Rassegna stampa 1 febbraio

 

Giustizia: ecco la "top ten" delle peggiori carceri italiane

 

www.radiocarcere.com, 1 febbraio 2008

 

Le peggiori carceri d’Italia: 1° classificato il carcere dell’isola di Favignana

 

Dal punto di vista geografico, Favignana è l’ultimo carcere d’Italia. Ma è il primo nella classifica delle peggiori carceri italiane. Si tratta di una piccola struttura, che ospita 85 detenuti. Quello che rende particolare questo carcere è il fatto che è costruito sotto terra. Si deve scendere per andare negli uffici del carcere. Ancora più in profondità c’è l’infermeria. E si deve scendere ancora per arrivare nelle piccole celle. Celle che sono situate a dieci metri sotto il livello del mare.

Assomigliano più a caverne che a luoghi dove espiare la detenzione. Non ci sono finestre e i muri sono corrosi dall’umidità e dalla salsedine. Dentro ogni cella: un piccolo muretto, altro 40 centimetri, separa il bagno dalle brande. 3 o 4 detenuti, occupano la stessa piccola cella e restano chiusi in quelle "caverne" per 22 ore al giorno.

Pur essendo un carcere per detenuti condannati, non vi è di fatto alcuna attività rieducativa. Unico svago è l’ora d’aria, fatta in un cortile posto sempre a dieci metri sotto il livello del mare.

Le condizioni igieniche all’interno del carcere di Favignana sono a dir poco precarie. Le celle sono sporche e non viene fatta manutenzione. Scarafaggi e topi girano indisturbati per le celle. Tutto ciò che è ferro si presenta arrugginito. I detenuti non possono bere l’acqua dai rubinetti in quanto non è potabile. È l’acqua del mare. Se qualche detenuto protesta per queste indegne condizioni di vita, viene messo nella cella di isolamento. Denudato, viene lasciato lì per giorni. E come letto ha una rete di ferro, senza materasso.

Il sotterraneo carcere di Favignana è anche costoso. Ogni detenuto costa 300 euro al giorno. E lo Stato spende ben nove milioni di euro all’anno per mantenere tutti gli 85 "fortunati" detenuti dell’isola.

 

Le peggiori carceri d’Italia: 2° classificato il carcere di Regina Coeli a Roma

 

Datato 1654, è forse il carcere più antico d’Italia. Ci sono rinchiusi 916 detenuti, suddivisi in 8 sezioni e in un centro clinico. Le celle sono spesso sovraffollate, e contengono dai 4 ai 6 detenuti. Molti sono in attesa di giudizio. Per ristrutturare Regina Coeli sono state spese ingenti somme, ma resta una struttura vecchia e inadeguata.

Delle 8 sezioni solo tre sono state ristrutturate. La prima, la seconda e la terza. I lavori di ristrutturazione però non hanno risolto problemi che riguardano le tubature, l’impianto elettrico e il riscaldamento. Nelle celle dell’ultimo piano spesso l’acqua non arriva. L’impianto elettrico necessita di continue riparazioni e il riscaldamento è insufficiente. La quarta e la quinta sezione sono chiuse per essere ristrutturate.

Le altre sezioni, dalla sesta all’ottava, si presentano in uno stato di totale degrado. Le celle sono buie, sporche e in pessime condizioni. Gli intonaci cadono a pezzi, non c’è riscaldamento e l’umidità crea chiazze di muffa sulle pareti.

Il centro clinico è decoroso solo al terzo piano, dove ci sono due moderne sale operatorie. Ma nei piani dove ci sono i detenuti malati, il panorama cambia radicalmente. Al secondo piano, 4 o 5 detenuti dividono la stessa cella. Vasto è il campionario di malattie. Chi è in carrozzina, chi è malato di cuore e chi ha problemi mentali. Uno di loro, S., di 67 anni, è paralizzato a letto dal 1999 in attesa di essere operato. Al piano terra, dentro celle fatiscenti e maleodoranti, ci sono drogati, barboni e malati di Hiv.

I costi. Manutenzione ordinaria: 14 milioni e mezzo di euro all’anno. I finanziamenti dello Stato: 21 milioni di euro spesi dal 1999 al 2003 per i lavori di ristrutturazione. E 450 mila euro forniti nel 2006 dalla regione Lazio.

 

Le peggiori carceri d’Italia: 3° classificato il carcere di Canton Mombello a Brescia

 

È un vecchio carcere, costruito alla fine dell’800. Si trova a pochi passi dal centro di Brescia. Dall’esterno è decoroso. Come decorosi sono gli uffici del carcere, forniti anche di un moderno ascensore. Ma dentro è un inferno. Si tratta di una struttura degradata e sovraffollata. La capienza regolamentare è di 206 posti. Ma in effetti ci sono rinchiusi 400 detenuti, se non di più.

È composto da due raggi. Quello nord e quello sud. I raggi non sono altro che enormi corridoi, scuri e con le mura scostate. In ogni raggio si affacciano le celle, che sono di due tipi. Quelle di 8 metri quadri, che sono occupate da 6 o 7 detenuti e quelle un po’ più grandi, con dentro fino a 12 detenuti. In ogni cella c’è un piccolo spazio occupato dal bagno, fatto da una tazza alla turca e da un lavandino. I letti a castello sono a tre piani e occupano quasi tutto lo spazio della cella.

Le celle sono buie, maleodoranti e senza ricambio di aria. Le persone detenute nel carcere di Brescia restano chiuse in quelle celle per 22 ore al giorno. Alla fine di ogni raggio ci sono le docce. Un ammasso di muffa e sporcizia, da cui esce poca acqua e pure fredda.

Nel carcere di Brescia si fa un gran uso di psicofarmaci, chiamate "le gocce". Tra i detenuti 180 sono tossicodipendenti, ma solo una decina vengono curati col metadone. Una sessantina sono i sieropositivi. 30 sono alcoolisti e un centinaio sono malati di epatite.

Circa il 60% dei detenuti nel carcere di Brescia è extracomunitario. Su circa 400 detenuti, solo 50 sono in carcere perché condannati in via definitiva.

Il carcere di Brescia, è una struttura illegale. Nessuna delle norme previste dal regolamento penitenziario viene rispettata.

 

Ed ecco la "top ten" delle peggiori carceri italiane

  1. Favignana

  2. Regina Coeli di Roma

  3. Canton Mombello di Brescia

  4. Buon Cammino di Cagliari

  5. Marassi di Genova

  6. Poggioreale di Napoli

  7. Termini Imerese

  8. Le Sughere di Livorno

  9. Baldenich di Belluno

  10. Santa Maria Maggiore di Venezia

Giustizia: inchiesta; caro Mastella… dacci la "spintarella"

di Gianluca Di Feo e Marco Lillo

 

L’Espresso, 1 febbraio 2008

 

Magistrati in cerca di promozioni. Appalti per l’ambiente. Più di 100 episodi da contestare. Ecco cosa c’è negli altri atti dell’inchiesta capuana sull’ex ministro.

Più di cento episodi da contestare, con un capitolo consistente sulle toghe sporche, un altro sulla spartizione di appalti e infine un filone sulle gare pilotate per i depuratori che dovevano salvare la Campania dall’inquinamento. È questa la bomba giudiziaria che la procura di Santa Maria Capua Vetere ha trasmesso ai colleghi di Napoli. Materiale grezzo, che deve essere ancora vagliato e tradotto in ipotesi di reato. O fascicoli in fase di completamento, come quello sui presunti giudici corrotti. Perché l’inchiesta capuana oggi spaventa più la magistratura che la politica. E vede per la prima volta uomini di partito e uomini di legge uniti nel tirare un sospiro di sollievo per la liberazione di Sandra Mastella, nonostante il Tribunale della Libertà abbia riconosciuto la fondatezza degli indizi e imposto l’obbligo di dimora.

L’inchiesta spaventa quei pubblici ministeri che la ritengono una esagerazione, quasi una provocazione che fa il gioco della politica: una mossa azzardata e inopportuna. Ma spaventa ancora di più uno squadrone di giudici sorpresi mentre bussavano alle porte del Palazzo in cerca di una raccomandazione. La Procura capuana ha registrato uno dei momenti chiave nella storia della giustizia italiana, alla vigilia della nomina di decine di nuovi capi degli uffici giudiziari. In tanti erano pronti a contattare quelli che apparivano come i luogotenenti del ministro: il consuocero Carlo Camilleri e l’instancabile Vincenzo Lucariello, protagonista di una incredibile carriera che l’ha visto cominciare come netturbino, andare in pensione come segretario generale del Tar e finire in cella a 73 anni. Alcuni invocavano una spintarella, altri chiedevano un aiuto concreto.

A leggere gli atti, venivano indicate due strade: quella maestra passava per il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura. E quella secondaria usava il bypass dei ricorsi amministrativi: Tar prima e Consiglio di Stato poi. Dove Lucariello vantava e dimostrava di avere agganci potenti. Non è un caso che, secondo le indagini dei pm capuani, dopo l’invio dei primi provvedimenti il neopresidente del Consiglio di Stato organizza un incontro con Lucariello in un’area di servizio sull’autostrada Roma-Napoli, ignorando di essere pedinato dai carabinieri.

A settembre in una delle telefonate il presidente dei gip napoletani, Renato Vuosi, altro peso massimo nella geografia giudiziaria, descrive un incontro con l’allora ministro. Si discute della situazione di Salerno, ossia la nomina del nuovo procuratore capo. "Io gli ho detto... praticamente devi vedere come mi devi sistemare. Lui (Mastella, ndr) ha detto: ‘Non ti preoccupare". Lucariello: "Gli hai spiegato che ci sta giurisprudenza consolidata?". "Gliel’ho detto. Infatti ha detto: "Mandami". Loro lunedì prossimo devono incontrarsi con Mancino. Che lui l’ha chiamato: "Mancino qua dobbiamo vedere cosa fare con tutti questi trasferimenti". Allora lui mi ha detto: "Tu manda, me li porti, tieni il contatto con Frunzio (vice capo di gabinetto del Guardasigilli, ndr)... Vediamo un poco in che modo che caso mai io lunedì io ne parlo pure a Mancino".

Nicola Mancino è il vicepresidente del Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati che decide le nomine. Ma nella registrazione è anche indicata la strada alternativa: "Lui (Mastella, ndr) mi ha detto: "Ieri abbiamo nominato Salvatore quindi con il Consiglio di Stato se vi serve qualcosa"... Ho detto sì ma se andiamo al Consiglio di Stato, saluti e arrivederci. Hai capito?".

