Rassegna stampa 21 settembre

 

Giustizia: Mastella; dopo l’indulto meno recidivi in carcere

 

La Stampa, 21 settembre 2007

 

Contro una "campagna mediatica di rara virulenza e spregiudicatezza fatta solo per guadagnarsi gli applausi delle curve" sull’indulto, il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, fornisce dati su recidivi e nuovi carcerati in controtendenza con le notizie di stampa che hanno fatto del provvedimento di clemenza un caso politico.

Parlando alla festa della Polizia penitenziaria a Napoli, Mastella ha spiegato che "è il caso di dire basta alle polemiche strumentali perché da un’analisi fatta dal Dap non risulta che la presenza di soggetti recidivi in carcere non è aumentata. Anzi se la percentuale di recidivi - ha detto il Guardasigilli - si assestava al 48% della popolazione carceraria prima dell’indulto, un anno dopo la presenza di recidivi in carcere è pari al 42% del totale". E questo dato, ha sottolineato Mastella, "include anche quel 22.7% dei detenuti usciti per il provvedimento votato dalla stragrande maggioranza del Parlamento che hanno varcato le porte del carcere".

Mastella punta il dito soprattutto contro "una campagna mediatica di rara virulenza e spregiudicatezza fatta soltanto per guadagnarsi gli applausi delle curve - ha polemizzato - tanto che anche gli autori eterogenei del provvedimento, quasi 800 parlamentari, impauriti dalla impopolarità si sono mimetizzati e inabissati". Tutti tranne due, che Mastella ha voluto "pubblicamente ringraziare": sono il presidente del Consiglio Romano Prodi "che sull’indulto ha speso parole di verità, ma anche - ha aggiunto Mastella - il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi, che anche di recente ha detto apertamente che l’avrebbe rivotato. L’indulto ha conquistato il primo posto nella classifica del malcontento italiano determinando - a giudizio di Mastella - una faziosa, ingiusta equazione secondo la quale esso avrebbe significato maggiore criminalità e maggiore delinquenza".

Giustizia: studio del Dap; carceri di nuovo piene dopo l’indulto

 

Corriere della Sera, 21 settembre 2007

 

I dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: i detenuti sono ora 46.118 contro una capienza di 43.140.

Sono 26.752 i detenuti usciti fino ad oggi dal carcere grazie all’indulto. Di questi, circa il 22% (per l’esattezza 6.194, di cui 4.318 italiani) sono finiti di nuovo in cella per essere tornati a delinquere. Ciò non significa però - fa notare il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che in occasione della festa della polizia penitenziaria a Napoli ha reso noto i dati aggiornati al 18 settembre - che il tasso di recidiva sia aumentato dopo l’indulto: il tasso era infatti al 44% prima dell’approvazione dell’atto di clemenza il 31 luglio del 2006, mentre ora è al 42%. Un dato sottolineato anche dal ministro della Giustizia Clemente Mastella nel suo discorso.

Attualmente nelle carceri italiane ci sono 46.118 detenuti di cui i definitivi sono 17.369, quelli in attesa di primo giudizio 15.718, mentre il resto si suddivide tra appellanti (8.952), ricorrenti (2.632) e internati (1.447). Grazie all’indulto le sovraffollate carceri italiane (i detenuti erano arrivati a sforare quota 60 mila nel luglio del 2006) hanno respirato una boccata d’ossigeno che, però, sembra durata solo un anno: i dati del Dap mostrano, infatti, che dai 38.847 detenuti dell’agosto 2006 (vale a dire subito dopo il varo dell’atto di clemenza) si è arrivati nel giro di un anno a 46.118, mentre la capienza regolamentare degli istituti penitenziari è di 43.140 posti.

Su 26.752 indultati, il 69,2% è rappresentato dai condannati in via definitiva, l’1,8% da coloro che erano in attesa di primo giudizio, il 5,9% da appellanti, il 3% da ricorrenti, e il 20,1% da detenuti con più procedimenti a carico. Dei 6.194 detenuti che, una volta aver beneficiato dell’indulto, hanno fatto rientro in carcere, la maggior parte (4.939), sono persone nuovamente arrestate in flagranza di reato, mentre 1.190 per provvedimenti dell’autorità giudiziaria.

Giustizia: Napolitano partecipa a festa della Polizia Penitenziaria

 

Ansa, 21 settembre 2007

 

Alla presenza del presidente Napolitano, si è aperta a piazza del Plebiscito a Napoli, la festa Nazionale della Polizia Penitenziaria. In occasione del 190/o anniversario della fondazione, il Capo dello Stato ascolterà gli interventi del ministro della Giustizia, Clemente Mastella, e del capo del Dap, Ettore Ferrara. In mattinata Napolitano ha inaugurato il rifacimento della stazione ferroviaria Mergellina. A breve, nel corso della cerimonia per la festa della polizia, il Capo dello Stato consegnerà alcune onorificenze, tra cui 3 medaglie d’oro al merito civile alla memoria. La festa della Polizia Penitenziaria continuerà nel pomeriggio con l’esibizione, alle 15, sempre in piazza del Plebiscito, del gruppo sportivo fiamme azzurre e del servizio cinofili. Costituito da 42 mila unità, (di cui 3.500 donne) il corpo di polizia penitenziaria ha il compito di garantire la sicurezza nei 231 penitenziari (compresi gli istituti penali per minori) e di sorvegliare 46 mila detenuti. La polizia penitenziaria svolge però anche compiti di traduzione e piantonamento, e partecipazione alle attività di riabilitazione dei detenuti.

Giustizia: come trasformare gli Opg, tra cura e detenzione

 

Il Manifesto, 21 settembre 2007

 

"Regionalizzare" gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari? Il ministero della salute sembra intenzionato a riprendere le proposte di riforma del governo Berlusconi. Ma così l’internamento continua a prevalere sulla cura. Un’alternativa sarebbe usare solo in casi eccezionali la "infermità totale", e decongestionare gli Opg.

La situazione degli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) è tanto drammatica quanto relativamente semplice da affrontare. Delle 1266 persone internate oggi nei sei istituti, oltre la metà hanno commesso reati minori e in gran parte si vedono prorogata la misura di sicurezza più per mancanza di alternative che per una condizione di pericolosità sociale.

Per ridurre, in tempi rapidi, di almeno un terzo il numero degli internati basterebbe utilizzare leggi e strumenti amministrativi che esistono da tempo e che sono, in sintesi, di tre tipi. Innanzi tutto le sentenze della Corte Costituzionale che consentono, quando si accerti che la pericolosità sociale è cessata, sia di ridurre la durata della misura di sicurezza che di utilizzare misure diverse dall’invio automatico in Opg. Ci sono poi le leggi regionali di attuazione della "180", le quali prevedono strutture di vario tipo per accogliere anche persone che abbiano bisogno di assistenza costante.

