|
Giustizia: Pd non chiude al dialogo e chiede confronto in aula
Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2008
Chiamato in causa dal premier Silvio Berlusconi ma anche dal segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, il leader del Pd Walter Veltroni tace sulla "grande riforma" della giustizia annunciata per l’autunno dal Pdl, che dovrebbe recuperare le conclusioni della Bicamerale ed essere approvata "nel nome di Giovanni Falcone". Tace Veltroni, che lascia parlare il ministro della Giustizia del Governo ombra, Lanfranco Tenaglia. Poche parole, che però lasciano aperta la porta del dialogo. Ben diverse da quelle - di chiusura - pronunciate dall’Italia dei valori e dal suo leader Antonio Di Pietro. La giustizia è un tema talmente importante che non può essere affrontato "a colpi di continui annunci né ridotto a sterile polemica agostana", taglia corto Tenaglia, rinviando il momento del "confronto a "quando il Governo presenterà un testo"; allora il Pd parlerà, ma nella sede "appropriata", che è il Parlamento. Un altro deputato Pd, Pierluigi Mantini, ci tiene a far sapere che non c’è alcuna subalternità a Di Pietro e che "molti parlamentari del Pd, non solo quelli radicali, sono per entrare nel merito della riforma proposta, superando pregiudiziali e veti", cioè quelli della magistratura associata. Quanto basta per capire che l’opposizione non intende alzare barricate, anche se insiste sulla necessità di indirizzare le riforme verso "la riduzione dei tempi dei processi e la certezza della pena". Nulla sulle critiche espresse da Cascini, contro il quale hanno invece rincarato la dose delle polemiche numerosi esponenti del Pdl, con toni e parole diverse: la presidente della commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno, si limita a ricordare che "Berlusconi ha enunciato un programma e prima di esprimere apprezzamenti così negativi su una riforma che non c’è bisognerebbe leggerla"; il presidente dei senatori Pdl, Maurizio Gasparri, dopo aver assicurato che "la riforma si farà, per garantire la certezza della pena e la separazione delle carriere", dice che "il Parlamento non sarà condizionato da pochi militanti di parte travestiti da magistrati"; l’onorevole-avvocato Niccolò Ghedini, definisce "al di fuori della realtà" le dichiarazioni di Cascini perché prospettano, "in modo diffamatorio, la presentazione di una riforma di stampo fascista" laddove ancora "non esiste un testo"; infine, il capogruppo Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto, assicura che la riforma annunciata dal premier "serve ad andare incontro alle esigenze dei cittadini, a superare l’evidente politicizzazione della magistratura e a far sì che non si ripeta più quel che è successo in passato". Poi aggiunge: "Ogni qualvolta si parla di riforma della giustizia, c’è un pezzo della magistratura che si fa prendere da una crisi di nervi". Ma per Di Pietro sono chiacchiere. Berlusconi, sostiene, non vuole riformare la giustizia ma limitare l’indipendenza della magistratura. Tutto il contrario di quel che voleva Falcone del quale, prosegue Di Pietro, il premier si fa scudo "per giustificare riforme che sono in realtà controriforme per non far funzionare la giustizia, altrimenti ci andrebbe di mezzo pure lui. Berlusconi non è degno di nominare Falcone", conclude Di Pietro, contro il quale ha sparato a zero Claudio Martelli, ex guardasigilli del Governo Craxi che portò il giudice antimafia a Via Arenula come Direttore degli Affari penali: "Falcone era indignato dai metodi investigativi di Di Pietro", ha detto, subito rintuzzato dal leader dell’Idv che ha rivendicato la stretta collaborazione di Falcone all’indagine Mani pulite. Intanto al ministero della Giustizia si continua a lavorare alle riforme da presentare in autunno: oltre alle modifiche della Costituzione su Csm, azione penale e carriere dei magistrati, anche i Ddl sul processo penale e civile, sui quali il Governo intende recepire proposte del Pd. Giustizia: Anm; a sinistra c'è chi non vuole giudici indipendenti di Mattia Feltri
La Stampa, 23 agosto 2008
La notizia, non del tutto inattesa, è che l’Associazione Nazionale dei Magistrati ce l’ha con la sinistra. Il segretario del sindacato unico, Giuseppe Cascini, giovedì ha sfiorato l’accusa di neofascismo al governo di Silvio Berlusconi, e ha parlato con franchezza di "modello autoritario", quello cui si punterebbe con la riforma della giustizia. La storia degli ultimi tre lustri insegna che gli attriti fra il potere giudiziario e quello esecutivo sono prassi, e specialmente se il potere esecutivo è detenuto dalla destra; nel caso, liberi tutti: non c’è appellativo negato a una parte e all’altra. La rissa è scontata, e infatti ha eccitato parzialmente la politica e i commentatori. Il sugo della filippica di Cascini sta altrove: "Nella sinistra c’è chi, in malafede, non vuole giudici indipendenti. Noi non conosciamo l’opinione della sinistra, quantomeno delle forze maggiori, del Pd, su quanto sta annunciando il governo". Un’offensiva di rara cattiveria, e il Pd pare averla subita. Il ministro ombra della Giustizia, Lanfranco Tenaglia, si è messo a dibattere su un tema fumoso, il richiamo di Berlusconi a Giovanni Falcone. Il capo dei senatori democratici, Anna Finocchiaro, come al solito concreta, ha capito perfettamente dove si andava a parare, e si è chiesta per quale ragione il premier insistesse a dichiarare il Pd suddito dei giustizialisti "proprio mentre Veltroni e il Pd sono oggetto di polemica con l’accusa di eccesso di dialogo". Il punto infatti è questo: il Pdl vuole riformare la giustizia, il Pd vuole ragionarci sopra e l’Anm (con Antonio Di Pietro) vuole bloccare tutto. Qualcuno ha già ricordato la Bicamerale di oltre dieci anni fa, voluta da Massimo D’Alema e in accordo con Berlusconi per mettere mano alla giustizia. Se ne occupò il verde Marco Boato e individuò tre passaggi fondamentali: la separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e magistrati dell’accusa, la ristrutturazione del Consiglio superiore della magistratura con l’introduzione di più membri di nomina politica e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Guarda caso, le tre modifiche che ripropone oggi l’esecutivo. Le ragioni del fallimento della Bicamerale sono ancora oggetto di studio. Di certo pesò l’ostilità del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Pesò la rivolta di alcuni pensatori (Indro Montanelli, Alessandro Galante Garrone, Gianni Vattimo, Giorgio Bocca, Antonio Tabucchi, Francesco De Gregori, tutto il gruppo MicroMega, i girotondini in pectore). Pesò di sicuro una terribile intervista di Gherardo