Lucariello replica ridendo: "Paolo Salvatore è amico mio, lui l’ha conosciuto tramite me... Ah, sotto questo aspetto... Gesù, Giuseppe, Sant’Anna e Maria". E mette in campo tutta la sacra famiglia. Non sarebbe l’unico dossier di questo tenore. Molte delle spintarelle, chieste esplicitamente o solo vagheggiate, potrebbero avere un profilo disciplinare. Ma ci sono anche vicende che richiamano la corruzione.

Come le trattative tra un imprenditore campano, che guida un gruppo di rilevanza nazionale e ha rapporti intensi con la pubblica amministrazione, e un alto magistrato. O le richieste di informazioni sullo stato di avanzamento di cause penali e ricorsi sugli appalti. Decine di episodi che i pm di Napoli hanno ereditato da Maurizio Giordano e Alessandro Cimmino.

 

Il Pm ostinato

 

Cimmino è l’uomo che ha fatto nascere questa istruttoria. Non parla con i giornalisti, non ha mai rilasciato un’intervista, non ha tessere di correnti, né frequentazioni rilevanti. Trentasette anni, magistrato da 7, ne ha trascorsi quattro come pm a Foggia prima di passare a Santa Maria: una procura minore, ma strategica sull’asse di potere tra Napoli e Roma. L’unico debole che gli si riconosce è la famiglia: venne deriso quando chiese due settimane di permesso per seguire il più piccolo dei suoi tre bambini. Ogni mattina fa il pendolare guidando la sua auto per 50 chilometri: negli ultimi due anni ha quasi sempre pranzato con un panino e la cuffia in testa, per riascoltare le intercettazioni. Ha una concezione rigorosa del suo dovere: una visione così rigida e ostinata dal venire definita "ottusa" da diversi suoi colleghi. Dicono che respinga ogni valutazione politica e tattica dell’attività inquirente.

Anche le frasi di Gerardo D’Ambrosio sull’opportunità processuale per Alessandro Cimmino sono "cinismo giudiziario": sostengono che abbia una sola fede, quella dell’obbligatorietà dell’azione penale e nell’uguaglianza davanti alla legge. Nella terra degli ozi capuani non ha perso tempo: partendo da una denuncia per abusi edilizi, ha fatto arrestare un notabile ds e avviato la maxi-inchiesta sull’Udeur di Nicola Ferraro. Di sicuro però non si è fatto amare. Ha indagato su cinque colleghi, trasmettendo gli atti a Roma. Ha indagato persino sul procuratore aggiunto, accusandolo di avere spinto gli investigatori a distruggere un’informativa che riguardava il parente di un magistrato. Anche in questo caso nella capitale è stato tutto archiviato, ritenendo che quello distrutto non fosse un documento ufficiale, mentre il Csm non ha mosso un dito.

Cimmino non è mai stato tenero nemmeno con le forze dell’ordine: ha fatto arrestare un poliziotto che lavorava per la Procura. Un precedente che ha contribuito a tutelare il segreto sulle indagini. Perché in questo silenzio totale, il pm aveva valutato l’ipotesi di chiedere l’arresto anche per Clemente Mastella. Ma a fine estate, quando era ancora in vigore la legge Boato che vietava l’uso delle telefonate tra parlamentari e indagati, il gip Francesco Chiaromonte aveva preso tempo: prima di chiedere al Parlamento l’autorizzazione per le intercettazioni, voleva esaminare tutte le trascrizioni. Poi la Consulta aveva annullato la legge, permettendo l’utilizzo dei colloqui. A quel punto, però, è mancato il tempo.

Adesso gli ispettori del ministero stanno vagliando una pioggia di esposti contro Cimmino. I pochi che hanno potuto incontrarlo lo descrivono preoccupato, quasi rassegnato a una rappresaglia: senza però nulla di cui rimproverarsi. Ha un unico rammarico: quello di non avere completato il lavoro, per carenza di esperienza, di mezzi e forse di superiori che lo sostenessero in un’inchiesta così delicata.

 

Il Governatore smemorato

 

Il procuratore di Napoli Giandomenico Lepore ora deciderà come e se proseguire. A partire dalla posizione di Antonio Bassolino. Il governatore, presunta vittima delle manovre contestate ai Mastella, a novembre aveva ricevuto un invito a comparire. Era accusato di abuso d’ufficio per la sostituzione del commissario di una Asi sannita, l’associazione sviluppo industriale. Aveva risposto con una memoria di poche pagine, in cui sostanzialmente scriveva di essersi limitato a firmare un testo redatto dai tecnici della Regione.

Peccato che gli investigatori avessero intercettato tutte le trattative tra lui, i suoi collaboratori e gli emissari di Mastella che pretendevano quella poltrona. Un esempio? L’assessore Udeur Luigi Nocera viene registrato mentre descrive l’incontro con Bassolino: "Allora lui ha chiamato davanti a me Andrea Cozzolino (Assessore Ds che sul suo sito si definisce "delfino" del governatore, ndr) e ha detto: "Fai la verifica per il commissariamento, anche se non è al 100 per cento mi assumo la responsabilità di fare il decreto". A chi ha mentito: ai giudici o ai politici?

 

"Lo rovino. A partire dalla giustizia"…

 

"Allora hai capito o no? O ci danno una cosa o non esiste più per me Bassolino. Perché gli faccio un mazzo quadrato che non hai neanche idea. A partire dalla giustizia... Perché io so i cazzi come stanno. Glielo spieghi ad Andrea?".

È una delle telefonate chiave nell’inchiesta sui coniugi Mastella. Il primo dicembre 2006 l’allora Guardasigilli chiama il consuocero Carlo Camilleri, che ha il cellulare sotto controllo. Discutono della poltrona che sarebbe stata sottratta all’Udeur. Ed è lì che il ministro in carica pronuncia quella frase che di politico ha molto poco. Per i pubblici ministeri che hanno sostenuto l’accusa, l’aspetto più inquietante è quel "A partire dalla giustizia": non può entrarci il dicastero romano, estraneo agli assetti di potere campani.

E allora? C’è dietro una minaccia sull’uso di segreti da riferire agli uomini di Bassolino, a quell’Andrea individuato dagli inquirenti nell’assessore Andrea Cozzolino, braccio destro del governatore? È questa l’ipotesi presentata davanti al Tribunale della Libertà, quella dell’estorsione in cui la politica è solo in secondo piano rispetto agli interessi. Una ricostruzione accolta dai magistrati del Riesame.

In tutta la telefonata Clemente Mastella è infuriato: "Incazzato nero. Perché mentre Clemente li difendeva tu gli fai...". Il leader dell’Udeur studia il colpo subìto alla Regione Campania con la nomina al vertice delle case popolari di Benevento di un uomo designato dai Ds. Analizza il comportamento dei suoi assessori. Camillieri li accusa di "averlo preso per il culo. Tutti quanti. Antonio Fantini e anche Fernando Errico ci hanno pigliato per il culo". Mastella replica: "Ma cosa vietava al signor Nocera di chiamarmi... Me lo devi spiegare Carlo. Per i cazzi suoi mi chiama diecimila volte".

Il ministro sembra temere il complotto, avverte il consuocero: "Si sono messi d’accordo pure loro. Attento". Anche per questo decide di contrattaccare. Chiede ai suoi una prova di fedeltà, mettendo alle corde il governo regionale di centrosinistra: "Carlo, tu chiami a loro se no per martedì è crisi di giunta". E ancora: "Io dico o questo o siamo costretti a dimetterci... Anche sul piano sanitario faccio finta di nulla... Loro non ci rappresentano... L’Udeur non è più in giunta".

A un certo punto tira in ballo anche Sandro De Franciscis, presidente della Provincia di Caserta e cugino acquisito del procuratore capo di Santa Maria Capua Vetere. "Noi per fare questa assenza stiamo perdendo pure a coso... a De Franciscis". Che infatti poi è passato dall’Udeur al Pd. Ed è diventato bersaglio dello scontro tra il ministro già dimissionario e il capo degli inquirenti capuani. Molto più sintetiche le telefonate tra Mastella e Vincenzo Lucariello, l’uomo che seguiva le cause nei Tribunali amministrativi. È paradossale, ma era Lucariello a informare il ministro del buon esito delle cause che stavano a cuore al consuocero o al sistema di potere dell’Udeur.

Il 4 maggio parla del procedimento sul Comune di Limatola: "È tutto a posto, è stato respinto il ricorso. La sentenza sarà pubblica tra quattro o cinque giorni". E Clemente replica: "Va bene". Il 21 maggio parlano della comunità montana del Taburno: "È andata benissimo... È stata disposta l’integrazione e l’aggiornano. Se domani mandi qualcuno". Mastella risponde: "Benissimo, ok. Grazie! Lo dico a Franco allora che viene da voi".

 

L’interrogatorio a Luigi Annunziata

 

Questi che riportiamo sono ampi stralci del verbale reso il 2 novembre 2007 da Luigi Annunziata, direttore generale dell’ospedale di Caserta. Davanti ai pm Alessandro Cimmino e Maurizio Giordano, Annunziata precisa le sue accuse alla signora Sandra Lonardo Mastella e ai vertici campani dell’Udeur. In parte risponde a domande sul contenuto di intercettazioni telefoniche.

È la seconda volta che viene interrogato e le sue deposizioni determineranno una delle accuse di tentata concussione contro la signora Mastella. Il verbale è stato depositato nell’udienza del Tribunale della Libertà che ha revocato gli arresti domiciliari della signora Mastella, presidente del consiglio regionale campano, dispondendo però l’obbligo di dimora. E riconoscendo quindi la fondatezza delle indagini condotte dalla procura di Santa Maria Capua Vetere. Il documento è uno spaccato impressionante sulla gestione della sanità pubblica in Campania.

 

Dall’ultima volta che ho reso dichiarazioni, sono continuate le richieste di mia rimozione da parte del Ferraro (ndr Nicola Ferraro, consigliere regionale Udeur e segretario provinciale a Caserta, anche lui arrestato) almeno con cadenza settimanale, presso l’assessorato alla Sanità. Inoltre mentre ero a Capri, ho invitato a sedersi con me per consumare un aperitivo il ministro Mastella e sua moglie Sandra Lonardo, ma la stessa testualmente diceva "se c’è lui (riferendosi a me), questo traditore, io non mi siedo". Sono andati via e null’altro è successo.

Adr (a domanda rispondo) Il presidente Lonardo mi chiese di nominare il primario di ginecologia. Io dissi che non era possibile. Si trattava di tal Passaretti che mi fu prima indicato dal Ferraro; voglio precisare che non ho mai ritenuto di dovere riferire a lei delle mie scelte, così come a nessuno degli appartenenti al mio partito politico di iniziale "elezione", ossia l’Udeur. Il presidente si interessò. Il Ferraro fu più perentorio, proprio e anche per i suoi modi.

