sono gli effetti di una normativa miope - ha attaccato il Garante dei detenuti Angiolo Marroni -. Il rimpatrio forzato di questa donna priva di pericolosità sociale, che aveva lottato per riscattare la sua vita, servirà solo a spaccare una famiglia, con danni incalcolabili per i bambini, e ad ingrossare le statistiche sugli stranieri irregolari cacciati dal nostro paese. Io credo che per Becky qualcosa si possa ancora fare. Questa donna ha dalla sua parte non solo la sua famiglia ma anche i Servizi sociali del comune dove vive, pronti a testimoniare sulla bontà del percorso fino ad oggi compiuto. Un percorso che, spero, non vada perduto per l’applicazione fin troppo severa di una norma di legge".
Il Garante dei detenuti del Lazio Bologna: 30mila euro "spariti" dal Centro di Giustizia Minorile
Il Resto del Carlino, 10 luglio 2008
Soldi spariti al Pratello: ragioniere indagato per peculato. Volatilizzati da una cassetta di sicurezza 30mila euro. Attacco del sindacato Ugl. L’onorevole di An Enzo Raisi annuncia un’interpellanza al Ministro di Giustizia: "Troppi problemi, serve un’ispezione". Quando il fabbro ha aperto la cassetta di sicurezza, tutti i presenti speravano che i soldi finalmente saltassero fuori. Invece, dei trentamila euro non c’era traccia. La cassetta era desolatamente vuota, il malloppo aveva preso il volo. Non è il finale (scontato) di un film di serie B, ma è quanto realmente accaduto a fine giugno al Centro di giustizia del Pratello, la struttura amministrativa da cui dipende il carcere minorile. Per l’ingente buco nei conti è stata aperta un’inchiesta dalla Procura: il fascicolo è stato affidato dal pm Luigi Persico a uno dei magistrati del pool che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione. Un ragioniere del Centro, che aveva in gestione quei soldi (e la relativa cassetta), è iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di peculato. E mentre si delineano meglio i contorni della vicenda, l’onorevole di An Enzo Raisi annuncia un’interpellanza al ministro di Giustizia, "perché mandi al più presto un’ispezione che faccia luce su una mala gestio in atto da tempo, di cui l’ammanco dei soldi è solo l’ultimo tassello". Infatti, ricorda Raisi, che tre mesi fa ha fatto una visita ispettiva all’interno del Pratello, "sono molti i problemi accaduti in passato: gli alloggi negati al personale, i lavori di ristrutturazione che durano da anni, i detenuti minorenni utilizzati per un trasloco". Sulla stessa linea d’onda i sindacati, che denunciano, per bocca di Flavio Menna, segretario provinciale dell’Ugl "la disastrosa situazione del Centro di Giustizia, che noi denunciamo da tempo. È una struttura che non ha ragione d’esistere, essendo solo uno spreco di denaro pubblico". Il bersaglio delle accuse di Raisi e dei sindacati è il direttore del Centro di Giustizia, Giuseppe Centomani. Va chiarito che in questa brutta storia non c’entra nulla il carcere minorile, visto che il denaro è sparito dalla ragioneria del Centro. Facendo un parallelo con gli adulti, è lo stesso rapporto che c’è fra la Dozza e il Dipartimento penitenziario, la struttura amministrativa da cui dipendono tutte le carceri della regione. L’unica differenza è che, per i minori, c’è un solo carcere in Emilia Romagna, quello appunto del Pratello. Peraltro, è stato proprio Centomani a denunciare, circa una settimana fa, l’accaduto, presentandosi di persona in Procura e parlando con il pm Persico. La storia è iniziata a gennaio, quando i trentamila euro, su ordine scritto di Centomani, sarebbero finiti nella cassa della ragioneria del Centro, che