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Giustizia: Ghedini; 60 "carceri leggere" per l'attesa di giudizio di Guido Ruotolo
La Stampa, 29 dicembre 2008
Per i detenuti alle prime armi, quelli per cui il carcere è un incidente di percorso e non sono abituati a dividerlo con i professionisti del crimine, che "soffrono per questa promiscuità" al punto da "confessare qualunque cosa pur di uscire", arriva il "carcere leggero". Se ne parla da tempo, lo stesso Guardasigilli, Angelino Alfano, non ne fa mistero. E adesso, Niccolò Ghedini, consigliere e legale di Silvio Berlusconi, dà un colpo d’acceleratore alla proposta, e annuncia che il disegno di legge è prossimo ad essere approvato in Consiglio dei ministri, a metà gennaio: "Entro la metà del 2010 avremo sessanta carceri in più dove parcheggiare i detenuti in custodia cautelare".
Le carceri sono al limite. La maggioranza ondeggia tra pulsioni giustizialiste, per la serie aboliamo la Gozzini sugli sconti di pena, e spinte verso misure detentive alternative. Perché costruire nuove carceri, anche se per i detenuti in custodia cautelare? "Lo prevede il nostro Codice del 1930. I detenuti in attesa di giudizio dovrebbero essere ospitati in strutture differenziate da quelle dei detenuti che devono scontare la pena. Questa popolazione oggi oscilla tra i 12.000 e i 14.000 detenuti che transitano nelle carceri per circa 7 giorni in media. Evidentemente, sono soggetti ritenuti non pericolosi che vivono in promiscuità con detenuti di un certo spessore criminale".
Per questa popolazione carceraria, dunque, si prospetta una detenzione in strutture diverse. Quali, quante, in che tempi saranno realizzate? "Ci muoveremo con un disegno di legge-obiettivo, come per le grandi opere, che avrà priorità assoluta. Pensiamo a sessanta strutture composte da prefabbricati modulari che saranno pronte in dieci mesi al massimo. Al progetto hanno lavorato il ministro per le Infrastrutture, Altero Mattioli, e i suoi tecnici".
Dove saranno localizzate queste strutture? "Nelle aree demaniali, in accordo con i comuni e le province. In attesa che l’iter parlamentare segua il suo corso, verranno individuate queste aree. Prevediamo l’apertura dei primi cantieri per l’inizio dell’estate prossima".
Avvocato Ghedini, le inchieste di Potenza, Pescara e Napoli hanno riproposto l’attualità della questione morale? "La questione della moralità nella pubblica amministrazione è sempre attuale. La politica non fa mai abbastanza per ridurre a livelli fisiologici fenomeni di malcostume o episodi penalmente rilevanti. La corruzione, insomma, non è una invenzione. Detto questo, molte inchieste di forte impatto mediatico alla fine si risolvono in nulla. Sospetto che alcune di queste inchieste siano una reazione molto forte di certa magistratura alle ipotesi di riforme condivise come quella della giustizia".
Lei che è il consigliere di Berlusconi, può spiegarci perché il presidente del Consiglio è così ondivago sul tema delle intercettazioni telefoniche? "Il pensiero del presidente Berlusconi è ben sintetizzato dall’intervista al professore Giuliano Vassalli, il quale ha ricordato che a volte è meglio rinunciare a un mezzo di indagine che crea maggiori guai che benefici".
L’altro giorno Berlusconi ha detto che se dovessero essere intercettate sue telefonate di un certo tipo cambierà Paese. A cosa si riferiva? "Alle telefonate in generale che lui quotidianamente fa, come presidente del Consiglio, che, ovviamente, se propalate potrebbero creare grave nocumento al Paese".
Non è che si riferiva alle presunte telefonate pruriginose di cui si vocifera da tempo? "No. Non gliene frega niente di quelle. Lui pensa esattamente alle telefonate istituzionali nelle quali con i suoi interlocutori può anche lasciarsi andare a certe indicazioni che potrebbero riguardare situazione vitali per il Paese, correlate alla sicurezza". Giustizia: Anm; le carceri per la custodia cautelare? ci sono già
Ansa, 29 dicembre 2008
"Non si può dire, senza alcun dato certo in mano, così come ha fatto l’onorevole Ghedini, che in Italia c’è un abuso nel ricorso allo strumento della carcerazione preventiva da parte dei magistrati. Chi lancia queste accuse deve dire anche quando e come ci sarebbero stati gli eccessi". Lo afferma il presidente dell’Anm Luca Palamara replicando, a distanza, alle affermazioni fatte dal parlamentare di Forza Italia, e avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Palamara ricorda che la custodia cautelare è stata riformata recentemente, nel 1995, "subito dopo Tangentopoli". "Il vero problema - aggiunge il presidente delle toghe - è quello dei tempi del processo penale e del suo funzionamento perché è ovvio che l’eccessiva lunghezza dilata i tempi della custodia cautelare. Per questo chiediamo una riforma complessiva del processo". Quanto alla proposta di costruire nuove carceri, con una capienza di 200 detenuti dove ospitare solo le persone in custodia cautelare, Palamara osserva che "già adesso, dove questo è possibile, si fa così, come a Roma, dove i detenuti definitivi sono reclusi a Rebibbia mentre quelli sottoposti a misura di prevenzione sono collocati a Regina Coeli". Giustizia: Violante (Pd); riforma, stop ai "giudici autogestiti"
Ansa, 29 dicembre 2008