Far funzionare queste strutture, che in certe regioni sono insufficienti ma in altre semplicemente "evitano" di farsi carico delle persone finite in Opg, può metter fine all’iniquità delle proroghe per mancanza di alternative. Ci sono infine le norme del 1998 e ‘99 sul passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, che responsabilizzano in modo chiaro Asl e Regioni sulla salute dei detenuti (di questo si è parlato diffusamente su queste pagine il 22 agosto).

Non sono necessarie risorse economiche aggiuntive per fare tutto questo: è sufficiente formulare, Asl e amministrazione penitenziaria insieme, progetti individualizzati con la previsione dei cosiddetti "budget di cura" che trasferiscano risorse dall’Opg alla Asl che si prende cura del "suo" cittadino malato. In alcuni (pochi) luoghi questi strumenti sono già utilizzati, e questo spiega l’enorme variabilità nella provenienza degli internati. È noto, ad esempio, che da due regioni con il medesimo numero di abitanti, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, proviene il numero rispettivamente più basso e più alto di internati, mentre l’Opg di Barcellona Pozzo di Goto (Messina), che è il solo a ricevere internati in maggioranza della propria regione, è quello dove si verifica il numero di proroghe più alto. Se non si vuole ricorrere alle valutazioni del positivismo ottocentesco sui sardi e i siciliani, si deve concludere che il problema sta nei servizi, nelle politiche regionali, nelle inerzie più o meno colpevoli da parte della magistratura e delle Asl.

La Sardegna è finora la sola regione che, dopo aver rifiutato il progetto di accogliere un nuovo Opg, ha cominciato a riprendersi i propri cittadini internati, ma dal centro, dal governo, non è ancora arrivato alcun impulso in questo senso. Eppure l’Unione si era espressa chiaramente. Nel famoso lungo testo su cui si è chiesto il consenso degli elettori, sono inserite infatti alcune affermazioni qualificate in tema di Opg: "Il tentativo ricorrente di ritorno al passato e di ri-manicomializzazione della salute mentale va respinto applicando per intero la legge 180. Siamo per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e di ogni altra forma di manicomialità". Ma non si è visto, finora, alcun intervento per tradurre in pratiche questa enunciazione.

Nei mesi scorsi qualcosa era sembrato muoversi, suscitando per la verità più preoccupazioni che speranze. Il 6 novembre dello scorso anno, infatti, aveva presentato i suoi risultati il "gruppo di lavoro per i problemi degli Opg" istituito nel 2004 dal governo Berlusconi. Il documento prevedeva una prima fase di interventi per decongestionare gli Opg utilizzando gli strumenti normativi appena citati. Le prospettive di medio e lungo periodo ipotizzate dal documento erano però di ben altro orientamento, perché al posto degli attuali Opg proponeva: 300 posti letto in tre Opg e 200 in centri di psichiatria penitenziaria gestiti dall’amministrazione penitenziaria; 300 letti in centri diagnostico terapeutici di 15 letti ciascuno distribuiti in tutte le regioni; 500 posti letto in "strutture residenziali ad Alta Intensità terapeutica e media sicurezza" nelle varie regioni; 500-1000 posti letto in "strutture residenziali a Media Intensità terapeutica e bassa sicurezza", anch’essi gestiti dalle Asl.

In sostanza: si prevedeva non solo il raddoppio dei circa 1.200 letti degli attuali Opg, ma si attribuiva alle Asl e alle strutture psichiatriche, in contraddizione con quanto disposto dalla "180", sia il controllo di quote di pericolosità sociale che la responsabilità di custodire persone pericolose. Insomma, la riforma degli Opg diventa un modo per far rinascere il dispositivo della "cura-custodia" e l’ospedale psichiatrico in formato ridotto.

Perché preoccuparsi oggi delle proposte di una Commissione del vecchio governo che ha concluso i suoi lavori? Per almeno due ragioni. Facevano parte della Commissione, oltre ai direttori degli Opg di Aversa, Napoli e Barcellona Pozzo di Gotto, due dirigenti sanitari della Campania e il direttore del servizio salute mentale dell’Emilia Romagna, regioni ambedue amministrate dal centro sinistra. E questo può forse spiegare come mai le idee di questa Commissione, ripresentate da un dossier del Sole-Sanità il 9 aprile 2007, siano state riproposte dal consulente della ministra della salute Livia Turco, lo psichiatra Marco D’Alema, che ha illustrato al Corriere della Sera del 19 aprile 2007 "le tre fasi del superamento degli attuali istituti" con l’obiettivo finale di "regionalizzare gli Opg, che devono diventare strutture piccole, a carattere prettamente sanitario, dove l’elemento penitenziario viene ridotto al minimo, e dove saranno ricoverati solo i casi più gravi".

Il dibattito su cosa mettere al posto degli attuali Opg dura da più di trent’anni. Da una parte (e non è questione di destra e di sinistra) vi è quest’idea di distribuire a livello regionale strutture di cura che, come era il caso degli ospedali psichiatrici, devono assicurare anche la custodia. Difficile credere - è questa l’obiezione principale - che in strutture di questo tipo la cura vincerà sulla custodia, che non verranno travestite come pericolosità sociale le condizioni di vita disperate, che l’offerta di strutture di internamento non moltiplicherà una domanda di esclusione mai venuta meno.

L’alternativa, praticata sistematicamente in alcuni (pochi) luoghi, può essere percepita come crudele: si tratta infatti di restringere in modo rigorosamente eccezionale il riconoscimento di infermità totale e di far seguire, alla gran parte delle persone che commettono reati in condizioni di sofferenza mentale, i percorsi ordinari. Questi percorsi non necessariamente conducono alla detenzione, e quando questa non sia evitabile, i servizi di salute mentale seguono le persone malate anche in carcere, dove si deve assicurare la cura della malattia mentale come delle altre, o si deve valutare, caso per caso, la compatibilità tra cura e detenzione. Certo, sappiamo tutti cosa è il carcere oggi, per chi è malato e anche per chi è sano. Ma se la nostra democrazia non è capace di avere carceri decenti come possiamo pensare che lo saranno le strutture di internamento, ancora più opache del carcere e più esposte al rischio di arbitrii?

Una via d’uscita da questo dibattito polarizzato da troppo tempo si potrebbe trovare se questo governo cominciasse finalmente a impegnarsi per decongestionare gli Opg, operazione che sanerebbe tante iniquità e chiarirebbe come e da dove si arriva in Opg, quali strategie possono modificare questi percorsi, quante strutture possono servire in alternativa, di che tipo e per chi. Questo si può fare subito, non servono leggi nuove. Serve la scelta politica di non vivacchiare sull’esistente ma di promuovere e guidare quei processi di trasformazione che, nel caso degli Opg, la legislazione ha già ampiamente innescato.

Giustizia: l’Opg di Montelupo Fiorentino, la "villa dei matti"

 

Il Manifesto, 21 settembre 2007

 

Sembra un hotel di lusso, una bella villa medicea nella campagna toscana. Ma è un Ospedale psichiatrico giudiziario, racchiude sofferenza umana, povertà e squallore. L’Opg di Montelupo fiorentino ospita circa 130 internati, molti in "proroga" della misura di sicurezza perché nessuno si cura di farli uscire. "Questi posti non cambieranno mai".