li ha prelevati dalla Banca d’Italia, la quale li eroga per prassi per conto del Ministero. Dovevano servire a pagare dei capitoli di spesa ben previsti dal bilancio, ma a marzo sono emersi i primi problemi, visto che risultavano scoperti alcuni pagamenti. Sono perciò partiti gli accertamenti disposti da Centomani, per capire cosa stesse succedendo e, soprattutto, dove fosse il denaro. Il contante fin dall’inizio sarebbe stato custodito da uno dei ragionieri (che ne conservava la chiave) in una cassetta di sicurezza all’interno della cassa della ragioneria. Una procedura peraltro vietata dalla legge. Quello stesso ragioniere, ora indagato, si sarebbe poi messo in malattia. Così sono passate le settimane, fino ad arrivare a fine giugno, quando il direttore Centomani, assistito dal personale, ha incaricato un fabbro di aprire la cassetta. Quando è stata aperta, però, dentro non c’erano più i trentamila euro. Centomani è perciò andato in Procura a denunciare tutto. Anche se, ha spiegato, "allo stato non si può dire che siano stati commessi reati. Sono in corso accertamenti per capire dov’è finito il denaro, magari utilizzato regolarmente e semplicemente non rendicontato". Molte spiegazione le dovrà dare il ragioniere indagato. I sindacati, però, si domandano: "Chi doveva controllare quel ragioniere?" Roma: 1.000 studenti truffati da ispettore polizia e professore di Davide Desario
Il Messaggero, 10 luglio 2008
Corsi di preparazione agli esami di laurea privati spacciati per pubblici. Attestati falsificati. Un migliaio di studenti truffati. A organizzare il mega "pacco" sarebbe stato, secondo l’inchiesta della Procura di Roma, un professore universitario di Teramo insieme ad un poliziotto della Capitale, dirigente sindacale. Adesso entrambi sono stati raggiunti da un avviso di garanzia con l’imputazione di falso e truffa, in concorso tra loro. L’Università degli Studi "Gabriele d’Annunzio" di Chieti ha siglato una convezione con il Ministero dell’Interno per facilitare la laurea degli agenti di Polizia. Un dirigente sindacale della Polizia, allora, si è messo d’accordo con un professore universitario di Teramo per organizzare dei corsi intensivi che, almeno nelle promesse, avrebbero permesso ai frequentatori di ottenere dei "crediti" per poi poter superare più facilmente gli esami del corso di laurea di Sociologia. Il dirigente sindacale ha poi convinto ad iscriversi un migliaio di studenti, quasi tutti aderenti al Siap. Corsi che si svolgevano nell’Hotel Movenpich, a Monte Mario, e per i quali i corsisti pagavano 126 euro per ogni giorno di lezione. E alla fine del corso veniva loro consegnato un attestato di partecipazione e di espletamento della prova finale, con tanto di intestazione e logo dell’Università di Chieti. Quando gli studenti, forti dei loro attestati, si sono presentati all’Università di Chieti hanno scoperto quello che mai avrebbero voluto scoprire. Ovvero che all’ateneo abruzzese non sapevano nulla del loro corso e quindi non riconoscevano alcun credito. Oltre la beffa il danno: la maggior parte di loro non è riuscito a superare gli esami. Secondo l’inchiesta del Sostituto Procuratore della Repubblica Andrea Mosca, ad architettare la truffa sarebbero stati in due. Il primo è Daniele Ungaro, Ordinario dell’Università di Teramo e supervisore scientifico per l’intesa tra l’Università degli Studi Gabriele d’Annunzio di Chieti e il Sindacato di Polizia Siap. Il secondo si chiama Massimo Anziani, 45 anni, Ispettore Capo di Polizia del Commissariato Vescovio di Roma ma soprattutto dirigente del Sindacato Italiano Appartenenti