Adr (a domanda rispondo) So perfettamente che ogni giorno ossia appena può il presidente Lonardo chiede la mia rimozione all’assessore Montemarano (ndr assessore regionale alla Sanità, esponente del Pd) . Lo so perché di volta in volta dal personale dell’assessorato mi viene riferito che la stessa si reca da lui. Ma pure quel giorno a Capri mi disse che dovevo andare via. Io ero amico del Mastella, uno che umanamente gli ero vicino.

Adr (a domanda rispondo) Quando dico la "nutella" indico la Lonardo

Adr (a domanda rispondo) La presidente non ha firmato l’interpellanza ma è stata lei a influenzare tutto il gruppo, non ha firmato solo per far vedere il suo ruolo super partes. È chiaro che se si interpellano gli altri esponenti Udeur tenderanno a negare la sua diretta partecipazione.

Adr (a domanda rispondo) Ricordo che mi chiese anche altro. Di nominare il primario in neurochirurgia indicatomi in Cantone. So questa circostanza perché la moglie del Cantone, tale Cingotti, mi disse che aveva parlato con la Lonardo andando a Ceppaloni per far raccomandare il marito. In seguito la Lonardo, prima delle elezioni comunali a Caserta, mi chiese come mai non avessi fatto niente per Cantone, io le dissi che non avrei fatto nulla. Dopo questi dinieghi si verificò l’interpellanza parlamentare regionale. Del resto fino a pochi mesi prima quel gruppo Udeur era tutto contento di me e dopo il mio rifiuto di nominare i due primari citati parte questa interpellanza dal gruppo politico Udeur. Il Ferraro inoltre aveva anche fini personali quali la richiesta di leggere capitolati prima di presentarli, cosa che mi sono rifiutato di fare. Io sono l’unico che dopo che il Mastella è diventato ministro mi sono messo contro la moglie dello stesso rifiutando di accondiscendere alle sue richieste. Ritengo che il Ferraro sia andato dalla Lonardo a lamentare la mia non accondiscendenza alle richieste del partito. Di qui la posizione stessa della Lonardo. La cosa precipita quando volevano anche il direttore sanitario. Come già le avevo detto il senatore Barbato mi diede il direttore amministrativo. Prima della mia nomina dissi che avrei voluto come direttore sanitario Paternostro dirigente del pronto soccorso però di estrazione "Forza Italia". Fantini (ndr Antonio, segretario regionale Udeur) mi disse non c’è problema, e così feci. L’Uduer voleva Agnese Iovino, che ho ricevuto ma non ho nominato con una giustificazione di carattere politico, ovviamente Fantini non ha creduto a questa scusa riconoscendomi il mio carattere indipendente.

Adr (a domanda rispondo) La posizione del Mastella è quella di chi testualmente dice "Se mi dite (ossia mia moglie, gli assessori e i consiglieri Udeur) che Annunziata è un problema, va bene, eliminiamo il problema", quindi è chiaro che lui è a conoscenza del fatto e che ha dato il via libera all’intera operazione anche se mi risulta difficile pensare, per stima e per rapporti pregressi che ho con lui, che lui possa avere fatto una cosa del genere.

Adr (a domanda rispondo) La nomina di Izzo l’ho fatta perché è bravo. La Lonardo in tale occasione mi ha dato del delinquente all’indomani della nomina dello stesso. La Lonardo chiamò Fantini e gli disse che ero un delinquente. Era intorno al 4 febbraio 2007. Io negai di averlo fatto ma fui smentito dal presidente Fantini che mi disse proprio che la Lonardo glielo aveva detto. Attribuii la nomina alla precedente gestione ma Fantini mi chiese una copia della delibera di nomina. Non avendola mandai per fax un foglio bianco volendo far credere che il fax era rotto. Fantini richiamò ma la mia segretaria disse che in realtà il foglio bianco avrei voluto mandarglielo io così, e così fui scoperto.

Adr (a domanda rispondo) La Lonardo si inviperì anche all’indomani della nomina del direttore sanitario.

Adr (a domanda rispondo) Pur avendo saputo delle iniziative dell’Udeur nelle persone indicate di farmi fuori dall’incarico non ho mai provato per dignità di far intervenire il segretario di partito, il Mastella, proprio perché essendo un politico non volevo riconoscere comunque questo ruolo degli altri e comunque implorando una pietà. Ho voluto resistere attraverso le capacità dimostrate sul campo non attraverso il passaggio politico. Le pressioni sono state fortissime e comunque singolari rispetto a un direttore generale. È chiaro che se i miei conti non fossero stati a posto non sarei già stato mandato via. Ora peraltro sono passati ad attaccare il direttore del Santobono con un’interpellanza simile a quella che hanno presentato contro di me

Adr (a domanda rispondo) Loro (ossia Lonardo e gli assessori Udeur) erano sicuri che io mi sarei prestato a richieste di carattere clientelare ma io non ho mai aderito a tale indirizzo in quanto la nomina di presidente della Giunta e dell’assessore mi.... a raggiungere obiettivi tecnici e non clientelari, come di fatto è avvenuto.

Giustizia: gli italiani, popolo di "associati per delinquere"?

di Marco Vassallo (Avvocato)

 

www.radiocarcere.com, 1 febbraio 2008

 

Associazione a delinquere. "Una contestazione utilizzata troppo spesso in modo strumentale".

Italiani, popolo di santi, poeti e navigatori… e oggi anche di associati per delinquere. È da qualche anno che con cadenza quotidiana veniamo inondati di notizie di indagini che hanno ad oggetto ipotesi di reato di associazione per delinquere: Calciopoli, Bancopoli, Vallettopoli, l’Udeur, per citare le prime che vengono alla mente. Eppure, sino a pochi anni or sono, tale reato non risultava contestato con tanta facilità.

Neppure durante tangentopoli l’associazione per delinquere ha conosciuto la diffusione odierna. Perché questo proliferare di associazioni per delinquere che imperversano nella cronaca giudiziaria? Non pare che il crimine organizzato abbia assunto dimensioni più pervasive di quelle del recente passato, né risultano intervenuti radicali mutamenti, in senso estensivo, nell’interpretazione giurisprudenziale. Peraltro, queste associazioni per delinquere esistono solo negli atti delle indagini preliminari - e sulla stampa eccitata unicamente dalle indiscrezioni che trapelano dalle Procure, ma mai dai processi che si celebrano nei Tribunali - molto raramente si traducono in sentenze di condanna.

Perché, allora, questa ostinazione di alcune Procure della Repubblica? Si ha associazione per delinquere "quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti", ed punita severamente, anche se nessuno dei delitti per i quali è costituita viene commesso. È una fattispecie che presenta difficoltà di prova ardue da superare, richiede un solido impianto accusatorio, che permetta di dimostrare con certezza che tre o più persone si sono riunite ed organizzate stabilmente, con il preciso scopo di commettere un numero indeterminato di delitti, predisponendo i mezzi per l’attuazione del programma criminoso e adottando una suddivisione dei compiti.

I casi alla ribalta della cronaca di questi tempi, tuttavia, non paiono rivestire tali caratteristiche, tanto che si sono letti stralci di ordinanze cautelari nelle quali si fa riferimento ad un generico disegno delinquenziale, che è cosa ben diversa da quella comune risoluzione seriamente formatasi, con un programma praticamente attuabile in un tempo relativamente prossimo, richiesta dalla Cassazione. Si è letto di un partito politico i cui dirigenti sarebbero tutti associati per delinquere, laddove i reati perpetrati parrebbero più fenomeni di malcostume che episodi di rilevanza penale.

In un procedimento relativo a reati di illecita gestione e smaltimento di rifiuti (contravvenzioni e non delitti), il Pm ha contestato l’associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei gravissimi delitti di epidemia e di avvelenamento delle acque; prima il Gip e, poi, il Tribunale del Riesame hanno dichiarato l’insussistenza di tali reati, ma questi ha proseguito imperterrito, trovandosi in sostanza a sostenere un’ipotesi di associazione per delinquere per la commissione di contravvenzioni. È ormai invalsa la prassi di contestare l’esistenza di associazioni per delinquere diffuse, formate da centinaia di persone che nemmeno si conoscono tra loro, finalizzate alla perpetrazione dei reati più fantasiosi e che, inesorabilmente, una volta che il procedimento sia portato avanti al giudice competente, finiscono nel nulla (Potenza docet).

Nel frattempo, tuttavia, gli indagati sono stati esposti alla pubblica esecrazione, i loro vizi privati sono stati sbandierati a tutto il Paese e si trova sempre qualche Catone pronto a deplorare pubblicamente le loro persone. Ma perché alcune Procure della Repubblica determinano pervicacemente tale proliferazione? La risposta è - a mio modesto avviso - semplice: perché con il pretesto dell’ipotesi di reato dell’associazione per delinquere è possibile accedere a tutta una serie di strumenti processuali che facilitano la compressione delle garanzie dei privati cittadini (termini di durata delle indagini dilatati, intercettazioni telefoniche, custodia cautelare in carcere, ecc.) che altrimenti non sarebbero consentiti. In particolare, la possibilità di disporre intercettazioni, è percepita ormai come un’esigenza imprescindibile da molti Pm, che trasformano uno strumento eccezionale di ricerca della prova, in un mezzo di prova facilitato: chiunque, se intercettato per mesi, fornirebbe materiale ad un Pm, dal quale poter estrapolare brani di conversazioni utilizzabili contro di lui.

Il sistema sarebbe dotato di controlli interni (del Gip) che, se correttamente attuati, impedirebbero tali storture, ma l’applicazione è rimessa ai singoli magistrati, i quali, troppo spesso, trovano più agevole assecondare le richieste del Pm. Così, resteremo ancora per lungo tempo un Paese di associati a delinquere con i telefoni sotto controllo.

Giustizia: per chi pubblica le intercettazioni pene inefficaci

di Carlo Citterio (Magistrato a Venezia)

 

www.radiocarcere.com, 1 febbraio 2008

 

Le discussioni sulla pubblicazione del testo integrale delle intercettazioni telefoniche anche prima del giudizio e le sollecitazioni del Procuratore generale della Cassazione ai magistrati perché non si lascino attrarre o condizionare dalla ribalta mass mediatica, e perché non cerchino consensi alla loro azione che non siano quelli derivanti dalla loro professionalità e dall’imparzialità con cui esercitano la loro funzione, sono due eventi che, per versi certo differenti, conducono a quello che probabilmente è, dopo l’incapacità di efficacia del sistema giudiziario, il primo problema della giustizia oggi in Italia: la perdita del senso, del contenuto e dei limiti della funzione giurisdizionale.