Colombo - allora pm a Milano - che definì la Bicamerale figlia del ricatto: "Nel metabolismo politico-sociale del Paese ci sono ancora le tossine che consigliano di realizzare le nuove regole non intorno al conflitto trasparente, ma al compromesso opaco. E un passaggio chiave è la Bicamerale... Chi non è stato toccato dalla magistratura ha scheletri nell’armadio e si sente non protetto, debole perché ricattabile. La società del ricatto trova la sua forza, appunto, su ciò che non è stato scoperto". Chi non era stato toccato dalla magistratura? Facile: il Pds. Non certo Berlusconi, che aveva sulla groppa una ventina di indagini. Tutto andò a rotoli. La sinistra schivò i processi, ma non quelli di piazza, visto che Massimo D’Alema ne subì uno celebre e amaro a Firenze, celebrato da Paul Ginsborg con l’imputazione di aver tramato col gran nemico di Arcore. Insomma, con Cascini siamo da capo, sebbene le truppe della società civile e arrabbiata si siano ridotte. La guerra della magistratura è intestina visto che Berlusconi ha sempre tirato dritto, e a maggior ragione lo farà stavolta con la protezione del Lodo Alfano. L’obiettivo è denunciare il Pd per malafede, ignavia e intelligenza col nemico. Seguendo la dottrina Colombo, prefigurare dissesti e castighi: la Tangentopoli abruzzese, ha detto Cascini, "è più grave della precedente Tangentopoli". E se il Pd si sfila, la riforma di Berlusconi è più facile chiamarla eversione. Giustizia: Ghedini; due Csm e il Pm non dipenda dal governo di Liana Milella
La Repubblica, 23 agosto 2008
Subito le modifiche al processo civile. Poi la riforma costituzionale per dar vita a due Csm, uno per i pm, l’altro per i giudici. E poi, come ovvia conseguenza, il riassetto delle carriere secondo lo schema che fu caro all’ex Guardasigilli Castelli (concorsi separati e quindi carriere separate). Anche se veleggia in barca in quel della Sardegna Niccolò Ghedini, avvocato del premier e suo consigliere per la giustizia, non smentisce la fama di giurista instancabile. Lavora alla "grande riforma" ed è pronto anche a "correggere" Berlusconi, tant’è che difende l’obbligatorietà dell’azione penale ("È un valore che dà certezze") e contrasta l’idea di un pm sotto l’esecutivo ("Sarà bello in Francia e in Inghilterra ma in Italia non mi piace").
Il Cavaliere annuncia un autunno caldo per le toghe. Solo propaganda o c’è qualcosa di concreto? "L’autunno sarà caldo per i parlamentari, ma non per i giudici. Ci saranno soluzioni positive per chi ha voglia di lavorare e garantire una giustizia effettiva, non certo per quelli che vogliono fare politica".
Polemico con l’Anm e con Cascini? Ma loro difendono la Costituzione. "La Carta è stata modificata nel ‘93 per l’immunità, nel ‘99 in modo bipartisan per il giusto processo, nel 2001 dal centrosinistra sul federalismo. Metterci mano non è un attentato, ma una discussione alta nel Paese. La politica è tenuta ad adeguarla a seconda del momento storico. Quando l’Anm, senza conoscere i progetti della maggioranza, evoca il fascismo compie un atto gravissimo e fa un cattivo servizio al Paese. La loro è un’invettiva preconcetta".
Le modifiche devono per forza piacere ai magistrati? "La critica, anche aspra, è legittima e costruttiva, ma parlare di fascismo è diffamatorio. Se un magistrato esterna contro il premier deve pesare le parole. Berlusconi ha ripetuto quanto c’è nel programma votato dalla maggioranza degli italiani. Il problema è che l’Anm e Cascini non accettano l’esito delle urne".
Berlusconi, sulla giustizia, parla sempre per slogan. Stavolta usa pure Falcone. Esiste già una bozza della riforma? "Un testo scritto non c’è. Alfano lavora e si confronterà con giudici, avvocati ed opposizione prima di scrivere quello definitivo e puntare a una riforma condivisa. È il metodo più rispettoso, ben lontano dalle accuse infondate mosse dall’Anm".
Che protestano perché volete separare le carriere, citando Falcone come copertura. "Quel giudice che ora tutti mitizzano è stato massacrato dai colleghi. Berlusconi ha fatto bene a ricordarne le posizioni, perché lui, come altri, non riteneva un tabù separare le carriere. Ora bisogna solo capire come fare una riforma costituzionale per il Csm e per l’ordinamento giudiziario".
E poi non ha ragione Cascini a parlare di rischio fascismo? "Se ne discuterà senza forzature per trovare il miglior assetto che garantisca i cittadini e l’indipendenza dei giudici. Non c’è una lotta contro di loro".
Ma davvero? "Sono le toghe che lottano contro Berlusconi e non sopportano la sua leadership".
In un modifica radicale del Csm non c’è nulla contro i giudici? "Assolutamente no".
Si fa fatica a crederci. "Non c’è alcuna volontà di attacco. Se si preserva l’indipendenza, non c’è alcun problema anche con due Csm".
Il pm finirà sotto l’esecutivo. "Farò tutto quello che posso per garantire l’indipendenza della magistratura perché punto a una riforma che regga nel lungo periodo. I pm dovranno essere rigorosamente indipendenti perché il pm sotto l’esecutivo sarà bello in Francia, in Inghilterra e negli States, ma in Italia non mi piace".
Berlusconi non vuole il contrario? "Se il pm è sottoposto al governo ci può essere il rischio che la politica intacchi una funzione importantissima per la repressione dei reati".
Obbligatorietà. Berlusconi vuole eliminarla, ma l’aennina Bongiorno è contraria. E lei? "È tuttora un valore che consente di avere certezze. L’obiettivo di Berlusconi, evitare che i pm perseguano i reati che vogliono e non quelli che devono, si può ottenere con una profonda depenalizzazione. Va in carcere solo chi commette delitti gravi e che destano allarme sociale. I magistrati non avranno più alibi per scegliere i processi fior da fiore". Giustizia: Pisapia; sì a separazione di carriere tra pm e giudici di Stefano Zurlo
Il Giornale, 23 agosto 2008
L’allarme fascismo? "Non lo condivido. È assolutamente infondato e ingiustificato, basti ricordare che proprio sotto il fascismo per pm e giudici vi era l’unicità della carriera. E allora meglio non parlare per slogan. Non solo: vi sono norme costituzionali che nessuno ha mai chiesto di modificare che garantiscono l’autonomia e l’indipendenza del singolo giudice e dell’intera magistratura". Giuliano Pisapia, penalista, presidente della commissione voluta dal governo Prodi per riscrivere il Codice penale, si schiera da sinistra sulle controverse riforme della giustizia: "La separazione delle carriere non consegnerà il pm al governo, ma ci aiuterà sulla strada che porta a un giudice effettivamente terzo e all’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Ma prima di entrare nel merito, devo fare una premessa".