Polizia (Siap). Gli attestati di partecipazione al corso intensivo di sociologia erano stati falsificati dal dirigente sindacale e dal professore universitario, i quali "scaricavano" dal sito internet dell’Università di Chieti i documenti dai quali "rubare" il logo e l’intestazione. Ma non solo. I due, stando sempre alle indagini, avrebbero fatto credere agli studenti che il professore, che è di ruolo a Teramo, lavorava invece nell’ateneo di Chieti. E che i corsi nell’hotel di Roma erano previsti dal programma universitario nascondendo, invece, che si trattava di corsi privati propedeutici e prove scritte organizzate a carattere privato senza alcuna validità per la prova d’appello di esame. Il dirigente sindacale e il professore universitario sono stati accusati anche di aver procurato un danno al Ministero dell’Interno che concedeva ai poliziotti-studenti il congedo straordinario per esami, quando invece si era trattato solo di corsi privati. Larino: alunni Itis vincono concorso problemi alcol-correlati
Comunicato stampa, 10 luglio 2008
Questa volta gli studenti, coordinati dalla prof.ssa Italia Martusciello, si sono impegnati in un interessante percorso di educazione alla salute "Non Expedit" che gli ha fatto vincere il primo premio nel Concorso nazionale "Germano d’argento" promosso dall’Apcat Trentino-Centro Studi e documentazione sui problemi alcolcorrelati. È stato prodotto un interessante Dvd contenente 53 spot per tentare di comprendere il fenomeno dell’abuso dell’alcol che da tempo crea un serio allarme sociale. Da ricerche nazionali risulta che dal 1970 al 1990 sulle strade gli incedenti sono triplicati. Considerando i dati di una ricerca del 1992 si vede che in quell’anno si sono verificati 195.000 incidenti stradali che hanno coinvolto la fascia di età tra i 18 e i 24 anni. Gli incidenti nei quali sono coinvolti i giovani dipendono, spesso, dalla velocità, dallo stato di ebbrezza, dalla stanchezza o dall’inesperienza alla guida. Nel 90% dei casi, poi, i conducenti sono di sesso maschile. Rapporto Eurobarometro sulle opinioni degli europei nei confronti dell’alcol, presentato in Lussemburgo ai rappresentanti governativi del Working Group Alcohol and Health della DgSanco inoltre ha evidenziato che 19% dei giovani tra i 15 e i 24 anni beve per ubriacarsi, il cosiddetto fenomeno Binge drinking. La prevenzione dell’abuso dell’alcol è uno dei compiti fondamentali della società e in particolare della scuola e questo obiettivo non può essere procrastinato. Le istituzioni, gli enti e le agenzie educative sono chiamate a confrontarsi con tale compito sul campo della formazione, dell’informazione e della trasmissione di valori. Si è pensato di promuovere la cultura dell’educazione alla salute attraverso l’ideazione di spot stimolanti la riflessione, poiché la trasmissione delle informazioni ai fini educativi richiede particolare attenzione alle modalità di comunicazione, al contesto relazionale all’interno del quale avviene lo scambio di informazioni e ai sussidi scelti per veicolare la comunicazione stessa, puntando più sul rinforzo di elementi positivi piuttosto che sulla stigmatizzazione di comportamenti negativi. Infine si è cercato di diffondere un comportamento consapevole evitando la chiave della paura, del proibizionismo e del paternalismo potenziando, invece, il senso di responsabilità, di autonomia e di convivenza civica. Un particolare apprezzamento è stato espresso dal Direttore Dott.ssa Rosa La Ginestra che ha sottolineato ancora una volta l’alto valore della scuola operante all’interno della struttura penitenziaria.
