Rassegna stampa 30 dicembre

 

Giustizia: ma la politica ha l’obbligo di "misurarsi" con la paura

di Martina Toti

 

www.rassegna.it, 30 dicembre 2008

 

"Certamente i politici demagogici sfruttano le paure per ottenere potere. Però è anche vero che chi viene eletto democraticamente ha il vincolo morale di attenersi alle nostre paure, almeno a quelle razionali".

Dunque la paura è tornata. Neanche il tempo di "respirare" un po’ per il vento di novità portato da Obama che anche l’India ha dovuto subire il suo 11 settembre. L’attacco è arrivato dal mare anziché dal cielo, ma il senso di vulnerabilità terrorizzata che ha prodotto è sempre lo stesso e la sua onda non si è arrestata a un continente, se è vero che in Italia la Lega ha chiesto di sospendere a tempo indeterminato la costruzione di nuove moschee.

E così ancora una volta il terrore sembra mescolarsi a paure altrettanto gravi: la crisi economica, la povertà, l’ambiente che stiamo inesorabilmente dissipando senza coscienza alcuna. Sui temi connessi alla paura Il Mese ha dedicato un approfondimento nel numero dello scorso luglio, con una lunga intervista a Zygmunt Bauman. Questa volta abbiamo deciso di ascoltare un altro insigne pensatore, Michael Walzer, tra i massimi filosofi politici statunitensi.

"La paura - dice Walzer - è certamente un tema generale della vita politica di un paese e sospetto che lo sia sempre stato. Ma assume molte forme, alcune altamente specifiche. Il terrore che si prova verso i terroristi islamisti radicali, per intenderci, secondo me non ha nulla a che fare con la paura profonda, come dice lei, dell’altro. In questo caso a spaventarci è un gruppo di persone che vogliono ucciderci e che questo loro intento lo proclamano esplicitamente. Si tratta dunque di una paura interamente razionale: sarebbe assurdo, in circostanze simili, non provare timori di questo tipo.

 

Tuttavia non potrà negare che questa paura viene spesso strumentalizzata ideologicamente…

Certamente i politici demagogici sfruttano le paure per ottenere potere. Però è anche vero che chi viene eletto democraticamente ha il vincolo morale di attenersi alle nostre paure, almeno a quelle razionali. Chi governa deve difendere la sicurezza fisica dei propri elettori. Per quanto riguarda la paura profonda dell’altro, siamo davvero sicuri che sia così profonda? Non si trova, piuttosto, alla superficie della vita sociale? E l’alterità, poi, non è una questione relativa, facilmente modificabile, specialmente in una società di antica immigrazione come gli Stati Uniti? Certo, il processo non è semplice, però capita costantemente di rendersi conto che le persone che un tempo erano radicalmente "altre" ci sono ora molto vicine, magari hanno sposato i nostri figli.

 

In ogni caso non si può non notare che la percezione dell’insicurezza è in crescita. Un aspetto di questo fenomeno è la crescente ostilità nei confronti degli immigrati e degli stranieri. C’è una responsabilità politica in questo trasferimento d’incertezze private (per esempio la difficoltà a pagare il mutuo o a trovare un buon lavoro) su nemici esterni?

Quando si parla di questi temi non bisogna mai dimenticare che gli Stati Uniti sono una società di migranti, pertanto una politica anti-immigrazione è sempre rischiosa per chi la pratica. Ai politici occorre il sostegno dell’ultimo gruppo di immigrati che sono diventati americani e dunque possono votare. Molti di noi ricordano bene i politici che hanno cercato di "tener fuori" i nostri genitori o i nostri nonni: non aiuteremo certo i loro omologhi contemporanei a fare altrettanto con qualcun altro. È vero però che tentativi di trasferire il disagio per le difficoltà economiche interne su nemici esterni vengono operati regolarmente ma, almeno qui negli Usa, non hanno mai funzionato. Non ancora, almeno. Certo, se le condizioni economiche dovessero peggiorare ulteriormente questa possibilità c’è. Tuttavia, nonostante già ora il contesto non sia dei migliori, non mi pare di registrare accuse o colpevolizzazioni nei confronti degli "altri". Ci sono certamente forze fortemente anti-immigrazione nel partito repubblicano, ma chi si candida per incarichi istituzionali non può assumere posizioni troppo dure contro l’immigrazione per paura di perdere il sostegno ispanico o asiatico. Come dicevo prima, gli immigrati naturalizzati, che hanno conquistato il diritto di voto recentemente, sono la migliore protezione contro l’ostilità verso i nuovi arrivati.

 

E questo che lei dice indica probabilmente possibili evoluzioni in questo senso in paesi di recente immigrazione come l’Italia. In sintesi, dunque, qual è l’equilibrio tra la strumentalizzazione delle paure e la giusta risposta ad esse?

Riassumerei così. Se è vero che i politici tendono a sfruttare sempre le paure del proprio elettorato, allo stesso tempo, però, sono costretti a rispondere ad esse, indicando le modalità con cui affrontare ciò che le persone temono. Molti americani sono spaventati da questa nuova vulnerabilità economica: dalla minaccia di perdere il posto di lavoro, dai debiti che crescono, dall’aumento dei costi della sanità, dall’erosione delle pensioni, e così via. Si tratta di paure razionali, e non vedo come i politici possano evitare di discutere dei problemi reali che li coinvolgono.

 

Le paure sono le stesse tra le diverse classi sociali?

Se a minacciarci è il terrorismo, allora siamo tutti uguali e uniti. Sugli aerei dirottati l’11 settembre sono morti insieme sia i passeggeri della business class che quelli che viaggiavano in economy. Stessa cosa vale per gli attentati successivi. Tuttavia, com’è ovvio, i ricchi e la gran parte di chi appartiene alla classe medio alta sono più protetti dall’impatto dell’alterità radicale, a partire dagli ambienti in cui generalmente vivono. Le paure di tutti gli altri sono sempre concrete, seppure non necessariamente realistiche: perdita di posti di lavoro, affollamento delle città, aumento della criminalità e via dicendo.

 

Nei suoi ultimi saggi, lei si è concentrato sul multiculturalismo, insistendo sul fatto che l’istruzione può favorire la cittadinanza democratica in un contesto multiculturale. In che modo?

Credo di essere un multi-culturalista "morbido": non penso, infatti, che i diversi gruppi religiosi e culturali esistenti in una società democratica debbano avere confini distinti e netti. Mi aspetto e auspico, invece, un grande movimento al di là delle linee di confine, con molte identità confuse e appartenenze sovrapposte. Detto questo, per me l’ideale sarebbe che la maggior parte dei bambini frequentasse le scuole pubbliche, che garantiscono mescolanza religiosa ed etnica; in questo tipo di scuole, tutti dovrebbero studiare la storia e la letteratura degli altri "gruppi" e, allo stesso tempo, apprendere le differenze e le modalità della coesistenza tra diversi. È qui che si impara una comune educazione civica e, quindi, il significato della cittadinanza, la storia della democrazia (e delle battaglie condotte per il suffragio universale e la libertà di parola) e le pratiche costituzionali del proprio paese. Temo che i bambini che frequentano scuole religiose private non imparino molto sugli altri, e tuttavia alle loro scuole andrebbe imposto di offrire la medesima preparazione civica. In mancanza di questo requisito, non dovrebbe sussistere alcun finanziamento statale e nessuna licenza per le scuole private.

 

Nel suo "Sfere di giustizia" (Laterza, 2008), come pure in molti altri suoi lavori, lei ha discusso del rapporto che intercorre tra moralità e politica. L’incontro con l’Altro è decisamente una sfida da questo punto di vista: potrebbe spiegare come pluralismo e uguaglianza siano fattori interconnessi in grado di aiutare la nostra società globalizzata?

La disuguaglianza sociale viene prodotta sempre a due livelli. Al primo c’è il libero mercato; poiché è davvero libero, produce ineguaglianza tra gli individui: alcuni hanno successo, altri falliscono; alcuni salgono, altri cadono. Noi possiamo (se vogliamo) controllare questo tipo di disuguaglianza attraverso il potere d’associazione (il movimento sindacale) e attraverso le tasse e il Welfare (cioè con un’azione redistributiva).