Quale? "È giusto che il Parlamento ascolti tutte le parti in causa, ci mancherebbe. Ma poi le riforme le devono fare le Camere".
I giudici puntano il dito contro le leggi antimagistratura. "Le leggi non sono né contro né a favore di qualcuno. Vanno fatte per il bene del Paese".
L’Associazione nazionale magistrati indica come prioritarie le leggi per aumentare l’efficienza della macchina giudiziaria, molti politici, invece, mettono al primo posto le riforme costituzionali. Lei da che parte sta? "Per me debbono andare di pari passo. C’è un nodo importante che, se sciolto, può darci efficienza ma senza arretrare sulle garanzie: è quello dell’obbligatorietà dell’azione penale".
Appunto: oggi di fatto non siamo alla discrezionalità? "Certo. E infatti molti vogliono abolire o limitare l’obbligatorietà".
Lei non è d’accordo? "No. Perché in questo modo finiremmo col metterci nelle mani dei pm e delle loro scelte discrezionali, aumentando così il potere dell’accusa non solo verso la difesa ma anche nei confronti del giudice: si violerebbe il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Non va bene".
Dunque? "Dunque, torna d’attualità il lavoro che la commissione da me presieduta, e altre in precedenza, ha svolto per riscrivere il Codice penale. Occorre avere il coraggio di ridurre, sfoltire, dipanare l’enorme matassa dei reati. Dobbiamo depenalizzare e allargare il campo delle sanzioni amministrative".
Così il pm si occuperebbe solo dei fatti di una certa gravità? "Certo. E non si trascinerebbe dietro una valanga di procedimenti di scarsa o scarsissima rilevanza. Inoltre si dovrebbe puntare su strumenti deflattivi che hanno già dato buona prova in Italia e all’estero".
A cosa si riferisce? "Per esémpio alla non punibilità per irrilevanza del fatto e particolare tenuità del danno; alla messa in prova anche per i maggiorenni e alla non punibilità in caso di risarcimento del danno, ovviamente per i reati minori. Così avremmo molta più efficienza e processi più veloci. ma senza consegnarci ai pm. Poi però c’è un’altra riforma decisiva: la separazione delle carriere".
Berlusconi l’ha rilanciata, provocando le ire dell’Anm. "Non capisco. La separazione delle carriere è prevista in molti Paesi, scritta nelle convenzioni internazionali ratificate anche dall’Italia, è un fatto di civiltà che chiunque non può non condividere. È arrivato il momento di dividere: di qua i pm, di là i giudici".
È davvero necessario questo passaggio? "Sì, perché altrimenti il giudice non sarà mai terzo fra pm e avvocato, fra accusa e difesa, il giudice non può essere sullo stesso piano del pm, che è una parte. Il giudice, e questo è un principio fondamentale, deve essere e apparire al di sopra delle parti, come ribadito recentemente dallo stesso presidente dell’Anm".
L’Anm teme il ritorno del fascismo. "L’ho già spiegato, le riforme si fanno pensando ai cittadini e tenendo conto di tutte le voci. Ma senza subire condizionamenti".
Da sempre si dice che la separazione delle carriere è il primo passo per portare il pm sotto l’esecutivo e farne un docile funzionario. Non c’è questo rischio? "Assolutamente no. Tutte le proposte che arrivano in questo senso, a partire da quella delle Camere penali, lo escludono esplicitamente. Il pm può essere sganciato dal giudice, ma mantenere tranquillamente la sua autonomia e la sua indipendenza. Sarei il primo a contrastare un disegno del genere".
Lei è stato deputato indipendente di Rifondazione, ma una buona parte della sinistra è contraria a questa possibilità e evoca addirittura il fantasma di Licio Gelli. "Ma no, Gelli non c’entra niente. O meglio, ha scopiazzato proposte e idee che provenivano dalla dottrina più autorevole. Piuttosto la sinistra si rilegga i Costituenti".
I Costituenti? "Sì, molti padri della patria e in particolare importanti giuristi di sinistra erano a favore della separazione delle carriere; poi è andata in un altro modo ma dobbiamo assolutamente rafforzare la terzietà del giudice. Comunque, faccio una proposta".
Quale? "Dobbiamo immaginare una conferenza nazionale della giustizia in cui i deputati e i senatori ascolteranno tutte le campane: avvocati, giudici, operatori. Poi una sessione parlamentare dedicata alla giustizia. Sarà il momento per modernizzare il Paese su questo versante". Giustizia: il 41 bis e il contro-senso della "prova negativa" di Vittorio Grevi (Docente di diritto penale a Pavia)
Corriere della Sera, 23 agosto 2008
Sebbene il ministro Alfano non ne abbia riparlato in questi giorni, a proposito delle iniziative in cantiere sui temi della giustizia, ha suscitato sconcerto la notizia che, durante gli ultimi mesi, numerosi detenuti per gravi delitti di criminalità mafiosa (molti già condannati all’ergastolo in via definitiva) hanno ottenuto dai competenti tribunali di sorveglianza la revoca del provvedimento ministeriale che li sottoponeva al regime di rigore previsto dall’articolo 41 bis della legge penitenziaria. Si tratta di una situazione, registratasi un po' in tutta Italia (ma specialmente a Torino, Roma e Perugia), di fronte alla quale molti si sono giustamente preoccupati, pur al di là della naturale indignazione suscitata nei familiari delle vittime della mafia e di altre organizzazioni similari. Anche perché non è la prima volta che un fenomeno del genere si verifica, dopo che nel dicembre 2002 è stata modificata e resa stabile all’interno del sistema penitenziario (in netta antitesi rispetto alle istanze del famoso "papello" di Totò Riina) la disciplina del suddetto regime di trattamento differenziato per i detenuti più pericolosi. Contrariamente a ciò che molti pensano, il regime descritto dall’articolo 41 bis non è di per sé diretto ad introdurre elementi di (maggiore) afflittività nella ordinaria vita carceraria dei detenuti che ne sono destinatari: ciò che sarebbe irragionevolmente discriminatorio, e quindi incompatibile con il quadro costituzionale. Esso, invece, mira essenzialmente ad impedire che, dal carcere, tali detenuti mantengano "collegamenti" con le "associazioni criminali, terroristiche od eversive" di provenienza. E, alla scopo, autorizza il ministro della Giustizia ad adottare a carico dei medesimi detenuti specifici provvedimenti limitativi o sospensivi di alcune regole relative al trattamento penitenziario, sul presupposto che si tratti di "restrizioni necessarie" per fronteggiare la permanente pericolosità degli stessi soggetti