Così da un lato c’è la sovraesposizione della giurisdizione, a cui si rivolgono le aspettative di una società a parole delusa dalla politica, ma non in grado di fare alcunché perché la politica migliori, e forse neppure realmente interessata a farlo. Dall’altro c’è l’insofferenza per l’azione giudiziaria, oggi una delle poche realtà - con tutte le sue carenze - comunque sottratta al controllo diretto della politica. Ancora, c’è la delegittimazione strisciante, e sempre più abilmente perseguita, della giurisdizione; le indagini ed i processi si fanno sui mass media, spesso con "istruttorie" sapientemente pilotate, e la "sentenza" televisiva o giornalistica arriva prima e comunque toglie credibilità a quella della giurisdizione, se diversa, quando arriva con i suoi tempi non più accettati, e non più accettabili.

In questo contesto, innanzitutto culturale e sociale, la pubblicazione della frase "viva" carpita dalla telefonata risponde al tempo stesso a più esigenze: consente "sentenze veloci", impedisce di celare ancora quel che tutti sanno e per cui poi fingono di scandalizzarsi, lieti invece o costernati perché la roulette ha colpito questo piuttosto che l’altro. Qui il cittadino "normale" vive il dramma tra l’aspettativa di un Paese ordinato, dove il processo si fa nelle aule con le relative essenziali civili garanzie, in tempi che impediscano che chi va accantonato rimanga anni ad esercitare ed accumulare potere di ogni genere per sé e per gli amici; e la consapevolezza che senza quella frase pubblicizzata (senza quel cannolo fotografato) tutto rimane intonso: anche se tutti quelli che "contano", sanno, tacciono o condividono.

Ed allora non c’è da stupirsi che la disciplina della pubblicazione di intercettazioni sia emblematica della schizofrenia dei valori tra i quali non si sa, o non si vuole, scegliere. Sanzioni penali assolutamente inapplicabili (perché la modestia della pena impedisce che si possa mai procedere utilmente), quando sanzioni amministrative pecuniarie proporzionate alla diffusione - come proposto da Radio Carcere - responsabilizzerebbero coloro che possono scegliere se e quando pubblicare, specialmente per i casi in cui quel che viene diffuso attiene sicuramente e solo alla sfera personale. Così sono salvi principi formali e realtà sostanziale: quel che fai è illecito! Ma fallo pure, possibilmente non a mio danno.

Se si è perso il senso della giurisdizione, e se questa non viene fatta funzionare - i primi anni da magistrato pensavo che la mancanza di efficacia fosse incolpevole, oggi penso faccia comodo, e che comunque un ministro che riuscisse ad invertire il trend non sarebbe rieletto perché i cittadini, attenti al proprio particolare, neppure lo capirebbero -, c’è sicuramente la tentazione dell’attrazione o del condizionamento del consenso massmediatico.

Anche per il magistrato, normalmente inquirente, i mass media possono essere la via per una gradita notorietà, magari spendibile all’occorrenza, nell’illusione di usare e non di essere usati.

La giurisdizione non è più autosufficiente, non trova più nella soggezione alla sola legge la propria esauriente giustificazione, anche perché i suoi tempi, le sue carenze, la qualità delle sue risposte spesso contribuiscono a minarne la credibilità. Qui si aprono scenari diversi, tutti importanti: privilegiare la riservatezza "da casta sacerdotale" o spiegare ai cittadini le proprie regole date dalla Costituzione e dalle leggi; far crescere una cultura che comprenda ed "accetti" l’applicazione delle regole di garanzia predeterminate, e non della "pancia" del momento, o lasciarsi influenzare dalle aspettative contingenti. Un’esperienza bella, significativa: da anni lavoro (anche) in assise, ogni tre mesi nuovi giudici popolari.

Una costante: come cambiano i cittadini giudici dalla prima udienza all’ultima, che diversa concezione ed esperienza della giurisdizione matura in loro. È il segno della distanza tra informazione sulla giurisdizionale e realtà della giurisdizione.

Giustizia: gli amministratori; più tecnologie per la sicurezza

di Francesca Filippi

 

Il Messaggero, 1 febbraio 2008

 

Viviamo ormai sotto l’occhio di un "Grande Fratello" che scruta e registra tutti i nostri movimenti, 24 ore su 24. Nella sola Roma sono atti ve 6.000 telecamere, installate nei punti cosiddetti sensibili. Ma non basta perché aumenta in misura esponenziale il senso di insicurezza dei cittadini.

Uno su 10 si sente insicuro addirittura fra le mura domestiche, paura supportata da un dato reale: 157.427 furti in abitazione nel solo 2007, l’11,2% in più rispetto al 2006, come emerge dai dati del Viminale.

Sono soprattutto giovani e adolescenti a commettere più reati, con un aumento dello 0,4%, sempre rispetto al 2006, dei minori denunciati. Contributo non indifferente lo danno i cittadini extracomunitari: nel 2007 ne sono stati denunciati l’11,3% in più. Questa realtà è emersa dal secondo Congresso Nazionale sulle "Politiche integrate di Sicurezza urbana: da utopia a possibile realtà" organizzato dal Dab (Polo Tecnologico Sicurezza) al quale hanno partecipato oltre 200 amministratori locali di tutta Italia.

Lo scopo è quello di fronteggiare l’allarmante fenomeno della criminalità in sintonia con amministrazioni locali, enti, istituzioni ed organizzazioni varie. Presenti tra gli altri, Marcella Lucidi, sottosegretario del ministero dell’Interno e Riccardo De Corato, vice sindaco di Milano.

"In Italia - osserva Lucidi - il principale problema della sicurezza nelle città viene collegato agì immigrati, e anche una certa politica ha insistito sul conflitto tra italiani ed immigrati. È decisivo potenziare il welfare per battere il razzismo e favorire l’inclusione sociale. A tal proposito la Finanziaria 2007 ha raddoppiato i fondi per le politiche sociali".

Secondo gli esperti del Dab le forze dell’ordine fanno molto, ma il loro numero è insufficiente. Solo la videosorveglianza e le nuove tecnologie possono rappresentare un utile deterrente. Secondo il presidente del Dab, Pierluigi Aloisi "è necessario che l’attività di controllo del territorio coinvolga soggetti diversi. In prima fila, governo e enti locali".

Giustizia: nata la Conferenza Nazionale Garanti dei detenuti

 

Comunicato stampa, 1 febbraio 2008

 

Istituita la Conferenza Nazionale dei Garanti dei detenuti (ed ex reclusi) cui partecipa il Laboratorio Privacy Sviluppo presso il Garante per la protezione dei dati personali. Angiolo Marroni e Salvo Fleres, Garanti dei diritti dei detenuti del Lazio e della Sicilia, sono stati eletti rispettivamente Coordinatore e Vice Coordinatore Nazionale della Conferenza.

L’Avvocato Angiolo Marroni - Garante dei diritti dei detenuti del Lazio - è il Coordinatore della Conferenza Nazionale dei Garanti delle persone detenute ed ex detenute. Il nuovo organo nasce in collaborazione con il Laboratorio Privacy Sviluppo presso il Garante Nazionale per la protezione dei dati personali. La nomina è avvenuta nel corso di una riunione convocata a Roma dall’avvocato Giuseppe Fortunato, Coordinatore del Laboratorio Privacy Sviluppo presso la sede del Garante della Privacy.

Nel corso della stessa riunione l’On. Dottor Salvo Fleres, Garante dei detenuti della Regione Sicilia, è stato nominato vice Coordinatore nazionale della Conferenza. Segretario Generale della medesima è stato nominato l’Avv. Lino Buscemi. Della Conferenza Nazionale dei Garanti dei detenuti ed ex detenuti fanno parte, oltre al Coordinatore del Laboratorio Privacy Sviluppo presso il Garante per la Privacy, i Garanti dei detenuti regionali istituiti con legge regionale.

Scopo della Conferenza è quello di favorire il recupero e il reinserimento sociale delle persone sottoposte a limitazioni delle libertà personali, nel pieno spirito del dettato dell’articolo 3 della Costituzione. A tal proposito, per tutelare i diritti di detenuti ed ex detenuti, la Conferenza istituisce, al suo interno, un Osservatorio Penitenziario ed organizzerà due incontri nazionali (da tenere a Roma ed a Palermo), aperti ad operatori istituzionali e sociali, sul tema: "La svolta per i detenuti e gli ex detenuti per una società migliore".

Sono previsti, inoltre, seminari specifici di studio sulla situazione carceraria italiana. L’Avv. Marroni, subito dopo la nomina, ha dichiarato: "Considero questa nomina un riconoscimento al lavoro ed al mio impegno a tutela dei diritti fondamentali dei detenuti. Quella del Lazio è stata, infatti, la prima autorità garante per i detenuti nata in Italia. Tutti insieme, anche con la collaborazione delle numerose autorità di Garanzia per i detenuti nominate dagli enti locali, possiamo fare molto a partire da un dato di fatto inequivocabile: il legittimo bisogno di sicurezza dei cittadini non si soddisfa costruendo nuove carceri, ma creando finalmente un percorso di riabilitazione dei detenuti serio e funzionale, che consenta a chi ha sbagliato di tornare a pieno titolo nella società".

Giustizia: carceri minorili, un "parcheggio" per immigrati

di Davide Madeddu

 

L’Unità, 1 febbraio 2008

 

Le carceri per minori? Molto spesso si trasformano in "parcheggi" per detenuti stranieri. Cresce, infatti, la popolazione straniera nelle carceri riservate ai minori di 18 anni. Istituti di pena dove i minori che hanno commesso reati dovrebbero espiare la pena ma, soprattutto, trovare aiuto per un reinserimento nella società. I dati elaborati dalla Funzione Pubblica della Cgil e dal Ministero della Giustizia parlano chiaro. La percentuale di detenuti stranieri minori supera il 51% della popolazione carceraria. Sia chiaro, si tratta di cifre ridotte (rispetto ai dati delle prigioni per maggiorenni) che non superano nella maggior parte le 500 unità.