Prof.ssa Italia Martusciello Torino: mostra; riflessioni sulla limitazione di spazio e libertà
Asca, 10 luglio 2008
Nell’anno in cui Torino è stata la prima città italiana ad ospitare il Congresso Mondiale degli Architetti, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo con il contributo di Intesa San Paolo, dedica un importante evento espositivo al tema dell’architettura carceraria, con la mostra, a cura di Francesco Bonami, YouPrison. Riflessioni sulla limitazione di spazio e libertà (12 giugno - 12 ottobre 2008). L’architettura della prigione non gode di grande visibilità, anche se si tratta di un tema architettonico tra i più difficili e coinvolgenti, in cui l’organizzazione dello spazio dà corpo al principio giuridico e politico della punizione del crimine. Undici studi di architettura internazionali sono stati invitati a progettare lo spazio abitativo del carcere. La committenza prevedeva la creazione di una cella di tre metri per quattro dotata di tutti gli elementi essenziali per la vita dei detenuti. Durante la realizzazione dei progetti, la cella è diventata il mezzo per speculare su un problema etico, politico e sociale e su un sistema di cui essa costituisce la più piccola unità strumentale. L’ampia provenienza geografica dei partecipanti, dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Iran al Libano, dal Giappone all’Italia, ha messo in luce contesti e situazioni diverse. Gli architetti hanno affrontato il tema, interpretando la cella come modello analitico. Essi hanno dato vita a riflessioni su questioni di pubblico interesse, quali la limitazione di libertà, il rispetto dei diritti umani, gli strumenti di sorveglianza e controllo, l’evoluzione urbanistica e le sue influenze sulle forme dell’abitare. Alcuni architetti hanno realizzato i progetti in scala reale, offrendo ai visitatori la possibilità di provare fisicamente l’esperienza di uno spazio di isolamento (Yung Ho Chang, Kianoosh Vahabi). Altri invece hanno riportato l’idea di reclusione attraverso installazioni, progetti grafici, modelli e moduli ready made. Ai progetti architettonici viene affiancata una rassegna di video d’artista sul tema delle carceri, che include le opere di Darren Almond, Gianfranco Baruchello, Ashley Hunt, Jaan Toomik, Kon Trubkovich e Artur Zmijewski. La mostra è accompagnata da un catalogo The Bookmakers, Ed., che contiene la documentazione dei progetti realizzati. Durante il periodo di mostra saranno realizzati laboratori didattici mirati studenti delle materne, elementari, medie e superiori. Immigrazione: sulle impronte ai Rom l’Europa blocca l’Italia
Ansa, 10 luglio 2008
L’Europarlamento, riunito in sessione plenaria, ha adottato la risoluzione che condanna le misure del Governo per la raccolta delle impronte digitali dei Rom, minori compresi. Con 336 voti a favore, 220 contrari e 77 astenuti, gli eurodeputati hanno approvato il testo presentato dal gruppo socialista, il Pse, dalla sinistra europea del Gue e dai liberali dell’Alde in cui si esortano le autorità italiane "ad astenersi dal procedere alla raccolta delle impronte digitali dei rom, inclusi i minori e dall’utilizzare quelle già raccolte". Questo, aggiunge la risoluzione, "in attesa che la Commissione valuti le misure, che costituiscono un chiaro atto di discriminazione basato sulla razza e sull’origine etnica". I deputati, si legge in un comunicato, ritengono inammissibile che, con l’obiettivo di proteggere i bambini, questi ultimi vedano i propri diritti fondamentali violati e vengano criminalizzati e sostengono, invece, che il miglior modo per proteggere i diritti dei bambini rom sia di garantire loro parità di accesso a un’istruzione, ad alloggi e a un’assistenza sanitaria di qualità, nel quadro di politiche di inclusione e di integrazione, e di proteggerli dallo sfruttamento. Condividono inoltre la posizione della Commissione, secondo cui questi atti costituirebbero una violazione del divieto di discriminazione diretta e indiretta, prevista dalla direttiva UE n. 2000/43/CE che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, sancito dal trattato. I deputati osservano peraltro che i rom sono uno dei principali bersagli del