"Ragioniamoci insieme, senza spirito vendicativo o prevaricatore. Potremmo intervenire sul Csm: la mia idea è che un terzo sia eletto dal Parlamento, un terzo dai magistrati e un terzo scelto dal Capo dello Stato. Così la magistratura, che ora è un settore totalmente autogestito, verrebbe integrato di più nel sistema costituzionale". Lo dice Luciano Violante, ex magistrato ed ex Presidente della Camera del Pd, in un’intervista al Corriere della Sera sulla riforma della giustizia. Secondo Violante "occorre inoltre dare un peso rilevante ai principi fissati dalle Sezioni Unite della Cassazione, per favorire la certezza del diritto, che oggi non esiste". Sulla giustizia serve una riforma condivisa che garantisca il rispetto delle garanzie di tutti, degli imputati ma anche delle vittime. Secondo Violante, bisogna intervenire sul santuario dei giudici. "Mi riferisco - spiega - ai poteri di organizzazione degli uffici giudiziari. C’è troppa differenza tra alcuni uffici e altri. I capi delle procure hanno grandi poteri: forse bisognerebbe vedere come li utilizzano". Contro la corruzione e l’ipotesi di una nuova Tangentopoli, Violante osserva che i partiti potrebbero fare di più, "per esempio assumere come regola che gli amministratori non possano ricevere regali sopra una certa cifra". Per il ministro del welfare, Maurizio Sacconi, "avremmo senz’altro bisogno di una più robusta coesione nazionale" specie per questioni come la riforma della giustizia ma pesa il ruolo di Di Pietro all’opposizione. Il ministro ne ha parlato ieri a Cortina d’Ampezzo, in particolare su temi irrisolti come la giustizia ha detto "credo che il tema della peserà inevitabilmente fra maggioranza e opposizione". "È un tema non risolto da almeno 15 anni - ha detto a Cortina incontra -, dovrà essere affrontato perché è parte dell’incapacità di crescita di questo paese e della sua instabilità". "Sarebbe importante oggi - ha aggiunto - percorrere un iter riformatore con l’opposizione. Ma l’opposizione sembra guidata dal leader del suo partito minore" ha proseguito riferendosi al leder di Idv Antonio Di Pietro. "Sarebbe pericolosissimo per l’Italia - ha concluso - se si riunisse il malessere sociale con una stagione di spregiudicatezza giudiziaria". Giustizia: Fini; sulla riforma dialogo tra sordi, serve più serietà
Asca, 29 dicembre 2008
"Ci sono tante questioni su cui confrontarsi in modo serio". Lo ha detto il presidente della Camera Gianfranco Fini in un’intervista sul canale satellitare della Camera. "Sono ancora convinto - ha spiegato Fini - della necessità di assunzione di responsabilità per confrontarsi in modo approfondito su crisi, problemi della giustizia e futuro dei figli". Ricordando che alla ripresa di gennaio la Camera esaminerà come prima cosa la conversione in legge del decreto Gelmini sull’Università per poi passare all’esame del dl anti-crisi, il presidente della Camera ha sottolineato di auspicare "che la Camera ne discuta il tempo necessario e in un clima che non può essere di incapacità di riconoscere le posizioni altrui. Il giorno in cui ci sarà, non il dialogo, ma l’attenzione per ciò che dice l’altro, credo che sarà un momento positivo". Giustizia: la sinistra, tra garantismo e moralismo giustizialista di Angelo Panebianco
Corriere della Sera, 29 dicembre 2008
In una intervista al Riformista l’ex presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco, a proposito dei suoi ex compagni del Partito democratico, ha dichiarato: "Quelli del Pd sono garantisti a corrente alternata. Un garantista vero solidarizza innanzitutto con i nemici. Difendere gli amici è un’altra cosa: si chiama complicità". Il commento di Del Turco stigmatizza le evidenti contraddizioni dei vertici del Partito democratico di fronte agli sviluppi delle inchieste giudiziarie che riguardano propri esponenti. La scarcerazione del sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso ha spinto Walter Veltroni, per la prima volta da quando è segretario di quel partito, a prendere duramente le distanze dall’azione dei magistrati ("fatti gravissimi", ha detto a proposito dell’inchiesta di Pescara) e ha anche obbligato il ministro- ombra della Giustizia Lanfranco Tenaglia ad accorgersi del fatto che "polizia e magistratura devono riscoprire una cultura delle indagini che si è troppo appiattita sulle intercettazioni" (verrebbe da dire: ben arrivato tra noi, onorevole). Ne è conseguita, e anche questa è una novità, una presa di posizione polemica dell’Associazione Nazionale Magistrati nei confronti della leadership del Partito democratico. Che cosa significa tutto ciò? Che stiamo per assistere a uno spettacolare cambiamento di rotta del Partito democratico, alla fine del suo abbraccio (mortale) con Di Pietro, a una disponibilità a rompere finalmente con il "partito giustizialista" e a sedersi a un tavolo con la maggioranza per discutere seriamente di riforma della giustizia? È improbabile. Per due ragioni. La prima è che settori rilevanti del partito giustizialista si trovano all’interno del Partito democratico e occupano posizioni dirigenziali di rilievo. È falso che il giustizialismo sia appannaggio del solo partito di Di Pietro. L’alleanza elettorale con Di Pietro è stata fatta anche perché esistevano forti affinità ideologico culturali fra i due partiti in materia di giustizia. È probabile che in questo momento, nelle stanze chiuse del Partito democratico, siano in corso scontri duri fra dirigenti di diverso orientamento. La seconda e più importante ragione ha a che fare con le caratteristiche di porzioni rilevanti di iscritti e anche dell’elettorato del Partito democratico. Un paio di settimane fa un’associazione di area composta da giovani sotto i trenta anni ha incalzato il Partito democratico sulla cosiddetta "questione morale". Era solo il sintomo di un problema ben più ampio. C’è un’intera generazione di giovani politicamente attivi la cui "socializzazione primaria" alla politica è avvenuta a seguito degli eventi provocati dalla vicenda di Mani pulite. Questa generazione, nata dopo il crollo delle antiche ideologie, è cresciuta credendo fermamente in tre dogmi. Per il primo dogma, l’Italia sarebbe il Paese più corrotto della Terra o giù di lì. Per il secondo, l’etica è il solo metro di giudizio