I dati elaborati dal servizio statistico del Ministero della Giustizia parlano di 658 ingressi e di 393 presenze. Di questi 341 giovani in custodia cautelare e 52 in espiazione di pena, il 55 per cento dei quali di età compresa tra i 16 e i 17 anni. I dati elaborati dal servizio statistico del ministero della Giustizia parlano di 195 italiani e la restante parte distribuita tra minori provenienti da paesi europei ed extraeuropei. "La percentuale di presenze nelle carceri segue questo trend - spiega Gianfranco Macigno, responsabile del settore minori per la Funzione Pubblica della Cgil - cresce la presenza di stranieri anche per reati minimi e diminuisce quella degli italiani".

Una costante che in alcuni centri dell’Italia settentrionale raggiunge percentuali elevate. "In alcune strutture - spiega ancora il rappresentante sindacale - si arriva anche 90 per cento di minori stranieri - aggiunge ancora il rappresentante sindacale". Una situazione che tende a mutare invece come ci si sposta dal centro al sud Italia.

"In molti posti i minori italiani che sono in carcere devono scontare pene per reati gravi - aggiunge - a differenza degli stranieri che, nella maggior parte dei casi scontano pene più basse". Una situazione che, come spiega Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, viene motivata anche dalla questione delle cosiddette opportunità. "Per gli italiani ci sono le famiglie, le case di accoglienza e la possibilità della cosiddetta messa alla prova - spiega - situazioni e possibilità che molto spesso non valgono per gli stranieri".

Motivo? "Perché magari in qualche caso non ci si fida, oppure perché molto spesso il minore straniero non ha una famiglia e non trova neppure un supporto che posa dargli la possibilità di iniziare un percorso di recupero e rieducazione". Quanto ai programmi di recupero, non tutte le strutture funzionano allo stesso modo. "È vero che in queste carceri non esiste il sovraffollamento e che quindi si potrebbero fare dei programmi di intervento seri e concreti - dice - ma è altrettanto vero però che non tutte le strutture funzionano allo stesso modo, e in ogni caso non è sempre possibile completare i corsi".

Il perché è presto spiegato. "Se pensiamo agli stranieri, questi giovani, dopo un periodo breve vengono rimessi in libertà e quindi non possono completare i corsi di istruzione o alfabetizzazione". Per il rappresentante di Antigone, invece, sarebbe opportuno "realizzare dei centri di orientamento per i minori, soprattutto stranieri, che una volta espiata la pena non sanno come muoversi". Giusto per evitare che, alla fine, le carceri per minori si trasformino in parcheggi per giovani stranieri.

Giustizia: Idv; 20 anni di carcere per chi rapisce i minorenni

 

Dire, 1 febbraio 2008

 

Allungare i tempi delle indagini (dai sei mesi di oggi a 4 anni), dare maggiori poteri agli inquirenti (ad esempio in materia di controlli sui tabulati telefonici), inasprire le pene a carico dei rapitori (portando fino a 20 anni di reclusione la pena massima).

Sono alcuni degli obiettivi che si pone la proposta di legge (tre articoli in tutto) presentata oggi alla stampa, alla Camera, dall’Italia dei Valori in materia di sequestro di minori. Primi firmatari, il capogruppo Massimo Donadi e il deputato Egidio Pedrini, che hanno preso spunto dall’appello lanciato qualche tempo fa dalla giornalista Federica Sciarelli, durante la trasmissione di Rai 3 "Chi l’ha visto?".

Nel codice penale italiano, infatti, ad oggi esistono solo il reato di sequestro di persona (articolo 605) e quello di sottrazione di incapaci (articolo 574). Dunque, rapire un minore o un adulto non fa differenza, anche in termini di pena. "In Italia - spiega Pedrini - si arriva al paradosso che si rischia di più rubando una coca cola (fino a 10 anni, ndr) che rapendo un neonato (da uno a tre anni, ndr)". Di qui la pdl, che introduce, con l’articolo 605 bis, il reato di sequestro di minorenne e sancisce nuove pene più dure per i sequestratori.

Ovvero, (articolo 1) da 12 a 16 anni se il minore ha un’età superiore ai 14 anni. Altrimenti, la pena va da 15 a 20 anni. Se, poi, dal rapimento deriva la morte del sequestrato, quale conseguenza non voluta dal rapitore, gli anni salgono a 24. Ma non finisce qui: la nuova ipotesi di reato consente all’autorità giudiziaria di avere strumenti investigativi e procedurali paragonabili a quelli riconosciuti per reati più gravi come quelli di mafia, pedofilia, rapina aggravata (articolo 407 cp).

Ci potranno essere tempi di indagine più lunghi, fino a quattro anni contro i sei mesi di oggi prorogabili, al massimo, a due anni. E gli inquirenti avranno anche strumenti più potenti per indagare: potranno, ad esempio, controllare i tabulati telefonici dei quattro anni precedenti all’apertura delle indagini anziché solo due, come accade oggi per i sequestri di persona. Insomma, per le famiglie ci saranno più speranze. "Oggi nell’ordinamento giuridico manca una tutela dei minori - dice Pedrini - con questa pdl abbiamo voluto dare un segnale di sensibilità del Parlamento su questo tema".

"L’archivio della Camera - continua Donadi - trabocca di proposte di legge, ma questa non è una delle tante". Unico intoppo, la crisi politica che impedisce di mettere subito all’ordine del giorno della Camera la proposta. "Ma faremo di tutto - sottolinea Donadi - per portarla fino in fondo. Speriamo, anzi, che possa approdare in sede deliberante in commissione, senza neanche dover arrivare in aula". Finora, la pdl porta solo la firma dell’Idv. "Ma cercheremo e, sicuramente, lo troveremo, un appoggio trasversale - assicura Pedrini - ora dovevamo solo correre per presentare il testo, vista la crisi".

Giustizia: polizia penitenziaria, tra burnout e mal di vivere

di Donato Capece (Segretario Generale del Sappe)

 

Sappe Informa, 1 febbraio 2008

 

Avremmo voluto parlare d’altro nel 2008... e invece dobbiamo affrontare una drammatica realtà: quella dei suicidi che coinvolgono appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. Tre casi in pochissimi giorni (un quarto episodio che ha visto coinvolto un collega, inizialmente presentato dagli organi di informazione anch’esso come un suicidio, è stato invece poi classificato come un drammatico incidente di caccia) non possono che lasciare sgomenti.

E se constatiamo che i casi di suicidio tra gli appartenenti al Corpo sono stati 64 negli ultimi dieci anni, con una media dell’1,31 ogni 10.000 poliziotti penitenziari rispetto ad un tasso di suicidi nella popolazione italiana nello stesso periodo dello 0,67 ogni 10.000 abitanti, bisogna interrogarsi responsabilmente sul malessere che pervade un numero significativo di colleghi.

Noi siamo preoccupati, non lo nascondiamo, e riteniamo vi sia un filo conduttore che lega i casi di suicidio che si sono registrati in questi anni. È un filo che associa ad inevitabili situazioni di disagio individuale certamente anche lo stress da lavoro, o effetto burnout, come dicono gli specialisti, ovvero un eccessivo carico di lavoro non intervallato da periodi di riposo adeguati in un contesto difficile e particolare come è quello penitenziario.

Ciò non vuol dire che tutti sono potenzialmente "a rischio suicidio", ma certamente il duro e difficile contesto lavorativo può incidere sulle personalità più sensibili. E negare ciò vuol dire non conoscere anni di mirate ricerche scientifiche. Una recente ricerca scientifica ha affermato:

Quella del poliziotto penitenziario è una professione spesso dimenticata o bistrattata e dovrebbe invece essere lodata e tenuta in notevole considerazione per i rischi e la continua tensione che devono sostenere quotidianamente.

"È sicuramente una professione senza eguali: a nessuna persona piacerebbe rinchiudere, costringere, punire un proprio simile, anche se è un compito loro ordinato per ricevere uno "stipendio mensile", anche i detenuti la considerano "una delle professioni più difficili al mondo, perché è l’uomo che rinchiude l’uomo". Le situazioni di stress dettate da condizioni personali, da condizioni organizzative e istituzionali, i conflitti che possono nascere con i superiori, colleghi e detenuti ed il mancato sostegno e riconoscimento sociale possono essere valutati come fattori che possono causare demotivazione e insoddisfazione, provocando quell’atteggiamento rigido e distaccato con i detenuti e gli internati, tipici del burnout (Stotland, Pendleton, 1989)".

Da una ricerca effettuata in Psicho Lit, negli ultimi anni solo uno studio ha affrontato l’analisi del fenomeno del burnout negli agenti che operano all’interno degli istituti di pena. Si tratta di una ricerca empirica effettuata in Francia nel 1999 che indaga presso i sorveglianti dei penitenziari la relazione tra burnout e autostima; i risultati hanno riscontrato una tendenza a resistere ad una sindrome da esaurimento occupazionale, ed una correlazione tra autostima e il burnout: più è basso il livello d’autostima più alta è la percentuale di burnout.

Si è anche riscontrata una più alta autostima nei soggetti più giovani e, quindi, una percentuale più alta di burnout nei soggetti con più anni di impiego. Non sono poche le situazioni di disagio professionale. La prima riguarda il carico di lavoro (ci sono casi in cui un poliziotto è costretto a lavorare per due in carcere). Altro motivo di disagio ricorrente per la categoria è la lontananza dalle famiglie, visto che spesso si tratta di poliziotti emigrati dal Sud e che nelle regioni di destinazione del Nord Italia non hanno la possibilità di trasferirsi con tutta la famiglia a causa dei costi molto alti a cominciare da quelli relativi agli affitti (la media degli stipendi si aggira sui 1.200 curo ed è nettamente insufficiente rispetto al costo della vita, specie al Settentrione).

Il terzo motivo ricorrente riguarda quindi l’obbligo alla vita di caserma, con tutti i disagi che questo comporta. E nelle caserme e nel carcere mancano spesso dei punti di riferimento. Il problema vero è che lo stesso carcere, che tra l’altro mette continuamente a rischio il personale di Polizia, è diventato un’istituzione che necessità di profondi e radicali cambiamenti.

È necessario quindi aprire al più presto dei tavoli per discutere del fenomeno; di attivare un monitoraggio istituzionale sulla qualità della vita professionale dei poliziotti; di rivedere gli organici e comunque discutere delle possibili alternative alla situazione attuale che ormai è ripiombata nell’emergenza. Su questi temi, condivisi anche da altre Organizzazioni sindacali, abbiamo già inviato una lettera ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria e del Ministero della Giustizia perché si apra con urgenza un confronto.

Giustizia: polizia penitenziaria, molti i nodi rimasti irrisolti...