nei loro rapporti con l’esterno. Poiché, tuttavia, tali provvedimenti possono durare al massimo due anni - salva la loro prorogabilità di anno in anno - è proprio in questo momento che sorgono i maggiori problemi, potendo il ministro procedere alla proroga, sempre che "non risulti" venuta meno la "capacità" del detenuto dì "mantenere contatti" con le suddette organizzazioni criminali. Di qui, dunque, un delicato quesito circa la portata di quest’ultimo presupposto, sul quale si sono spesso registrate divergenti interpretazioni da parte dei diversi tribunali di sorveglianza. In realtà la lettera della legge non dovrebbe prestarsi a troppe incertezze, se è vero che la proroga del provvedimento ministeriale restrittivo è sempre consentita (nella permanenza, beninteso, delle situazioni di pericolosità che lo avevano all’origine giustificato), salvo che non si accerti la sopravvenuta cessazione della "capacità" del detenuto di intrattenere collegamenti di natura criminosa. Questo non significa (come ha precisato con chiarezza la Corte Costituzionale) che sussista in capo al detenuto uno specifico onere di fornire la relativa prova. Sennonché, ove una simile prova non venisse acquisita, non si potrebbe certo desumerla dalla circostanza che, durante il periodo di sottoposizione al regime previsto dall’articolo 41 bis, il detenuto avesse in concreto interrotto i contatti con le organizzazioni criminali esterne. Sarebbe, infatti, un vero "controsenso" far discendere dalla riconosciuta efficacia dei risultati in tal modo ottenuti il venir meno delle ragioni idonee a giustificare la proroga del regime carcerario di rigore. Così ha stabilito in varie occasioni la Corte di cassazione, anche se non manca un diverso indirizzo giurisprudenziale, tra l’altro condiviso da molti tribunali di sorveglianza: nel senso, cioè, di esigere - ai fini della suddetta proroga - la prova positiva dell’attualità dei "collegamenti" del detenuto con le organizzazioni criminali di appartenenza (quasi che, in sostanza, tale proroga potesse venire disposta soltanto nel caso di accertato "fallimento" delle finalità proprie di quel regime). Ad evitare queste ed altre incongruenze, che certo non giovano alla certezza del diritto, è probabilmente necessario qualche piccolo intervento legislativo. Al riguardo, sono stati già depositati appositi disegni di legge da parte dei senatori Vizzini e Gasparri, nonché, per conto dell’opposizione, dal "ministro ombra" Tenaglia e dal senatore Lumia, mentre si attende ancora il preannunciato progetto del ministro Alfano. Tutte iniziative apprezzabili, salve le necessarie calibrature, che dovrebbero trovare le diverse forze politiche unite nel comune obiettivo di contrastare (senza inutili angherie, ma anche senza indebiti lassismi) la permanente pericolosità sociale dei detenuti per delitti della peggiore criminalità organizzata. Giustizia: Osapp; emergenza aggressioni, sicurezza a rischio
Apcom, 23 agosto 2008
L’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, ha scritto una lettera al presidente del consiglio Silvio Berlusconi denunciando una situazione di mancanza di sicurezza per gli agenti che lavorano nelle carceri italiani tale da configurare una "emergenza aggressioni". Il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, alla luce degli ultimi casi di aggressione avvenuti a Secondigliano, ha così indirizzato oggi una lettera al presidente del Consiglio per denunciare la grave situazione e sollecitare una modifica del codice penale. "Si commentano i dati e ci si affanna su quella che è la prospettiva di una Riforma della Giustizia tanto discussa, ma non si tengono nel giusto conto gli sviluppi che una vicenda come quella del sovraffollamento determina, non solo sul disagio del detenuto, ma soprattutto per quanto riguarda la sicurezza del personale di polizia penitenziaria impiegato nei turni di servizio", sottolinea Beneduci. "Le condizioni di promiscuità - si legge nella lettera - e la mancanza d’interventi concreti da parte dell’amministrazione penitenziaria, che trascura le circostanziate segnalazioni e denunce di quest’organizzazione sindacale, hanno, di fatto, agevolato il fenomeno delle aggressioni". "Da tempo memorabile - continua Beneduci nella nota - abbiamo infruttuosamente segnalato la necessità di concrete ed adeguate misure d’intervento per la tutela dell’ordine e della sicurezza in ambito penitenziario, nella prospettiva di un riconoscimento dei diritti ed un’esigibilità dei doveri di comportamento da parte dei detenuti". "Un’efficace separazione tra detenuti non si attua da tempo, e si trascurano i trascorsi delinquenziali degli extracomunitari che, spesso - rivela l’Osapp -, sono dei criminali di guerra o mafiosi dell’Est che si mimetizzano tra la popolazione detenuta comune". "È di stamattina, infatti, la notizia che la camorra napoletana avrebbe assoldato come killer l’assassino del premier serbo e questo conferma la fondatezza delle preoccupazioni espresse da quest’organizzazione rispetto alla concentrazione di detenuti stranieri nei reparti a media sicurezza. Oltretutto stimiamo che dei 42mila agenti di polizia penitenziaria, solo il 50% è impiegato in attività a diretto contatto con il detenuto". "Ciò significa - prosegue Beneduci - quindi, 21.000 agenti, che divisi per 4 o 5 turni giornalieri devono badare a 55.250 persone in stato di detenzione. Un rapporto di 1 agente ogni 10 detenuti, o peggio di 1 a 100 nelle ore notturne, quando l’attività di sorveglianza viene ridotta". "Questa è l’ennesima realtà che denunciamo - conclude Beneduci - rispetto la quale, come organizzazione autorevole, invitiamo ad adottare soluzioni efficaci, mediante l’introduzione di norme finalizzate ad ampliare e migliorare gli strumenti di prevenzione del fenomeno delle aggressioni, prevedendo nel nostro sistema penale, al pari di quanto è avvenuto per la violenza negli stadi, il reato di lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale impiegato nei servizi di tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari". Giustizia: www.ildue.it, dal 1999 un sito che racconta il carcere
Vita, 23 agosto 2008