Esiste, però, una disuguaglianza più profonda, a cui è più difficile porre rimedio, e che nasce in funzione dell’appartenenza di gruppo e dello svantaggio collettivo: inizia con l’infanzia e si rinforza attraverso pratiche educative discriminatorie, con il razzismo, i pregiudizi religiosi e il sessismo in ogni aspetto della vita sociale. Se vogliamo controllare questo tipo di disuguaglianza, non possiamo solo ridistribuire la ricchezza, ma dobbiamo dare potere ai gruppi, rafforzare la vivacità interna delle comunità stigmatizzate e l’efficacia delle loro organizzazioni; dobbiamo dare loro una possibilità per conquistarsi insieme il proprio spazio e recuperare il proprio orgoglio. Ma, in quanto democratico liberal, penso che noi dobbiamo anche aiutare le persone che si trovano in questi gruppi svantaggiati a fuggirne, se lo vogliono, a entrare nell’economia e nel sistema politico come individui e a trovare la propria strada. Un egualitarismo genuino richiede di impegnarsi contemporaneamente per il pluralismo e l’individualismo. Ho sempre pensato che la politica di una sinistra degna del suo nome debba essere complessa.

Giustizia: Ucpi; le riforme che mancano al nostro ordinamento

di Oreste Dominioni (Presidente Unione Camere Penali)

 

www.ilsussidiario.net, 30 dicembre 2008

 

Separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, riforma del Csm, disciplina legale dei criteri di esercizio dell’azione penale. Tre riforme strutturali della giustizia legate dal medesimo filo rosso: si tratta di aumentare fortemente il tasso di autonomia e indipendenza dei magistrati nel segno del principio di legalità. Poiché gli oppositori di queste riforme, con in testa l’Associazione Nazionale Magistrati, ne danno un’interpretazione contraria sostenendo che esse comprometterebbero le guarentigie dell’autonomia e dell’indipendenza, è più che utile qualche puntualizzazione.

La separazione delle carriere ha come obiettivo la rottura dell’unitarietà dell’"autorità giudiziaria" quale funzione statale di cui l’accusare e il decidere siano due sotto-funzioni. Infatti da questa concezione, che ancora ispira l’attuale ordinamento giudiziario, derivano conseguenze contrarie ai principi democratico-liberali. Pubblico ministero e giudice sono investiti di funzioni intese a obbedire a una medesima finalità: realizzare la persecuzione penale statale, così che anche il giudice deve farsi carico delle esigenze di adempimento di tale funzione. Il risultato è che la funzione di controllo giurisdizionale sull’accusa ne esce molto sminuita. Interi settori normativi del codice di procedura penale (si pensi, come esempio, alla disciplina dei termini massimi delle indagini preliminari e delle loro proroghe) sono basati sul controllo del giudice sull’operato del pubblico ministero.

È prassi ormai generalizzata che un simile controllo giurisdizionale non è esercitato (le richieste di proroga delle indagini del pubblico ministero sono accolte con formule di solo stile) e la conseguenza prima è che il procedimento subisce tempi sempre più dilatati, con grave danno per la sua efficienza.

La riforma del Csm deve operare su più fronti. Si tratta di prevedere due Csm, rispettivamente per i giudici e per i pubblici ministeri, in corrispondenza con la separazione delle carriere. Si tratta poi di strutturare la loro composizione in modo che i laici siano una quota di maggioranza rispetto ai togati.

Ciò è necessario per rompere la gestione del Csm secondo i poteri delle "correnti", che agiscono condizionando pesantemente i singoli magistrati. Al riguardo si deve insistere su una riflessione fondamentale: le guarentigie costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza sono proprie dei singoli magistrati e non di un corpo di magistratura che le amministri con un organo erroneamente definito di "autogoverno", operante secondo logiche di potere interno.

L’esercizio dell’azione penale è oggi consegnato a un regime di discrezionalità libera, cioè di arbitrio, gestito dalle singole Procure secondo propri criteri, a volte dichiarati ma per lo più inespressi. Ciò significa, né più né meno, l’abolizione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Se, infatti, la scelta di come destinare le limitate risorse giudiziarie di persecuzione penale è affidata alle singole Procure secondo propri criteri di selezione fra le notizie di reato da perseguire e quelle da pretermettere, il principio di obbligatorietà è infranto. Questo principio, nel suo autentico significato, comporta criteri di legalità di esercizio dell’azione penale, cioè criteri stabiliti dalla legge.

Il che è quanto una nuova disciplina si deve incaricare di elaborare. Una simile riforma determina perciò non un’impropria ingerenza della politica nell’attività dei magistrati, ma, al contrario, la riconduzione di questa alla legalità e l’esclusione di scelte politiche che non competono alle Procure.

Giustizia: un doppio fronte "manettaro" si oppone a riforme

 

Il Riformista, 30 dicembre 2008

 

La strada per una riforma che ripristini le garanzie costituzionali per i cittadini che finiscono nel tritacarne mediatico giudiziario, nonostante il piglio garibaldino con cui la affronta Silvio Berlusconi, resta tutta in salita. Si tratta infatti di contraddire opinioni e comportamenti consolidati, in un quadro anomalo, che vede in Italia, a differenza dal resto del mondo, la sinistra schierata con il partito delle manette, mentre la destra vecchia e nuova fatica ad allontanarsi dalla lettura più elementare e quindi forcaiola dello slogan "legge e ordine", che campeggia sulle bandiere dei conservatori da sempre e dappertutto.

Questa anomalia italiana, nata dall’illusione della sinistra ai tempi di Achille Occhetto di impadronirsi del potere grazie alla dissoluzione degli avversari politici spolpati da Tangentopoli, si innesta peraltro su una cultura che, dall’Unità d’Italia in poi, si è sempre rifugiata nel moralismo.

Da Giosuè Carducci a Gabriele D’Annunzio, da Luigi Pirandello a Gaetano Salvemini, per arrivare a Pier Paolo Pasolini, gli intellettuali italiani più influenti hanno gareggiato per un secolo e mezzo nel diffamare la politica "lutulenta", i governi "del malaffare", i partiti da "processare in piazza".

Anche quelli che oggi vengono generalmente considerati esempi di limpido spirito di servizio allo stato - da Giovanni Giolitti ad Alcide De Gasperi - furono dipinti come capi di mazzieri elettorali o come "forchettoni". I sedimenti di questo moralismo acrimonioso si sono depositati nella mentalità popolare e nella concezione della politica anche di partiti come la Lega nord e Alleanza nazionale, che infatti si presentarono come fervidi sostenitori del giustizialismo dì Mani pulite, arrivando persino a esporre i lugubri cappi del boia in Parlamento.

Naturalmente alla base di questo fenomeno c’era anche un dato reale, determinato dalla condizione particolare di una democrazia senza alternanza, che sostituiva il ricambio di classi dirigenti alternative con il sostanziale consociativismo. Venute a cessare le ragioni di carattere internazionale che decretavano l’esclusione dei comunisti, e specularmente dei post fascisti, dalle responsabilità di governo, il sistema consociativo, destinato a crollare assieme alle cause che l’avevano determinato, fu invece massacrato da un’iniziativa giudiziaria che si presentava come rivoluzionaria. Ora il sistema di alternanza c’è, nessun partito può pensarsi come indispensabile in ogni coalizione adatta a governare, così come nessuno è escluso a priori. Questo dovrebbe far considerare del tutto fisiologico il rientro nelle caserme dell’armata giudiziaria che aveva invaso lo spazio politico col pretesto di moralizzarlo.

 

La resistenza corporativa

 

Invece la resistenza corporativa del sistema giudiziario mantiene un vasto sistema di alleanze e di comprensioni, anche in campi impensati. L’ordine forense, per esempio, che ha da sempre chiesto riforme garantiste, criticando come troppo tiepide anche quelle avanzate dal centrodestra, ha un’estensione del tutto anomala (gli avvocati italiani sono dieci volte quelli francesi) che è connessa al malfunzionamento di una giustizia dalla lentezza e dalla cavillosità esasperante.

Non è forse un caso che, per esempio, le posizioni più critiche sull’esigenza di limitare drasticamente le intercettazioni vengano, in Alleanza nazionale, da figure strettamente legate alla professione forense. Nella Lega nord, che pure oggi esercita con competenza i suoi compiti ministeriali, continua a pesare, soprattutto nei settori che non hanno abbandonato del tutto le illusioni separatiste, lo slogan della lotta contro "Roma ladrona", nel quale si fondevano istanze autonomistiche a una rabbia giustizialista.

Peraltro la fase attuale, in cui l’iniziativa, anche scomposta, delle procure soprattutto meridionali mette sotto accusa il sistema di potere del centrosinistra nel sud, conferma tanti leghisti nella loro convinzione di una irrimediabile degradazione morale e civile di quelle regioni.