della politica e i "valori" (etici) vanno contrapposti agli "interessi " (sempre sordidi, per definizione). Ciò basta a spiegare perché tanti di questi giovani risultino poi sprovvisti degli strumenti necessari per pensare politicamente. Per il terzo dogma, infine, i magistrati (mi correggo: i pubblici ministeri) sarebbero cavalieri senza macchia, angeli vendicatori che combattono eroicamente il Male della corruzione. Si aggiunga il fatto che tanti di questi giovani sono privi, causa il cattivo funzionamento di molte scuole, di buone conoscenze storiche, e il quadro è completo. Il successo che riscuotono i libri ispirati al moralismo giustizialista è perfettamente spiegabile. Occorrerebbero, da parte dei vertici della politica, grande capacità pedagogica, solide risorse culturali e disponibilità a un lavoro di lunga lena per dare a questi giovani strumenti di orientamento politico meno labili, meno inconsistenti. Ecco perché è improbabile attendersi dal Partito democratico svolte in materia di giustizia. Anche a costo di negare l’evidenza. L’evidenza è rappresentata da uno squilibrio dei poteri così forte da intaccare , come ha scritto Peppino Caldarola (sempre sul Riformista) la sovranità popolare. Il sindaco di Pescara, come, prima di lui, il presidente della Regione Del Turco, si è dovuto dimettere, non a seguito di una condanna da parte di un giudice al termine di un regolare processo, ma a causa dell’inchiesta di un procuratore. Con tanti saluti alla presunzione di non colpevolezza, e anche alla democrazia rappresentativa. Giustizia: Bondi; nei Tg c’è troppo sangue, date buone notizie di Maria Grazia Bruzzone
La Stampa, 29 dicembre 2008
I direttori dei principali Tg, Tg1, Tg2, Tg5, non vogliono dire niente. "Il telegiornale lo faccio, non commento" rispondono all’unisono Gianni Riotta e Mauro Mazza. Mentre Clemente J. Mimun "ha altro da fare" e Enrico Mentana, che del notiziario a tutta cronaca fu l’inventore, si dice "non interessato all’argomento". Ad accogliere l’appello lanciato dal ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi affinché i telegiornali non siano più "una serie ininterrotta di notizie catastrofiche, di racconti dell’orrore, di fatti di sangue" è solo Emilio Fede, che giura di lottare da sempre per espellere la violenza dal Tg4 ed evitare "la morbosità, che non è necessaria". Tanto da non aver neppure dato nel suo Tg la notizia sul Babbo Natale killer che ha fornito lo spunto a Bondi. Il suo figlioletto di 7-8 anni, venuto in Italia per le feste dagli Stati Uniti dove vive con la mamma, ne sarebbe rimasto molto impressionato. Il fatto indubbiamente raccapricciante è accaduto proprio il giorno di Natale in un sobborgo di Los Angeles, ed è stato dato come semplice notizia da alcuni Tg della sera. Per essere ripreso l’indomani, raccontato con suspense narrativa e immagini nell’edizione delle 13 che più indulge sui fatti di cronaca. "Ha bussato alla porta vestito da Babbo Natale, carico di livore per il divorzio definito appena una settimana prima, dopo neanche un anno di matrimonio, un sacco nero sulle spalle. La bimba di 8 anni gli corre incontro felice aspettandosi un regalo, lui spara in faccia alle illusioni e apre il fuoco della sua vendetta sui presenti riuniti per il pranzo di Natale". Così, per esempio, il Tg5 dell’una. Morti e feriti non si vedono ma le immagini dell’incendio della villetta, appiccato col lanciafiamme dallo stesso assassino poi suicida, sono impressionanti. "Non ho potuto e saputo spiegare a mio figlio le ragioni di tanta cieca ferocia che non ha pietà dei bambini e avviene il giorno di Natale", spiega il ministro scandalizzato. E, auspicando un’informazione "che parli del bene che tante persone promuovono senza tornaconto", lancia il suo appello "per arrestare questo circolo vizioso della televisione. O non vi sarà fine al peggio, al brutto, al deteriore, al volgare, all’orrore". "Sono poco edificanti anche molti servizi positivi sui ricchi, le loro donne e i consumi di lusso. E non è certo tornando ai Tg di un tempo, quando non si poteva usare la parola "membro" che si proteggeranno i nostri figli" reagisce Corradino Mineo, direttore di RaiNews24. Ma il sociologo Antonio Marziale che presiede l’Osservatorio sui diritti dei Minori, ricorda l’esistenza del Codice Tv e Minori e il protocollo recepito dalla legge Gasparri che prevede addirittura gravi sanzioni pecuniarie e perfino il ritiro della licenza: "L’Ordine dei giornalisti e le Autorità di garanzia lo facciano applicare". Da Sky Tg24 il direttore Emilio Carelli osserva quanto sia "sempre più sottile la linea di demarcazione fra dovere di cronaca e diritto dei minori". E difende il suo Tg, che "ha sempre evitato di indugiare sull’orrore senza fine richiamato dal ministro. Anche oggi, davanti alle immagini cruente di morti e feriti arrivate da Gaza". Linea sottile che "può sconfinare in censura", avvisa Marco Rizzo del Pdci, paventando "notiziari del Mulino Bianco". L’opposizione la butta in politica. "Come mai Bondi si accorge solo oggi del fenomeno e non ricorda come la stessa cronaca nera fosse gettonatissima da molti Tg, soprattutto privati, durante i governi di sinistra e alla vigilia delle elezioni?", chiede Giorgio Merlo, Pd. "Su quegli eccessi sono state costruite fortune elettorali", incalza Beppe Giulietti, portavoce di Articolo 21. Giulietti considera l’appello del ministro "nient’altro che la traduzione bondiana del concetto di informazione ansiogena che Berlusconi va denunciando da tempo: visto che non può governare povertà e recessione, prova a cancellarli o almeno ad attenuarli. Con l’occhio puntato a ben precise trasmissioni". Ferrara: detenuto di 38 anni muore in cella, probabile l'infarto
La Nuova Ferrara, 29 dicembre 2008