 

Il Velino, 1 febbraio 2008

 

"Ci avvilisce molto aver appreso ieri del suicidio di un nostro collega avvenuto a Ferrara - è il commento del segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma Polizia penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci alla luce del drammatico evento riportato ieri, in tarda serata, dalle agenzia di stampa relativamente al suicidio di un ispettore del Corpo a Ferrara. "È ora di dire basta - continua - a fatti di questo tipo, soprattutto dopo che, nelle scorse settimane, già altri baschi azzurri si erano tolti la vita nel giro di pochi giorni a Modena, Verbania, Imperia e Tempio Pausania. È necessario che chi ha ruoli di governo si assuma le responsabilità del caso. Non serve gridare a facili allarmismi, anche se le cause vanno certamente ricercate nel decadimento di un ambiente di lavoro, come quello carcerario, che certamente non offre alcuna occasione per valorizzare le risorse che impiega.

Serve, invece, un serio atto di verità da parte di tutti i soggetti istituzionali. Quando l’agente di polizia penitenziaria viene chiamato ad intervenire, tutti i santi giorni, in ogni situazione che si verifica all’interno delle strutture, come la morte del detenuto nomade per arresto cardiaco avvenuta ieri a Regina Coeli; quando esistono solamente 600 educatori, su 55 mila unità detentive e si è costretti a controllare, in completa solitudine, 300/400 detenuti; è facile comprendere come sia gravoso agire all’interno di strutture che non garantiscono la dignità, soprattutto per chi vi lavora".

"Per questa serie di eventi - attacca l’Osapp - c’è un capitolo di responsabilità che deve guardare direttamente all’Amministrazione penitenziaria che, con effetti ripetuti negli ultimi anni, non è intervenuta sul vero nodo da sciogliere, e sui rapporti gerarchici e funzionali che devono qualificare la Polizia penitenziaria nei confronti di coloro che sono incaricati a coordinare le carceri - conclude l’Osapp - Se il nostro corpo è visto ancora come forza di Serie B, se nel vocabolario comune le parole secondino e guardia sono ancora di uso corrente, è anche colpa di questa Amministrazione che non ha saputo affrancarci agli occhi dell’opinione comune".

Lettere: detenuti di Monza scrivono al Provveditore Pagano

 

Comunicato stampa, 1 febbraio 2008

 

All’Att.ne del dott. Luigi Pagano

Provveditore alle Carceri della Lombardia

 

Con la presente intendiamo comunicare al Provveditore Regionale Luigi Pagano e a tutti gli Enti che sono interessati alla situazione delle carceri le condizioni in cui vivono i detenuti della Casa Circondariale di Monza.

Davanti alle sbarre delle finestre sono state montate delle reti metalliche: servono forse come deterrente, per scoraggiare eventuali tentativi di fuga? Le celle sono quasi tutte con tre letti, o meglio due letti a castello e un materasso sul nudo pavimento. Ad oggi il sovraffollamento è del 41%. Manca qualsiasi forma di comunicazione con gli ispettori e le varie "domandine" per ottenere informazioni sono di norma cestinate. Ma il carcere non dovrebbe essere rieducativo?

Riceviamo, attraverso il volontariato, riviste edite da carcerati di altre case di detenzione dove tutto appare adeguato: attività pseudo-ludiche, laboratori, palestre, settori aperti, etc.

Invece a Monza perfino "l’ora d’aria" è stata dimezzata, a causa dei "divieti di incontro" tra diversi detenuti. C’è carenza di personale, sia per gli educatori sia per la Polizia Penitenziaria, con pesanti carichi di lavoro e gravi difficoltà nello svolgere ciò che alla loro funzione è attribuito dall’Ordinamento Penitenziario.

Si può intervenire per migliorare, anche solo un minimo, questa situazione che da diversi anni va sempre peggiorando, invece di migliorare. La depressione incombe, siamo disperati.

 

Firmato da 30 detenuti del carcere di Monza

Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 1 febbraio 2008

 

Silvester, dal carcere di Taranto

Caro amico Riccardo, sono macedone ma ho una moglie italiana e tre bellissimi bambini. Ora sto in carcere e la mia sofferenza è tanta perché io sono innocente. Purtroppo in Italia ci si mette poco a finire in galera ma ci vuole tanto per uscirne.

Qui nel carcere di Taranto la situazione è terribile. La sporcizia è ovunque e i bagni puzzano da fare schifo. Qui a Taranto tanti detenuti stanno in cella pur essendo ammalati. Chi è epilettico, chi ha il diabete. Altri si ammalano stando in carcere, eppure di loro sembra che se ne freghino tutti.

La verità è che noi detenuti non abbiamo nessun diritto. Farebbero prima a scriverlo con una legge invece di riempirsi la bocca con frasi ipocrite. Caro Riccardo, tu ci parli di giustizia e di pene diverse dal carcere, ma la verità è che ammassarci come bestie conviene. Se tanti detenuti soffrono, altri si riempiono le tasche. Così, caro Riccardo, ti saluto e che Dio ti benedica, continua così.

 

Mario, dal carcere Fuorni di Salerno

Caro Arena, ti scrivo per chiederti se qualcuno può venire a vedere come siamo costretti a vivere nel carcere di Fuorni. Sentiamo tanto parlare del carcere di Guantanamo, ma perché i politici non vengono qui dove è tutto proibito? Basterebbe fare un giro nelle celle di punizione per vedere come sono trattate le persone detenute. Inoltre, devi sapere che qualsiasi cosa un detenuto chieda gli viene risposto: "Qui siamo a Fuorni e la legge siamo noi!".

E in effetti noi detenuti non possiamo fare nulla. Dobbiamo stare sugli attenti quando vengono in cella a fare la conta. Dobbiamo camminare in fila nei corridoi, con la testa rivolta a terra. Non possiamo tenere una gomma da masticare in bocca. Non possiamo chiedere un pezzo di pane in più a pranzo. Non possiamo portare una bottiglia d’acqua al colloquio con i familiari. Non possiamo parlare da una cella all’altra. Non possiamo fare nulla. E chi non può fare nulla, ma proprio nulla, è ridotto al nulla. Questo è solo in minima parte il carcere Fuorni di Salerno. Sappi che nelle nostre celle, una cosa possiamo fare e facciamo. Seguire Radio Carcere!

 

Giuseppe, dal carcere di Busto Arsizio

Ciao Riccardo, ti scrivo perché vorrei dire alcune cose ai vari Grillo che parlano tanto di Giustizia. Beh, Grillo vuole impedire a un condannato di fare politica, ma io vorrei rispondere: come la mettiamo con chi è stato condannato ingiustamente? Come la mettiamo con chi ha fatto un reato, come Pannella, per migliorare una legge? Perché Grillo si riempie la bocca di proclami e mai parla della inefficienza di alcuni magistrati o della assurdità del processo di oggi? Grillo sarà pure un bravo comico, ma sulla giustizia è una rovina per il paese. Non aiuta a migliorare, ma alimenta il malcontento con un falso senso della Giustizia.

C’è un detto: chi non ha fame trova disgusto anche per il dolce, e nel popolo c’è molta ignoranza, così Grillo alimenta il fascismo e i poteri forti. È giusto combattere la violenza e la mafia, ma va fatto in modo democratico e non dogmatico perché se no ci sarà un potere ancora peggiore di questo. Non allarmismi e grida o slogan, ma una riforma seria della giustizia. Il malcontento non va cavalcato alla Grillo, ma va governato da una buona politica.

Ti saluto con stima

Belluno: detenuto rumeno in coma dopo tentativo di suicidio

 

Il Gazzettino, 1 febbraio 2008

 

Arrestato lunedì notte assieme ad altri due connazionali, braccati dalla polizia e dai carabinieri dopo un furto di pochi spiccioli al ristorante Al Fogher di Codissago, il rumeno Zaharia Laurentiu Florin, 19 anni, ieri mattina, in carcere, ha tentato il suicidio, impiccandosi con un lenzuolo.

È stato salvato in extremis dalle guardie carcerarie. Ma le sue condizioni sono disperate. È in coma profondo, ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Belluno, piantonato dalla polizia penitenziaria. La prognosi è riservata. La mancanza di ossigeno ha provocato seri danni al cervello.

Il ragazzo, poco dopo l’arresto, ovvero nel pomeriggio di martedì, è stato raggiunto anche da un ordine di custodia cautelare, spiccato dalla Procura di Belluno, per essere stato ritenuto responsabile di un furto e di una tentata estorsione commessi il 27 maggio 2007 a Ponte nelle Alpi in danno di una ditta del posto.

All’epoca avrebbe portato via 14 mila euro e un’auto di grossa cilindrata, usata per scappare, e, il giorno dopo, per tentare di estorcere altri soldi all’azienda. A stringere le indagini su di lui furono i carabinieri di Belluno che proprio martedì hanno eseguito l’ordine di custodia cautelare, aggravando non di poco la posizione del giovane rumeno. Con lui, nella scorribanda effettuata nella notte tra lunedì e martedì tra Codissago e Ponte nelle Alpi, durante la quale sono state rubate anche due auto, c’erano anche i connazionali Ionut Tofan, 25 anni, e Vasile Draghicescu, 21, tutti domiciliati nel Veneziano, e già noti per reati contro il patrimonio. Per tutti e tre le accuse sono di furto aggravato e di ricettazione. Per Zaharia si aggiungono anche il furto aggravato e la tentata estorsione commessi a Ponte nelle Alpi. Una posizione pesantissima che, forse, ha finito col minare la spavalderia di una gioventù povera e incosciente. Solo, in carcere, ha tentato di farla finita, forse lui stesso incredulo che il sogno italiano potesse finire in una cella.

La polizia, martedì mattina, nel presentare il resoconto dell’operazione d’arresto dei tre, aveva specificato che non si escludeva la possibilità che fossero collegati anche ad altri furti commessi recentemente in città. Il caso di Ponte nelle Alpi, in qualche modo, avvalora la tesi. Nelle prossime ore, probabilmente domani, il giudice dovrà decidere se convalidare o meno gli arresti, ma in un caso o nell’altro, per Zaharia non sarebbe cambiato nulla, visto l’ordine della Procura. Meno pesante la posizione degli altri due. Tutti sono assistiti d’ufficio dall’avv. Zacco di Feltre.

Palermo: il Garante; l’Ucciardone è un carcere da chiudere

 

Comunicato stampa, 1 febbraio 2008

 

La protesta dei detenuti dell’Ucciardone per la mancanza di acqua calda ha riacceso i fari sulle carenze dell’istituto penitenziario. E c’è chi torna a chiedere la chiusura del vecchio carcere borbonico. È quello che pensa il Deputato regionale di Forza Italia Salvo Fleres, Garante Regionale per i diritti dei detenuti. "Bisogna avviare un processo di riqualificazione delle carceri e un nuovo piano costruttivo in Sicilia - dice Fleres - L’Ucciardone andrebbe chiuso e riconvertito in museo".