razzismo e della discriminazione, come dimostrato dai recenti casi di attacchi e aggressioni ai danni di rom in Italia e Ungheria. Il Parlamento invita inoltre la Commissione a valutare approfonditamente le misure legislative ed esecutive adottate dal governo italiano per verificarne la compatibilità con i trattati dell’UE e il diritto dell’UE. Esprime poi preoccupazione per il fatto che, a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza, i Prefetti, cui è stata delegata l’autorità dell’esecuzione di tutte le misure, inclusa la raccolta di impronte digitali, possano adottare misure straordinarie in deroga alle leggi, sulla base di una legge riguardante la protezione civile in caso di calamità naturali, catastrofi o altri eventi, che non è adeguata o proporzionata a questo caso specifico. I deputati si dicono anche preoccupati riguardo all’affermazione - contenuta nei decreti amministrativi e nelle ordinanze del governo italiano - secondo cui la presenza di campi rom attorno alle grandi città costituisce di per sé una grave emergenza sociale, con ripercussioni sull’ordine pubblico e la sicurezza, che giustificano la dichiarazione di uno stato d’emergenza per 12 mesi. Con 284 voti favorevoli, 329 contrari e 11 astensioni, l’Aula ha poi bocciato un emendamento presentato da Roberta Angelilli di Alleanza Nazionale e Mario Borghezio della Lega Nord che invitava l’Italia a continuare il suo impegno per affrontare l’emergenza sociale e umanitaria e per assicurare il ripristino delle condizioni di legalità, sostenendo politiche per la lotta al lavoro nero minorile, allo sfruttamento dei minori e della prostituzione. Prima di procedere al voto, il commissario europeo alla Giustizia, Jacques Barrot, ha aggiornato l’Aula sugli ultimi sviluppi intervenuti a seguito dei suoi contatti con il Ministro Maroni ed ha spiegato quanto la Commissione intende fare per assicurare che la normativa europea sia rispettata. Riguardo alle informazioni del governo italiano, ha sottolineato che l’intenzione sarebbe di raccogliere le impronte unicamente se non è possibile stabilire l’identità delle persone e, per quanto riguarda i bambini, si procederebbe in tal senso solo con l’autorizzazione di un giudice. Saranno inoltre depennate dal censimento le richieste di indicare l’etnia e la religione. Immigrazione: Venezia; muratori romeni pagati 3,5 € ogni ora
Ansa, 10 luglio 2008
Una presunta organizzazione che favoriva l’immigrazione clandestina e il caporalato di muratori dell’est Europa, pare migliaia, è stata smantellata dalla Direzione investigativa antimafia e la Guardia di Finanza di Venezia, con il coordinamento della Procura di Venezia. L’operazione - illustrata ieri dal Procuratore capo di Venezia Vittorio Borraccetti e dal sostituto titolare dell’inchiesta Francesco Saverio Pavone - ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di 87 persone, tra italiani e stranieri. Tra gli indagati un poliziotto dell’ufficio immigrazione della Questura di Venezia e un’impiegata dalla direzione provinciale di Venezia del lavoro. L’attività investigativa ha portato al sequestro di 81 immobili per 20 milioni di euro. Sequestrati anche 111 conti bancari in 40 istituti di credito per due milioni di euro e sono state fatte 106 perquisizioni. A gestire le fila dell’organizzazione Angelo Pitarresi, siciliano di 71 anni. A vario titolo agli indagati sono contestati - tra gli altri - il reato associativo, falso e falsificazione di documenti e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il giro d’affari dell’organizzazione è stato stimato in 80 milioni di euro. L’organizzazione, attiva da diversi anni ma finita sotto indagine dal 2002, attraverso falsi documenti e false identità avviava aziende fittizie in Italia e all’estero. Queste, con falsa documentazione che andava da documenti di identità, permessi di soggiorno, contratti e buste paga, assoldava muratori e carpentieri, specie in Romania, che erano costretti a lavorare per 3,5 euro l’ora. Oltre a lucrare sul costo della manodopera, non versava alcun contributo, eludeva il fisco (le aziende erano inesistenti, una tra l’altro con sede in una discarica) realizzando utili notevoli. I