Si è sentito male in cella, ieri pomeriggio. Malori al petto, pungenti, inequivocabili. Il medico del carcere che lo ha subito soccorso ha capito che qualcosa non andava, ma le sue condizioni sono precipitate e a nulla sono valsi i soccorsi: Antonio Apicella è morto e aveva 38 anni appena; originario di Nocera Superiore, era in carcere a Ferrara dopo la rapina e sequestro alla General Cavi di Argenta, quando fece parte di un commando che rubò rame nell’azienda argentana. Venne subito preso, processato e condannato a 5 anni in rito abbreviato in primo grado, condanna confermata in appello mentre attendeva la sentenza definitiva della Cassazione. La vita in carcere, però, per le sue condizioni di persona che soffre di ipertensione era diventata una sofferenza. In più era un accanito fumatore: ieri verso le 15 si era fatto la doccia, così ha raccontato il compagno di cella, e poi dopo essersi vestito si è sentito male. Il compagno, che soffre anch’egli di cuore e vene, salvato da un infarto, ha subito capito la gravità e ha chiamato l’agente di turno che a sua volta ha allertato il medico. Il sanitario ha subito praticato il massaggio cardiaco in attesa dell’ambulanza del 118 arrivata in un lampo, per trasportarlo, con una corsa disperata, all’ospedale Sant’Anna dove i medici non hanno potuto che confermare il decesso. Ora sulla vicenda è stata aperta un’indagine, e il pm di turno Patrizia Castaldini, ordinerà, entro brevissimo tempo, l’autopsia per chiarire con esattezza le cause della morte. Da quanto hanno riferito le fonti direttive del carcere, interpellate nel tardo pomeriggio di ieri, si tratta di arresto cardiocircolatorio, come da referto medico. E sarebbero del tutto escluse altre ipotesi, compresa quella di overdose di stupefacenti. Antonio Apicella era sposato con 4 figli: i suoi familiari avvertiti ieri sera, sono attesi a Ferrara in giornata. Milano: una settimana ai domiciliari... sulla panchina del parco
Corriere della Sera, 29 dicembre 2008
Quando s’è ritrovato ammanettato nella caserma dei carabinieri di Desio, per colpa di un furto in appartamento, l’ennesimo furto in un appartamento, era convinto di finire una volta per tutte al fresco. Ecco, è finito al gelo: un giudice del Tribunale di Milano l’ha condannato agli arresti domiciliari su una panchina. Sì, una panchina. Il padre e il fratello di questo ladruncolo di 35 anni - esasperati per i suoi continui, piccoli ma costanti problemi con la giustizia - si sono fermamente rifiutati di riaccoglierlo in casa. E allora il magistrato non ha avuto scelta: "Mi dispiace, lei sarà sottoposto a regime di soggiorno obbligato su una panchina del parco pubblico di via Trieste, a Limbiate". E nel giro di poche ore, l’uomo s’è ritrovato su una panchina di legno nel parco pubblico di questa cittadina in provincia di Milano. A riparare il 35enne dal clima polare delle notti più fredde dell’anno, soltanto una coperta e qualche scatola di cartone. Oppure, come misera alternativa, una casetta di legno senza porte né finestre. E un tubo di cemento che i bambini usavano per giocare. E dentro il quale lo sfortunato ladro si rifugiava per ripararsi dalla pioggia e per non correre il serio rischio di morire congelato. Il 35enne ha trascorso così gli ultimi giorni. Compreso il giorno di Natale. Da parte della sua famiglia, non c’è stata marcia indietro. Niente di niente. "Non siamo degli orchi... noi siamo dispiaciuti, sinceramente dispiaciuti - hanno raccontato il padre e il figlio ai carabinieri -, ma non ce la sentiamo più di tenerlo in casa. Da tempo, siamo ai ferri corti, è inutile che ci giriamo intorno. Gli avevamo chiesto tante volte di smettere di rubare e di cercare un lavoro onesto, ma ogni volta dopo aver giurato che avrebbe cambiato radicalmente vita lui che cosa ti faceva? Il solito: lui finiva di nuovo in carcere". Stavolta, anziché la prigione, ecco il parco. "Ah, sì che me lo ricordo, e come non potrei... Lo vedevo tutte le sere quando uscivo a passeggiare con il mio cane - racconta una pensionata - e più che paura mi faceva tenerezza. Avrebbe potuto essere mio nipote e, senta, glielo confesso, qualche volta gli ho portato anche qualcosa da mangiare, qualche maglione, una coperta". Più di una volta, i carabinieri di Desio, quando sono andati ad accertare che il 35enne non si fosse allontanato dal soggiorno obbligato, l’hanno trovato raggomitolato in una coperta e semi-congelato nella sua improvvisata abitazione. Per sette interminabili giorni il giovane ha vissuto così, sfidando i rigori del clima. Fino a ieri. Ieri un’amica si è impietosita. E ha accettato di accoglierlo nella sua casa, offrendogli il conforto di un bagno caldo e un piatto di minestra bollente. In fondo, gli è andata bene. Nell’ottobre di un anno fa, un signore era anche lui agli arresti domiciliari a una panchina. Si era allontanato. E l’avevano arrestato. Per evasione. Agrigento: carcere di contrada Petrusa è sempre più invivibile
La Sicilia, 29 dicembre 2008