Infine, ma non per ultimo, bisognerà sormontare l’interesse della grande informazione, che ha assunto una posizione "terzista" dopo la sconfitta dell’aspirazione a una soluzione tecnocratica del contrasto politico tra i poli, al mantenimento di un ruolo che ha conquistato attraverso il sistema mediatico-giudiziario. Anche grandi giornali italiani che pubblicano pagine e pagine di intercettazioni, magari accompagnate dalla misera foglia di fico di qualche editoriale che ne critica la diffusione illegale e selettiva, sanno che da una riforma garantista perderebbero potere, ed è naturale che questo non coincida con il loro interesse.

 

Per riformare la giustizia servono alleati e buona volontà

 

A volte capita che il nostro Cav. scambi il foro della politica per una foresta stregata nella quale tutto è possibile. Perfino che un presidente del Consiglio, invece di cambiare il proprio paese, minacci di abbandonarlo nel caso in cui dovessero trapelare le registrazioni di qualche sua telefonata in libertà.

Per comprendere l’effetto pastiche di un’esternazione del genere, bisognava osservare l’altra sera i volti stralunati dei notisti politici televisivi: tra un servizio sulla crisi e un altro sul Medio Oriente, tra un’inquadratura di Palazzo Chigi e un lembo di centro storico romano, bisognava guardare e ascoltare l’analista di turno mentre si dotava disperatamente della serietà necessaria per dire: "E il premier Berlusconi assicura che lascerà il paese ove venissero pubblicate sue conversazioni telefoniche intercettate dalla magistratura".

E così via, con il risultato di gettare nel palcoscenico della battuta estemporanea anche quelle poche frasi serie e mai vane sull’urgenza di mettere mano alla riforma del sistema giudiziario, se possibile con la partecipazione speciale dell’opposizione veltroniana.

Non è questa la prima volta - e con ogni probabilità non sarà l’ultima - che Berlusconi alterna al discorso pubblico il disegno o lo sdegno personale, alla narrazione istituzionale l’elegia privata. Nella circostanza, oltretutto, la minaccia di lasciare il paese assomiglia troppo alla cantilena dei professionisti dell’indignazione - quelli seriosi come Umberto Eco e quelli affettuosi come Emilio Fede.

Insomma è materia consunta, fuori sede, fuori corso e fuori stagione, visto che di regola viene disseppellita alla vigilia di qualche elezione assieme al timore che vinca la parte sbagliata. Il dossier giudiziario, ricordavamo qualche giorno fa a Luciano Violante, non è un pranzo di gala e le parole dei volenterosi dovrebbero trovare al più presto un corpo fattivo nel quale incarnarsi.

Ma è proprio in virtù di questo imperativo elementare e rivoluzionario che il Cav. farebbe bene a scegliersi una maschera appropriata. Quella del presidente umbratile, un po’ rancoroso e un po’ rinunciatario, non giova alla causa che è sacrosanta né alla sua prospettiva di padre della patria al di là del bene e del male, ma non al di sopra della legge. Dunque che legiferi forte e sereno, senza percorrere lo spettro dei cedimenti emotivi che collega l’improntitudine allo scatto di nervi.

Giustizia: Cota (Lega); la riforma? solo per avere pene certe

di Paolo Bassi

 

La Padania, 30 dicembre 2008

 

Obiettivo numero uno: l’effettività della pena. Per la Lega Nord qualsiasi riforma della Giustizia parte da questo assunto. E per centrare l’obiettivo, sono già allo studio soluzioni che verranno vagliate e discusse insieme agli alleati di governo.

Intanto, proprio dal Pdl, arrivano alcune proposte, come quella lanciata da Nicolò Ghedini, deputato e avvocato di Berlusconi, che puntando il dito contro quelli che definisce "abusi" nell’uso della carcerazione preventiva da parte dei magistrati, lancia l’idea di una revisione di questo istituto, anche attraverso la creazione di carceri "speciali" con un regime "alleggerito" per le persone in attesa di giudizio.

Un’iniziativa alla quale risponde a stretto giro di posta il presidente dei deputati del Carroccio, Roberto Cota, che rivela: "Vedrò Ghedini nei prossimi giorni e parleremo un po’ di tutto. Penso che ci si debba muovere in questo modo, perché la questione giustizia è delicata e complessa, e prima di dare dei giudizi compiuti, è meglio parlare avendo sotto gli occhi dei testi definiti. Io, prima di giudicare o commentare, voglio vedere nel concreto quali siano le proposte sul tavolo. Resta inteso, come tutti sanno, che la Lega è contraria a qualsiasi forma di indulto, anche mascherato".

 

La questione della carcerazione preventiva però, continua a tenere banco…

"A punto è sicuramente quello di evitare qualsiasi possibile abuso della carcerazione preventiva. Ma al tempo stesso evitare che pericolosi delinquenti, che dovrebbero essere in carcere, restino invece liberi. In merito, rilancio la nostra proposta, secondo la quale, chi è stato condannato con sentenza passata in giudicato per reati gravi e che viene nuovamente indagato per reati della stessa indole per i quali viene stabilita una misura cautelare, sia obbligato a scontarla in carcere".

 

L’Anm sostiene che non ci siano mai stati abusi nell’uso di questo istituto, ma semmai il problema "siano i tempi del processo penale", auspicando al riguardo una "riforma complessiva", piuttosto che singoli interventi specifici…

"Noi abbiamo sempre sostenuto l’esigenza di avere processi più rapidi. Siamo favorevoli a tutte le semplificazioni che possano aiutare a raggiungere questo obiettivo. Infatti, se puntiamo all’effettività della pena, non possiamo prescindere dall’avere tempi certi e rapidi dei procedimenti".

 

Riformare complessivamente il sistema, però non è cosa facile, il rischio fallimento è alto...

"Il problema della riforma della Giustizia, è che ci si deve muovere su due piani, che impongono, tempi diversi: quello della legge ordinaria e quello della legge costituzionale. Il ministro Alfano, sta lavorando ad una prima parte della riforma, quella che è possibile attuare senza toccare la Costituzione. Ovviamente, non si tratta di una un cambiamento globale, perché per quello è necessario avviare un processo di revisione della Carta fondamentale, con tutto quello che ciò comporta".

 

Compreso un accordo, o quantomeno un’intesa con l’opposizione?

"Ovviamente, se si raggiunge una convergenza è meglio".

 

Il Pd sembra molto più possibilista che in passato...

"Mi sembra che il clima sia mutato. Non so se perché hanno colpito i loro o per altri motivi. Certo è, che ora la sinistra non difende più l’indifendibile. Se questo si tradurrà nella possibilità di entrare veramente nel merito delle cose non lo so, lo vedremo. Mi preme però ribadire una cosa: la Lega non intende la riforma della giustizia come un modo per difendere questo o quello, ma per migliorare il sistema a vantaggio di tutti i cittadini. Questa è la nostra stella polare".

 

In questi giorni, a tenere banco è stata anche la questione legata alle intercettazioni. Il premier spinge per una legge che ne ridimensioni pesantemente l’uso, ma non tutta la maggioranza sembra altrettanto convinta…

"Sulle intercettazioni c’è già un testo approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri e che ora si trova in commissione. Si tratta di una proposta equilibrata, che a noi va bene, ed eventuali cambiamenti vanno vagliati con molta attenzione. Noi riteniamo che su questo argomento si debba stare molto attenti. Non discuto sul fatto che possano esserci stati degli abusi, soprattutto per quanto riguarda la pubblicazione indebita. Però, non possiamo dimenticare che stiamo parlando di uno strumento che, se usato bene, può essere davvero importante per le indagini, soprattutto in quelle legate alla criminalità organizzata".

Giustizia: Tenaglia (Pd); non seguire Di Pietro, no a inciuci Pdl

 

Apcom, 30 dicembre 2008

 

"Non seguiamo Di Pietro e non facciamo inciuci con la maggioranza": il ministro ombra della Giustizia Lanfranco Tenaglia traccia i confini, in una intervista a Repubblica, del rapporto tra Pd e Pdl sulla riforma della giustizia. Tenaglia non chiude al dialogo con la maggioranza perché "un confronto è nell’interesse del Paese, soprattutto quando si parla di regole e giustizia. Il problema è che questa maggioranza interpreta il confronto come un diktat o come una momentanea, gentile concessione all’opposizione. Non è così".

Tenaglia ribadisce che "le decisioni e le riforme devono vedere il contributo effettivo della minoranza, e non accetteremo di fare i notai di decisioni prese da altri". Sulla riforma, conclude Tenaglia, "facciamo proposte senza rifiuti aprioristici, ma Di Pietro può stare tranquillo perché non ci saranno inciuci, agiremo solo nell’interesse degli italiani, cioè per ottenere una giustizia che funzioni e un sistema che si regga in equilibrio".