Secondo Fleres l’Ucciardone è ormai al limite della vivibilità: "E se si aggiunge a questo - dice Fleres - l’impossibilità per i detenuti di poter sopperire alle più elementari condizioni igieniche risulta evidente come la pena della privazione della libertà diventi negazione della dignità umana" Fleres manifesta solidarietà ai carcerati e plaude al direttore "per avere garantito un dialogo sereno con i detenuti in rivolta".

Viterbo: aprirà nuova Sezione ad Eiv, proteste della Fp-Cgil

 

www.tusciaweb.it, 1 febbraio 2008

 

Al carcere di Mammagialla aprirà un nuovo reparto ad Elevato Indice di Vigilanza e scatta la protesta della Cgil. Il sindacato, oltre alla mancata convocazione di un tavolo per discuterne, sottolinea come la nuova apertura andrà a gravare su una situazione già critica nel carcere viterbese, affetto da mancanza cronica di personale. La Cgil stima che manchino 230 unità di Polizia Penitenziaria cui si aggiungono altre situazioni, come 31 unità distaccate.

Quindi i responsabili chiedono almeno cento nuovi lavoratori in organico come base per intavolare una trattativa, altrimenti minacciano proteste sotto la Prefettura.

 

La lettera della Fp Cgil

 

La Fp Cgil protesta. Abbiamo appreso ufficialmente della prossima apertura di una Sezione ad Elevato Indice di Vigilanza a Mammagialla. Pur non volendo entrare nel merito delle decisioni che appartengono all’autorità politica e amministrativa del dicastero della Giustizia, non possiamo non evidenziare - come già nel recente passato - quanto per la nostra organizzazione sindacale continui ad essere sconvenientemente austero e discutibile l’atteggiamento tenuto dal Dap in simili occasioni.

Oggi i lavori di adeguamento della struttura deputata ad ospitare una sezione ad elevato indice di vigilanza sono iniziati e nel frattempo il Dap ha assegnato qualche detenuto sottoposto al regime penitenziario denominato Eiv, non si capisce la motivazione di tale decisione poiché tutti consapevoli che attualmente mancano dall’organico ufficiale dichiarato dallo stesso Dap 230 unità di polizia penitenziaria. Tale carenza è imputata dalle pregresse aperture di: Padiglione della Massima sicurezza e dal reparto ospedaliero Uomp presso l’ospedale cittadino di Belcolle.

Altre situazioni di sofferenza sono causate da: 31 unità distaccate ad altre sedi, prepensionamenti causati da problematiche relative a malattie psico-fisiche, tenendo in considerazione che presso il nostro istituto vi è il numero più alto.

La Fp Cgil denunciando questa situazione esplosiva richiama la stessa Direzione di Viterbo nella figura di Pier Paolo D’Andria e il provveditore del Lazio Angelo Zaccagnino ad attivarsi per la loro competenza, considerato che ad oggi i lavori sono iniziati e non è stato istituito nessun tavolo di contrattazione e di confronto con le parti sociali.

La fp Cgil ribadisce essendone totalmente convinta che il carcere ha un impatto sul territorio non indifferente in termini di sicurezza poiché ospita diversi personaggi di spicco della criminalità organizzata, essendo tra l’altro dopo la Asl il secondo ente in termini di grandezza per la provincia di Viterbo, promuovendo un indotto lavorativo non indifferente che potrebbe essere minato dalla poca considerazione e poca valutazione da parte del Dap di questo istituto che è il terzo nel Lazio per importanza. Ad oggi, per poter iniziare a ragionare con l’Amministrazione penitenziaria, chiediamo quanto mento a tamponamento della carenza di personale e per garantire i diritti dei poliziotti penitenziari un minimo di 100 unità che servirebbero a far salire i livelli di sicurezza da sub-minimo a minimo. Rimane inteso che se l’amministrazione penitenziaria non darà risposta a questa nostra richiesta, ci riserveremo di indire una manifestazione davanti alla prefettura di Viterbo.

 

Per il Comitato degli iscritti Fp Cgil Vt Polizia Penitenziaria Gino Federici

Il Segretario Generale Fp Cgil Viterbo Sergio Riccardi

Il Segretario Regionale Fp Cgil Polizia Penitenziaria Rodolfo Valentinetti

Il Segretario Nazionale Fp Cgil Polizia Penitenziaria Francesco Quinti

Immigrazione: l’eredità di Amato, più soldi per l'integrazione

di Emilia Gioventù

 

Italia Oggi, 1 febbraio 2008

 

Invariate nel 2008 le risorse per gli obiettivi del Viminale. Tranne quelle per l’accoglienza.

Giuliano Amato è l’unico tra i ministri che lascia qualcosa in eredità al suo successore. Ovvero la direttiva generale per l’attività amministrativa e per la gestione relativa all’anno 2008 del ministero dell’Interno. In pratica l’elenco delle priorità politiche, degli obiettivi e dei risultati con tanto di indicazioni su quanto c’è in cassa per realizzarli. Le risorse in realtà per le singole missioni non si discostano poi tanto da quelle messe in conto nel 2007. Se non in un caso.

Alla voce immigrazione, accoglienza e garanzia dei diritti. Già, immigrazione, uno dei temi che ha maggiormente impegnato il ministro Amato alle prese con un decreto al centro di errori, critiche e contestazioni in parlamento. Ebbene, lo scorso anno capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione poteva contare su 238.485.299 euro.

Per questo 2008 la variazione è significativa. Solo per il programma di garanzia dei diritti e degli interventi per lo sviluppo della coesione sociale in conto ci sono risorse per 309.402.468 euro. Ai quali devono aggiungersi 72.269.963 per la gestione dei flussi migratori e 5.259.980 per i rapporti con le confessioni religiose nell’ambito di un programma condiviso con il ministero degli Affari esteri. Per gli obiettivi strategici relativi alla gestione fenomeni di immigrazione vanno risorse pari a 39.454.000.

Si tratta di risorse destinate alla realizzazione del progetto "Cittadinanza Italiana" e a promuovere progetti per "l’inclusione sociale degli stranieri, nell’ambito del rilancio dell’attività dei Consigli territoriali per l’immigrazione". Non soltanto. Parte del fondi sono destinati anche alla realizzazione di "interventi migliorativi della vivibilità e della gestione delle strutture per l’immigrazione e l’asilo, nel quadro della riduzione dell’utilizzo dei centri di permanenza temporanea".

Non ci sono invece da registrare sostanziali variazioni da annotare sul capitolo delle risorse. Per esempio per il dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso e della difesa civile. Lo scorso anno in cassa c’erano 1.704.693.917 euro. Quest’anno circa una trentina di milioni in più. "L’azione del ministero dell’Interno è fortemente influenzata da taluni fenomeni particolarmente rilevanti e critici emergenti dall’attuale scenario socio-economico, interno e internazionale", è scritto nell’elenco delle priorità politiche.

Risorse dunque modulate per fronteggiare la criminalità interna ed internazionale e tutelare lo sviluppo delle attività economiche ed imprenditoriali. Impossibile poi non fare i conti con il fenomeno terroristico, interno e internazionale, quest’ultimo di matrice integralista, "che pone il tema della lotta alla radicalizzazione nei nostri paesi e della capacità di risposta nazionale nelle situazioni di crisi". E poi l’immigrazione "legata agli enormi dislivelli di reddito tra le varie aree del mondo, che comporta riflessi sul governo del fenomeno da parte degli Stati destinatari delle rotte e genera difficoltà di contrasto dei flussi migratori clandestini, nel cui ambito si sono evidenziati, negli ultimi anni, reati odiosi quali il traffico di esseri umani e la tratta di donne e minori".

Infine, il Viminale ha tenuto conto anche "dell’insicurezza diffusa" e della "frammentazione sociale, dovute anche a situazioni di degrado urbano". Ecco che cosa attende il successore di Giuliano Amato, ecco le priorità alle quali dovrà provvedere con i conti fatti dal ministro attualmente in carica.

Droghe: Ferrero; la mancata riforma è colpa dei centristi

 

Notiziario Aduc, 1 febbraio 2008

 

La responsabilità della caduta del governo è "chiaramente" del blocco centrista, e lo stesso blocco "ha bloccato la soluzione dei problemi sul versante sociale". In una conferenza stampa a palazzo Chigi per chiudere il bilancio dei 20 mesi di governo, Paolo Ferrero non ha dubbi nell’indicare la causa politica delle difficoltà incontrate nel suo lavoro al ministero della Solidarietà sociale: "Al contrario di quello che viene proposto, e cioè una sinistra radicale che blocca le iniziative, è vero l’opposto, almeno sui temi dove ho lavorato io". A giudizio del ministro del Prc, "il governo non è saltato su un progetto non condiviso o su una forzatura della sinistra, ma perché si è deciso di far saltare il quadro politico".

Ferrero porta alcuni esempi. Si parte dalla politica a favore del potere d’acquisto degli stipendi: "Tutti sono concordi nel registrare che i salari sono troppo bassi, ma in questi mesi si è sbagliato ad avere una politica economica troppo restrittiva, andando al di sotto delle richieste della Ue sul rapporto tra deficit e Pil".

Anche sulla precarietà, "noi abbiamo chiesto di andare oltre, si è fatto poco". Sulla droga, "problema enorme, non siamo riusciti a cambiare la legge perche l’ala centrista ha bloccato la riforma, e non siamo riusciti neanche a fare la legge che blocca la pubblicità tv degli alcolici". Stesso discorso per la legge sull’immigrazione e quella sulla non autosufficienza, nonostante il lavoro fatto sono rimaste incompiute "per responsabilità di alcuni soggetti precisi".

Usa: e per passare la frontiera... le impronte di 10 dita

di Mario Calabresi

 

La Repubblica, 1 febbraio 2008

 

"Ten Finger Prints", la schedatura digitale dell’impronta di tutte e dieci le dita: è la nuova frontiera della sicurezza americana. Da ieri all’aeroporto di Chicago, da domani al Kennedy di New York, entro la fine dell’anno ad ogni ingresso negli Stati Uniti ogni cittadino straniero dai 14 ai 79 anni dovrà permettere l’archiviazione dei dati di tutti i suoi polpastrelli.