Sono circa 500 le persone che stanno trascorrendo periodi di detenzione più o meno lunghi, più o meno in isolamento, ma tutti accomunati da disagi ingiustificabili per un paese civile come si autodefinisce l’Italia. Accade infatti che oltre a mangiare a turno all’interno delle celle, i reclusi debbano dormire sui materassi posizionati al suolo. Sono finite le brande anche per "impilarle" come si fa per i letti a castello. Facile intuire cosa accada dentro uno spazio grande pochi metri, con almeno 4 persone con le loro necessità, le loro abitudini, i loro caratteri. Questo è l’aspetto che rende difficile la vita a chi deve scontare una pena. Difficile è però la vita anche per il personale della Polizia penitenziaria, costretto a turni di lavoro difficili da sostenere. Tanti sono infatti gli agenti che hanno dovuto rinunciare a periodi di ferie, con grande senso di responsabilità. Ma la faccenda ha dei risvolti negativi anche per quanto concerne indirettamente l’attività delle forze dell’ordine esterne al penitenziario. Con una popolazione carceraria di 440 persone, se ci fosse un qualsiasi tipo di maxi operazione, con arresti da 15 unità e oltre, il Petrusa non potrebbe accoglierli tutti insieme. Costringendo quindi le autorità competenti a trasferire i neo arrestati in altre case circondariali dove un posto in più lo si può trovare. E tenuto conto che da Lampedusa arriveranno un centinaio di clandestini da detenere almeno per qualche giorno, la "frittata" è pronta a essere servita. I nodi continuano a venire al pettine di una situazione che per anni è stata trascurata e che non accenna a migliorare. Nelle scorse settimane è stata attivata la procedura che tra qualche anno dovrebbe portare alla realizzazione di un altro padiglione con almeno duecento nuovi posti in una struttura "vecchia" di appena 11 anni, essendo stata inaugurata nel 1997, immaginando per essa un utilizzo non così intensivo. Il Petrusa all’epoca venne "tarato" per circa 200 persone, cifra abbondantemente doppiata con il passare degli anni. Teramo: tesi di laurea in antropologia culturale sulle detenute
Il Centro, 29 dicembre 2008
Una tesi di laurea in antropologia culturale sul carcere di Teramo. L’11 dicembre, nella facoltà di lettere e filosofia dell’università di Bologna, Marta Iannetti, studentessa teramana, ha discusso la tesi "Il carcere femminile", che prende in esame la realtà femminile nella casa di pena circondariale di Castrogno. Marta Iannetti si è concentrata sulla mancanza di forme di rieducazione mirate alla componente femminile nel carcere, che sarebbe scarsamente considerata a causa dell’esiguità numerica e del carattere spesso temporaneo delle detenzioni. Le detenute a Castrogno, insomma, mancherebbero di percorsi rieducativi ottimali, calibrati sulle specifiche esigenze della realtà femminile. I criteri di erogazione delle risorse per attività rieducative, che seguono logiche numeriche, tenderebbero, secondo la Iannetti, a scontrarsi con l’esiguità delle detenute e con il loro continuo avvicendamento. Si parla infatti di una ventina di detenute ("un dieci per cento rispetto al totale dei carcerati") tra italiane, rom e straniere, colpevoli o in attesa di giudizio. In carcere per furti, spaccio di droga e violazioni delle normative sull’immigrazione, quindi per periodi brevi o brevissimi. Una situazione, dunque, che rende difficile un proficuo programma di rieducazione e reinserimento. Dal 2003 al 2008 sarebbe stato attivato un solo corso di formazione professionale, per addette alla grande distribuzione. Il corso si è svolto in due edizioni, di cui una non portata a termine, essendo venuto a mancare il numero minimo di partecipanti. Eloquenti i dati relativi all’unico corso d’istruzione, quello di scuola elementare: in sei anni, dal 2002 al 2008, due diplomate su 59 iscritte. "Molte detenute sono già diplomate", precisa però Marta Iannetti, "e frequentano per riempire il tempo e combattere la noia". Le attività sportive, nonostante la presenza di strutture come palestra e campo di pallavolo, sarebbero spesso trascurate. Quanto al lavoro, "le poche donne impegnate", scrive la Iannetti, "sono quasi esclusivamente alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, con mansioni di pulizia e cucina che non hanno alcuna funzione ai fini del reinserimento". Significativo il dato numerico circa gli educatori in forza al carcere, a fronte di circa 200 detenuti: soltanto tre, "anzi due e mezzo", scrive la neo dottoressa, "dato che l’educatrice del femminile è part-time". "Se si considera che il personale di polizia penitenziaria ammonta a 195 agenti", valuta Marta Iannetti, "diventa palese lo squilibrio della realtà carceraria, e non solo di quella teramana, verso il custodialismo e a sfavore della rieducazione". Gorizia: chiuso giornale dei detenuti... la direzione non c’entra
Messaggero Veneto, 29 dicembre 2008
Dalla lettura del "Messaggero Veneto" del 29 novembre 2008, si è appreso che la direzione della Casa Circondariale di Gorizia avrebbe deciso di sospendere definitivamente la pubblicazione del giornale interno "Eco di Gorizia" realizzato grazie alla collaborazione di detenuti e dei volontari appartenenti alla "Comunità Arcobaleno". Si precisa che, fino al mese di agosto scorso, il supplemento era stato sospeso per mancanza di detenuti interessati all’iniziativa essendo questi ridotti a causa della chiusura parziale della Casa circondariale. Tuttavia, non è mai stato nelle intenzioni della direzione dell’istituto sospendere tale attività. Anzi, al contrario di quanto riferito dal vostro articolo, in data 29 novembre 2008, i volontari coinvolti, in particolare il responsabile della "Comunità Arcobaleno" è stato invitato a una riunione in occasione della definizione del Progetto pedagogico dell’istituto e non si è presentato, mentre il signor Fabio Bonatti, responsabile dello sportello "La Zattera", era presente e ha discusso insieme con gli altri operatori sull’opportunità o meno di proseguire l’iniziativa ed eventualmente con quali modalità, alla luce dell’attuale precaria situazione del carcere, del ridotto numero di ristretti, della loro posizione giuridica e dei loro reali bisogni. Tanto premesso, si ribadisce che nessuna decisione è stata presa sul futuro del giornale, ancor meno sulla sua soppressione. Per questi motivi, al fine di rinforzare la sensibilità dei lettori, nonché di convogliare l’interesse dell’opinione pubblica sulle reali problematiche del carcere e offrire un servizio di trasparenza, si chiede una rettifica dell’articolo in oggetto.