Ad Emilia Patruno sono bastati un numero e un mouse per evadere. La grande fuga è datata 1999. Quell’anno nello sterminato world wide web compare un dominio destinato a lasciare il segno. Si chiama Il Due (il numero del civico di piazza Filangieri, sede di San Vittore) ed è la prima testata carceraria a comparire on-line, e dunque consultabile a colpi di mouse: www.ildue.it. Una rivoluzione. Da quel momento, le notizie da dietro le sbarre cominciano a fuggire all’esterno senza passare dal setaccio dell’amministrazione penitenziaria. "Il nostro esempio, poi", ricorda la Patruno, "è stato egregiamente seguito dal gruppo di Ristretti Orizzonti". La scintilla è scoppiata un giorno di 20 anni fa. Già allora giornalista a Famiglia Cristiana, Emilia Patruno inciampa nel carcere quasi per caso. "Il giornale mi aveva mandato a seguire un convegno a San Vittore e a un certo punto mi avvicina un tizio. "Tu sei una giornalista", mi fa. "Sì", gli rispondo. "Allora ci puoi dare una mano"". Del nome del "tizio" non c’è traccia nei ricordi, ma la Patruno il cognome se lo ricorda bene. "Era il detenuto Mamone", il suo primo caporedattore, "anche se poi è andato a finire di scontare la pena negli Stati Uniti". La testata si chiamava Magazine 2 e nasceva sulle ceneri del vecchio Giornale di San Vittore. "Certo, prendevo le persone che mi segnalava la direzione, ma prima di allora non si era mai vista una pubblicazione penitenziaria che fosse diretta da un giornalista". Esterno all’amministrazione era anche l’editore, la Sesta Opera San Fedele. Il rapporto con l’associazione però durò appena un paio di anni. "Avevano una mentalità troppo antiquata". Meglio mettersi in proprio, allora. Quaranta pagine ben fatte, uscita mensile, 1.400 abbonati, un’impaginazione d’autore (ad occuparsene era lo scultore Gianfranco Pardi, marito di Emilia) e foto di qualità (la firma è quella di Roby Schirer) per un budget complessivo di 200mila lire al mese. "Poca roba, che mettevo di tasca mia". Il problema di fondo però rimaneva: "Noi dovevamo parlare alla società, non a quelli, come me, che si fanno le pippe sul carcere. Anche perché chi sostiene che di carcere non ne parla nessuno, dice una balla: se ne parla dalla sera alla mattina!". Lo schema è chiaro: "Agli estremi ci sono quelli che i detenuti li vogliono vedere morti e chi, dall’altra parte, è pronto a inginocchiarsi di fronte a una cella. In mezzo però c’è tanta gente che con le giuste informazioni è pronta a rivedere i propri pregiudizi". Il Due.it spara proprio in questa direzione. Con 140 accessi quotidiani "oggi finalmente siamo un giornale che conta e rompe le palle". Dietro il sito pulsa il cuore di una onlus. "Sì", conferma la Patruno, "dal 2003 ci siamo costituiti in associazione e onlus". Alla nuova veste giuridica ha corrisposto una esponenziale dilatazione delle attività. "Io mi rivolgo alla casalinga di Voghera". Per questo oltre a un database di notizia di settore, a fianco del Due.it sono nati, fra gli altri, Criminal mouse, il super premiato gioco dell’oca in the jail, una catena di libri fra cui spicca Avanzi di galera, ricettario dal carcere che a suo tempo fu un vero e proprio "caso" nel mondo dell’enogastronomia che destò l’ammirazione di Umberto Eco, e soprattutto Belli dentro, la sit-com scanzonata in tipico stile Mediaset che ha portato il carcere nelle case di tutti gli italiani. Ideatrice di quelle striscia è stata, naturalmente, Emilia Patruno. Non pochi fra i colleghi volontari deglutirono a fatica l’iniziativa. "La mamma che va in Alaska per non dire alla figlia che è in galera, è certo una situazione esagerata, ma io ne ho conosciute tante di persone che fingevano improbabili trasferte di lavoro mentre stavano dietro una cella. Quella serie, con i suoi personaggi fissi rappresentati sempre sulla stessa scena, finisce per creare un meccanismo di affettività fra lo spettatore e i detenuti che, in fin dei conti, è quello che vado cercando con il mio lavoro". Ma come tira avanti Due.it, su cui qualche tempo fa ha messo gli occhi perfino il Washington Post? "I 500 euro per l’acquisto del dominio li ho messi io, da tre anni poi facciamo il 5 per mille, anche se sino ad ora non ci è arrivato un centesimo, ultimamente poi abbiamo ottenuto un finanziamento dalla Fondazione Cariplo per il progetto Al Cappone (vedi sito www.alcappone.it), per il resto le nostre attività sono praticamente a costo zero". L’equilibrio di bilancio però non tranquillizza la giornalista: "L’on line è una frontiera ancora tutta da conoscere". L’ultimo approdo è un blog. Si chiama Blindo a Blindo. "Nel carcere da anni ci passo tre giorni a settimana, siamo tutti blindati, ma non riesco a immaginare un posto dove la mia fantasia possa essere più libera". Caltanissetta: detenuto tenta il suicidio nel carcere Malaspina
La Sicilia, 23 agosto 2008
Una delle cinque persone arrestate lo scorso 8 luglio dalla Squadra Mobile nell’ambito dell’operazione Incipit ha tentato il suicidio in carcere. La notizia è circolata ieri ma nulla è trapelato oltre le mura del "Malaspina" quando si è cercato di saperne di più. Impossibile conoscere, soprattutto, il nome dell’aspirante suicida. Le uniche notizie certe sono che il tentativo di suicidio è stato scongiurato grazie all’immediato intervento degli agenti di Polizia penitenziaria, e che la persona che ha provato a mettere fine ai suoi giorni in un particolare momento di sconforto sta già meglio e non corre alcun pericolo. Una informativa sull’episodio è stata già inoltrata alla Procura della Repubblica. La retata antiestorsione dello scorso 8 luglio ha portato in carcere il presunto reggente della cosca nissena, Gaetano Termini (ex impiegato comunale, che avrebbe assunto il comando dell’organizzazione dopo l’arresto di Angelo Palermo, tenendo i contatti con esponenti di primissimo piano di altre province), Pietro Riggio (43 anni, ex agente della Polizia penitenziaria, coinvolto in tre inchieste antimafia dal 1998 ad oggi e che era tornato in libertà nel marzo scorso), l’incensurato Francesco Cantella (50 anni, ufficialmente ambulanziere e presunto esattore del racket), Francesco Ercole Iacona (49 anni, titolare di un esercizio commerciale) e Giuseppe Vincitore (36 anni, disoccupato). Mentre a Gaetano Termini viene contestata l’associazione mafiosa, agli altri quattro indagati vengono ascritte otto estorsioni (tra tentate e consumate) nei confronti di operatori economici e commercianti nisseni messe in atto nel periodo compreso tra il 2002 e il 2004 con importi disparati: da somme "una tantum" di 1.500 euro, all’1,5% di tangente imposta a imprenditori che eseguivano lavori pubblici. Otto giorni dopo, con l’Operazione Incipit, vennero eseguite altri 7 arresti. Varese: presidio davanti al carcere per l’Imam già trasferito