muratori, una volta assoldati, erano ospitati in appartamenti e portati sul luogo di lavoro. In caso di infortunio venivano rapidamente fatti sparire riportandoli in patria. Secondo una prima stima sarebbero migliaia gli immigrati sfruttati dall’organizzazione ma, al momento, si è risaliti solo a 150 di loro. L’inchiesta è partita quando Pitarresi, vittima di una rapina da 100 milioni di lire, ha denunciato il fatto con estremo ritardo. L’inchiesta sulla rapina, e le dichiarazioni ai magistrati di un rapinatore, hanno portato all’indagine su immigrazione e caporalato. Droghe: in molti paesi pena capitale per il reato di detenzione
Agenzia Radicale, 10 luglio 2008
Radicali Italiani, l’associazione Forum Droghe, insieme a una decina tra organizzazioni no-profit e sindacati, denunciano il ricorso alla pena capitale per reati legati alla droga (compresa la detenzione) in molti paesi del Medio Oriente e del Sudest asiatico, tra cui Cina, Iran, Egitto, Indonesia e Arabia Saudita. In occasione della giornata mondiale sulla droga, e in vista dell’appuntamento Onu del 2009 sul contrasto del narcotraffico, gli organizzatori della conferenza tenutasi presso il Senato italiano lanciano un appello per riformare le politiche internazionali sulle droghe, "fortemente incentrate sulla repressione delle coltivazioni, del traffico e del consumo" a scapito della "tutela della salute", ma anche "dei diritti umani fondamentali". Nel presentare a Palazzo Madama una piattaforma programmatica, i senatori radicali Marco Perduca e Donatella Poretti, l’europarlamentare del Prc Vittorio Agnoletto, il segretario del Forum Droghe Franco Corleone, il responsabile delle politiche sulla tossicodipendenza della Cgil Giuseppe Bortone e Tonio Dall’Olio del Gruppo Abele-Libera, spiegano che la strategia Onu sulle droghe elaborata a New York nel 1998 si è dimostrata "non solo fallimentare, ma in alcuni casi addirittura controproducente" perché "è ormai chiaro che l’obiettivo di eliminare o ridurre significativamente entro dieci anni la produzione delle principali sostanze illegali non è stato raggiunto" mentre "il mercato illegale delle droghe non ha subito contrazioni". Inoltre, spiegano le organizzazioni, "nonostante sia diminuito il numero degli Stati che applicano la pena di morte, si è esteso il numero dei Paesi che la applicano per reati legati alla droga". In vista dell’appuntamento Onu sulle politiche relative alla droga, che si terrà a Vienna nel 2009, i promotori dell’iniziativa chiedono, tra le altre cose, che il governo italiano ribadisca che la pena di morte per i reati di droga "è contraria al Patto internazionale sui diritti civili e politici" e che "la repressione dei reati per droga avvenga nel rispetto delle regole dello Stato di diritto e della proporzionalità delle pene". La piattaforma programmatica è stata sottoscritta anche da Antigone, Cnca Lazio, Comunità San Benedetto al Porto di Genova, Itaca Europa, Lia, Parsec e dall’Arci. Nel documento si spiega che "ad oggi la pena di morte è stata abolita in 133 Stati, ma che si tace sul fatto che in oltre 30 Paesi tra i 64 che la mantengono, la pena capitale è prevista per i reati di droga". Questi i dati illustrati: "Nel 1985, la pena di morte per droga è stata eseguita in 22 Paesi, nel 1995 in 26, alla fine del 2000 sono saliti a 34; negli "anni più recenti ci sono state esecuzioni" in Cina, Iran, Egitto, Indonesia, Malesia, Arabia Saudita, Tailandia e Kuwait". Ma è Singapore "il Paese dove si eseguono più sentenze di morte legate al traffico, all’uso o alla detenzione di stupefacenti: il 76% delle esecuzioni fra il 1994 e il 1999 hanno riguardato la droga". Tra le istanze al governo italiano da portare in sede Onu, i senatori Radicali e le organizzazioni no-profit chiedono anche di riequilibrare l’attenzione e le risorse finanziarie dalla repressione penale alla tutela socio-sanitaria. Seychelles: torinese in carcere da 1 anno picchiato da guardie
Corriere della Sera, 10 luglio 2008