Felice Bocchino, Provveditore Regionale Dap Padova: Agenda "R.I.A.Pro", messaggi dal tempo della pena
Liberazione, 29 novembre 2008
I detenuti della Casa di Reclusione di Padova propongono l’agenda R.I.A.Pro (Realizzata In Ambiente PROtetto), grazie al finanziamento del Centro di Servizio per il Volontariato e alla collaborazione dell’Associazione Granello di Senape Padova-Ristretti Orizzonti e della Cooperativa AltraCittà. L’agenda è prodotta artigianalmente: i carcerati hanno costruito la copertina - poi rivestita di carta decorata a mano - e incassato il corpo dell’agenda, la cui grafica è curata per intero da un detenuto ammesso al lavoro esterno (Graziano Scialpi). La tiratura è di mille copie, in parte distribuite gratuitamente a tutte le Associazioni di Volontariato di Padova e Provincia e a tutti i Csv d’Italia. Presso la sede del Csv di Padova in via dei Colli 4 (049.8686849; info@csvpadova.org) possono essere richieste da Associazioni e privati cittadini. Il susseguirsi dei mesi è contrassegnato dalle vignette del personaggio-carcerato "Dado" e dagli scritti dei detenuti della redazione di "Ristretti Orizzonti": messaggi che arrivano dal "tempo della detenzione" per "accompagnare il tempo" di chi usa l’agenda. Eccone un brano: "Quando ti dicono, dopo anni di galera, che forse presto si aprirà anche per te la possibilità di mettere un piede in libertà, in un primo momento non ti sembra neanche vero, però è una bellissima cosa sapere che potrai lavorare fuori di giorno, che potrai anche solo per un attimo vivere una vita normale. Io oggi sono troppo felice di questa prospettiva, per me già solo l’idea di cominciare finalmente questo percorso ha cambiato tutto", di Natasha. Immigrazione: non si devono tagliare le radici agli immigrati di Giovanna Zincone
La Stampa, 29 novembre 2008
Le crisi mettono a nudo le debolezze strutturali di un sistema, le inefficienze e le contraddizioni delle strategie politiche adottate in tempi di relativa quiete, il carattere spesso poco meditato delle ricette ad hoc. Il trattamento dell’immigrazione non fa eccezione. In Italia il decreto flussi per il 2009, pescando sulle domande dell’anno precedente, quindi su uno stock di lavoratori in gran parte già presenti, ha confermato il fatto che da noi si entra di straforo e poi, in qualche modo, si viene regolarizzati. Lo stesso decreto ha assegnato più del 70% dei permessi di soggiorno al lavoro domestico e di cura, evidenziando ancora una volta un carattere chiave del nostro modello di Welfare. Una serie di funzioni, in particolare la cura degli anziani e della prima infanzia, sono lasciate alle famiglie e a loro si preferisce dare un sostegno in denaro piuttosto che in servizi. È una scelta che può piacere sul piano dello stile di vita collettivo, ma che pone problemi specialmente oggi, quando i redditi delle famiglie si assottigliano e i trasferimenti certo non crescono. Ne risulta comunque che in Italia si utilizza molto più lavoro domestico che in altri Paesi europei. È una caratteristica che condividiamo con la Spagna. E non è la sola. Abbiamo in comune anche una realtà di flussi migratori molto consistenti, concentrati in tempi relativamente brevi. Questo fenomeno sta producendo in entrambi i Paesi, un tempo tolleranti, preoccupanti reazioni di rigetto. Oggi la crisi economica potrebbe acuire le tensioni interetniche già esistenti e fare emergere quelle latenti. In Spagna la disoccupazione ha già ricondotto un’offerta di lavoro nazionale nell’agricoltura, causando competizioni e attriti con i lavoratori immigrati. Questi conflitti e la situazione di generale esubero di forza lavoro hanno indotto il governo spagnolo ad adottare una vecchia ricetta, che era già stata sperimentata in Germania e in Francia dopo lo choc dell’aumento del prezzo del petrolio e la successiva recessione del 1974: dare incentivi perché i lavoratori stranieri rientrino nella patria di origine. Si tratta di una misura poco sostenuta dall’esperienza, perché già in passato la strategia del rimpatrio remunerato si era dimostrata inefficace, e tale si sta rivelando anche oggi in Spagna. Questo tipo di intervento evidenzia una delle contraddizioni che hanno caratterizzato a partire dagli Anni 90 le politiche migratorie di molti Paesi europei, e che si sono riflesse nelle linee adottate dall’Unione Europea. Si sono accentuate le richieste di assimilazione culturale: il requisito di conoscere la lingua del Paese di immigrazione riguarda non solo chi vuole la cittadinanza o la carta di soggiorno, ma in certi casi anche il rinnovo del permesso o i coniugi che si ricongiungono. Agli immigrati si chiede di apprendere in tempi brevi la storia e la cultura del Paese di residenza, di abbandonare atteggiamenti di preminente lealtà nei confronti della patria di origine; in un test di integrazione si è arrivati perfino a pretendere che gli immigrati tifassero per le squadre di calcio locali. Le richieste rivolte agli immigrati di rispettare i valori civili fondamentali dello Stato dove risiedono, di conoscere con il tempo la lingua del Paese di cui vogliono diventare cittadini sono più che sensate. Ma l’assimilazione all’istante, l’abbandono della cultura d’origine, l’espianto delle radici sono in contraddizione con la volontà di utilizzare la forza lavoro immigrata come esercito di riserva, un contingente che si può rispedire al mittente quando non serve. È una pretesa che precede la crisi attuale e che si è tradotta in misure tese a favorire un’immigrazione temporanea e a rotazione. Nel caso italiano, la richiesta di rapida assimilazione e di abbandono della cultura di origine stride poi notevolmente con l’intenzione e la convinzione che i discendenti degli italiani immigrati all’estero mantengano forti legami con la madre patria. Una presunzione che ha giustificato la trasmissione della nostra cittadinanza da parte di una singola