Varese News, 23 agosto 2008
La preghiera del venerdì alla moschea di via Giusti c’è stata anche senza l’imam Abdelmajid Zergout. "La predica la farà uno di noi. L’importante è conoscere il corano", dice un anziano sulla porta della moschea. C’è molta gente, nonostante sia periodo di vacanze. Molti bambini e donne. Nessuno però vuole parlare di Zergout e della sua vicenda giudiziaria. "La comunità gli è vicina, come lo è stata in tutti questi anni. Abbiamo garantito il sostentamento a lui e alla sua famiglia. Lo avremmo fatto per qualsiasi fratello", dice Franco Sulayman La Spina, responsabile dell’associazione islamica di Sesto Calende. Fuori dalla moschea si sente la voce del predicatore che pronuncia con forza il nome di Zergout. Ma nella preghiera di oggi si è badato alla concretezza. La moschea di via Giusti ha l’affitto di tre mesi in scadenza e "l’imam provvisorio" ha ricordato che servono 5500 euro a breve. Stesso discorso per la bolletta della luce, altri 500 euro. Un gruppo di ragazzi, dopo una discussione con gli anziani, appende uno striscione al cancello della moschea. "Liberate il nostro caro imam. Basta con l’ingiustizia". "Provate voi a vivere controllato ogni momento. Mentre sei con la tua famiglia, mentre abbracci un amico o i tuoi figli, mentre fai la spesa. Lui è un uomo buono, un padre di famiglia esemplare. Comprava sempre le caramelle ai bambini. Da quando non c’è si è spenta la luce della moschea", dice il giovane autore dello striscione. Finita la preghiera la gente si saluta e un piccolo gruppo si dà appuntamento nel primo pomeriggio davanti al carcere dei Miogni per far sentire la loro presenza all’Imam. Hanno avvertito la Digos che vanno a titolo personale, ma non sanno ancora che Zergout non è più a Varese. "A noi interessa che a lui arrivi il nostro messaggio di solidarietà - dice Franco La Spina - gli serve perché ha ceduto psicologicamente altrimenti non si spiega la scelta di accettare l’estradizione. Non dimentichiamo che in Marocco c’è un regime illiberale e che lui lì rischia molto". Tre striscioni vengono appesi di fronte al carcere. Il più grande recita: "Fratello Abou al Barà (è il nome religioso di Zergout ndr) la tua famiglia e la comunità hanno bisogno di te qui. Pazienta di una pazienza bella". Milano: la vergogna di quelle scritte sul muro di San Vittore di Carlo Lovati
Corriere della Sera, 23 agosto 2008
La rabbia sta tutta lì. La rabbia di chi è fuori e ha qualcuno dentro. Anche di chi lì dentro non vorrebbe proprio mai nessuno. Per scelta esistenziale, per motivazione politica. La rabbia e l’odio stanno lì su quel muro. Dove lo Stato e la città hanno accettato di farsi insultare, di farsi offendere, di farsi umiliare e pure di farsi minacciare. Lì sul muro delle carceri, lì sul muro di San Vittore verso Porta Vercellina. Lì con tutte quelle scritte, che sono mesi e mesi che ci stanno e che nessuno pare aver voglia di cancellarle. Fuoco alle carceri, si può leggere. E ancora morte ai carcerieri. E naturalmente polizia infame e naturalmente sbirri infami. Con la garitta più volte bersagliata che sta là in cima, con l’agente penitenziario che pigramente va avanti e indietro nel suo monotono dovere. Le scritte fatte magari di notte in tutta fretta o magari di giorno in assoluta calma durante questa o quella manifestazione. I soliti slogan, le solite bandiere, gli spray di sempre. Fuori i compagni si può leggere. Con i nomi qua e là di qualcuno finito dietro le sbarre. E poi quel gigantesco liberi tutti liberi subito che non vuole essere un gioco da bambini. Nero su bianco, ecco la strategia da seguire per raggiungere quell’obiettivo così evidente: quel dentro nessuno, solo macerie. Lì sul muro della prigione, lì su quel pezzo di Stato, lì in quell’angolo di Milano che è sotto gli occhi di tutti. E allora, apriamo le porte del carcere minaccia quella vernice, rompiamo le gabbie auspica quella grafia cattiva, fuoco alle galere urla a tinte forti quella mano ribelle. Le auto che sfrecciano veloci, i passanti che da quelle parti sono quattro gatti. Quel muro che però è di tutti. Che è una vergogna vera per il Paese e per la città intera. Ci sta scritto tutti fuori, ci sta scritto solo evasioni. Con la beffa che si va ad aggiungere al danno. Perché alla faccia delle istituzioni che permettono tutto ciò, che si lasciano insultare, che si lasciano offendere, che si lasciano umiliare e pure minacciare, ecco quello stop alla repressione, ecco che violento è soprattutto lo stato, ecco che devastatore e saccheggiatore è solo lo stato. Ed ecco ancora quella scritta gigantesca, quel liberi tutti liberi subito che non è un gioco da bambini. Che è rabbia vera. Da cancellare. Bologna: Franzoni; disposta a tutto per tornare dai miei figli
www.cronacaqui.it, 23 agosto 2008
Voglio vedere i miei due figli, ma li voglio vedere lontano da qui, fuori dal carcere, in un posto che non sia opprimente e triste, dannoso per la loro crescita. E, per farlo, è pure disposta a sottoporsi a una perizia psichiatrica. È questa la richiesta di Annamaria Franzoni, in galera dal 21 maggio per l’omicidio del figlio Samuele di poco più di tre anni, nel gennaio del 2002 a Cogne. L’istanza è stata presentata dall’avvocato Paola Savio, che difende la Franzoni insieme con i colleghi Carlo Federico Grosso e Paolo Chicco. Sarà il giudice del tribunale di sorveglianza di Bologna, Riccardo Rossi, a decidere se concedere ad Annamaria questo beneficio, previsto dal codice per qualsiasi detenuto, come premio della buona condotta. Nel carcere bolognese della Dozza c’è un piccolo parco giochi, con qualche giostra. Come quelli che si vedono in tanti parchi delle periferie di una qualsiasi città italiana. Un piccolo parco giochi che induce tristezza e malinconia. E poi? Nient’altro. Nemmeno una ludoteca, neppure uno spazio attrezzato o una piccola saletta, con divani e sedioline a misura di bimbo. Se il tempo lo permette, si può stare fuori, all’aperto. Quando piove oppure se fa freddo, invece, bisogna stare dentro, dietro sbarre e cancelli. E gli abbracci con i figli Gioele, 5 anni, e Davide, 13, diventano mesti, pieni di angoscia. Abbracci che non li aiutano e che, anzi, aumentano in loro l’ansia di separazione dalla madre. Sono questi i motivi che hanno spinto Annamaria Franzoni a chiedere di poter usufruire di "un ampliamento degli spazi di visita". Un giro di parole dal sapore "burocratico" che significa vederli fuori dal carcere, lontano da sbarre alle finestre e cancelli. Dove? Magari nella casa dei genitori a Ripoli Santa Cristina, nel bolognese. Oppure in quella dei nonni a Monte Acuto, sempre nella stessa zona. O magari nel loro agriturismo sull’appennino emiliano. Ovunque, ma non nel carcere della Dozza, dove gli abbracci diventano strazianti. Per ottenere questo miglioramento della propria vita e di quella dei suoi figli, Franzoni ha proposto la commutazione dei permessi di lavoro esterni con altrettanti permessi di visita esterni. Benefici entrambi previsti dal codice per qualunque detenuto come premio per buona condotta. E per ottenerli è disposta anche a sottoporsi a una perizia psichiatrica, che dovrà valutare tra l’altro la sua "capacità genitoriale" e il rapporto con i suoi bambini. Fondamentale sarà la valutazione del suo recupero alla normalità e lo stato psicologico di Davide e Gioele. Non si può, infatti, dimenticare che Annamaria è stata condannata a 16 anni di carcere (scesi a 13 grazie all’applicazione dell’indulto) per l’uccisione del figlio Samuele. Un gesto terribile, compiuto con "razionale lucidità", probabilmente una reazione incontrollata "di fronte ad un capriccio" del piccolo, come hanno scritto i giudici della Corte di Cassazione nella sentenza. razionale lucidità. Nessun vizio di mente, quindi, per Annamaria. Ma solo "un conflitto interiore, il cui "polo nascosto" poteva essere costituito dalla preoccupazione nutrita per la salute di Samuele (...)" inserito in una personalità affetta "da disturbi d’ansia con fenomeni di conversione somatica e caratterizzate da componenti isteriche". I consulenti nominati dal tribunale di sorveglianza, lo psichiatra Renato Ariatti e il neuropsichiatra infantile Giovanni Camerini, dovranno stabilire se una mamma che ha perso la testa per un semplice capriccio di Samuele possa avere un rapporto normale con Gioele e Davide. Gli specialisti vedranno Franzoni per la prima volta il 10 settembre. Dopo il processo di primo grado, la donna ha sempre rifiutato di sottoporsi ad esami analoghi, dichiarando con ostinata fermezza di essere "sana di mente" e "innocente". Anche la difesa non ha mai voluto sentire parlare di una perizia psichiatrica per la propria assistita. E quando, nel 2005, è stato il giudice d’appello a disporla, Franzoni non ha collaborato. Che cos’è successo? I consulenti hanno stilato le loro conclusioni basandosi soltanto sui comportamenti e sulle dichiarazioni dell’imputata in aula e nelle sue interviste ai mass media. Le perizie affidate ai due specialisti serviranno al giudice Riccardo Rossi a decidere se Annamaria Franzoni, diventata tristemente famosa come "la mamma di Cogne", la mamma che quella terribile mattina del 30 gennaio 2002 ha ucciso il piccolo Samuele sul letto di quella villetta in Valle d’Aosta, potrà vedere gli altri due figli fuori dal carcere. Sulmona: Capasso porterà in carcere la musica tradizionale
Adnkronos, 23 agosto 2008
Ciccio Capasso, interprete della tradizione musicale partenopea, terrà un concerto speciale per i detenuti dell’Istituto Penitenziario di Sulmona, il 29 agosto alle ore 16 nella struttura di via Lamaccio, prima del concerto serale nel cortile di Palazzo dell’Annunziata. L’iniziativa è promossa dall’associazione culturale Nomadi fan club "Un giorno insieme" con il patrocinio e il contributo del comune di Sulmona - assessorato alla Cultura e Grandi Eventi, in collaborazione con la direzione del carcere di Sulmona. "La musica - ha detto Lorenzo Fusco, assessore alla Cultura del comune di Sulmona - come le altre forme artistiche, può far riconquistare ai detenuti fiducia nelle loro capacità. Queste forme di espressione privilegiate vanno sicuramente favorite e incoraggiate in tutti i modi. Il contributo dato dall’artista Ciccio Capasso è quello del rinnovamento della funzione sociale del carcere. La nostra intenzione - ha aggiunto - è quella di dare un contributo di serenità e allegria". Anche secondo il dirigente dell’Istituto Penitenziario Sergio Romice e il direttore coordinatore di area pedagogica Frank Mastrogiuseppe "questi contributi sono indispensabili perché interrompono la separazione del carcere dal resto della società. Ricerche recenti effettuate sul campo, nel nostro Paese, indicano che dove è maggiore la partecipazione della società esterna sono più bassi i livelli di recidiva". Immigrazione: in due giorni 900 persone sbarcano in Sicilia
La Repubblica, 23 agosto 2008
In due giorni 900 persone sono sbarcate sulle coste siciliane. Dopo i circa 600 di venerdì in quattro arrivi, nella notte e nelle prime ore della mattinata ci sono stati altri due sbarchi. Un peschereccio con a bordo 245 extracomunitari, tra cui nove bambini e 25 donne, è stato intercettato in nottata a 60 miglia a est di Portopalo di capo Passero da un’unità della Guardia di finanza. L’imbarcazione è stata scortata fino al porto di Siracusa. Gli extracomunitari sono in gran parte di nazionalità eritrea. Un altro barcone con 45 migranti, tra cui otto donne, è invece approdato intorno alle 2 di notte nel porto di Lampedusa. Un altro gommone è stato avvistato da un aereo della Marina militare a 40 miglia a sud di Lampedusa: a bordo ci sarebbero una sessantina di persone. Sul posto si sta recando una motovedetta della Guardia costiera. SARDEGNA - Nella notte i carabinieri hanno bloccato nove algerini nel poligono militare di capo Teulada dopo lo sbarco a cala Piombo. La loro barca era stata notata dall’equipaggio di un peschereccio. È possibile che alcuni siano riusciti a dileguarsi. Una barca con altri quindici immigrati a bordo, invece, era stata intercettata verso le 18 di venerdì dalla Guardia di finanza a circa 40 miglia da capo Teulada. Tutti sono stati accompagnati nel centro di accoglienza di Elmas. Estero: più di 2.800 gli italiani detenuti nelle carceri straniere
Asca, 23 agosto 2008