È arrivato nel paradiso dei turisti, le Seychelles, per fare fortuna lui, cuoco, attirato da un lavoro gratificante. Invece ha trovato l’inferno, rapinato di tutto, accusato di traffico di droga, sbattuto nel carcere di Montagne Posee, sull’isola di Mahe, e pestato da secondini e detenuti. Ora è in attesa di un giudizio incerto, al termine del quale potrebbe essere condannato a 10 anni di carcere. La prossima udienza è prevista giovedì. Tra un mese è un anno che Federico Boux, torinese, 32 anni, vive in condizioni miserabili nella dura galera seychellese. L’accusa è di possesso di 6 grammi di eroina tagliata (cioè due grammi al netto) ma tutto appare piuttosto strano e prende i contorni di un regolamento di conti, di una truffa e di un raggiro. Una storia che ricorda quella di Estella e Angelo Ricci in Kenya: accusati di traffico di cocaina per una tonnellata e 8 quintali passarono 19 mesi nel carcere di Nairobi in condizioni disumane, per poi essere rilasciati con tante scuse dalle autorità che li assolsero con formula piena. La storia comincia nell’ottobre del 2004 quando la famiglia Boux, il padre, Ezio, commercialista appena andato in pensione, la madre, Oriella, e il figlio Federico, incontrano Salvatore Procopio, che propone loro di lasciare Torino per una nuova vita alle Seychelles. I genitori troveranno riposo ai tropici e il figlio, cuoco diplomato, un lavoro, in uno dei luoghi più ricercati dai turisti. Detto fatto - racconta Ezio Boux - la famiglia parte. Procopio, oltre ad essere cittadino italiano ha anche il passaporto delle Seychelles, necessario per aprire attività e fare affari nell’arcipelago. Propone al commercialista di entrare in società con lui che già possiede un ristorante. Papà Ezio la vede come una buona possibilità per trovare il lavoro al figlio, così ci sta, anche se le attrezzature della cucina deve comprarle lui come acconto all’acquisto delle quote del ristorante. Le richieste di denaro però si moltiplicano mentre sui documenti il nome di Ezio Boux non appare mai come proprietario di nulla, neppure delle due auto importate e regolarmente pagate: "Procopio e la moglie risultano intestatari di tutto - racconta Ezio Boux -. Temendo di restare raggirato protesto e, all’inizio del 2006, chiedo conto di tutti i soldi che ho versato e dei quali mi restano solo le ricevute e nient’altro. Non ottengo nulla. Lui minaccia inoltre di farmi espellere dal paese vantando amicizie altolocate addirittura a livello presidenziale. Ho paura di perdere tutto ciò che ho investito e tutti i beni. Minaccia me e mio figlio anche fisicamente. E quando protesto controbatte che ora è cittadino seychellese e come tale ormai intoccabile". Ma il dramma, raggiunge il suo apice con l’arresto di Federico un anno più tardi dopo una rapina a casa Boux. La signora Oriella viene picchiata da una gang e in ospedale le mettono 14 punti di sutura in testa. Il marito chiede allora di avvalersi di una società di sicurezza. È la fine. Viene incaricato Yussuf Joel Ester che si presenta: "Sono un conoscente di Procopio. Per un po’ la casa viene protetta - racconta il commercialista -, poi Yussuf comincia ricattare e a chiede sempre più soldi. Che noi non gli diamo. È a questo punto che preparano la trappola. Yussuf e due amici arrivano a casa nostra, mentre noi non ci siamo, strapazzano Federico e gli mettono in mano un sacchetto di plastica; gli intimano di consegnarlo a un loro amico in centro. Mio figlio con il pacchetto in auto esce da casa per venire a chiamarci. Pochi metri più avanti lo aspetta la polizia avvisata da una soffiata. Dentro quel cartoccio ci sono 6 grammi di eroina e dodici siringhe. Incastrato!". È il 16 agosto 2007 e comincia il tormento continuo. Federico viene ripetutamente picchiato dalle guardie o dagli altri detenuti: o per un pacchetto di sigarette o per un telefonino nascosto in cella. La famiglia deve pagare i secondini perché lo lascino stare. "E poi c’è qualcuno che vuole cacciarci dall’isola per impedirci di rivendicare i nostri beni e le nostre proprietà - sospira stizzito Ezio Boux -. La nostra casa è intestata a Procopio e lui ha messo i lucchetti. Non possiamo neanche entrare a prendere le nostre cose. La prossima udienza del processo è venerdì. Vediamo se il giudice darà a Federico almeno la libertà su cauzione".
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