Finora si premevano soltanto i due indici su uno scanner che rilevava l’impronta digitale e la archiviava, dopo averla confrontata con i dati delle memorie dell’Fbi e del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. Da oggi, i dati biometrici di chi arriva in America verranno schedati nel database Ident, che già contiene 90 milioni di impronte e cresce al ritmo di 20 milioni ogni dodici mesi, e ci resteranno per 76 anni. Robert A. Mocny, direttore dello "Us Visit Program", l’organismo che gestisce la raccolta dei dati personali e registra l’entrata e l’uscita dagli Usa di ogni straniero, ci spiega che verrà rispettata la privacy ma poi racconta che le informazioni verranno condivise con l’Fbi, il Dipartimento di Stato, quello della Giustizia, il Pentagono, le polizie locali, la Guardia costiera, la Cia e tutte le agenzie di intelligence.

Perché dieci dita, non bastavano i due indici come in passato? Mocny parte a raffica: "Efficienza e sicurezza: queste nuove impronte digitali ci permettono di prevenire meglio l’uso di documenti falsi, proteggere i visitatori dal furto d’identità e fermare criminali e terroristi. Ora capita che i computer non siano in grado di distinguere due impronte simili e allora si passa alla comparazione fatta ad occhio da un agente, procedura che arriva a prendere mezz’ora. Con le dieci dita non si può più sbagliare".

Poi afferra una bottiglietta d’acqua con il pollice, il medio, l’anulare e il mignolo e sorride: "Un terrorista potrebbe averci bevuto ma schedando solo l’indice non avremmo nessun aiuto. E molte impronte raccolte dall’Fbi sulla scena di un crimine provengono dalle altre dita. Adesso ha capito?". Così si dovranno premere insieme le quattro dita della mano sinistra, poi quelle della destra e infine i due pollici e infine si verrà fotografati.

Si discute se fare i pollici insieme o separati, nel primo caso chi ha un neonato in braccio non sa dove metterlo, nel secondo si risparmia tempo. I tempi si allungheranno e così le file, anche se il nuovo scanner è più veloce dei vecchi, ma chi viaggia spesso e quindi sarà presto schedato potrà in futuro dare solo 4 dita. Due anni fa la macchina sperimentale per scannerizzare dieci dita era grande come un forno a microonde, oggi le nuove - che si chiamano Guardian e Identix - sono dei cubi di 15 centimetri per lato e costano 2500 dollari.

Solo a New York ne verranno messe 800 ma alla fine dell’anno le userà ognuno dei 18mila ufficiali di frontiera. L’altra novità allo studio per il 2008 è il check-out: il controllo all’uscita dal Paese. Oggi basta consegnare il cartoncino di ingresso alla linea aerea, ma questo non garantisce di archiviare con certezza la data e di controllare chi resta più a lungo del consentito, così si sta studiando di ripetere l’intera procedura di controllo anche a chi sta ripartendo, con conseguenti nuove code. La pecora nera del sistema, per la gioia degli amanti della privacy, è l’altro aeroporto newyorchese, quello di Newark, dove le dieci dita arriveranno solo il prossimo Natale.

Iran: 9 donne e 2 uomini in lista attesa per essere lapidati

 

Associated Press, 1 febbraio 2008

 

Nove donne e due uomini in Iran aspettano di essere uccisi a colpi di pietra: Amnesty International ha chiesto oggi alle autorità iraniane di abolire la morte per lapidazione e di imporre una moratoria immediata su questa orribile pratica, appositamente studiata per provocare la massima sofferenza nella vittima.

In un nuovo rapporto pubblicato oggi, l’organizzazione ha rivolto un appello urgente al governo iraniano chiedendo di modificare il codice penale del paese e, nel frattempo, assicurare il rispetto della moratoria sulla lapidazione imposta dal Capo dell’autorità giudiziaria nel 2002.

"Accogliamo con favore i recenti passi verso le riforme e la notizia che il parlamento sta esaminando emendamenti al codice penale che permetterebbero la sospensione di alcune condanne alla lapidazione nei casi in cui sia ritenuto opportuno", ha affermato Malcom Smart, Direttore del programma Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty International. "Tuttavia, le autorità devono andare oltre e adottare le misure necessarie per assicurare che il nuovo codice penale non permetta la lapidazione né contempli l’esecuzione per il reato di adulterio con altri metodi".

Il codice penale iraniano prevede l’esecuzione tramite lapidazione. Secondo l’articolo 102, gli uomini devono essere sotterrati fino alla vita, le donne fino al petto. Con riferimento al reato di adulterio, l’articolo 104 afferma che le pietre da usare dovrebbero essere "non così grandi da uccidere la persona con uno o due colpi, e nemmeno così piccole da non poter essere definite pietre".

Il sistema giudiziario iraniano presenta gravi lacune che spesso sfociano in processi iniqui, anche nei casi di pena capitale. Nonostante la moratoria del 2002 e le smentite ufficiali sulle esecuzioni tramite questa pratica crudele, Amnesty International è venuta a conoscenza di alcuni casi di lapidazione. Jàfar Kiani è stato lapidato il 5 luglio 2007 ad Aghche-kand, nella provincia di Qazvin. Era stato condannato a morte per aver commesso adulterio con Mokarrameh Ebrahimi, condannata alla lapidazione per lo stesso reato, dalla quale aveva avuto due figli. La condanna è stata eseguita nonostante un ordine di sospensione dell’esecuzione e in spregio alla moratoria del 2002.

Si è trattato della prima lapidazione confermata in via ufficiale dopo la moratoria, sebbene esistano notizie sulla morte per lapidazione di un uomo e una donna a Mashhad, nel maggio del 2006. Si teme che Mokarrameh Ebrahimi possa subire la stessa sorte. La donna è rinchiusa nella prigione di Choubin, nella provincia di Qazvin, sembra con uno dei suoi figli.

Amnesty International è ugualmente preoccupata per otto donne e due uomini che rischiano la lapidazione e i cui casi sono evidenziati nel rapporto diffuso oggi. Sono le donne a essere più di frequente condannate a morire per lapidazione, spesso a causa del diverso trattamento che subiscono davanti alla legge e nei tribunali, in aperta violazione degli standard internazionali sul giusto processo. Sono in particolar modo vittime di processi iniqui perché meno istruite rispetto agli uomini e per questo motivo indotte più facilmente a firmare confessioni di crimini mai commessi. Inoltre, la discriminazione cui vanno incontro in altri aspetti della loro vita fa sì che siano più soggette a condanne a morte per adulterio.

Nonostante questa cupa realtà, ci sono fondate speranze che la morte per lapidazione venga completamente abolita in Iran. Sforzi coraggiosi sono stati compiuti dai difensori iraniani dei diritti umani che, in seguito ai due casi del 2006, hanno lanciato la campagna "Stop alla lapidazione per sempre!". La loro azione ha contribuito a salvare quattro donne e un uomo: Esmailvand, Soghra Molài, Zahra Rezài, Parisa e suo marito Najaf. Inoltre, un’altra donna, Ashraf Kalhori, ha ottenuto una sospensione temporanea dell’esecuzione. "Sollecitiamo le autorità iraniane a prestare attenzione alle nostre richieste e a quelle degli iraniani che si stanno battendo senza tregua per mettere fine a questa orrenda pratica", ha dichiarato ancora Malcom Smart.

Questi sforzi, però, hanno un prezzo elevato. Gli attivisti per i diritti umani in Iran continuano a subire pressioni e intimidazioni da parte delle autorità. Asieh Amini, Shadi Sadr e Mahboubeh Abbasgholizadeh, esponenti di "Stop alla lapidazione per sempre!", erano tra le 33 donne arrestate nella prima settimana di marzo 2007 a Teheran durante le proteste contro il processo di cinque attivisti per i diritti delle donne; 31 di esse sono state rilasciate il 9 marzo. Dieci giorni dopo, anche Mahboubeh Abbasgholizadeh e Shadi Sadr sono state rilasciate dietro il pagamento di 200 milioni di tuman (più di 145.000,00 euro). È probabile che le due donne verranno processate con accuse quali "disturbo dell’ordine pubblico" e "atti contro la sicurezza dello Stato". I difensori dei diritti umani in Iran ritengono che la pubblicità internazionale e la pressione a sostegno degli sforzi locali possano contribuire a portare un cambiamento nel paese.

Hong Kong: appello liberazione 3 detenuti esponenti Ong

 

Radio Vaticana, 1 febbraio 2008

 

Destano particolare preoccupazione le condizioni di salute di tre detenuti, esponenti di organizzazioni umanitarie, in carcere ad Hong Kong. Per questo, alcune organizzazioni locali hanno lanciato un appello chiedendo al governo di liberarli. Si spera che il rilascio possa avvenire prima o in occasione del capodanno cinese, che nel 2008 si festeggerà il prossimo 7 febbraio.

Intanto, la loro situazione sanitaria, già critica, continua a peggiorare. Hu Jia, ex direttore di un istituto per l’educazione sanitaria, è stato arrestato perché accusato di aver incitato "alla sovversione del potere statale". È affetto da una grave patologia epatica ed ha urgente bisogno di adeguate cure mediche. Guo Feixiong è in carcere perché autore di un libro ritenuto diffamatorio sulla conduzione amministrativa di una città della provincia di Liaoning.

Lo scorso mese di dicembre ha iniziato lo sciopero della fame e il suo quadro clinico non è confortante. Il terzo detenuto è Chen Guangcheng, condannato a quattro anni e tre mesi per "aver organizzato una mobilitazione per disturbare il traffico". In realtà, secondo il suo avvocato e i responsabili del Centro asiatico per il progresso dei popoli, Chen avrebbe solo segnalato abusi compiuti da parte di alcuni funzionari locali impegnati nel controllo della vigente normativa sulla pianificazione familiare. Anche le sue condizioni di salute sono ritenute preoccupanti.

Le organizzazioni pacifiste di Hong Kong invitano, quindi, ad inoltrare richieste di clemenza al governo di Pechino. La mobilitazione - sottolinea infine il quotidiano della Santa Sede, "L’Osservatore Roman" - intende anche "porre l’accento sulla necessità di garantire l’integrità fisica e psichica dei tre detenuti e il rispetto dei diritti umani".

Giappone: eseguite tre condanne a morte in carceri diverse

 

Associated Press, 1 febbraio 2008

 

Tre carcerati condannati a morte sono stati giustiziati oggi in Giappone. Lo ha annunciato il ministero giapponese della giustizia. Le esecuzioni sono avvenute in tre carceri diversi. Il portavoce del ministero, Takehiro Nakayama, non ha fornito altre precisazioni. L’agenzia di stampa Kyodo ha tuttavia rivelato che i detenuti sono stati giustiziati per impiccagione, ognuno nel suo carcere, a Tokyo, a Osaka e a Fukuoka.

 

 

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