Secondo l’ultimo censimento del Dgit, il dipartimento del ministero degli Affari esteri che si occupa degli italiani detenuti all’estero, i nostri connazionali attualmente rinchiusi in prigioni straniere ammontano a 2.820 unità. Il numero complessivo degli italiani detenuti nelle carceri europee, in base all’ultima stima effettuata quest’anno, ammonta a 2.253. Gli Stati a maggiore densità risultano essere la Germania, ove sono reclusi 1.140 italiani; la Spagna, che ne conta 429, ed il Belgio e la Francia che ne ospitano rispettivamente 238 e 208. Di questi 2.253 detenuti complessivi, circa 1.099 sono in attesa di giudizio. Il totale degli italiani detenuti nelle carceri delle Americhe ammontano a un totale di 424. La maggiore concentrazione, degli stessi è riscontrabile negli Stati Uniti, nelle quali prigioni sono rinchiusi 134 italiani. L’associazione Prigionieri del silenzio è stata costituita per salvaguardarne i diritti fondamentali, tra i quali quello alla salute e a un equo processo. Un altro scopo è dare assistenza ai familiari. India: i due italiani detenuti per droga condannati a 10 anni
News Italia Press, 23 agosto 2008
È arrivata, pesante come un macigno, la condanna a 10 anni di carcere per Angelo Falcone e Simone Nobili, i due giovani detenuti in India dal marzo del 2007. Ancora non si conosce il testo della sentenza di condanna, la famiglia Falcone nel pomeriggio contatterà l’interprete a seguito del colloquio di stamattina in cui "il giudice aveva promesso che nel giro di poche ore avrebbe scritto la motivazione che arriverà in ambasciata lunedì", spiega Giovanni Falcone, padre di Angelo. Si spegne così la fiducia che fino a poche settimane nutriva la speranza dei familiari. "Spero ci siano ancora speranze di riavere Angelo in Italia", prosegue Falcone. "Certo, andremo in appello. Ma ci vuole tempo, tempo da trascorrere in prigione. E si tratterà di un’altra prigione, perché domani saranno trasferiti. È questo anche il dramma, qui adesso conoscevano tutti ed erano conosciuti". I due ragazzi verranno infatti trasferiti tra oggi e domani nel carcere di Nahan, una città a 200 chilometri da Mandi. Da lunedì Giovanni Falcone si metterà di nuovo in contatto con le autorità consolari affinché si ottengano nuove autorizzazioni per poter restare in contatto con il figlio anche dalla prigione di Nahan, dove si trovano altri 350 carcerati. "Sono stati condannati, a 10 anni - ripete Falcone -. Ero, in parte, anche io fiducioso. Perché, soprattutto negli ultimi tempi, il giudice sembrava essersi interessato anche alle dinamiche in atto. E poi. Poi è caduto tutto". Un triste epilogo al quale si è arrivati "grazie al disinteresse della politica tutta", afferma Falcone. Nelle ultime udienze il giudice sembrava molto attento alle procedure e a quanto gli veniva proposto ma "poi è crollato tutto". "Quando cadi nelle mani della corruzione, non ti salvi - continua Falcone da Matera -. Un meccanismo perverso che non tocca solo Angelo e Simone ma tocca tutti i cittadini occidentali. Per loro gli occidentali sono una fonte di guadagno sicuro, specialmente se italiani. Perché le istituzioni non si interessano mai di loro, e questo è il risultato". Una corruzione che, per papà Falcone, è un "meccanismo perverso". "Gli occidentali sono visti come fonte di guadagno sicuro. Specialmente gli italiani. E il Parlamento non si interessa mai di queste cose. Il prezzo è altissimo, ma non so neanche se devo dire grazie, in un certo senso. Perchè so che rischiavano dai 15 ai 20 anni. È da stamattina che sto gridando. Sono un cittadino italiano e devo essere garantito dal mio Parlamento. Io come tanti altri del 3000 abbandonati nel mondo. Figli e figliastri. Il Presidente della Repubblica... gli ho scritto due lettere e non ha mai risposto. Ad un’associazione che lo aveva sollecitato al merito, la segreteria personale della Presidenza della Repubblica ha fatto sapere che esula dalle proprie competenze. Eppure, in passato, di altri casi, che avevano alle spalle potentati, si è parlato e per quei casi ci si è mossi". Una conclusione amara: "Posso gridare quanto voglio. Ma rimarrò sempre solo. Un Don Chischiotte contro i mulini a vento". Non tutta la politica italiana ha reagito alla vicenda, nel tempo, con il silenzio. L’Onorevole Marco Zacchera, Presidente del Comitato Italiani nel Mondo della Camera dei Deputati, era stato, nel 2007, tra i primi parlamentari italiani ad attivarsi con iniziative volte a risolvere per vie politico-diplomatiche il caso Falcone. Lo scorso fine luglio, presentando un’interrogazione parlamentare al Ministro degli Esteri Franco Frattini, l’Onorevole Marco Zacchera ha riaperto il capitolo delle problematiche condizioni di vita dei detenuti italiani all’estero. Nella scorsa legislatura aveva, lungamente e con successo, fatto approvare dal Parlamento un ordine del giorno - recepito dall’allora Governo - di istituire il Numero Verde di emergenza giudiziaria per tutti quei turisti italiani o residenti all’estero che avessero avuto necessità di fare prontamente intervenire le nostre autorità consolari a loro difesa. Nel luglio scorso Zacchera aveva anche chiesto di conoscere lo stato di attuazione del cosiddetto Protocollo di Strasburgo, con il quale si prevedono norme per poter scontare la pena nei propri paesi d’origine e non in quelli ove si è stati condannati. "Nel caso di Angelo e Simone ci sono state gravi violazioni dei diritti umani: basti pensare che sono stati costretti a firmare una dichiarazione in indi senza capire cosa stessero firmando eppure la legge prevede che tutte le dichiarazioni ai connazionali all’estero e soprattutto ai detenuti devono essere solo nella propria lingua. Sul caso di Angelo Falcone - prosegue l’Onorevole Zacchera - si potrebbero riempire pagine intere di giornali su cosa sarebbe stato possibile fare e non si è fatto, nonostante il mio personale impegno e quello di altri colleghi parlamentari?" . La Commissione Esteri della Camera dei Deputati ha, inoltre, in questa legislatura, istituito il Comitato per i Diritti Umani. Nel corso della prima riunione, tenutasi prima della pausa estiva, Fabio Porta, eletto all’estero nelle file del Partito Democratico, aveva fatto riferimento, insieme al suo collega Marco Fedi, alla grave situazione dei tanti italiani detenuti all’estero, come anche ai diversi ostaggi in mano a sequestratori in varie parti del mondo. "Spesso la condizione di un italiano detenuto all’estero è ai limiti del rispetto delle più elementari norme di diritto civile internazionale - ha sostenuto l’on. Porta - a volte per la mancanza di accordi bilaterali con l’Italia, altre per le oggettive condizioni delle carceri (penso, per esempio, a tanti Paesi del Sudamerica)". E proprio l’onorevole Porta avrà il compito di presentare, nei prossimi mesi, una relazione specifica al merito.
|