L’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Montelupo Fiorentino, a vederlo da fuori, è una splendida villa medicea - la Villa dell’Ambrogiana - che si staglia nella campagna toscana. A non saperlo, può appare un albergo, di quelli per ricchi, con idromassaggio e servizio a cinque stelle. Ma basta varcare il primo portone per capire tutta la differenza che passa tra la bellezza dei paesaggi e il dolore degli uomini. Qui fu imprigionato e morì, nel 1910, l’anarchico Giovanni Passanante che attentò, senza riuscirvi, alla vita di re Umberto I.

All’interno della struttura, che mostra tutti i segni del passare del tempo, vi sono circa 130 internati disposti su tre sezioni, divise la seconda dalla terza da un ampio spazio verde. Di questi internati circa la metà sono qui da almeno cinque anni. Molti sono in proroga della misura di sicurezza, meccanismo che ormai in questo nostro giro abbiamo imparato a conoscere. Comminata una prima volta, la misura di sicurezza viene prorogata per un tempo in(de)finito indipendentemente dal reato commesso e dallo stato di salute dell’internato. Montelupo è, tra tutti, l’Opg con meno personale, solo 27 operatori tra educatori, medici, infermieri e psichiatri, e circa 90 agenti di polizia penitenziaria.

La seconda sezione ha l’aria dimessa di un ospizio. Gli internati che si trattengono in un piccolo cortile o passeggiano lungo gli stretti corridoi sono circa quaranta e per lo più anziani, qualcuno davvero in là con gli anni.

Le condizioni delle celle, anguste, riflettono la povertà delle persone e la vecchiaia della struttura. Giacomo S. ha oltre settanta anni. Costretto su una sedia a rotelle, impreca appena ci vede. Nell’altra vita faceva il pastore. È qui da pochi mesi, privo di quasi tutti i denti, in una piccola cella con altre tre persone. "Non so perché mi hanno portato qua", ripete, e qualche lacrima di rabbia scivola assieme alle imprecazioni". Bruno L., anche lui quasi settanta anni, ci fa entrare nella sua cella, piccola, troppo, dove vivono in due. Nel piccolo spazio sono ammassati due letti, panni, scatole, scarpe, qualche oggetto personale. Si avverte un forte odore di urina in sottofondo.

A un certo punto lungo il percorso fa capolino un vecchietto dall’aria dimessa, con panni lisi a metà tra il pigiama e una logora casacca. Umberto A. ha ottantotto (88) anni, da tre è a Montelupo. Contadino, ha ucciso (accidentalmente è la sua versione, con dolo secondo i giudici) la moglie con un colpo di fucile. Peserà meno di 50 chili. Quale che sia la verità, non è chiaro quale siano le dinamiche di sistema giudiziario che concede a Eric Priebke i domiciliari e costringe Umberto A. in un manicomio giudiziario.

L’altra sezione, la III, è più "frequentata". Al piano terra vediamo la sala con i letti di coercizione. In una cella scura, triste e spoglia, due letti, dai piedi segati, fanno bella mostra di sé. Hanno "ospitato" 69 persone in un anno, secondo i dati ufficiali. Sui tempi rimane un mistero. Sono brevi, ci assicura il direttore Fabrizio Scarpa. Ci indica Luigi P., spiega che è stato più volte in coercizione nell’Opg di Reggio Emilia e che gli effetti, negativi, si vedono tutti. Qui, ce lo spiegano alcuni internati, l’isolamento si chiama "camera di raffreddamento" ed è l’anticamera della coercizione.

Nella cella a fianco, desolatamente vuota, sporca e con odore di urina Domenico S., completamente privo di denti, implora la sua sigaretta. Nei corridoi molti internati riconosco Francesco Caruso, il deputato di Rifondazione comunista qui in visita, e si avvicinano incuriositi. Alessio comprende l’importanza dell’interlocutore e si presenta: "Sono l’imperatore del Portogallo". Gaetano B., trent’anni, era all’Opg di Napoli e sorride felice di vedere "l’onorevole": "Qui si sta meglio, pensa che ho anche mangiato una pizza, dopo quattro anni. Là era terribile".

Le celle sono comunque affollate, in attesa di lavori di ristrutturazione. Giuseppe, stessa età, è un ex pugile. Ha trascorso otto anni di Opg, per un reato che, se fosse stato ritenuto "capace di intendere", gli costava massimo tre anni di carcere. La sua cella è particolare, una sorta di piccolo negozio etnico. Contrasta con l’affollamento e la miseria delle altre. Merito del suo compagno che anche solo con i pacchetti di sigarette crea articolate costruzioni. Lui vuole rientrare a boxare, se riesce a uscire. "Che dici ce la faccio? Qui i farmaci mi fanno prendere peso". Il dramma di giornata di Davide è invece tutta in un baratto ineguale. Ha scambiato, volontariamente dice, il suo orologio per una calcolatrice, e adesso vorrebbe che il direttore autorizzi l’accordo, perché non via sospetto di imbroglio.

Rileviamo attenzione e disponibilità da parte degli operatori, ma il presente conferma la storia di disperazione di Montelupo. A fine maggio Maurizio Sinatti, un internato di 43 anni, è stato ucciso da un compagno di cella, Giuseppe Cascio, 40 anni. Non erano insieme in cella da molto tempo ed entrambi erano finiti all’Opg, in esecuzione di misure di sicurezza, dopo essere stati coinvolti in reati contro il patrimonio. Un litigio, una convivenza divenuta insopportabile.

Un episodio analogo si era verificato nel ‘92. Un internato, Nicola Del Degan, era stato strangolato nella sua cella. Episodi rari, che suscitano raccapriccio ma non meraviglia, perché la convivenza forzata è già difficile di per sé, figuriamoci tra persone che soffrono un disagio psichico. Appena una settimana dopo un internato ha tentato di impiccarsi, portando a sei i casi di tentato suicidio negli ultimi due anni.

Quando il portone si richiude, la serenità del paesaggio toscano riprende il sopravvento e contrasta con la disperazione che Montelupo nasconde. È difficile dare un orizzonte alla speranza, come ha ci ha detto sottovoce un internato: "Altro che camera di raffreddamento, qui è sempre contenzione. Questi posti non cambieranno mai". Non resta sperare che si sbagli.

Giustizia: su lavavetri "diverso approccio" del ministro Ferrero 

 

Redattore Sociale, 21 settembre 2007

 

"Patti contro la paura", un 113 sociale, politiche di zonizzazione per la prostituzione, servizio civile anche per gli immigrati: la ricetta del ministro della Solidarietà per aumentare la sicurezza nella città.