persona di nazionalità italiana immigrata all’estero a nipoti e pronipoti. Questi italiani per diritto ereditario possono non conoscere la nostra lingua (come di fatto molto spesso accade) e non essere mai venuti in Italia. Ma gli stessi individui godono - come è noto - di una specifica rappresentanza parlamentare. Una rappresentanza che, in caso di maggioranze risicate, come nell’ultimo governo Prodi, può risultare determinante. In una situazione di questo genere continuano a suscitare proteste le proposte, avanzate anche da sensati politici del centrodestra, come l’attuale presidente della Camera, di concedere il voto locale agli immigrati lungo-residenti e di facilitare l’acquisizione della cittadinanza da parte di bambini che hanno studiato in Italia. Purtroppo anche da noi sono presenti personaggi politici ai quali si potrebbe applicare la considerazione fatta dallo scrittore scozzese O' Hagan sulla New York Review of Books a proposito di politici nazionalisti suoi conterranei: "Non parlano in modo veritiero del passato, non hanno una visione del futuro, sono bloccati in un presente ignorante, alla ricerca di vantaggi immediati". Della disinvolta corsa al profitto politico, come di quella al profitto economico, entrambe condotte a opera di pochi, a pagare i conti sono e saranno in molti. Droghe: Giovanardi contro le Regioni; "non fanno i controlli"
Notiziario Aduc, 29 novembre 2008
Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla droga, dopo l’incidente di Civitavecchia, lancia un appello per una forte azione di controllo e di contrasto alle situazioni di rischio. "È dal 29 agosto che abbiamo pubblicamente sperimentato a Verona, come Dipartimento nazionale antidroga - precisa Giovanardi - strutture che consentano istantanei accertamenti clinico tossicologici e l’immediato ritiro della patente a chi risulta positivo alle sostanze. È dal mese di settembre che abbiamo proposto tale modulo alle Regioni ed agli enti locali, mettendo a disposizione anche il nostro personale per spiegare come organizzarlo sul territorio senza aggravi di spese. Davanti all’ennesima tragedia del sabato sera, questa volta complice la cocaina - conclude Giovanardi - rivolgiamo un nuovo appello ai responsabili locali perché non si perda altro tempo per un’efficace azione di controllo e di contrasto delle situazioni a rischio". Dopo il tragico incidente di Civitavecchia, anche Maurizio Gasparri ha puntato il dito contro le Regioni che, a suo dire, sono inadempienti nei controlli antidroga. "È molto grave la denuncia del direttore del dipartimento antidroga del governo sull’inerzia delle regioni in materia di controlli anti droga", ha sottolineato il presidente del gruppo Pdl al Senato in una nota, "sul territorio non si fa quanto è possibile per arginare la strage di giovani sulle strade causata prevalentemente da alcool e droga". Per Gasparri, "le Regioni sono latitanti. Non versano fondi alle comunità. Non fanno prevenzione. Sono colpevoli di un lassismo che fa dilagare la droga. I Sert sono un disastro totale". Il senatore ha poi annunciato che con il sottosegretario Giovanardi saranno assunte "iniziative in Parlamento per fermare le stragi ed evidenziare le colpe di chi non fa nulla". Droghe: con cocaina e alcol al volante ci si sente invulnerabili di Arturo Cocchi
La Repubblica, 29 novembre 2008
Lo si potrebbe definire delirio di onnipotenza, sensazione di immortalità. È l’effetto, in generale, delle sostanze stimolanti-eccitanti, e in particolare della cocaina, che è stata rilevata nell’organismo di Juri Capparelli, il 19enne che era alla guida della Micra, nell’incidente che ieri mattina, a Civitavecchia, è costato la vita a quattro suoi coetanei, e di cui è l’unico sopravvissuto. Ne parla Edoardo Polidori, direttore del Sert, il Servizio per le tossicodipendenze, di Forlì, una grande esperienza di conseguenze di stupefacenti e alcol sulla guida. Tra i giovanissimi e non solo
Dottor Polidori, che cosa accade a chi guida sotto gli effetti della cocaina? "Quello che succede a chiunque assuma un potente stimolante: si è colti da un eccesso di sicurezza, di controllo, accoppiato al sono io che gestisco la velocità, che tengo la macchina. Quindi, sopravvalutazione di sé, e simultaneamente sottovalutazione del pericolo. Ma quel che è peggio è che raramente queste sostanze quasi mai entrano nell’organismo da sole..."
Gli esami sul 19enne di Civitavecchia hanno escluso altre sostanze stupefacenti... "Ma non l’alcol, e difficilmente, in situazioni da sabato notte, chi prende cocaina non ha anche bevuto. E il mix genera nell’organismo una sostanza intermedia, il coca-etilene, che prolunga gli effetti della droga, i cui effetti, normalmente, svaniscono molto prima rispetto all’etanolo (siamo nell’ordine della mezz’ora-due ore, a seconda che la coca venga fumata e iniettata anziché sniffata, contro le diverse ore dell’alcol). Inoltre, si ha una sovrapposizione di effetti, perché l’eccitazione tipica della sostanza stimolante, una volta svanita, lascia la sonnolenza tipica dell’etanolo. Ribadisco, l’effetto dei mix di sostanze è devastante, molto più della somma di quelli delle singole, prese una ad una: per intendersi, se la cocaina ha un effetto pari a uno, e l’alcol anche, uno più uno fa cinque".
Che fare, allora, contro le "stragi del sabato sera"? "Da un lato bisogna sicuramente aumentare i controlli, tuttora relativamente pochi - basta confrontare con altri Paesi europei. Ma vorrei dire una cosa..."
Prego… Io tutti i lunedì faccio parte della commissione patenti in città (certifica l’idoneità alla guida di chi ha usato alcol o sostanze illegali, n.d.r.). Alle persone che esamino chiedo spesso quante volte sono state fermate e quando... In genere accade il venerdì notte, il sabato notte, qualcuno la domenica notte... Poi basta, nel resto della settimana sembra che gli strumenti spariscano".