Giustizia: Papa Giovanni XXIII; comunità, invece dell'ergastolo

 

Comunicato stampa, 30 dicembre 2008

 

"Abolire l’ergastolo". A sostenere la proposta è la Comunità Papa Giovanni XXIII, secondo cui ogni detenuto dovrebbe avere il fine pena certo. In una nota, scrive l’Ansa, la papa Giovanni definisce l’ergastolo incostituzionale, "perché l’art. 27 della Costituzione recita che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato".

L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII si unisce al card. Tettamanzi: "L’ergastolo toglie la speranza". La Comunità Papa Giovanni XXIII condivide le parole dell’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, al termine della messa di Natale nel carcere di Opera. "È proprio vero ha detto il cardinale che l’ergastolo toglie la speranza".

La Comunità Papa Giovanni XXIII sostiene l’abolizione dell’ergastolo perché ogni detenuto abbia il fine pena certo: un tempo di recupero della persona con un progetto educativo che gli dà la libertà di cambiare.

L’ergastolo è incostituzionale perché l’art. 27 della nostra Costituzione recita così: "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". La rieducazione contiene in sé il principio di reinserimento sociale della persona. Senza reinserimento non c’è rieducazione.

Inoltre, la Legge n. 354 dell’Ordinamento Penitenziario afferma che: "nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi"; quale reinserimento è possibile senza speranza di uscire?

Le persone condannate all’ergastolo con la motivazione di avere agevolato l’attività dell’associazione criminosa (Divieto di concessione di benefici: art. 4 bis L. n. 354 del 1975) non potranno uscire mai dal carcere e dunque non si può parlare del fine rieducativo della pena.

L’ergastolo in sé non ha senso, ogni detenuto deve avere il fine pena certo. La Comunità Papa Giovanni XXIII da anni opera nel mondo carcerario sia in Italia sia all’estero attualmente ospita nelle sue strutture circa 250 detenuti in misure alternative che svolgono il programma terapeutico perché tossicodipendenti e circa 50 detenuti comuni che svolgono ugualmente un programma preciso e personalizzato all’interno di case famiglia o strutture più appropriate. La ventennale esperienza della nostra Comunità dimostra che solo un tempo di recupero della persona con un progetto educativo fa cambiare la persona interiormente e che il superamento dell’ergastolo è possibile.

La Comunità Papa Giovanni XXIII lotta per l’abolizione dell’ergastolo a fianco dei detenuti con un tempo di preghiera e digiuno e di sensibilizzazione delle realtà diocesane, di volontariato e dei mass-media.

Lo Stato ha il diritto e il dovere di interpellare noi come Comunità Papa Giovanni XXIII e tutto il privato sociale, di sostenerlo in ogni modo affinché dalla certezza della pena come risposta alla paura si possa giungere alla certezza del recupero come risposta adeguata ad una società sempre più violenta che si illude di vincere il male con il male.

La Comunità Papa Giovanni XXIII sta elaborando un progetto alternativo all’attuale sistema carcerario:"comunità educative" per detenuti capaci di sradicare sentimenti, atteggiamenti, azioni criminose e innestare una nuova mentalità in cui prevale la scelta alla vita.

Le oltre 200 case famiglia, le 60 sedi operative di cooperative sociali, le 15 comunità terapeutiche per tossicodipendenti, i 12 pronti soccorso sociali e le varie opere promosse e sostenute dalla Comunità Papa Giovanni XXIII offrono quell’insieme di risposte personalizzate che servono al detenuto per un riscatto vero e definitivo, che si rende concreto secondo il progetto "oltre le Sbarre", già elaborato e verificato con moltissimi detenuti di vari istituti di pena del territorio nazionale.

Giustizia: Sappe; Napolitano affronti criticità dei penitenziari

 

Comunicato stampa, 30 dicembre 2008

 

La situazione penitenziaria nazionale è estremamente critica e siamo ad un "punto di non ritorno". Nonostante ciò nessuna iniziativa sembrano adottare Governo, Parlamento, Ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Speriamo, allora, che le criticità penitenziarie siano affrontate dal Signor Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel tradizionale messaggio di fine anno. Solo in questo caso siamo convinti che si "smuoveranno le acque".

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria.

Svanito l’effetto indulto, le carceri italiane sono tornate a riempirsi. Il fallimento delle politiche penitenziarie del Paese è ben evidente nei numeri attuali. Il 31 dicembre del 2006 c’erano in carcere 39mila detenuti e, lo stesso giorno dell’anno dopo, ce n’erano 48.693. Oggi siamo a quota 58mila detenuti presenti nei 205 penitenziari italiani (Case circondariali, di reclusione, istituti per le misure di sicurezza) a fronte di una capienza regolamentare di circa 43mila posti.

Ben 8.101 sono i detenuti presenti in Lombardia (capienza regolamentare 7.677 posti), 7.172 in Campania (6.720 i posti regolamentari), 6.843 in Sicilia, 5.341 nel Lazio, 4.544 in Piemonte, 3.456 in Puglia, 2.254 in Calabria, 3.742 in Toscana, 2.968 in Veneto. E anche sul fronte Personale che lavora nelle carceri i dati sono altrettanto allarmanti. La differenza tra il Personale di Polizia Penitenziaria effettivamente in forza e quello previsto registra una carenza di 4.425 Agenti uomini e 335 Agenti donne.

Le carenze di Baschi Azzurri più consistenti si registrano in Lombardia (circa 1.200 unità), Piemonte (900) Emilia Romagna, Toscana, Veneto e Liguria. Anche il Personale amministrativo e tecnico è fortemente sotto organico di ben 2.300 unita. Ma ciò nonostante Governo, Parlamento, Ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non adottano concretamente iniziative. C’è dunque da augurarsi che della situazione penitenziaria ne parli il Capo dello Stato nel suo tradizionale messaggio di fine anno. Forse, allora, qualcosa potrà cambiare.

Capece sottolinea come è evidente come la mancata adozione di provvedimenti strutturali da parte di Governo e Parlamento per modificare il sistema penitenziario contestualmente all’approvazione dell’indulto abbia riportato le carceri italiane a livelli di sovraffollamento insostenibili. Il Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione sindacale della Polizia Penitenziaria, auspica quindi che la questione penitenziaria sia posta tra le priorità d’intervento della riforma della giustizia annunciate dal premier Berlusconi, prevedendo in particolare le necessarie modifiche del sistema penale - sostanziale e processuale - che rendono stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale.

Che si trovino soluzioni concrete al problema degli stranieri detenuti (che rappresentano oggi circa il 40% della popolazione carceraria) mediante accordi internazionali che consentano concretamente l’espiazione delle pene nei Paesi di origine. Ma soprattutto che si impegnino ad assumere almeno 3.000 nuovi poliziotti penitenziari, stante la grave carenza di Personale che si registra nel Paese.

L’auspicio del Sappe conclude Capece è una espansione dell’esecuzione penale esterna, ossia il sistema delle misure alternative, che può essere incentivata offrendo garanzie di sicurezza credibili sia dal giudice che le dispone, sia dalla stessa collettività. Sto parlando di un controllo permanente, cioè di una verifica puntuale di dove il condannato si trovi e di che cosa faccia coinvolgendo sempre di più la Polizia penitenziaria. Altro impulso allo sviluppo dell’area dell’esecuzione penale esterna potrebbe essere dato l’avvalersi di sistemi di controllo tecnologici come, ad esempio, il braccialetto elettronico.

Torino: da carcere a Casa di custodia, progetto degli anni '80

di Diego Novelli (Già sindaco di Torino)

 

La Stampa, 30 dicembre 2008

 

L’intervista con l’avvocato Niccolò Ghedini sulla Stampa di ieri ("Carceri meno dure in attesa di giudizio") mi induce a ricordare che negli Anni 80 un gruppo di operatori sociali del Comune di Torino con volontari della San Vincenzo, operanti nella Casa Circondariale, presentarono uno studio che consentiva in 6-7 mesi di alleggerire di circa 300 unità la popolazione delle carceri torinesi.

Una commissione insediata dal Comune, formata da architetti, sociologi, giuristi e operatori sociali metteva a punto un progetto esecutivo sia per la parte edilizia, sia per le modifiche riguardanti i codici, con dettagliato esame dei costi di realizzazione e di gestione. Si trattava di realizzare in città dieci Case di custodia (una per circoscrizione) con 30-40 posti letto. La scelta degli edifici riguardava case pubbliche e private da ristrutturare o già costruite ma ancora sfitte o invendute. Con poche modifiche interne si realizzavano camere (due-tre letti) e servizi collettivi (mensa, palestra, sala di svago, servizi igienici, cucina).