Lancio di progetti che aumentino la vivibilità urbana, creazione di un Pronto intervento sociale (un 113 sociale), selezione molto stretta nei finanziamenti per avere il meglio delle politiche sociali e dell’attivazione delle buone pratiche, varo di patti territoriali contro la paura e l"insicurezza, modifiche legislative laddove occorrano (nel caso delle droghe per esempio) per ridurre il rischio di emarginazione e di conflitti, sperimentazione delle politiche di zonizzazione per quanto riguarda la prostituzione sulla scia di casi già attuati nel nord Europa, ma anche in alcune realtà italiane tipo Mestre. Infine apertura del servizio civile anche ai giovani immigrati regolari che risiedano in Italia da un determinato numero di anni. Sono queste le principali proposte illustrate oggi dal ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero sul tema caldo della sicurezza e della vivibilità delle città. Riepiloghiamo sinteticamente per punti.

Patti contro la paura. Il ministro Ferrero sostiene che è necessario dividere con nettezza gli interventi in tema di ordine pubblico da quelli che riguardano la vivibilità. I lavavetri, tanto per fare un esempio, non sono per Ferrero un problema di ordine pubblico. Si tratta quindi di far marciare parallelamente ai patti per la sicurezza dei veri e propri patti contro l’insicurezza e la paura, anche perché non sembra intervenire sulla sicurezza, ha spiegato il ministro, genere sicurezza e tranquillità per i cittadini. Per questi patti dovranno essere coinvolti tutti i soggetti, dagli enti locali alle associazioni del volontariato. È necessario ricostruire comunità - ha spiegato Ferrero - un tessuto sociale di relazioni, a partire per esempio dagli stadi che spesso sono diventati zone franche qualche volta nelle mani di gruppi criminali.

Lavavetri. Da questo punto di vista, ha detto Ferrero, è sbagliato attaccare tutti i lavavetri come se fossero una categoria pericolosa. Bisogna punire con le leggi esistenti solo chi commette reati. Se un lavavetri esercita violenza nei confronti di un cittadino, va arrestato, ma non per questo bisogna poi arrestare tutti i lavavetri. Ferrero, in questo caso, ha citato il sociologo Ilvo Diamanti che propone come via d’uscita soprattutto la ricostruzione di relazioni sociali. Anche perché ricorrendo alla repressione pura e agli arresti, non si farà che intasare i tribunali, che già sono bloccati e le carceri. Senza considerare i costi di queste politiche per la sicurezza che pesano di più sulla spesa pubblica e rendono meno in termini di convivenza civile (quanto cosa una giornata di un detenuto in carcere)?.

Pronto intervento sociale. Si tratta di sperimentare in Italia una cosa che non c’è mai stata: il pronto intervento o pronto soccorso sociale, una specie di 113 del sociale che possa funzionare come mediazione dei conflitti e intervento contro le mille solitudini e le mille paure. Si tratta di creare strutture e professionalità specifiche. D’altra parte - ha ricordato Ferrero - la figura del mediatore sociale, del mediatore dei conflitti è nata proprio negli stadi di calcio. I mediatori sociali dovranno costruire o ri-costruire comunità.

Politiche della "zonizzazione". La legge Merlin sulla prostituzione è stata - per Ferrero - troppo spesso bistrattata. Si basava invece su principi e intuizioni interessanti che andrebbero oggi aggiornati. Per il ministro della solidarietà sociale, pensare ad alcune zone contrattate per la prostituzione potrebbe essere una soluzione positiva che aiuta a risolvere le questioni di vivibilità e non criminalizza e abbandona a se stesse migliaia di donne che oggi sono ricattate e sfruttare. Per questo non vanno però bene neppure le case chiuse. L’esempio positivo di zonizzazione citato dal ministro è quello di Mestre. Stesso discorso, o almeno discorso analogo per i writers. Nessuno dice che i ragazzi che scrivono e disegnano sui muri devono imbrattare liberamente le nostre città. Si tratta però di evitare anche qui la repressione pura e indicare zone in cui è possibile scrivere e dipingere sui muri.

Vademecum delle buone pratiche. Il ministero della Solidarietà Sociale ha proposto a un gruppo di associazioni e di rappresentanti del vasto mondo del Terzo Settore si mettersi al lavoro per stilare il primo vademecum delle buone pratiche. "Si tratta di vedere scientificamente - ha detto Ferrero - quali sono gli interventi che costano meno e che rendono meglio dal punto di vista della resa sociale in termini appunto di vivibilità e tranquillità, oltre che di coesione sociale".

Minori. Il problema più urgente è quello di intervenire contro i vari tipi di sfruttamento. Per i minori non accompagnati sono stati destinati 10 milioni e mezzo dal fondo per l’inclusione sociale degli immigrati. Si tratta però di affrontare più in generale la questione dei minori e del tema delicato del ritiro della patria potestà. Anche qui è necessario evitare tutte le politiche di criminalizzazione che ottengono poi i risultati opposti a quello che si vorrebbe.

Servizio civile per gli immigrati. Il ministro Ferrero propone di studiare una norma che estenda anche ai giovani immigrati regolari (residenti in Italia da un tot di anni).

Volontariato: 2000 a Napoli. Nell’ambito dei progetti già approvati e in via di realizzazione, il ministro Ferrero ha annunciato che stanno per partire circa 2000 giovani volontari per andare a prestare il loro servizio a Napoli, una misura innovativa sul fronte delle politiche per la sicurezza fino ad ora attuate.

Giustizia: non mettiamo sullo stesso piano spacciatori e lavavetri

di Andrea Ronchi* e Arturo Salerni**

 

Liberazione, 21 settembre 2007

 

Non era soltanto una boutade agostana l’ordinanza contro il mestiere girovago di lavavetri del Comune di Firenze. La vicenda lavavetri manifesta un orientamento fatto proprio da alcuni dei sindaci delle grandi città italiane, con un comune progetto di governo del territorio, che punta ad attribuire ai rappresentanti delle realtà locali poteri solo in parte riconosciuti dalle norme, esaltando la funzione poliziesco-repressiva a detrimento del corretto esercizio dei ruoli che la legge attribuisce alle amministrazioni locali, anche con riguardo alle politiche per la sicurezza sociale dei cittadini.

Le cronache di questi mesi hanno dato ampio spazio alle diverse ordinanze comunali sul tema dell’ordine e della sicurezza pubblica, dalle più recenti sui lavavetri a quelle non troppo lontane sugli sgomberi di campi nomadi o sulla rimozione delle panchine nei parchi pubblici per impedire ai senza fissa dimora di dormirci la notte. I media esaltano questo improprio protagonismo, mettendo sullo stesso piano gli spacciatori di eroina e i lavavetri, spingendo la pubblica opinione ad una percezione di allarme costante, mettendo alla berlina i sostenitori di politiche di recupero e di inserimento sociale nei confronti dei soggetti che vivono condizioni di marginalità e di emarginazione, facendosi interpreti di richieste di leggi sempre più dure: si dà visibilità alle politiche repressive e ci si dimentica della assenza o della carenza di politiche sociali.