Che cosa c’è di scorretto? "Beh, noi parliamo tanto di giovanissimi. In realtà le persone che vedo di più in commissione patenti sono sulla trentina... E soprattutto vedo gente che ha le patenti da mezzi di trasporto pesanti, la C, la D, la E... E a tutti loro rivolgo la stessa domanda, ottenendo la stessa risposta: sono stati fermati nel weekend con l’automobile, mai al giovedì mattina con l’autosnodato. Insomma, non c’è solo il mondo dei giovanissimi e delle stragi del sabato sera, ma anche quello degli adulti che bevono o assumono stupefacenti in qualunque momento della settimana, mettendo poi in atto comportamenti a rischio".
Come si può evitare, prevenire tutto questo? "Serve più cultura. Si pensa che prevenzione si possa tradurre banalmente in informazione. Non cosi, è vero che l’informazione deve esserci, ma non basta. Occorre trasmettere una cultura sociale, una cultura di responsabilità nei confronti del rischio, sia tra i giovani che tra gli adulti, sia tra i frequentatori che tra gli organizzatori del mondo della notte".
Esempi? "Si pensi solo al concetto del prendi 2 paghi uno: cosa insegna a un adolescente, se non il concetto che è sempre positivo andare un po’ oltre? Già se fosse impostato come prendi uno paghi mezzo avrebbe tutt’altra valenza. O il lavarsi le mani, il continuare a servire alcolici a chi è già palesemente fuori solo per evitare rogne, per soddisfare il cliente... Intendiamoci, rispetto al passato qualcosa si sta facendo. Si vedono locali che hanno installato all’uscita dei misuratori di test alcolemico".
Bisognerebbe incentivare chi lo fa... "E magari rivedere la politica dei trasporti pubblici notturni. Ma è una sfida anche per noi dei Sert, che dovremmo ripensare la nostra presenza nei luoghi ad alta frequentazione giovanile. Sulle droghe, ad esempio, esistono due estremi, che sono due enormi stupidaggini: l’uno dice che dallo spinello all’eroina è automatico, l’altro dice che farsi una canna non è niente. In mezzo ai due opposti, c’è un universo sconosciuto, su cui occorre sviluppare la conoscenza. Ancora, i genitori hanno sempre in mente l’equazione droga uguale disagio. In realtà l’equivalenza è tra disagio e tossicodipendenza: ma alla droga ci si accosta per provare piacere, i ragazzi morti l’altra notte andavano a divertirsi. Ma soprattutto, bisogna educare alla responsabilità".
Come si può ottenere questo risultato? "Tra i giovani, penso ad esempio alla campagna inglese sul guidatore responsabile: si va in gruppo in discoteca, a turno uno non beve e porta gli altri a casa. Una bella iniziativa. Ma in generale, è il singolo che va educato a non salire in auto con l’amico o con il fidanzato che hanno bevuto. La cultura dominante spinge a dire ma sì, tanto non succede nulla. In un’auto con cinque persone a bordo la responsabilità è di chi guida, ma anche gli altri devono saper tenere le antenne dritte".
Che cosa pensa sull’attendibilità dei test sull’uso di sostanze stupefacenti rispetto alla guida? "C’è la nota controversia per cui gli esami attuali non consentono di appurare se la sostanza sia stata assunta un’ora o una settimana prima dell’incidente: per cui, si può obiettare che se, ad esempio gli effetti di una sniffata di cocaina durano 3 ore, io 5 giorni dopo vengo sorpreso positivo, ormai le conseguenze della sniffata sono svaniti. Però si può anche sostenere che, ad esempio, se io sono un autotrasportatore, preferisco non lasciare un mio camion a una persona che usa droghe, indipendentemente da quando lo faccia... O per tutti si può dire che, in assenza a tutt’oggi, di esami che diano un’indicazione certa sulle conseguenze sulla guida, nel medio e lungo termine, dell’assunzione di droghe, è ragionevole adottare la soluzione più prudente".
E sull’imminente abbassamento della soglia del tasso alcolemico massimo ammesso alla guida, da 0,5 a 0,2 grammi per litro (che qualcuno addirittura dice di abbattere a zero)? "Mi trova favorevole. In assoluto andrebbe portato a zero, diciamo che lo 0,2 è corretto per evitare quel falsi positivi, tipo quello del cioccolatino al liquore. Entrambe le soluzioni ottengono l’effetto positivo di modificare il modo di ragionare: con lo 0,5, si è portati a pensare in termini di quanto posso bere per non essere beccato, con valori più bassi si è costretti a mettersi nell’ordine di idee del meglio che non beva. Torniamo al discorso dell’educazione alla responsabilità". Medio Oriente: Fatah accusa Hamas per morte detenuti a Gaza
Associated Press, 29 novembre 2008
Nei bombardamenti israeliani su due penitenziari a Gaza, al-Mashtal e a-Saraya, hanno trovato la morte decine di militanti di al-Fatah detenuti da Hamas. Lo ha detto all’agenzia di stampa palestinese Maan un portavoce di al-Fatah in Cisgiordania, Ahmed Abdel Rahman. Secondo Abdel Rahman la loro morte avrebbe potuto essere evitata se fossero stati liberati per tempo. Al contrario, secondo al-Fatah, "i miliziani di Hamas hanno tenuto a bada i reclusi di al-Fatah, li hanno minacciati con le armi e li hanno rinchiusi in unico locale", dove poi sono stati colpiti. Abdel Rahman ha anche lanciato un appello affinché Hamas liberi adesso i detenuti di al-Fatah rimasti nelle carceri, essendo ormai evidente che in quegli edifici - che rischiano in ogni momento di essere nuovamente colpiti dalla aviazione israeliana - la loro vita è in pericolo. Un portavoce di Hamas, Fawzi Barhum, ha replicato che negli attacchi israeliani sono rimasti uccisi anche i carcerieri di Hamas. Barhum ha espresso cordoglio per tutte le vittime indistintamente.
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