Le misure di sicurezza erano minori che in un normale carcere, con una drastica riduzione dei costi. Anche per il personale di servizio (o di custodia) il numero veniva ridottissimo rispetto all’attuale rapporto agenti-detenuti, utilizzando cooperative del volontariato. Nel progetto, elaborato da avvocati e magistrati, venivano individuati i "clienti" di queste nuove "Case di custodia per detenuti a rischio attenuato": in attesa di giudizio per reati minori o a fine pena, con comportamenti durante la detenzione rassicuranti secondo i giudici di sorveglianza.

In questo modo si eliminava la piaga della promiscuità, che vede un cittadino incappato in un guaio giudiziario di lieve entità stipato in una cella di mafiosi o d’incalliti criminali. Questo progetto venne dal Comune presentato al ministero della Giustizia, raccogliendo il consenso entusiastico dei ministri Martinazzoli e Vassalli, e il sostegno del direttore degli Istituti di prevenzione e pena dell’epoca, Niccolò Amato.

Scaduta l’amministrazione comunale di sinistra non se ne fece più niente. Parecchi anni dopo, durante una visita a Torino, a seguito di un incendio nel nuovo carcere delle Vallette sovraffollato (morirono alcune donne), il ministro della Giustizia Biondi si dichiarò d’accordo per rispolverare quel progetto, impegno che ribadì alla Camera.

L’ultima volta che ho sentito parlare della proposta delle "Case di custodia per reati a rischio attenuato" in termini positivi fu tre anni fa durante un convegno a Roma, che trattava delle condizioni disumane delle carceri italiane. Era presente il sottosegretario alla Giustizia Manconi del governo Prodi. Poi tutto tacque.

Salta fuori Alfano con la proposta della "messa in prova", che eviterebbe il carcere per reati che prevedono una pena sino a 4 anni. Il professor Grosso ne ha scritto su La Stampa invitando il ministro (bloccato da Lega e An) a soprassedere. Alfano in più parla di revisione della legge Gozzini perché troppo "premiale" per i detenuti. Non sa che grazie alla Gozzini non ci sono più state rivolte nelle carceri negli ultimi 20 anni.

Questa legge ha un effetto deterrente sulla popolazione carceraria perché in casi di disordini saltano i permessi e le licenze. Le carceri non possono essere considerate terra di nessuno, avulsa dalla città. Anche i sindaci, che hanno avuto un’ora di celebrità con bizzarre misure di sicurezza concesse dal ministro Maroni, non possono dimenticare che dietro i muraglioni delle carceri vivono delle persone, che se anche hanno sbagliato, non possono essere considerate peggio degli animali. La cultura di rinchiudere chi sgarra e di buttar via la chiave non appartiene a una società civile.

Genova: non siamo diventati un Bronx, ma denunciamo tutto

di Marco Preve

 

La Repubblica, 30 dicembre 2008

 

Professor Carrer, viviamo in una specie di Bronx?

"Ma a lei le sembra realistico dire che Genova ha un tasso di micro criminalità tre volte superiore a quello di Napoli? Fa ridere no? E allora cominciamo col sottolineare che le statistiche di soli numeri hanno poco valore". Francesco Carrer, genovese, è un criminologo esperto del Consiglio d’Europa, consulente di forza di polizia ed enti locali (tra il 2000 e il 201 anche per il Comune di Genova) in tema di sicurezza, e membro della commissione del ministero della Giustizia nel 2002.

 

La statistica del Sole 24 Ore è impietosa con Genova, secondo lei per quali ragioni?

"Ci sono varie spiegazioni. Una è quella del forte senso di giustizia e legalità dei genovesi. Per capirci: se un napoletano viene borseggiato sul bus rientrato a casa dirà: "Mi è andata bene che non mi hanno rapinato". Il genovese invece ha una soglia di tolleranza molto bassa. Non appena ritiene di aver subito un torto, parte la denuncia. Addirittura direi che percentuali così alte possono anche essere sintomo di un buon funzionamento della polizia di prossimità. Il poliziotto o il carabiniere di quartiere sono presenti, e rendono più semplice fare denuncia. E poi in altre città c’è chi usa qualche trucchetto...".

 

Quali?

"Ad esempio si sa che in certi uffici, se vado a denunciare il furto del portafoglio, mi chiedono se sono proprio sicuro che me lo abbiano rubato. Alla fine firmo un verbale di smarrimento. Per il cittadino non cambia niente, per l’autorità è un reato in meno sulla statistica. Ma come si può credere che Asti sia meno sicura di Taranto? Insomma, non esageriamo".

 

La statistica dice che siamo pure messi male con la criminalità minorile…

"Guardi, è vero che a Genova la presenza di queste bande di ragazzi sudamericani può aver fatto alzare i numeri. Ma più che criminalità io per loro parlerei di comportamenti, e quelli fino a prova contraria non costituiscono reato. Anche per questa voce vale il discorso della legalità. A Genova, se vedo il figlio del mio vicino che spacca un vetro del condominio, lo denuncio. In altre realtà me ne guarderò bene, perché come rappresaglia potrei trovarmi il fratello che mi spara alle gambe".

 

Eppure l’allarme sicurezza a Genova nei mesi scorsi ha suscitato grandi clamori, ad esempio a Sampierdarena, zona di immigrazione…

"È il problema della sicurezza percepita. Le vicende di Sampierdarena, di cui peraltro oggi non si parla e viene il dubbio che gli allarmi siano anche legati a particolari momenti politici, sono strettamente correlate al "diverso". Lo straniero introduce nuovi modi di vita, abitudini che entrano in conflitto con le nostre. E allora se un tempo la prostituta italiana sotto casa era una figura familiare, oggi le ragazze africane con il loro modo di comportarsi creano disagio e disordine".

 

Gli zingari, i rumeni, altri spunti di tensione…

"Certo mi fa sorridere quando si parla del problema zingari a Genova, con un paio di campi che ospitano poche decine di persone. Non parlo di Roma o Milano, ma basta andare a Firenze per capire cosa sia un vero accampamento con migliaia di persone".

 

Un dato che emerge aldilà delle graduatorie è quello dei borseggi. È a causa dell’alto numero di anziani, vittime predestinate?

"Non è più così. L’anziano, proprio perché teme di essere derubato, ormai esce di casa con pochi soldi, magari tenuti in tasca. A rischio vero ci sono i giovani maschi che hanno soldi e vanno in giro a notte fonda. Quelli sì sono un bersaglio".

Cagliari: Pd; interrogazione su bambina di 22 mesi in carcere

 

Agi, 30 dicembre 2008

 

Carenza di personale, sovraffollamento, i problemi dei tossicodipendenti e degli stranieri detenuti, oltre all’insufficienza dei programmi rieducativi caratterizzano il carcere di Cagliari, dove stamane la parlamentare del Pd, Amalia Schirru ha compiuto una visita, la terza dal momento della sua elezione e la seconda nell’arco dell’anno.

"Ma la questione che mi lascia in assoluto più sconcertata", ha denunciato la deputata, "è la presenza nel carcere di una bambina di 22 mesi, figlia di un’extracomunitaria arrestata e processata per traffico di droga. Trovo inconcepibile e assurda una situazione di questo tipo. Come già denunciato dalla consigliera regionale Maria Grazia Caligaris, occorre trovare velocemente una struttura alternativa al carcere che ospiti la bambina e al madre che, per giunta, è incinta e partorirà tra pochi mesi".

Schirru preannuncia un’interrogazione urgente dei parlamentari del Pd al ministro della Giustizia Angelino Alfano per chiedergli "coerenza con le dichiarazioni rese su mai più minori in carcere e un impegno a individuare una struttura d’accoglienza".

Varese: due i detenuti impegnati nei "lavori socialmente utili"

 

Varese News, 30 dicembre 2008

 

Detenuti al lavoro agli ordini del Comune. Il progetto di utilizzare i carcerati per lavori socialmente utili, annunciato pubblicamente dal sindaco Sandro Damiani non più tardi di un paio di mesi fa, è entrato nel vivo proprio in questi giorni. In particolare al momento sono due le persone (uno è tuttora in carcere e vi rientra a fine lavoro, l’altro è agli arresti domiciliari) che si occuperanno dello svolgimento di alcune attività sociali.