Il pubblico applaude ma i problemi non si risolvono. L’ordinanza bis sui lavavetri del Comune di Firenze è un esempio cristallino di questo cattivo modo di fare politica. Nonostante la stroncatura della Procura della Repubblica di Firenze, il sindaco Domenici ripropone cocciutamente l’arresto indiscriminato dei lavavetri come condizione necessaria per garantire l’incolumità pubblica, senza distinguere i singoli episodi violenti dalla genericità delle condotte improntate alla più assoluta urbanità ignorando i dati raccolti dallo stesso Comune di Firenze che evidenziano come, dal gennaio 2006 ad oggi, a fronte di oltre 1500 controlli effettuati sui lavavetri siano stati rilevati solo 11 episodi costituenti reato.

E nel pieno di questa campagna ideologica basata su legge ed ordine, mentre si combatte con lo strumento penale il lavavetri, tornano ancora una volta sotto silenzio le continue aggressioni ai più elementari diritti dei cittadini causate dalla violazione diffusa delle norme sulla sicurezza sul lavoro e sull’inquinamento ambientale.

E se alcuni lavavetri, grazie anche al sostegno del PRC e di diverse associazioni (Antigone, Giuristi democratici, Progetto Diritti), hanno annunciato che nei prossimi giorni chiederanno al Tar Toscana la sospensione e l’annullamento di quest’ultima ordinanza del Comune di Firenze, non si può certo pensare che elementari principi di civiltà politica possano essere ripristinati solo attraverso le pronunce dei giudici. Per intraprendere con successo questo difficile percorso servirà che tutta la Sinistra, assieme a vasti settori della società civile, si faccia promotrice di una campagna nazionale di rivendicazione di diritti sociali e di cittadinanza che consenta di ricondurre ogni fenomeno all’interno dei propri confini, distinguendo finalmente tra criminalità ed emarginazione.

 

*Avvocato Commissione Giustizia Prc Bologna

**Avvocato - Responsabile Carceri Prc

Polizia Penitenziaria negli Uepe: un comunicato delle RdB

 

Blog di Solidarietà, 21 settembre 2007

 

Nella giornata del 17/09/07 si è tenuta la riunione, con convocazione Dap, relativa all’inserimento della Polizia Penitenziaria negli Uepe.

Non si è giunti alcuna decisione e grazie al nostro intervento si è convenuti per un’ulteriore pausa di riflessione e approfondimento della questione. Il Presidente Ferrara ha dichiarato che per concludere questa operazione non c’è urgenza e… quindi staremo a vedere.

Questa O.S., nell’esprimere il più totale dissenso dalla proposta di D.M. presentata, vuole sottolineare che questa Amministrazione non è affidabile perché:· le ultime scelte operate portano dritte verso un carcere di polizia: la costituzione dei nuclei di P.G., la presenza per il controllo dei sottoposti a misure alternative negli UEPE, riconfermano la volontà a fare del sistema Carcere un sistema di Polizia senza il controllo dei Direttori, imperniato su criteri polizieschi e sicuramente non consoni alla gestione dell’art. 27 della Costituzione.

Nel contesto prefigurato dal D.M. in esame il ruolo dei Dirigenti Uepe è ridotto a quello di funzionari di polizia, senza averne la qualifica (come del resto i dirigenti degli istituti) realizzando pericolose ambiguità e ancor più pericolose zone d’ombra, dove la line gerarchica non solo non è chiara, ma sarà oggetto di enorme contenzioso.

Consapevole tuttavia della professionalità della polizia penitenziaria, questa O.S. non accoglie la proposta perché:· è illegittima, dal momento che la legge prevede che il controllo sugli affidati sia fatto da Assistenti Sociali,· non tiene in nessun conto delle professionalità e dell’esperienza concretizzata e realizzata in questi anni dal Servizio Sociale,· né coinvolge gli Assistenti Sociali in questa prospettiva di cambiamento, e nei fatti è delegittimazione del lavoro fin qui svolto. Soprattutto per questi motivi la RdB Pubblico Impiego dissente dalla proposta presentata e denuncia l’occupazione degli Uepe da parte della Polizia Penitenziaria, senza alcuna selezione e senza alcun corso di formazione e, soprattutto senza compiti precisi.

Vale la pena sottolineare che a Viterbo a fronte di 8 Assistenti Sociali sono stati inviati 1 Vice Commissario e due Ispettori, oltre ai due già presenti, a Campobasso con arroganza la Polizia Penitenziaria si è risentita perché il Direttore ha chiesto lumi sul loro utilizzo (7 A.S. e 5 Pol. Pen.). A Frosinone su sette Assistenti Sociali ve ne sono sei, con gli ultimi arrivati. È questo il rispetto del decreto proposto… la formazione,… la selezione? A questo punto, stanti le attuali premesse, il personale del Comparto Ministeri è fortemente penalizzato, non solo operativamente, ma anche attraverso il confronto con i benefici contrattuali: deve essere messo in condizioni di lavorare realizzando una effettiva perequazione dei ruoli, visto che la strada intrapresa dall’Amministrazione, vede la Polizia Penitenziaria fare le stesse cose del personale restante e quindi venga riconosciuta la pari dignità tra le componenti dell’Amministrazione. Venga riconosciuto il lavoro usurante e quindi lo scivolo di un anno ogni cinque. Venga aperta una immediata trattativa per definire il trattamento di missione del personale del comparto. Venga aperta subito la trattativa sul contratto integrativo allo scopo di prevedere, attraverso quello strumento, le possibilità non previste da contratto, ma possibili per cercare di rendere meno pesante il confronto con la Polizia Penitenziaria. Rimane la decisione di chiedere il transito del personale del comparto o negli uffici di sorveglianza in qualità di consulenti o ad altra amministrazione.

 

Il Coordinamento RdB Penitenziari

Polizia Penitenziaria-Uepe: comunicato Ugl Polizia Penitenziaria

 

Blog di Solidarietà, 21 settembre 2007

 

Si è tenuta presso il Dap alla presenza di tutte le sigle sindacali del Comparto Sicurezza e Ministeri, l’ennesima riunione per discutere dei nuovi compiti da assegnare alla Polizia Penitenziaria nel controllo dei condannati che usufruiscono di misure alternative alla detenzione.

Il Capo del Dipartimento diligentemente ha illustrato la nuova bozza di decreto interministeriale che ha in parte recepito alcuni suggerimenti presentati dalle OO.SS. nel corso dei precedenti incontri, in base ai quali si presupponeva un atteggiamento positivo da parte delle sigle sindacali con eccezione di coloro che rappresentano gli assistenti sociali ed educatori che sembravano essere rimasti gli unici, senza motivi condivisibili, a contrastare nettamente il decreto in questione.

Inspiegabilmente si è creata una spaccatura tra le diverse componenti sindacali anche sulla natura dei compiti che dovranno essere svolti dal personale da assegnare a tale nuovo servizio, così l’USPP si è trovata insieme a non molte altre sigle a dare il proprio assenso ad un progetto che, ad avviso della scrivente federazione svilupparsi nel corso del tempo per consentire di migliorare l’assetto progettuale di cui trattasi.

Le critiche al progetto sembrano essere piuttosto inconsistenti perché da un lato si parla di una assenza di qualificazione del personale di Polizia Penitenziaria, dall’altro si sostiene che i compiti che gli vengono attribuiti nell’attività risocializzante del reo sono troppo rimarcati (qualcuno ha evidenziato che non si tratta di educatori).

Ad avviso della nostra federazione, invece, non solo rientra appieno nei compiti del personale di Polizia Penitenziaria la partecipazione all’attività di recupero del reo, ma questa prerogativa deve essere alimentata in un ottica di impiego più speculare a quello che prevede la normativa, nell’intento di migliorare i risultati sul recupero dei soggetti in espiazione di una pena, soprattutto se beneficiari di misure alternative alla detenzione.

Pertanto, valutandosi come demagogiche alcune prese di posizione assunte da altre sigle sindacali, si è ribadito l’assenso all’avvio del progetto di sperimentazione.

L’Amministrazione penitenziaria, nella persona del Presidente Ferrara, prendendo atto di quanto rappresentato si è riservato di valutare altre modifiche al decreto interministeriale insistendo sulla tesi avanzata anche dalla nostra federazione sulla opportunità di procedere per gradi arrivando a modificare il testo base all’esito della sperimentazione. Si attendono ora le decisioni dell’Amministrazione sul varo definitivo del provvedimento.

 

Il Segretario Nazionale, Giuseppe Moretti

Milano: Vallanzasca; no a grazia, ma io sono davvero cambiato

 

La Repubblica, 21 settembre 2007

 

La grazia, Renato Vallanzasca l’aveva chiesta due anni fa all’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Oggi la risposta: "Nessun condono di pena all’ex leader della banda della Comasina". "Il bel Renè", inquisito per sette omicidi e condannato a quattro ergastoli, rimarrà nel carcere di Opera, a Milano.

Dopo 37 anni di carcere duro, Vallanzasca - che di anni ne ha 57 - riteneva di aver maturato il diritto di ottenere un atto di clemenza: "Io non ho mai fatto il pentito - disse in occasione della presentazione della domanda - però mi sento sicuramente cambiato. Non sono mai stato un brigatista. Con il mio codice deontologico sono a posto. Ho presentato la grazia perché lo dovevo a mia madre e alla mia compagna. Qui in carcere è un carnaio: queste nuove carceri sono strutturate più per distruggere la personalità di un recluso che non per insegnargli a vivere in società". Ma dopo una lunga riflessione ed una relazione negativa data dal ministro della Giustizia Clemente Mastella e dagli uffici tecnici del dicastero, il presidente Giorgio Napolitano ha restituito al ministero di Via Arenula, il 12 settembre scorso, l’atto di mancata concessione comunicato cinque giorni fa a Renato Vallanzasca dal magistrato di sorgeglianza.

L’ex capo della banda della Comasina - dal nome della zona di Milano dove ha mosso i primi passi nella malavita - finora ha ottenuto solo un breve permesso per visitare la madre novantenne e in cattive condizioni di salute. Capitò il Venerdì santo di un anno fa. Accompagnato da un paio di poliziotti, piombò a casa della fidanzata Antonella, a Milano, dove vive anche la mamma del detenuto. Nel 2005 e nel 2006 Vallanzasca aveva avuto solo un paio di permessi di tre ore ciascuno per far visita una volta ancora alla madre ricoverata in ospedale. Nell’aprile scorso rimase invece con la sua fidanzata e sua madre quasi un giorno.

Brindisi: c'è lavoro per "Alba Nuova", una coop. di ex detenuti

 

Asca, 21 settembre 2007

 

I cortili e gli spazi esterni delle scuole di competenza comunale presenti in tutto il territorio di Fasano (Brindisi) e frazioni sono interessati da lavori di potatura e pulizia di alberi, siepi, cespugli ed aiuole, grazie alla cooperativa "Alba Nuova" composta da ex detenuti e sorvegliati speciali di pubblica sicurezza cui il Comune di Fasano da cinque anni affida opere di manutenzione ordinaria di aree e spazi pubblici.

"Un’iniziativa meritoria di questa Amministrazione con in testa il sindaco Lello Di Bari e della precedente Amministrazione comunale - afferma Antonio Sarcinella, amministratore unico della coop. - anche perché i lavoratori svolgono un servizio necessario al decoro degli spazi pubblici, in questo modo intraprendendo un percorso concreto di reinserimento nel tessuto socioeconomico del Fasanese. Un servizio che è bene che continui senza interruzioni - aggiunge Sarcinella - dati i risultati estremamente positivi che ha ottenuto e che ottiene". Grazie proprio ai soci della coop., anche la villa comunale centrale di Fasano è ritornata a risplendere, proprio in questi giorni "e, quindi, ad essere nuovamente fruibile per gli anziani che quotidianamente amano incontrarsi e - sottolinea Sarcinella - per le famiglie che la frequentano soprattutto nei week-end.

Peraltro, proprio con il ritorno dei fasanesi in città, dai rispettivi posti di villeggiatura, sono ritornate le segnalazioni alla coop. diventata un punto di riferimento per i cittadini. Ci chiedono di rattoppare le buche di qualche strada - spiega Sarcinella - e, proprio in questi giorni stiamo sostituendo le chianche delle vie dove ancora insistono. Ovviamente, quelle rotte e diventate pericolose per l’incolumità dei passanti. Stiamo, peraltro, sistemando anche la segnaletica, lì dove occorre".

Bari: operaio belga è stato tre mesi "abbandonato" in cella

 

Asca, 21 settembre 2007

 

Solo ieri Jean, lo chiameremo così per tutelare la sua privacy, operaio belga di 36 anni, ha potuto fare ritorno a casa, dalla sua futura sposa, dopo una lunga serie di sfortunate disavventure giudiziarie che hanno richiesto l’intervento di Consolato, Ambasciata Belga ed il lavoro di un avvocato, Carlo Petrone, che ha preso a cuore la sventurata storia. La storia di Jean inizia a giugno quando dal Belgio, quale saldatore specializzato, viene chiamato da un’azienda che lavora in Ilva per svolgere alcune delicate mansioni.

Soggiorna in un albergo a Castellaneta. Si trova bene, tanto che decide di farsi raggiungere dalla fidanzata e futura sposa in Italia. All’aeroporto di Bari inizia la sua storia incredibile: viene svaligiato e perde in un sol colpo denaro, documenti, effetti personali. È solo in un paese straniero ed è in difficoltà. Cerca di far rimpatriare almeno la sua fidanzata. Si reca in ufficio chiedendo l’aiuto dei colleghi, vorrebbe usare il furgone della ditta almeno per accompagnare la sua donna all’aeroporto di Bari per far ritorno in Belgio.

I colleghi gli negano il favore. Jean perde la testa, li minaccia con un coltello, è completamente fuori di sé. Prende il furgone, accompagna la fidanzata a prendere l’aereo e poi si reca in questura per cercare di risolvere il problema dei documenti. Poco dopo, viene arrestato dai carabinieri con l’accusa di rapina. Mentre il gip di Taranto convalida l’arresto i colleghi che probabilmente lo avevano denunciato ritornano in Belgio e diventano irreperibili. Jean è solo, non ha una casa, non sa dove andare, è un cittadino europeo e potrebbe scontare il periodo di arresti domiciliari nel suo paese ma l’impossibilità di effettuare i controlli spinge i magistrati a negargli la detenzione domiciliare.

Jean, che non parla italiano, viene chiuso in carcere per tutto il periodo di agosto. Nel frattempo il suo legale, avvocato Carlo Petrone, che ha preso a cuore la situazione del povero operaio belga, si danna nel cercare una soluzione per far scarcerare il suo assistito. Viene interpellata la Caritas, gli alberghi più economici della città. A settembre qualcosa sembra smuoversi, l’avvocato avvia una proposta di patteggiamento a due anni con un pubblico ministero. Due giorni fa, il gip emette provvedimento di scarcerazione.

Il Console del Belgio procura a Jean un passaporto per circolare e fare ritorno nel suo paese dopo questa terribile disavventura. La futura moglie, al telefono dal Belgio segue tutte le operazioni giudiziarie per tramite del legale ed è in lacrime. Nonostante gli sforzi del legale e la tutela ricevuta da consolati ed ambasciate del suo paese, Jean è stato vittima di una incredibile serie di sfortunate coincidenze che non gli hanno permesso di scontare i domiciliari a casa sua, pur essendo nei suoi diritti di cittadino europeo. Un classico esempio di come, ancora oggi, si possa restare vittime della burocrazia.

Droghe: Moratti; basta con le strategie di riduzione del danno

 

Redattore Sociale, 21 settembre 2007

 

Una legge che distingua fra consumatore e spacciatore; no alla classificazione delle droghe in leggere e pesanti; stop a politiche di riduzione del danno. La strategia del sindaco di Milano, illustrati al convegno dell’Ecad.

Una legge che distingua fra consumatore e spacciatore, no alla classificazione delle droghe fra leggere e pesanti, basta alla politiche di riduzione del danno. Sono i tre punti delle lotta alla droga di Letizia Moratti, sindaco di Milano, illustrati questa mattina in apertura del convegno internazionale dell’European Cities Against Drugs (Ecad), rete di 300 città europee, che si sta svolgendo nel capoluogo lombardo.

"È arrivata l’ora di dire basta alle politiche di riduzione del danno - ha esordito il sindaco di Milano -. Non esistono droghe leggere e pesanti. Questa distinzione è il frutto di una cultura sbagliata. La verità è che sono tutte dannose", ha aggiunto. Di fronte a operatori, esperti e politici provenienti da diversi paesi europei, il sindaco di Milano ha rilanciato la sua politica contro la droga che aveva spiegato il 10 maggio scorso, in occasione della presentazione del kit antidroga distribuito alle famiglie milanesi. "Nel pacchetto sicurezza, che insieme ad altri sindaci ho proposto ieri al ministro degli Interni Giuliano Amato, c’è la richiesta di modificare la legislazione in tema di droga per distinguere in maniera netta fra consumatore e spacciatore", ha sottolineato il sindaco di Milano.

Per riduzione del danno si intendono gli interventi che non hanno come obiettivo quello di convincere il tossicodipendente a smettere, ma di limitare le conseguenze negative dell’uso di droghe (per esempio aids ed epatiti; ndr). Sono quindi riduzione del danno le macchinette scambia siringhe, i camper che offrono cibo e cure mediche, i centri di accoglienza che permettono al tossicodipendente di trovare un luogo dove lavarsi, mangiare e parlare con educatori o psicologi, oppure la somministrazione di metadone. "Bisogna investire in prevenzione e nei progetti di recupero integrale dei tossicodipendenti - sottolinea Letizia Moratti -. Una prevenzione, però, che non si limita a dire che le droghe fanno male, ma che aiuti i ragazzi a ricreare un rapporto positivo con se stessi, gli amici, i genitori, gli insegnanti e, più in generale, il mondo che li circonda".

Anche lo spinello è dannoso. "Secondo gli studi pubblicati dalla rivista scientifica Lancet - ha affermato Letizia Moratti -, dieci anni fa soltanto 1600 persone erano in cura per abuso di cannabis; oggi sono 22 mila, la metà dei quali ha meno di diciotto anni". Secondo Lancet lo spinello può causare gravi disturbi psicologici, con danni permanenti, perché oggi la cannabis è 25 volte più potente rispetto a quella diffusa nei decenni passati. "Queste sono evidenze scientifiche - ha sottolineato Letizia Moratti -. La lotta alla droga non va combattuta seguendo le ideologie, ma analizzando i dati scientifici e i risultati delle terapie fin qui adottate", ha concluso.

Droghe: la riduzione del danno? una necessità per gli operatori

 

Redattore Sociale, 21 settembre 2007

 

Le reazioni alle proposte della Moratti. Gatti (Asl Milano): "In linea di principio sono d’accordo con il sindaco. Ma cosa facciamo con chi non riesce ad uscire dalla droga? Lo abbandoniamo?".

Loro la riduzione del danno la praticano e non l’abbandonano. È una necessità, perché non tutti i tossicodipendenti sono in grado di intraprendere da un giorno all’altro un programma di recupero in una comunità. Letizia Moratti, in apertura del convegno internazionale dell’Ecad, ha ribadito il suo no alle politiche di riduzione del danno (vedi lancio precedente; ndr). Fra il pubblico, molti operatori di enti, comunità e associazioni che si occupano di droga. "In linea di principio non sono contrario a quello che dice il Sindaco - afferma Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento dipendenze dell’Asl di Milano -. Se infatti ci si limita a distribuire siringhe, è ovvio che non si risolve il problema. Ma la questione è invece un’altra: cosa facciamo con chi non riesce ad uscirne? Lo abbandoniamo? In realtà la riduzione del danno deve far parte di una più ampia serie di interventi che vanno dalla prevenzione al recupero". Nel maggio scorso Letizia Moratti aveva annunciato che non avrebbe più stanziato fondi per le macchinette scambia siringhe. "Il servizio è dell’Asl e va avanti - sottolinea Riccardo Gatti -. Inoltre, dobbiamo risalire al perché fu introdotto: non si voleva solo impedire che i tossicodipendenti si ammalassero di aids, ma anche evitare che nei giardini ci fossero siringhe abbandonate".

A Pavia la Casa del Giovane ha avviato nel 2006 il centro "In out", dove giovani senza dimora possono trovare un luogo accogliente con doccia, lavanderia, sala computer, cibo ed educatori. "Abbiamo avuto finora circa 6 mila contatti - spiega Simone Feder, responsabile del centro -. Molti fanno uso di droghe. Con questo centro riusciamo ad instaurare con loro un primo rapporto di amicizia e l’anno scorso 6 hanno accettato di entrare in una comunità di recupero". Uscire dalla droga non è facile, ci vuole tempo. "Molti di questi ragazzi sono giovanissimi e di fatto abbandonati a se stessi - aggiunge Simone Feder -. Nel nostro Centro trovano un ambiente che li aiuta a non lasciarsi andare completamente. La riduzione del danno serve quindi a impedire che certe situazioni peggiorino".

Dal nord d’Italia al sud, per gli operatori la riduzione del danno è un primo passo per agganciare i tossicodipendenti. "Nel nostro centro diurno arrivano giovani con problemi di droga, anni di carcere, spesso senza un titolo di studio - racconta don Salvatore Lobue, responsabile della Casa dei Giovani di Palermo -. Offriamo loro un luogo accogliente, dove possono fare una doccia, parlare con qualcuno, mangiare qualcosa di nutriente. Poi pian piano capiscono che da noi possono ricevere un aiuto anche per abbandonare la droga. Nel 2006, 12 di questi giovani passati per il centro diurno sono entrati in comunità".

Droghe: serve un’agenzia per contrastare il traffico di cocaina

 

Redattore Sociale, 21 settembre 2007

 

La propone Marco Minniti, viceministro dell’Interno, intervenuto al convegno internazionale dell’Ecad. Dovrà essere composta dai Paesi del G6 e da quelli africani che si affacciano sul Mediterraneo.

Un’agenzia antidroga composta dai paesi del G6 (Germania, Spagna, Francia, Italia, Polonia e Regno Unito) e da quelli africani che si affacciano sul mediterraneo. Obiettivo: contrastare il traffico di cocaina, che dai paesi dell’America Latina giunge in Europa passando per l’Africa. La propone Marco Minniti, viceministro dell’Interno, che è intervenuto questa mattina a Milano al convegno internazionale dell’European Cities Against Drugs (Ecad).

"Sono due le rotte seguite dai trafficanti - spiega Marco Minniti -. La prima attraverso l’Atlantico, ma li già le polizie europee stanno facendo un buon lavoro, e la seconda attraverso i paesi africani e il mediterraneo. Per un contrasto efficace ci vuole un coordinamento non solo fra i paesi europei, ma anche con quelli africani". Alla proposta di Letizia Moratti, sindaco di Milano, di adottare una legge che distingua chiaramente tra spacciatore e consumatore (vedi lancio precedente; ndr), il vice di Amato ha detto di essere d’accordo: "Dobbiamo essere molto severi sullo spaccio e non fare confusione con chi è invece consumatore".

La lotta al narcotraffico non deve conoscere frontiere, visto che sono gli stessi trafficanti ad essere internazionali. "La ‘ndrangheta calabrese ha un ruolo di primo piano mondiale nel commercio di droga - sottolinea il viceministro dell’Interno -. Per questo dobbiamo rinforzare a livello internazionale la cooperazione fra le forze investigative. Purtroppo, nonostante gli sforzi delle forze dell’ordine, solo il 10% del traffico di droga viene bloccato".

Il 92% dell’eroina venduta sul pianeta viene prodotta in Afghanistan. "La lotta alla droga non è più solo un affare del Ministero dell’Interno, ma è legata anche alla politica estera - spiega Marco Minniti -. La stabilizzazione di questo paese asiatico, che gli eserciti della forza multinazionale finora non hanno realizzato, potrebbe finalmente portare ad una riduzione della produzione di eroina. Finché l’Afghanistan è nel caos, la coltivazione dell’oppio prospera indisturbata".

Droghe: con la repressione aumenta consumo e criminalità

 

Redattore Sociale, 21 settembre 2007

 

Ferrero risponde al sindaco di Milano, che ha annunciato la sua strategia per la lotta alla droga. "D’accordo nell’affrontare il tema nell’ambito nel pacchetto sicurezza, nella prospettiva di superare definitivamente la Fini-Giovanardi".

"La politica proposta oggi da Moratti è la stessa già praticata dal governo di centrodestra e che ha prodotto un’esplosione del consumo di droga e un forte aumento della microcriminalità ad esso collegata". Così il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, che risponde a distanza al primo cittadino di Milano. Letizia Moratti, infatti, aveva illustrato la sua strategia di lotta alla droga nell’ambito del convegno internazionale dell’European Cities Against Drugs (Ecad), rete di 300 città europee, che si sta svolgendo nel capoluogo lombardo. Una strategia fatta di tre cose: una legge che distingua fra consumatore e spacciatore, un "no" netto alla classificazione delle droghe fra leggere e pesanti e uno stop alle politiche di riduzione del danno. "Sono d’accordo con chi ha proposto di affrontare questo tema nell’ambito nel pacchetto sulla vivibilità e la sicurezza nelle città - ha precisato dunque Ferrero -, questo nella prospettiva di superare definitivamente la Fini-Giovanardi".

Francia: test del dna per immigrati approvato tra le polemiche

 

Il Mattino, 21 settembre 2007

 

Parigi. Passa in Francia il discusso e contestato progetto di legge che prevede il test del Dna per gli immigrati che chiedono il ricongiungimento con i familiari. L’Assemblea nazionale (parlamento) ha ieri votato la legge - fortemente voluta dal presidente Sarkozy - che impone un giro di vite in tema di immigrazione. I principali provvedimenti riguardano una maggiore severità per l’arrivo in Francia di mogli e figli di immigrati già residenti, e consente a titolo sperimentale, fino al 2010 il ricorso a test del Dna per verificare paternità o maternità.

Il testo, il quarto su temi di immigrazione negli ultimi quattro anni, è stato approvato dalla maggioranza parlamentare, mentre le sinistre hanno votato contro. Brice Hortefeux, ministro per l’Immigrazione, aveva illustrato tre giorni fa il discusso provvedimento circa il possibile uso di test genetici in caso di incerta paternità. La stessa maggioranza di centrodestra era spaccata sull’emendamento, presentato da un parlamentare filo-sarkoziano, Thierry Mariani. Poi si era trovato un compromesso nella proposta di verificare in via "strettamente sperimentale" i test, fattibili solo su base volontaria. L’emendamento così approvato autorizza gli immigrati a chiedere il test per portare una prova favorevole all’interno della procedura burocratica per il ricongiungimento, soprattutto nei casi in cui gli immigrati provengano da Paesi nei quali lo stato civile non funziona o se non si trova il certificato di nascita. Per meglio marcare la volontarietà, verranno chieste anche le autorizzazioni da parte delle persone che si sottopongono al test, il cui costo sarà rimborsabile.

Ma c’è anche un altro elemento che caratterizza questa nuova legislazione, una sorta di "esame" curato dalle autorità francesi che ogni singolo aspirante immigrato dovrà affrontare nel suo paese, prima di tutto per verificare la conoscenza della lingua. Poi, una volta superato, ci sarà anche la sottoscrizione di una sorta di contratto "di accoglienza ed integrazione". Ma contro il testo approvato ieri, l’opposizione di sinistra annuncia che chiederà un ricorso al Consiglio costituzionale, che dovrà ora essere approvato al Senato. Il "no" al provvedimento si riferisce essenzialmente al test del Dna: non solo perché appare discriminatorio, ma perché restringe in maniera drastica la possibilità di ricongiungimenti familiari, limitandoli in sostanza ai rapporti genitori-figli.

 

 

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