Già attivo da qualche giorno il servizio navetta gratuito guidato da uno dei due detenuti: nella giornata di sabato un pulmino a otto posti che dalle periferie di Malnate trasporterà gli anziani, o chiunque ne avesse bisogno, verso il centro abitato e verso il cimitero. Dal 7 gennaio entrerà in scena anche il secondo detenuto, che si occuperà della pulizia dei cimiteri e di piazza Salvo D’Acquisto a Gurone. Ed è solo l’inizio: il Comune, in collaborazione con il ministero di Grazia e Giustizia, ha infatti già in cantiere almeno altri due progetti che coinvolgono i detenuti.

Roma: Caruso (Questore); in 2008 reati sono diminuiti del 20%

 

La Repubblica, 30 dicembre 2008

 

"Nel corso del 2008, i reati a Roma sono diminuiti quasi del 20%". Lo ha affermato il questore di Roma, Giuseppe Caruso, nel corso dell’incontro di fine anno con i giornalisti, al quale hanno preso parte anche i massimi dirigenti della questura capitolina.

Nel corso del suo intervento, Caruso ha effettuato un bilancio dell’attività svolta quest’anno. "I risultati sono più che soddisfacenti - ha proseguito -. Abbiamo registrato una diminuzione di oltre il 25% nei furti di auto e di ben il 43% nell’attività di borseggio". Per quanto concerne le rapine in banca, il questore ha spiegato che il decremento supera il 20%.

"Un risultato - ha detto - ottenuto anche grazie alla video-sorveglianza, che è un deterrente fondamentale". Ad avvalorare questa tesi c’è l’unico dato in controtendenza: l’aumento del 15% delle rapine in uffici postali, dove, ha puntualizzato Caruso, "non esistono ancora sistemi di controllo con videocamere e quindi per il rapinatore il rischio di essere identificato diminuisce".

Sul fronte degli omicidi, nel 2008 a Roma ce ne sono stati 41, i responsabili dei quali sono stati per circa il 50% individuati. È aumentato anche il numero delle donne che denunciano le violenze subite, segno, è stato spiegato, di una maggiore disponibilità a rivolgersi alle forze dell’ordine.

Per quanto riguarda l’immigrazione dal 1° gennaio al 29 dicembre 2008 sono stati oltre sei mila i decreti di espulsione emessi (6.216); 1.026 arresti per inottemperanza all’ordine del questore di rilasciare il territorio nazionale, 1.304 rimpatriati con accompagnamento alla frontiera (di cui 324 comunitari) e 1.197 trattenuti presso il Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria; 1.032 decreti di allontanamento per motivi imperativi di pubblica sicurezza nei confronti di cittadini comunitari.

In questo arco di tempo sono stati accompagnati presso l’ufficio 16.919 cittadini stranieri di cui 12.934 extracomunitari e 3.985 comunitari per la verifica della loro posizione sul territorio nazionale. L’ufficio ha rilasciato circa 100.000 titoli di soggiorno, di cui 85.000 in forma elettronica e ulteriori 15.000 permessi di soggiorno sono stati rilasciati in forma cartacea (a favore di familiari di cittadini italiani o comunitari e ad altro titolo).

Sono state lavorate, inoltre, 13.861 istanze di N.O.P. (flussi lavoro subordinato) e 600 per lavoro autonomo, 5.503 istanze di ricongiungimento familiare, 6.500 richieste di coesione familiare e sono state effettuate 2.333 istruttorie di istanze tendenti al riconoscimento della cittadinanza italiana. Altresì, durante l’anno 2008 sono state attivate 48 nuove protezioni sociali ai sensi dell’art.18 del T.U. Immigrazione.

Nello stesso arco temporale l’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma ha dovuto far fronte ad una eccezionale richiesta di protezione internazionale (asilo politico) da parte di cittadini extracomunitari sbarcati sul territorio nazionale (Lampedusa) in fuga da situazioni emergenziali determinate da guerre o eventi naturali. Si è provveduto, pertanto, a trattare circa 18.000 istanze di protezione internazionale da parte di stranieri provenienti principalmente dalla Somalia, dall’Etiopia, dall’Eritrea, dal Sudan, dall’Afghanistan, dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea, dal Togo, dal Bangladesh.

Queste le principali comunità regolarmente soggiornanti nella provincia di Roma: Filippine 12.664; Sud America (Colombia, Ecuador, Perù) 9.705; Ucraina 7.025; Albania 6.518; Bangladesh 6.404 ; Cina Popolare 4.872; Moldavia 4.740. Principali Nazioni di provenienza dei destinatari di provvedimenti di espulsione: Bangladesh, Nigeria, Nazioni del Magreb (Tunisia, Algeria, Marocco), Bosnia Erzegovina, Egitto, Albania, Senegal, Moldavia.

Per quanto riguarda la questione "nomadi" sono state complessivamente 2.200 le persone controllate nel 2008 dagli agenti della polizia di Stato dell’ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico della questura di Roma nell’ambito dell’attività di contrasto del fenomeno dell’immigrazione clandestina, della tutela delle aree verdi e delle aree golenali dei fiumi Tevere e Aniene.

Nel corso dei controlli per il contrasto degli insediamenti abusivi degli agenti della polizia di Stato, sono stati abbattuti 878 manufatti costituenti circa 350 insediamenti abusivamente costruiti di varia entità, che ha dato luogo al loro sgombero definitivo, controllati 500 veicoli di cui 54 sottoposti a sequestro, e sono state elevate 62 contravvenzioni Delle persone controllate, 1924 le straniere, 713 le persone accompagnate per l’identificazione personale, 17 arrestate, 193 indagate in stato di libertà, 43 espulse dal territorio nazionale, 12 accompagnate al Centro identificazione espulsione.

Altro capitolo è quello della prostituzione. "Concentreremo l’attività di repressione del fenomeno della prostituzione su strada colpendo i clienti". Lo ha annunciato il dirigente dell’ufficio generale Prevenzione e soccorso pubblico della Questura di Roma, Raffaele Clemente, nel corso di una conferenza stampa sul bilancio dei risultati raggiunti nel 2008. L’attività di contrasto al fenomeno della prostituzione in strada ha permesso di controllare nel corso del 2008 3.064 persone, di cui 1.745 in banca dati Sdi. Delle persone controllate, 2.054 sono risultate essere extracomunitarie e 73 minori, di cui 9 affidati a famigliari e 33 a centri appositamente a centri appositamente preposti; 1.879 sono state accompagnate per l’identificazione personale.

Di queste, 1.272 sono extracomunitarie, 643 sono state indagate in stato di libertà e 35 in stato di arresto 88 espulse e 26 accompagnate al Cie. Sono stati controllati 141 veicoli, di cui 24 in banca dati SDI di cui 4 rinvenuti e sequestrati. Sono state elevate 1.851 contravvenzioni alle peripatetiche e 104 ai clienti. In merito all’attività antirapina, l’ufficio Prevenzione generale e soccorso pubblico, diretto da Raffaele Clemente, ha permesso di controllare 13.617 persone delle quali 441 extracomunitari, 316 sono state accompagnate per l’identificazione personale, 73 sono state indagate in stato di arresto e 232 in stato di libertà, 9 sottoposte a fermo di polizia giudiziaria.

Sono stati inoltre controllati 8.004 veicoli dei quali 869 sequestrati; sono state elevate 633 sanzioni al codice della strada, 14 patenti e 69 carte di circolazione di veicoli sono state ritirate e inoltre tale attività ha permesso di sequestrare 360 grammi di cocaina, 650 grammi di hashish e 25 di eroina, per lo più in singole dosi destinate all’uso personale. Nello stesso ambito sono stati controllati 617 sottoposti a misure di prevenzione o alternative alla detenzione in carcere.

Empoli: ultimo numero del 2008 della rivista "Ragazze Fuori"

 

Comunicato Stampa, 30 dicembre 2008

 

Informazione dal e sul carcere. Distribuito in città, inviato in tutte le carceri italiane, ministeri, associazioni. Questo nuovo numero racconta il momento attuale in cui versa l’Istituto empolese, gioie e dolori.

"È un nuovo momento in divenire, una fine d’anno in piena trasformazione. Epocale, diremmo senza esagerare. Dopo oltre dieci anni di onorata attività, la Casa a Custodia Attenuata di Empoli, un progetto innovativo voluto a suo tempo da tutti gli organismi dell’Amministrazione Penitenziaria, chiude per accogliere un istituto dedicato a detenuti transessuali - così scrive il direttore del giornale, Barbara Antoni, nel suo editoriale che apre le pagine dell’ultimo numero dell’anno 2008.

In questo numero il tema portante è stato appunto la "conversione" dell’Istituto da femminile a maschile, il momento di incertezza delle quattro detenute rimaste all’interno della struttura con tante perplessità per non sapere molto su quanto sta cambiando. Di certo però non hanno voluto perdere l’opportunità di scrivere le loro "ultime" testimonianze, anche coloro che fino ad oggi non lo avevano ancora fatto.

Nessuna delle donne dentro e fuori, degli operatori, ha paura del "nuovo" che arriverà. Tutt’altro. Il Gruppo di lavoro della Casa Circondariale femminile a custodia attenuata di Empoli sarà in grado di svolgere al meglio il proprio lavoro, sulla scia dei risultati che quella struttura ha dato in questi dieci anni. Lo scrive il provveditore, Maria Pia Giuffrida, che vuole formulare il nuovo progetto per i transgender, sulla scia del programma della custodia attenuata. In un momento di cambiamento come questo, la rivista Ragazze Fuori si augura di poter continuare a essere la voce del nuovo gruppo di ospiti dell’istituto empolese. Svolgendo il ruolo che ha da dieci anni, con i soliti presupposti e mosso dalla stessa volontà: quella di comunicare all’esterno storie, aspirazioni, esperienze, sofferenze e sogni che sono i mattoni di quel ponte ideale fra dentro e fuori, come quel giornale ha fatto finora.

Immigrazione: Maroni; rimpatri, direttamente da Lampedusa

 

Corriere della Sera, 30 dicembre 2008

 

All’emergenza clandestini si risponde con misure d’emergenza: già da martedì partiranno così i primi rimpatri di migranti direttamente da dove sono sbarcati, da Lampedusa. A gennaio, inoltre, via ai pattugliamenti congiunti nelle acque libiche. Ad annunciarlo il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, mentre l’atteggiamento da tenere con la Libia diventa la scintilla dell’ennesima polemica con il ministro della Difesa, Ignazio La Russa.

È La Russa, in un’intervista al Corriere della Sera, a consigliare il collega Maroni ad avere "pazienza" nella trattativa con i libici ed entrare nella loro mentalità: fare i duri non serve a niente. Secca la replica del titolare del Viminale. "Lui - dice Maroni - è più fortunato di me. Io non sono in qualche spiaggia nei mari tropicali, ma sono in Padania. Ho voluto rimanere qui proprio per affrontare le eventuali emergenze e quella di Lampedusa è una emergenza". Non si fa attendere la controreplica del ministro della Difesa. "Alzare la voce senza prima avere noi adempiuto ai nostri compiti, cioè la ratifica in Parlamento del Trattato di amicizia con la Libia siglato lo scorso agosto - per La Russa - può servire a livello interno, ma se si vuole veramente affrontare il problema degli sbarchi non serve a nulla". Quanto alla frecciata sui Tropici, il titolare della Difesa la restituisce al mittente plaudendo a Maroni "lodevolmente impegnato in Italia con il suo staff anche in questi giorni a svolgere i compiti tipici del ministro dell’Interno, mentre molti di noi possono invece dedicare qualche giorno alla famiglia". Bacchetta i due litiganti il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, secondo cui "non servono le punzecchiature fra i diversi ministri interessati, ma occorre un ripensamento della politica in materia".

Dalle polemiche alle misure concrete, Maroni annuncia poi che "chi sbarca a Lampedusa sarà rimpatriato entro pochi giorni direttamente da Lampedusa, senza essere trasferito in altri centri italiani. Ho dato disposizioni per attivare un centro idoneo al riconoscimento e all’espulsione. Domani o al massimo dopodomani ci saranno i primi voli di rimpatrio". In questi giorni l’isola è meta di un flusso ininterrotto di carrette del mare che scaricano migranti ed il centro di accoglienza dell’isola scoppia. Oggi 280 clandestini sono stati trasferiti in altre strutture. A Lampedusa ne restano circa 1.300 (la capienza è di 800).

Ma la vera soluzione finale per l’emergenza sbarchi il ministro dell’Interno la individua nei pattugliamenti congiunti delle coste libiche, che dovrebbero partire a gennaio con sei motovedette messe a disposizione dall’Italia, ad oltre un anno dall’accordo in merito siglato dall’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato, con il suo collega libico. Con l’avvio dei pattugliamenti, secondo Maroni, "potremo dire addio una volta per tutte al problema degli sbarchi a Lampedusa".

La linea dura annunciata dal ministro non piace al Pd ed alle associazioni. "Falliti gli accordi con la Libia per mancata ratifica da parte del Parlamento - attacca Jean-Leonard Touadi, deputato del Pd - ora Maroni annuncia i rimpatri di massa da Lampedusa. Anche questo è un annuncio che resterà senza effetto perché i rimpatri sono contrari alle norme internazionali e alla dignità delle persone, oltre che incredibilmente onerosi per le casse dello Stato". Analoga la posizione di Filippo Miraglia, dell’Arci, che ricorda come "l’Italia sia stata già condannata dalla Corte europea di Strasburgo per un’analoga iniziativa varata dell’ottobre 2005 dell’allora ministro Pisanu". Mentre la portavoce in Italia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), Laura Boldrini, mette in guardia dal rischio di "espulsioni generalizzate" e ricorda che "devono essere tutelati i diritti dei richiedenti asilo".

Intanto gli sbarchi continuano nonostante le condizioni meteo non siano buone. Un barcone con circa 140 migranti, tra cui 10 donne incinte, è stato soccorso dalla marina maltese. Le persone sono state trasbordate su una motovedetta. Gli extracomunitari, provenienti da Ghana, Somalia e Nigeria sono stati intercettati a circa 40 miglia a Sud dell’isola-Stato. Il barcone era stato segnalato domenica a 80 miglia a Sud di Lampedusa. L’imbarcazione è stata individuata dopo che uno dei passeggeri ha telefonato a un parente in Italia con satellitare.

Immigrazione: truffa aggravata, in gestione Cara di Siracusa

 

Redattore Sociale - Dire, 30 dicembre 2008

 

Alma Mater avrebbe truffato lo Stato nella gestione del centro di accoglienza in provincia di Siracusa. Dalle indagini emergono responsabilità della prefettura. Udienza preliminare fissata per il 27 gennaio.

Il pubblico ministero Antonino Nicastro ha chiesto il rinvio a giudizio per truffa aggravata ai danni dello Stato dell’ente gestore del centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Cassibile (Siracusa). L’udienza preliminare è fissata per il 27 gennaio. La direzione dell’associazione Alma Mater è accusata di aver falsificato e gonfiato fatture per l’equivalente di 140 mila euro. Tuttavia una condanna appare improbabile, per una dimenticanza del pm: non avendo chiesto la proroga delle indagini infatti, buona parte delle prove non saranno utilizzabili.

Dalle indagini emergono anche le responsabilità della prefettura. In più occasioni Asl, vigili del fuoco, polizia ambientale e questura avevano informato il prefetto delle carenze strutturali del centro. E tuttavia per tre anni la gestione è stata confermata - senza nessuna gara d’appalto - alla stessa Alma Mater, per una spesa di circa sei milioni di euro.

Ormai però le condizioni della struttura gestita da Alma Mater è finita nell’occhio del ciclone. La deputata dei Radicali Rita Bernardini ne ha addirittura fatto oggetto di due interrogazioni parlamentari e di una conferenza stampa a Roma. Sarà per questo che il nuovo prefetto Maria Fiorella Scandura, ha posto come condizione vincolante per la partecipazione alla gara di appalto, la certificata idoneità dell’immobile.

Tutto ha inizio nell’estate del 2005. Il 18 luglio 2005, un gruppo di immigrati sbarcano sulle coste siracusane. La prefettura dispone di accoglierli provvisoriamente in un dormitorio che da un paio di mesi ospita lavoratori stranieri, sotto la gestione dell’associazione Alma Mater. Il centro si trova a Cassibile, in via Elorina 5.

Si tratta degli ex uffici di una vecchia centrale destinata alla lavorazione, alla conservazione e alla commercializzazione di agrumi. Gli sbarchi proseguono. Serve un servizio di accoglienza permanente. Si decide di affidare l’incarico a Alma Mater, senza nessuna gara di appalto a causa della "particolare criticità della situazione".

Come di norma però, prima di firmare la convenzione, vengono fatti tutti gli accertamenti di rito. E i nodi vengono subito al pettine. Il 2 agosto 2005, il Settore Igiene e Sanità della Asl locale informa il viceprefetto Giuffrè che gli immigrati "dormono in dei materassi posti direttamente a terra e in numero maggiore alla ricettività" e chiede di verificare la compatibilità della destinazione d’uso dell’immobile.

Dieci giorni dopo, il 12 agosto 2005, il comando provinciale dei vigili del fuoco comunica alla prefettura che la struttura non è adeguata alle norme antincendio. Mancano impianti antincendi, gli arredi non sono ignifughi (in particolare i materassi) e le uscite di sicurezza non sono idonee. Il 26 agosto 2005, l’allora prefetto Alecci informa l’Alma Mater delle risultanze della Asl e dei vigili del fuoco e chiede di adeguare la struttura "nel rispetto degli standard minimi fissati dalla convenzione". Convenzione che viene firmata quello stesso giorno. Come se niente fosse. Scade nel dicembre 2006 e prevede la possibilità di un rinnovo per altri due anni. Il corrispettivo è fissato a 47,00 euro giornaliere per ogni immigrato ospitato. Per un totale presunto di oltre 2.400.000 euro in un anno e mezzo.

Intanto è arrivato l’inverno e gli sbarchi sono cessati. Il centro è semivuoto. E il 20 dicembre il prefetto Alecci chiede al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno di valutare l’opportunità di chiudere temporaneamente la struttura. Con un numero di ospiti inferiore al 50% della capienza della struttura, la convenzione prevede comunque il pagamento del 50% dei posti (articolo 10 comma 2). Fosse anche per una sola persona. Succede dal 20 gennaio al 27 febbraio 2006. Nel centro c’è un solo immigrato. Per la sua accoglienza la prefettura corrisponde 3.525 euro al giorno. Stavolta a informare il Viminale è il nuovo prefetto, Benedetto Basile, con una nota inviata il 27 febbraio 2006.

 

Fatture gonfiate per ristrutturazione e arredamento

 

Una truffa ai danni dello Stato, fatta sull’accoglienza degli immigrati. Questa è la tesi del pm Nicastro che ha chiesto al Gup del Tribunale di Siracusa il rinvio a giudizio dell’associazione Alma Mater, ente gestore del Cara di Cassibile. Il 6 settembre 2007 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Siracusa aveva disposto il sequestro di 142.076 euro sui conti bancari dell’Alma Mater, poi revocato dal Riesame. Sono la somma equivalente di una serie di fatture finite sul tavolo del pubblico ministero Antonino Nicastro. In particolare risulterebbero fatture gonfiate per l’acquisto di arredamenti, lavori di ristrutturazione e servizi di lavanderia.

Secondo la ricostruzione dei fatti dell’accusa, il 12 luglio 2006 l’Alma Mater acquista 57 comodini e altrettanti armadietti presso tale Michele Parisi, che a sua volta li aveva acquistati dalla ditta "Megara Commerciale" di Augusta. Il valore della merce è di 5.700 euro. Ma all’Alma Mater vengono fatturati 44.700 euro. Michele Parisi - pluripregiudicato per associazione a delinquere, porto abusivo e detenzione di armi, emissioni di assegno a vuoto, frode, truffa e ricettazione - dirà alla polizia giudiziaria che la fattura si trovava all’interno di una valigetta che però gli è stata rubata. Dal maggio al settembre 2006 poi ci sono 5 fatture della lavanderia industriale Dalia Antonio, per un importo totale di 67.631,64 euro. Peccato che la lavanderia del Dalia abbia chiuso i battenti nel 1996. Proprio così. Quando la Digos si è recata a Belpasso, all’indirizzo della lavanderia ha trovato la porta serrata e i macchinari buttati in mezzo a uno spiazzo.

C’è poi una terza serie di fatture che finisce sul tavolo del pm. Stavolta è il turno della ditta edile Romano Damiano, che nel corso del 2006 svolge lavori di ristrutturazione del centro per complessivi 61.440 euro. Una ditta nata nel gennaio del 2006 e che fattura soltanto lavori all’Alma Mater. E soprattutto una ditta che dichiara un unico dipendente, il che - sostiene il pm - rende improbabile la realizzazione di lavori edili per una cifra così consistente.

Il provvedimento di sequestro del Gip viene immediatamente impugnato dall’Alma Mater. Nelle indagini ci sono dei difetti di forma. La difesa ha ragione. E il 29 settembre 2007 il tribunale del riesame di Siracusa dispone la restituzione dei 142.000 euro ad Alma Mater. È un colpo di spugna sull’impianto probatorio. Gli atti di indagine prodotti dalla polizia giudiziaria - su cui si basa l’accusa di truffa - non sono utilizzabili, perché prodotti a indagini scadute. Già perché il termine di sei mesi delle indagini scadeva il 6 marzo 2007. E il magistrato non chiese la proroga. E poi ci sono le intercettazioni telefoniche, che secondo il tribunale del riesame non possono essere utilizzate, perché il reato di truffa citato (articolo 640 secondo comma c.p.p.) non lo consente. Le stesse intercettazioni sarebbero state autorizzate citando l’articolo 640 bis: truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, punito fino a sei anni. Ma l’accusa non ritenne di farlo.

Nonostante tutto, il pm ha comunque chiesto il rinvio a giudizio don Arcangelo Rigazzi e Marco Bianca, presidente e vicepresidente dell’Alma Mater, e dei tre imprenditori, tutti accusati di truffa aggravata ai danni dello Stato. L’udienza preliminare è fissata al 27 gennaio.

 

La prefettura sapeva che la struttura non era idonea

 

È il 31 ottobre 2006 quando la Prefettura di Siracusa invia una commissione ispettiva al centro di accoglienza di Cassibile. C’è stata una denuncia contro la gestione di Alma Mater. E il Prefetto ne è al corrente. Insieme al viceprefetto Giuffrè Rosaria, si recano al centro i funzionari Tortorici, D’Erba e Cilio. Dalla relazione finale emergono carenze nella sistemazione alloggiativa e nella sicurezza dei locali. L’acqua del pozzo non è potabile, giacché l’impianto di clorazione non è mai stato in funzione dall’apertura del centro. Mancano i certificati di variazione di destinazione d’uso dell’immobile, precedentemente utilizzato come centrale per la lavorazione di agrumi. Le modifiche strutturali prescritte dai vigili del fuoco non sono state realizzate. E come se non bastasse, il numero degli operatori in turno è inferiore a quello previsto dalla convenzione. La commissione ispettiva conclude la sua relazione ritenendo che "un eventuale rinnovo del contratto debba essere subordinato alla realizzazione delle misure di prevenzione incendi previste nelle direttive del Ministero dell’Interno per tutti i Centri per immigrati".

Alle 11.37 di quello stesso 31 ottobre 2006, subito dopo l’ispezione, il vicepresidente dell’Alma Mater, Marco Bianca, telefona a una operatrice del centro. Gli chiede come è andata. Lei risponde: "Cioè ma proprio incalzanti, incalzanti, che poi, non ti dico la cosa dei vigili del fuoco... Ho mentito spudoratamente..." Lo stesso Bianca Marco, il giorno prima, ha ricevuto una chiamata direttamente dal prefetto. "Potrebbe venire la commissione De Mistura", informa Alecci. La commissione è stata nominata dal Ministero dell’Interno per visitare i centri di accoglienza degli immigrati. E il prefetto ci tiene a fare bella figura: "Vediamo, se ci sono pavimenti sporchi che c’è da fare cose, se c’è da pitturare, vediamo..". "Certo sua eccellenza" lo rassicura Bianca, che però, a parte una passata di candeggina, non provvede agli adeguamenti strutturali richiesti da Asl, vigili del fuoco e polizia ambientale.

Nonostante tutte le inadempienze e le carenze del centro di Cassibile, la convenzione per la gestione viene rinnovata per altri due anni, di nuovo senza gara d’appalto. La firma avviene il 18 dicembre 2006. L’ammontare dell’appalto è di 3.755.850 euro in due anni. Il funzionario responsabile dell’area immigrazione è Rosaria Giuffrè, che un mese e mezzo prima ha visitato di persona il centro di Cassibile. L’unica documentazione richiesta a Alma Mater è il contratto di affitto della struttura, lo statuto dell’associazione e l’atto da cui risulta il legale rappresentante dell’associazione. Niente certificato antincendi. Niente certificato di abitabilità. Niente cambio di destinazione d’uso. E soprattutto: niente gara d’appalto.

Giuffrè è stata ascoltata dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini. Lei stessa ammette come "lo stato di emergenza non permanesse prima del rinnovo della convenzione" nel dicembre 2006. D’inverno infatti gli sbarchi si bloccano. Lo stesso prefetto Basile nel febbraio 2006 aveva chiesto al Ministero di chiudere temporaneamente il centro, perché c’era solo un immigrato. Ma sul rinnovo senza gara avrebbe espresso parere favorevole anche il Ministero dell’Interno, secondo quanto riferito dalla stessa Giuffrè.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva