Rassegna stampa 1 settembre

 

Lucca: un detenuto di 60 anni s’impicca nel bagno della cella

 

Il Tirreno, 1 settembre 2007

 

Cinque giorni dopo il suo arresto si è impiccato nel bagno di una cella d’isolamento del penitenziario di San Giorgio il ristoratore lucchese accusato di aver ospitato un latitante e sospettato di far parte di una gang specializzata in rapine. All’origine del gesto estremo sintomo di una profonda depressione problemi di natura personale e familiare indicati in una serie di lettere ritrovate nella sua prigione. Missive che saranno consegnate alla compagna, alla figlia e ad altri conoscenti tra cui due magistrati che avevano seguito il suo travagliato percorso giudiziario. Nel testo solo un minimo accenno, per ribadire la sua innocenza, sul suo ultimo arresto.

Ad uccidersi in carcere Biagio Rotondo, 60 anni, ex collaboratore di giustizia e monitorato anche dalla Dda, nato a Roma e da diversi anni residente nell’Oltreserchio. Venerdì scorso era stato arrestato dalla mobile. Accusato di favoreggiamento per aver ospitato un evaso - Luigi Sacripanti, 53 anni, di Ascoli Piceno, in regime di semi libertà e anche lui ex collaboratore di giustizia - e soprattutto di detenzione di un revolver: una P38 trovata nelle pertinenze del locale. Un’arma con matricola abrasa, in perfette condizioni e con cinque proiettili nel tamburo. Per la squadra mobile - che da mesi stava svolgendo accertamenti anche attraverso intercettazioni telefoniche - l’arresto di Rotondo rientrava nell’ambito di un’inchiesta su una gang dedita alle rapine.

L’ex collaboratore di giustizia, entrato nel programma di protezione alla fine degli anni Ottanta dopo aver commesso vari reati in Lombardia e Liguria, era stato interrogato l’altro giorno dal gip Alessandro Dal Torrione. Era apparso tranquillo. Niente e nessuno avrebbe sospettato quanto stava covando nella sua mente. Per esigenze di giustizia - nel carcere lucchese è rinchiuso anche l’altro arrestato dell’inchiesta - era stato sistemato in isolamento in attesa che il coimputato venisse trasferito in un altro penitenziario.

A trovarlo ormai cianotico è stata una guardia carceraria. Erano le 14 di giovedì quando l’agente di polizia penitenziaria ha bussato alla sua cella chiamandolo per nome. Non ricevendo risposta ha aperto lo spioncino dal quale non si vede però il bagno attiguo. È entrato e fatti pochi passi la macabra scoperta: il ristoratore penzolava dalla finestra sopra il gabinetto. Aveva legato alle grate della finestra il lenzuolo del suo letto formando una sorta di cappio che si era legato attorno al collo.

Era poi salito sulla tazza del water e si era lasciato cadere. I soccorsi sono stati immediati quando inutili. Per Biagio Rotondo non c’era più nulla da fare. La morte è avvenuta per soffocamento. Ma per chiarire tempi e modalità il magistrato di turno Fiorenza Marrara lunedì farà eseguire l’autopsia. È stato incaricato dell’esame necroscopico il dottor Di Paolo. Al termine il cadavere sarà restituito per le esequie alla compagna del ristoratore che per 15 anni ha vissuto con lui.

Giustizia: per la Sinistra la sicurezza è una "spina nel fianco"

 

Aprile on-line, 1 settembre 2007

 

Il tema della sicurezza è sempre più una spina nel fianco della sinistra, in particolare a livello locale. Era maggio quando il Sindaco di Roma Walter Veltroni stipulò con il Ministero dell’Interno i patti di solidarietà sulla questione Rom, con il piano che avrebbe dovuto istituire (le aree non sono ancora state individuate) cinque enormi campi Rom al di fuori del Grande Raccordo Anulare, dove alloggiare oltre 5.000 persone.

L’emergenza in città, si disse allora, giustifica un piano così repressivo, contornato da misure più attuabili, che infatti vengono attuate, come il rientro assistito nei paesi di origine e l’arrivo nella Capitale dei poliziotti romeni.

La sensazione, avvalorata dalle associazioni che con i Rom lavorano quotidianamente e dagli stessi destinatari del provvedimento, fu che il Comune volesse più che altro togliere dalla vista dei romani persone percepite come pericolose, che in ogni caso si sarebbero riversate quotidianamente in città. Come quando a casa si nasconde la sporcizia sotto i tappeti.

Sono passati poco più di tre mesi da allora e in un’altra città amministrata dalla sinistra, Firenze, scatta l’emergenza lavavetri. L’assessore alla sicurezza del Comune di Firenze Graziano Cioni, disperato per la mole di segnalazioni dei cittadini che denunciano aggressioni, minacce e un clima pesante a quasi tutti i semafori della città dichiara guerra a spugne e sapone. Chi viene trovato ai semafori da un paio di giorni finisce davanti al giudice e rischia, oltre al sequestro degli attrezzi, una pena che può arrivare fino a tre mesi d’arresto o una multa da 206 euro. Per non fare demagogia bisogna dire immediatamente che nessuno finirà mai dietro le sbarre per aver lavato un vetro, ma la natura repressiva del provvedimento resta.

E su siti e telegiornali non si contano più i sondaggi sull’argomento: "Siete d’accordo con il provvedimento o no?". E la risposta è "si", a grandissima maggioranza. Dunque i cittadini apprezzano e anche da destra applaudono; il Sindaco leghista di Verona ha già annunciato che anche nella sua città si arriverà ad un provvedimento simile. Si è naturalmente aperta anche la disputa a sinistra: i Ministri Ferrero e Pecoraro Scanio, il Presidente della Camera Bertinotti contro, ambienti del PD a favore, con in testa un altro Sindaco DS, Chiamparino e altri no dai moderati Bindi e Mastella. Veltroni nicchia, il quasi ex Prefetto di Roma ed ex Prefetto di Firenze Serra parla di esigenza di una legge nazionale e ora tutti pendono dalle labbra del Ministro dell’Interno Giuliano Amato che si dovrebbe pronunciare a ore.

Ci sono due risultati evidenti da subito: a Firenze non ci sono più lavavetri e il centro-sinistra è in preda a uno dei tanti tutti contro tutti su una questione più culturale che pratica.

Perché culturalmente e storicamente che si definisce di sinistra, anche in presenza di un forte apprezzamento popolare - sondaggistico, non taglia con l’accetta argomenti come questi che riguardano, come li ha definiti Bertinotti, "gli ultimi". È molto più semplice affrontare gli argomenti del pacchetto sicurezza da destra, o almeno da una certa destra.

I Rom? Sono nomadi e devono girare, per cui via in pochi giorni dalle città. Gli homeless? Li cacciamo dai parchi con gli idranti. I clandestini? In carcere. Gli sbarchi? Cannoneggiamoli. Parole semplici, chiare, dirette. Demagogiche e irrealizzabili, ma non fa niente. Inumane, ma il popolo apprezza e i sondaggi lo dimostrano. A sinistra si dovrebbe cercare di coniugare la legalità con la solidarietà e la tolleranza. Utilizzando misure anche dure ma che non siano indiscriminate e usa e getta.

E poi questi rimedi a cosa portano? Il lavavetri di Firenze, che non potrà più guadagnare quella manciata di euro al giorno, di cui comunque ha bisogno, cosa farà per procurarseli? Così come il Rom spedito fuori dal GRA, non andrà più a Roma? Le risposte sono fin troppo scontate. Le leggi, come in altri contesti italiani ci sono già e sono sufficienti, ma non vengono fatte rispettare.

Le squadre dei vigili che controllano i semafori fiorentini da due giorni non potevano essere utilizzati anche prima per scovare i violenti ed assicurarli alla giustizia? C’è bisogno di cacciare tutti i lavavetri per colpire quelli violenti, o tutti i lavavetri sono diventati violenti? È ancora possibile dividere i violenti dai pacifici, i buoni dai cattivi, gli onesti dai disonesti? O bisogna condannare intere categorie di disperati? Tanti interrogativi a cui dovrà rispondere una sola persona, Giuliano Amato. Buona fortuna, Ministro.

Giustizia: la favola della sicurezza "né di destra né di sinistra"

di Giovanni Russo Spena (Capogruppo al Senato del Prc-Se)

 

Liberazione, 1 settembre 2007

 

Da settimane e mesi ci sentiamo ripetere con martellante insistenza da leader politici, amministratori e opinionisti vari, quasi tutti di area Pd, che la legalità e la sicurezza "non sono né di destra né di sinistra". È una verità banale che nasconde una bugia sostanziale.

Gli obiettivi indicati con la formula "legalità e sicurezza" non sono, effettivamente, né di destra né di sinistra. Gli strumenti con cui questi obiettivi si perseguono invece sì, e anzi la differenza tra le politiche della sicurezza è uno dei principali discrimini politici e culturali tra destra e sinistra.

Per la destra la repressione è, se non l’unico, certamente il primo e principale tra i mezzi utili per contrastare l’illegalità e garantire sicurezza ai cittadini. Per la sinistra la repressione, pur se ovviamente necessaria, è solo uno dei mezzi con i quali fronteggiare l’illegalità, da dosarsi con saggezza e duttilità a seconda delle circostanze, senza mai perdere di vista il quadro complessivo dei problemi che si affrontano e soprattutto senza mai illudersi che la repressione possa essere di per sé strumento risolutivo.

Non si tratta affatto, sia ben chiaro, di ragionamenti eterei da anime belle e tanto meno di applicare una doppia morale severa con i privilegiati e lassista con tutti gli altri. Si tratta appunto di valutare i problemi nella loro totalità e complessità per affrontarli nella maniera insieme più giusta, nella sostanza oltre che nella forma, e più efficace.

Ideologici, e anzi fideisti, sono i sedicenti pragmatici, che seguono il dogma della repressione impermeabili all’esperienza e alle frequenti smentite della realtà. La favola della "sicurezza né di destra né di sinistra" è infatti messa in campo al solo scopo di giustificare l’adozione, da parte del Pd, di una politica compiutamente di destra, la famosa "tolleranza zero".

Chi non la accetta può essere solo un inguaribile sognatore o, peggio, un tardo esempio dell’inguaribile tendenza comunista alla "doppia morale". In entrambi i casi uno che si disinteressa della sicurezza, e che di fatto la contrasta, essendo la "tolleranza zero" l’unica politica valida per ripristinare e garantire legalità. Derivano da qui le sempre più frequenti citazioni dei metodi miracolosi adoperati a New York dall’ex sindaco Rudolph Giuliani, tra le quali spicca quella del ministro degli Interni Giuliano Amato.

In realtà la "tolleranza zero", anche ammesso che la si possa trasferire in una realtà profondamente diversa da quella statunitense quale quella italiana, non è né l’unica né la più efficace politica della sicurezza. È solo quella che risponde meglio e prima alle richieste di una parte dell’opinione pubblica, e certo non la migliore, offrendole una illusione di sicurezza che non corrisponde però alla realtà. A New York e, come segnalava ieri "il manifesto", ancora prima nel New Jersey la tolleranza zero è stata un fallimento, su tutti i fronti tranne quello della propaganda. Nella migliore delle ipotesi si è limitata a esportare microcriminalità e accattonaggio fuori dai confini di Manhattan.

Faccio alcuni esempi. Agli inizi degli anni ‘80 la situazione nelle carceri italiane era disastrosa da tutti i punti di vista, con un livello di violenza estremo. Il dogma della "tolleranza zero" avrebbe richiesto un durissimo intervento repressivo, che in realtà ci fu ma raggiunse solo il risultato di peggiorare ulteriormente la situazione. A risolvere il problema fu una politica di segno opposto, l’introduzione cioè delle misure alternative alla detenzione, pur con tutti i limiti dovuti alla forte discrezionalità con le quali le misure premiali vengono applicate. Una bestemmia per i credenti della "tolleranza zero".

Per contrastare la microcriminalità legata allo spaccio di stupefacenti, intelligenti politiche antiproibizioniste, diffusione di misure alternative alla detenzione e lotta durissima alle centrali internazionali dello spaccio sarebbero senz’altro più efficaci, pur se meno scenografiche, delle crociate inutilmente in corso da anni contro la microcriminalità.

E la creazione di un centro sociale all’interno di un edificio occupato, sarà pure un gesto illegale ma offre a migliaia di giovani un’alternativa alla disperazione, all’isolamento e alla criminalità. In ultima analisi contribuisce a garantire una maggiore e non minore sicurezza.

La "tolleranza zero" non garantisce i risultati promessi, e spesso anzi li allontana. In compenso produce guasti in quantità: dall’impennata delle brutalità poliziesche più o meno gratuite alla degenerazione in una sorta di "guerra contro i poveri" sino a un imbarbarimento complessivo della civiltà giuridica, della capacità di convivenza e della cultura complessiva di un paese. Al quale, del resto, stiamo già assistendo e non solo per responsabilità della destra ma anche, e ultimamente soprattutto, del principale partito del centrosinistra.

Giustizia: il nostro slogan deve essere "intolleranza zero"

di Moni Ovadia (Attore teatrale e scrittore)

 

L’Unità, 1 settembre 2007

 

L’Italia non cessa di stupirci per le sorprese che ci riserva ad ogni nuovo giorno che espletiamo il rito dell’acquisto dei nostri quotidiani. I titoli ci fanno scoprire che i problemi endemici che affliggono il paese come: lo strapotere della criminalità organizzata che controlla intere regioni, l’evasione fiscale, la diffusa corruzione, le anomalie di un partito azienda che impedisce il formarsi di un autentico partito conservatore, le speculazioni sui prezzi, un parlamento pieno di inquisiti e condannati riciclati, l’impoverimento di fasce sempre più vaste della popolazione, le morti sul lavoro, il lavoro nero, il trionfo dell’illegalità a causa di un sistema giustizia in stato di quasi paralisi, sono piccole cose perché il paese è afflitto soprattutto dalla microcriminalità ed in particolare dai lavavetri.

Il ministro dell’interno l’on. Giuliano Amato, politico solitamente avveduto e dalla indiscutibile preparazione, invita i governanti centrali e locali alla tolleranza zero, su imitazione del celebre Giuliani ex sindaco di New York, perché i cittadini vivono in un clima di insicurezza e la lotta alla criminalità deve partire dal basso altrimenti non si potrà mai sconfiggere la grande criminalità. Dunque ripuliamo le nostre città dai lavavetri e mafia, ‘ndrangheta e camorra si scioglieranno come neve al sole.

A Firenze un amministratore di sinistra emana provvedimenti per dare filo da torcere ai famigerati lavavetri e si riapre l’appassionante dibattito: la lotta alla microillegalità è di destra o di sinistra? Io sapevo che eravamo davvero mal messi nel bel paese, ma è duro rendersi conto che toccato il fondo ci tocca scavare.

È mai possibile che da noi non si possa fare ricorso a leggi serie fondate su un tessuto etico condiviso, invece che lasciarsi andare a trovate propagandistiche per raschiare consensi? Se esiste un racket dei lavavetri che riduce in stato di sfruttamento criminale o di schiavitù degli esseri umani si colpisca il racket, ma se si tratta di un poveraccio che cerca di raggranellare qualche spicciolo per sopravvivere, accanirsi contro di lui è prima di tutto un atto di crudeltà mentale originato da un deficit patologico di senso dell’umanità.

E perché si continua ad alimentare l’allarme insicurezza mentre trafficanti di carne umana che schiavizzano e brutalizzano l’umanità abbandonata dei clandestini per favorire il lauto arricchimento di italianissimi imprenditori agiscono pressoché indisturbati? E che dire delle migliaia di clienti di due prostitute quattordicenni rumene, poco più che bambine (la notizia viene dalla prima pagina del quotidiano di Genova, il Secolo XIX)?

Quei clienti sono nostri concittadini e anche se non lo posso provare ci scommetterei una fortuna che sono elettori moderati, proprio di quel tipo che impreca contro l’insicurezza e la microcriminalità mentre con grande gusto violenta a pagamento delle fanciulle. È facile demagogia la mia? Possibile, ma cos’è allora la campagna contro i lavavetri che tutt’al più ti "violentano" il parabrezza, che cos’è allora l’ossessione sicuritaria che non colpisce il criminale, ma criminalizza a priori intere categorie sociali o umane.

Qualcuno degli aspiranti sceriffi si è mai dato la pena di parlare con qualcuno di questi lavavetri, o di frequentare qualche rom o sinti, di ascoltarne la storia, di mettersi all’ascolto della sua altra umanità per imparare invece che per giudicare?

A me è capitato di stabilire un rapporto sia con gli uni che con gli altri e ho ritrovato la mia origine di profugo. A molti italiani servirebbe ritrovare la propria memoria di figli di emigranti che ricevevano lo stesso trattamento che loro vorrebbero riservare agli emigranti in casa nostra.

Perché nel paese degli "italiani brava gente" succedono fatti come questi: uno straordinario musicista rom rumeno, formato nelle migliori scuole musicali del suo paese, prima di diventare una persona per bene grazie all’ingresso della Romania nella Comunità Europea, suonava nella metropolitana per mantenere la famiglia. Alcuni zelanti difensori del diritto alla sicurezza gli sequestrarono per ben due volte il clarinetto. Doveva essere certo essere una pericolosa arma impropria, come la bottiglia di plastica e lo strofinaccio del lavavetri.

In conclusione: l’ossessione sicuritaria è una tipica forma del pensiero reazionario, i democratici combattono la microillegalità nel quadro della solidarietà e della mediazione sociale, rispettando le alterità e gli specifici culturali. Il nostro slogan è: "intolleranza zero"!

Lettere: Uepe; appello per riconoscimento "lavoro usurante"

 

Blog di Solidarietà, 1 settembre 2007

 

Stanno giungendo molte adesioni al documento Disegno di Legge lavoro usurante. I documenti vanno inviati agli On.li Silvio Crapolicchio e Ferdinando Benito Pignataro. Vi invitiamo a comunicare la vostra adesione al Casg o direttamente al Blog solo dopo aver inviato il proprio documento firmato (utilizzando eventualmente come fac-simile il documento pubblicato sul blog) ai sopraindicati onorevoli (per posta va indicato come indirizzo quello della camera dei deputati).

Al momento ci sono pervenute le seguenti adesioni: Accarino Lidia, Alfano Ivana,Ascolese Maria Giovanna, Baldi Ornella, Bucaro Anna Maria, Cantelmi Rosa, Cataldo Rosanna, Della Monica Maria, Della Mura Antonietta, Di Filippo Grazia, Falcone Maddalena, Folino Giovanna, Gigliotti Elisabetta, Giuliano Dolores, Giurbino Sebastiana, Landi Carmela, Leccese Maria Rosanna, Lo Iacono Donatella, Merola Giuseppina, Renzulli Maria Luigia, Russo Assunta, Salsano Barbara, Siani Italia, Suozzo Carmela, Veneto Anna Maria, Vicinanza Elvira, Alessandra Aloisi, Buzzelli Giacinta, Giangiacomo Gabriella, Anna Insardi, Luana Tunno, Anna Maria Zimar, Bencini Paola, Boscolo Michela, Bucchioni Enrica, Danovaro Nicla, Ferro Antonella, Zolesi Marina, Ecca Aurelia, Gassani Roberta, Ricciolini Marina, Pesiri Elisabetta, Tognoni Annalisa, Anna Insardi e Luana Tunno, Mandola Carolina; Mauro Giulio Biagio, Chelotti Francesca, Vespertino Lucia, Lombardi Sabrina, Corsi Annagloria, Pisano Bruna, Di Cintio Emanuela.

Lettere: dall’Ordine Assistenti Sociali del Trentino Alto Adige

 

Blog di Solidarietà, 1 settembre 2007

 

Questo Ordine regionale ha ricevuto, nei mesi scorsi, una nota inviata dagli assistenti sociali che lavorano presso l’Ufficio di esecuzione penale esterna di Trento, a cui è seguito un incontro tra alcuni di loro ed alcuni componenti del Consiglio. In questa sede i colleghi hanno ribadito la preoccupazione rispetto ai cambiamenti proposti dalla bozza di Decreto Ministeriale prima ed ora Interministeriale.

Il nostro intervento nasce quindi dalla necessità di tutelare il Servizio Sociale nei vari contesti dell’esercizio professionale tenendo in debita considerazione tutte le istanze che arrivano dalle varie realtà operative, con uno spirito costruttivo e non rivendicativo, di cui questo Ordine regionale vuole farsi portavoce.

In merito alla questione del nucleo di verifica della Polizia penitenziaria presso gli Uepe, stiamo seguendo con profondo interesse l’evolversi di una situazione legislativa che pone in grave disagio professionale gli assistenti sociali che operano negli Uepe sul territorio nazionale. Siamo in accordo con quanto scritto dal Consiglio regionale d’Abruzzo in data 01 agosto 2007, da altri Ordini regionali nei mesi precedenti e dallo stesso Ordine nazionale nel documento di maggio c.a.; abbiamo raccolto e letto vario materiale in merito, attraverso il sito del Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia (www.casg.it) e nell’apposito sito www.solidarietaasmilano.blogspot.com, così come ci è sembrato particolarmente delicata e da non sottovalutare la posizione indicata dal Cnca nel documento di data 19 luglio 2007 ("No alla polizia penitenziaria negli Uffici di esecuzione penale esterna" in www.cnca.it).

Il tema è di grande rilevanza proprio perché coinvolge differenti professionalità, e crediamo vada prestata la giusta attenzione affinché non si riduca ad un mero conflitto tra di esse, bensì si cerchi di far rispettare quanto indicato nel nostro Codice Deontologico, poiché è la parte che ci compete (si vedano art. 10, artt. 41 e 42, artt. 44 e seguenti).

Riteniamo fondamentale che il Consiglio Nazionale mantenga il proprio ruolo di interlocutore con i due Ministri (di Giustizia e dell’Interno) in quanto soggetto legittimato ad inserirsi nel processo in atto al fine di poter garantire la tutela della competenza e del mandato istituzionale e professionale del Servizio Sociale della Giustizia. Al contempo siamo disponibili ad affiancare l’Ordine Nazionale sia partecipando ai futuri incontri sull’argomento (come previsto nella seduta del Consiglio Nazionale del 14 e 15 giugno 2007), sia condividendo azioni omogenee su tutto il territorio nazionale di cui ogni Ordine regionale può e deve farsi portavoce nel proprio territorio di competenza.

 

Il Presidente, Anna Lisa Zambotti

Lettere: detenuto da Prato; "recidiva è un fallimento per tutti"

 

Ristretti Orizzonti, 1 settembre 2007

 

Fui arrestato nel secondo anno del 21° secolo e, sinceramente, mai avrei creduto che, nonostante quel marchio indelebile che ognuno di noi porta, potessimo essere aiutati a condurre una vita dignitosa, una volta usciti da qui.

Non era la prima volta che finivo in galera, questa è la terza carcerazione, ma le prime due erano così brevi che del carcere non avevo compreso nulla e nemmeno riuscivo a capire il valore di quello che progressivamente avevo iniziato a distruggere: la mia vita, quella dei miei cari e la vita altrui.

Ormai, sono da un bel po’ d’anni nelle patrie galere e mentre vivo sulla propria pelle la vita del carcerato, ho la possibilità di ascoltare e leggere chi alle galere dedica un pensiero.

Infatti, da una parte, leggo e ascolto intelletti - competenti sì, in materia carcere, ma muniti di un’ampia improbabilità d’essere presi in considerazione - che osservano il pianeta carcere e con occhi attenti disegnano il plateale fallimento di meccanismi, mirabilmente orditi per quella che dovrebbe essere "la Giustizia riparativa" e che molti invece considerano "Giustizialismo".

Dall’altra parte invece, con infinita commiserazione, leggo e ascolto i no-indulto e la loro reiterata attitudine a caricare l’atto di clemenza (approvato l’estate scorsa) di valenze negative che vanno ben al di là della sua reale portata; persone che "colmano" i giornali ed altri mezzi di comunicazione con le loro dichiarazioni, estendendo arbitrariamente il loro punto di vista, influenzando così anche chi del pianeta carcere non ha mai visto nemmeno l’atrio. Mentre, attraverso le piccole fessure che gettano luce in questi spazi sempre più angusti, scruto che c’è sempre chi prende le parti di "Caino" e stenta a combattere per ciò che la politica italiana teme: il cambiamento!

Mi riferisco agli operatori sociali e ai volontari; gente motivata che consapevolmente persevera all’interno di strutture che mantengono inalterate le proprietà nutritive di una società intollerante e forcaiola, con la più estesa solidarietà umana: per dirlo alla cristiana "Come Cristo Comanda".

Avrei quindi un messaggio proprio per coloro che lottano faccia a faccia col mondo e con le sue contraddizioni, che si oppongono alla struttura carceraria e ai danni che produce, per poi avere come "ritorno", da alcuni di noi, la ricaduta; la recidiva, che nel settore carcere, per chi ci crede ancora, è sinonimo di fallimento:

"Tenete sempre presente che, quando abbiamo compiuto gli atti che ci hanno portato nel "ventre della bestia", è stato - in primis - un fallimento per i nostri genitori e se qualcuno di noi tornerà a pestare il fango, non vi scoraggiate, continuate a credere, perché in mezzo a noi ci sono sempre persone alla ricerca della legalità, per uscire da quel fiume impetuoso e sfuggire alla turpe corrente che fa rotta verso un mare pieno di guai".

 

Mirgen Krepi, recluso presso la C.C. di Prato

Lettere: da Savona; appello a Mastella per un detenuto malato

di Roberto Nicolick, Consigliere Provinciale Gruppo Misto di Savona

 

Ristretti Orizzonti, 1 settembre 2007

 

Egregio on. Clemente Mastella, essendo a conoscenza della sua sensibilità, le scrivo per presentarle un caso umano e giudiziario che, sicuramente, potrà attirare la sua benevola attenzione. Le premetto che il Ministro che l’ha preceduta, Roberto Castelli, mi ricevette assieme ai parenti, per ascoltare un caso analogo, di una giovane donna, morta in circostanze da chiarire presso la Struttura Arcobaleno a Castiglione delle Stiviere (Mantova).

Le raffiguro il caso in modo sintetico e chiaro: Majale Michele, nato a Mazara del Vallo, Trapani, il 25 settembre del 65. Casualmente è un mio ex allievo delle scuole medie che conosco molto bene. Majale risiede a Savona dal 68, in Via XX Settembre 16/7. Michele non ha mai avuto una vita facile e serena, tentando addirittura il suicidio a 14 anni.

Majale attualmente è sotto custodia cautelare presso la Casa Circondariale di San Remo (Im); precedentemente era, sempre in medesimo regime, nella Casa Circondariale di Savona. Il suo stato di salute è da anni precario, diabete in una delle sue forme più gravi, epatite cronica tipo C, ha subito diversi interventi chirurgici, di cui l’ultimo intervento, da pochi mesi, all’intestino con asportazione di polipi rettali. Inoltre Majale ha uno scompenso psichico certificato da una psichiatra forense, con gravissimi disturbi della personalità. Quindi se vogliamo essere corretti, il vero sito dove portare a vivere e a curarsi il Michele Majale non è una struttura carceraria ma al contrario una comunità terapeutica che rappresenta l’unica alternativa valida ad un lungo percorso riabilitativo.

Questa possibilità è stata prescritta dal Magistrato attraverso una ordinanza, che è allo stato attuale delle cose è disattesa dalle strutture sanitarie. Quasi come se non si volesse dare una possibilità di riabilitazione a Michele Majale. Successivamente un altro magistrato ha annullato l’ordinanza di ricovero. Nonostante a carico di Majale esistano ben tre perizie medico-legali di natura psichiatrica, una di parte e due del Tribunale, le quali senza alcun dubbio ed incertezza certificano il grave stato di malattia mentale di Michele.

Condannando di fatto, una persona gravemente malata a rimanere in un carcere, che non è il luogo idoneo, visti i suoi disturbi. Majale, percepito lo stato di ingiustizia a cui è sottoposto, supportato dalla famiglia e da me come eletto nelle Istituzioni, ha deciso di iniziare uno sciopero della fame, della sete e , correndo un grave pericolo, anche dei farmaci, che sono per lui di importanza vitale. Questo suo sciopero ha avuto inizio il 24 u.s. e sta proseguendo sino a che, il Majale non avrà un incontro con un magistrato. La sua situazione è attualmente molto grave, urge un intervento urgente.

Signor Ministro, nonostante le gravi condizioni di salute, fisica e mentale, Majale è rinchiuso in una cella di isolamento, al buio, dal 23, con tutte le conseguente del caso. Signor Ministro della Sanità, On Livia Turco, ritengo molto strano che la struttura sanitaria locale di Savona, Cim, e Sert abbiano evitato accuratamente il problema nonostante Majale Michele sia stato un paziente di questi servizi.

Chiedo pertanto che questi Ministeri competenti, inviino sul posto un Ispettore Ministeriale per appurare tutti i risvolti della vicenda; chiedo inoltre con urgenza che il Majale, viste le sue condizioni di salute, da più parti certificate, sia trasferito in una Comunità terapeutica dove possa ricevere tutte le cure del caso. Certo di un sollecito intervento, dichiarandomi disposto ad eventuali chiarimenti, porgo cordiali saluti.

Foggia: assessore scriverà a Mastella per detenuto disabile

 

Teleradioerre, 1 settembre 2007

 

"Sul caso di Andrea, giovane detenuto foggiano disabile al 100%, scriverò una lettera al Ministro Mastella con la speranza, questa volta, di una adeguata attenzione e di una risposta scritta". Anche l’assessore comunale ai diritti dell’uomo Michele Del Carmine interviene, sulla vicenda del 20enne invalido, attualmente in carcere a Reggio Calabria, paralizzato in un letto 24 ore su 24. "Andrea, riapre uno dei grandi paradossi della giustizia italiana, scrive Del Carmine, quello del diritto universale alla salute, che, ancora oggi a distanza di più di otto anni dalla norma che disciplina il riordino della medicina penitenziaria, continua a viaggiare a velocità diverse.

"Le lettere dal carcere delle persone recluse e i pochi soggetti cui è consentito oltrepassare il muro e guardare "dentro ogni carcere", ci descrivono una realtà sempre caratterizzata dall’emergenza. A Foggia, si legge ancora nella lettera firmata dall’assessore Del Carmine, durante l’ora d’aria non ci sono bagni disponibili né panchine per chi vuole sedersi se ha un problema fisico.

Quella della sanità penitenziaria è una questione di democrazia prima ancora che di costi: attribuire le responsabilità a chi di dovere. Dopo più di otto anni, è ora di procedere al passaggio delle competenze al Ssn - Sistema Sanitario Nazionale. La tutela della salute delle persone recluse non può essere limitata da esigenze di sicurezza e confinata nei documenti di programmazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma, conclude la missiva, deve procedere su un binario unitario insieme a quella del mondo esterno.

Spoleto: il Sappe contrario al corso di pugilato per i detenuti

 

Comunicato stampa, 1 settembre 2007

 

"Realizzare in un carcere una attività di preparazione tecnico sportiva finalizzata all’addestramento della boxe riservata ai detenuti appartenenti ai circuiti Alta Sicurezza ed Elevato Indice di Pericolosità vuol dire preparare i detenuti al combattimento contro i poliziotti penitenziari con i soldi dello Stato e cioè è non solo moralmente indegno ma vergognoso e inaccettabile.

Per questa ragione il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’Organizzazione più rappresentativa della Categoria con oltre12mila iscritti, proclama da oggi lo stato di agitazione nella Casa di Reclusione di Spoleto - Istituto nel quale l’Autorità Dirigente ha avuto questa brillante idea - e, nei giorni 3 e 4 settembre prossimi, una riunione sindacale permanente con tutto il Personale di Polizia per fare revocare tale attività sportiva.

E, aggiungo, credo sia il caso che il Ministro della Giustizia Clemente Mastella ed il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Ettore Ferrara rimuovano l’attuale Direttore del carcere di Spoleto e lo destinino ad altri incarichi, certo non a dirigere penitenziari visto che dimostra di non conoscere quali effetti pericolosi possano provocare certe abnormi decisioni".

È quanto afferma Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’Organizzazione più rappresentativa del Personale con 12mila iscritti, commentando l’iniziativa della Direzione del carcere di Spoleto di organizzare dal prossimo 12 settembre un corso di boxe per i detenuti delle sezioni Alta Sicurezza ed Elevato Indice di Pericolosità della Casa di Reclusione.

Spiega ancora Capece: "Ci risulta che in data 23 agosto 2007 è stato divulgato un avviso indirizzato alla popolazione detenuta, informandola della possibilità di accedere ad una attività di preparazione tecnico-sportiva tenuta da una allenatore della "Società Boxe" di Spoleto, da svolgersi presso la palestra detenuti dell’istituto dal 12 settembre 2007.

Il Sappe, da subito con la Segreteria locale, ha espresso il suo forte dissenso nei confronti di questa iniziativa, non solo perché in palese controtendenza rispetto a precedenti attività trattamentali (recentemente è stato tenuto un corso sulla non violenza) ma soprattutto perché addestrare i detenuti al combattimento, potenzialmente potrebbe esporre ancor di più del consueto a seri rischi per l’incolumità fisica di tutti gli operatori di Polizia Penitenziaria e delle altre aree che per ragioni di servizio hanno un contatto diretto con i detenuti stessi.

Voglio ricordare a chi ha avuto la brillante idea di organizzare questo corso che negli ultimi anni numerosi sono stati gli episodi di aggressione da parte di detenuti , sia nei confronti del personale di Polizia penitenziaria che di altre aree, con conseguenze spesso gravi e che hanno comportato nel complesso centinaia di giorni di prognosi per il personale oggetto delle aggressioni stesse.

Per questi motivi, nell’interesse del personale che quotidianamente svolge la propria attività lavorativa a contatto con la popolazione detenuta, il Sappe chiede con fermezza l’immediata revoca della suddetta iniziativa, proclamando lo stato di agitazione della Categoria e un’assemblea permanente con tutto il Personale nei giorni 3 e 4 settembre 2007, nonché al Ministro della Giustizia Clemente Mastella ed il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Ettore Ferrara di rimuovere l’attuale Direttore del carcere di Spoleto, destinandolo ad altri incarichi ma certo non a dirigere penitenziari visto che dimostra di non conoscere quali effetti pericolosi possano provocare certe abnormi decisioni."

Tempio Pausania: Caligaris (Sdi); riaprire subito il carcere

 

Agi, 1 settembre 2007

 

"In attesa della costruzione delle nuove case di reclusione di Cagliari e Sassari, il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria devono tempestivamente riaprire e rendere funzionante La Rotonda di Tempio". Lo chiede la consigliera regionale socialista Maria Grazia Caligaris (Sdi), segretaria della commissione "Diritti Civili".

"È un’occasione non solo per migliorare la situazione negli altri istituti ma anche", aggiunge l’esponente socialista, "per favorire il rientro dei detenuti sardi dalle carceri della penisola nel rispetto del principio della territorializzazione della pena prevista dalla legge sull’ordinamento penitenziario, dall’intesa sottoscritta da Regione, Ministero e Dap e da un ordine del giorno approvato all’unanimità dall’Assemblea sarda".

"È assurdo che gli sforzi finanziari, compiuti per la ristrutturazione de "La Rotonda" siano vanificati o si realizzi un’altra incompiuta. Il ministro Mastella deve ridistribuire i nuovi agenti di polizia penitenziaria non pensando esclusivamente alle regioni del Nord", ha sottolineato Caligaris. "La situazione penitenziaria dell’isola, nonostante l’indulto, è ancora pesante, anche per i lavori di ristrutturazione in corso come dimostra il sovraffollamento della sezione femminile di Buoncammino. La riapertura della struttura di Tempio - ha concluso Caligaris - diventa, quindi, di indubbia utilità".

Pisa: l’avvocato Callaioli è diventato il Garante dei detenuti

 

Il Tirreno, 1 settembre 2007

 

Arriva anche a Pisa il garante per i diritti dei detenuti. Sulle orme di Firenze e di un’altra ventina di città italiane, l’amministrazione comunale ha ufficializzato la nuova figura istituzionale. L’uomo scelto per ricoprire questo ruolo è l’avvocato Andrea Callaioli che è stato selezionato in seguito a una selezione dei curricula pervenuti in Comune. Il garante è una figura prevista dallo statuto del Comune che svolgerà compiti di promozione dei diritti e di partecipazione alla vita civile per i detenuti.

In pratica, si tratterà di un aiutante per superare i cavilli burocratici e gli intoppi procedurali. "Il garante non avrà competenze di tipo giudiziario - ha spiegato il sindaco - ma sarà un punto di riferimento per i detenuti". Lo stesso Callaioli, intervenuto alla presentazione insieme al sindaco, al direttore del Don Bosco Vittorio Cerri e al comandante del reparto di polizia penitenziaria Marco Garghella, ha affermato: "il mio compito non sarà tanto quello di garantire il rispetto della legge, cosa che avviene già adesso in maniera impeccabile, ma si tratterà soprattutto di fornire un appoggio a chi è sotto restrizione della libertà.

Un esempio? Il lavoro. Svolgere attività nel carcere o cercare di garantire un’occupazione ai detenuti una volta usciti saranno competenza di questa nuova figura". Il garante non è un avvocato dei detenuti, ma un coordinatore il cui compito è anche quello di aiutare gli avvocati. Callaioli sarà operativo già da oggi e lo sarà ogni martedì dalle 14 alle 16, quando entrerà nell’istituto e aprirà lo sportello nel carcere.

"Presto - ha commentato l’avvocato - discuteremo con il sindaco anche l’istituzione di uno sportello esterno". La novità del garante si inserisce in una discussione a livello nazionale approdata anche recentemente in parlamento. È alla Camera un disegno di legge che intende recepire una risoluzione dell’Onu del 1993 in materia di diritti umani: l’assemblea Onu aveva previsto in ogni paese la costituzione di una Commissione nazionale per promozione e protezione dei diritti umani e per la tutela dei diritti dei detenuti. Recepita con colpevole ritardo dall’Italia, è ora al vaglio delle istituzioni.

A Pisa, invece, qualche mese fa il consiglio comunale ha modificato lo statuto e ha inserito l’istituzione del garante. Grande apprezzamento è stato espresso dal direttore Cerri che ha sottolineato con entusiasmo la proficua collaborazione col Comune e ha affermato senza mezzi termini che "oggi è stata scritta una nuova pagina nella storia del nostro istituto". Grandi aspettative ci sono anche da parte del personale di polizia penitenziaria.

A farsene portavoce è il comandante Marco Garghella che ha ricordato quante e quali siano le difficoltà nel rapporto con i detenuti: "Contiamo molto nell’aiuto del garante su varie questioni: ad esempio, alle volte è difficile interagire coi detenuti extracomunitari, anche a causa delle barriere linguistiche, perciò non sempre riusciamo ad accogliere le loro richieste. Contiamo molto sul fatto che questa nuova figura ci aiuti a mantenere basso il livello di tensione".

Immigrazione: Cagliari; in aeroporto nuovo centro accoglienza

 

Notiziario Aduc, 1 settembre 2007

 

Una palazzina di tre piani all’interno dell’aeroporto militare di Elmas, a pochi chilometri da Cagliari, ospiterà, tra qualche settimana, il centro di accoglienza e soccorso per gli immigrati clandestini che sbarcano sulle coste del sud Sardegna. Lo hanno confermato, durante l’incontro con la stampa al termine della riunione di questa mattina sull’immigrazione, il capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, Mario Morcone, il Prefetto di Cagliari, Salvatore Gullotta, e l’assessore regionale della Sanità, Nerina Dirindin.

Per la disponibilità della struttura, che dovrà essere adeguata ad accogliere circa 200 persone (attualmente solo il primo piano è attrezzato), si attende ancora il via libera dal Ministero della Difesa, mentre già fra qualche giorno una unità mobile di primo soccorso, con a bordo un medico, sarà dislocata dalla Regione Sardegna sul territorio del Sulcis-Iglesiente. Gli immigrati potranno restare nella struttura il tempo strettamente necessario per organizzare il loro trasferimento in un centro di permanenza temporaneo della Penisola (massimo 48 -72 ore).

Stati Uniti: contro la pena morte, cresce il fronte abolizionista

 

Associated Press, 1 settembre 2007

 

Cresce l’appoggio per l’abolizione della pena capitale nello Stato nord-orientale statunitense dell’Ohio, considerato un punto focale dagli attivisti dei diritti umani per la posizione storicamente favorevole che lo Stato possiede in merito alla pena di morte. "Siamo lo Stato del nord che ha ucciso di più.

Ci sono però dei segnali positivi che mostrano come le cose stanno cambiando anche in un paese come l’Ohio", ha detto all’Ips Jeffrey Gamso, direttore legale dell’Unione per le Libertà Civili degli Stati Uniti (Aclu) dell’Ohio. "L’appoggio pubblico alla pena di morte è basso, e le sentenze si sono ridotte rispetto all’anno scorso.

L’Ohio è pronto a passare all’abolizione", ha aggiunto. I giurati sono sempre più reticenti a partecipare ai processi che possono prevedere sentenze di morte e questo è un segnale del decrescente appoggio da parte della gente in generale alla sanzione capitale. Il nuovo governatore dello Stato, Tom Strickland, ha sospeso tre esecuzioni per poter valutare con attenzione i casi.

Secondo l’agenzia Associated Press, in questo momento, le lettere al governatore contro la pena di morte superano per cinque a uno quelle che invece l’appoggiano. Attualmente negli Stati Uniti, 38 Stati su 50 applicano ancora la pena di morte, ma l’appoggio pubblico in molti di questi sembra diminuire. Gli Stati orientali del New Jersey, Maryland e Connecticut potrebbero abolire la pena capitale tra uno o due anni, ha spiegato David Elliot della Coalizione Nazionale per l’Abolizione della Pena di Morte. In Ohio potrebbe succedere lo stesso fra qualche anno, ha detto Gamso.

L’Ohio ha ristabilito la pena capitale nel 1974 e dal 1999 ha compiuto 26 esecuzioni, due delle quali quest’anno. Secondo il Dipartimento di Riabilitazione e Correzione, ci sono 185 persone in attesa di esecuzione. In tutta la sua storia, lo Stato ha provveduto a 369 esecuzioni capitali. Lo Stato meridionale del Texas primeggia in materia di esecuzioni. Secondo il Centro Informazione sulla Pena di Morte con sede a Washington, dal 1976, data in cui la pena di morte fu reintrodotta dalla Suprema Corte degli Stati Uniti, si sono giustiziate 400 persone.

Secondo gli attivisti, l’appoggio sempre più debole alla pena capitale in Ohio si spiega per il crescente timore che possano essere giustiziate persone innocenti e per le nuove informazioni secondo le quali le esecuzioni per iniezione letale possano causare sofferenza. Si pensa sempre più che i pregiudizi razziali possano influire sulla sentenza di morte. Dal 1999, sei persone che aspettavano l’esecuzione capitale in Ohio sono state riconosciute innocenti e liberate.

Questa è una delle ragioni che pesa sull’opinione pubblica e che aumenta i dubbi sulle esecuzioni capitali, ha detto all’Ips Jim Tobin dell’organizzazione Ohioans to Stop Executions. Gli avvocati penalisti rifiutano le iniezioni letali come metodo di esecuzione e portano in tribunale una vera e propria lotta caso dopo caso. Questi sono riusciti a fermare la maggior parte delle esecuzioni capitali in Ohio. Ma finora i politici non hanno mostrato una grande volontà di seguire gli altri Stati ed ordinare una moratoria contro le esecuzioni, ha affermato Gamso.

"Il governatore potrebbe farlo se volesse. Ha il potere assoluto per fare queste cose. Ma ha ripetuto più volte che non lo farà", ha spiegato Gamso. Altre istituzioni statali hanno mostrato una certa inerzia. "La legislatura e la Suprema Corte dello Stato potrebbero muoversi in tal senso, ma fino a questo momento hanno deciso di non farlo. Nemmeno i tribunali statali sono a nostro favore", ha sottolineato Tobin.

Dal momento in cui ha assunto l’incarico a gennaio, il procuratore generale dello stato, Marc Dann, non è riuscito a colmare le aspettative di chi pensava che potesse fare qualcosa contro la pena di morte. Nei mesi precedenti alla sua elezione, Dann aveva affermato di avere numerosi dubbi in merito alla giustizia del sistema d’adempimento della pena capitale e aveva promesso di provvedere a una sua revisione. Fino a questo momento non è stata realizzata alcuna indagine.

Ma in questo Stato ci sono tre casi che continuano ad essere riportati tra le principali testate giornalistiche e che contribuiscono ad inclinare la bilancia a favore degli abolizionisti. Il più pubblicizzato è quello di Kenny Richey, un detenuto che ha aspettato la sua esecuzione per 20 anni. È stato condannato per l’omicidio di un bambino di due anni morto in un incendio presumibilmente intenzionale. Le prove che lo hanno incriminato sono però circostanziali e l’uomo continua a professare la sua innocenza.

Il Tribunale federale d’Appello ha concluso in due occasioni che la sentenza di morte deve essere revocata, perché il condannato ha ricevuto una rappresentanza legale inadeguata. Inoltre, il Tribunale ha affermato che "nel caso potrebbe essere implicato qualcuno che può aver avuto dei propri motivi per coinvolgere Richey".

Il 10 di agosto, il Tribunale ha riconfermato la prima mancanza del 2005, ha ordinato la riapertura del caso o la liberazione del condannato nell’arco di 90 giorni. Un secondo caso è quello di John Spirko, la cui sentenza, programmata per luglio, è stata rinviata di 120 giorni dal governatore. Si tratta del settimo rinvio dell’esecuzione di Spirko dovuto ai dubbi esistenti sulla sua colpevolezza. Nessuna prova fisica infatti lo coinvolge nel crimine.

"Il caso di Spirko è un altro segnale chiaro che il sistema di Ohio non funziona", ha detto una religiosa, Alice Gerdeman. Gerdeman è la direttrice di Ohioans to Stop Executions, che ha unito una decina di organizzazioni e città dello Stato, tra cui Cincinnati, Dayton e Oberlin, in una campagna per la moratoria contro le esecuzioni. La coalizione, inoltre, vuole aprire un’inchiesta sul funzionamento del sistema d’adempimento della pena di morte.

La diffidenza dell’opinione pubblica è cresciuta ulteriormente con il caso di Jason Getsy, che realizzò un omicidio su commissione nel 1995 quando aveva 19 anni. Getsy è stato condannato a morte, ma non è stato il mandante del crimine. Un tribunale federale ha rifiutato l’appello di Getsy. Ma 6 dei 14 giudici non erano d’accordo spiegando che la sentenza non era giusta. Il suo caso verrà portato alla Corte Suprema degli Stati Uniti, ha spiegato all’Ips il suo avvocato, Michael Benza.

Il giudice Boyce Martin ha affermato che il caso è una dimostrazione che la pena di morte è "arbitraria, tendenziosa e per tanto fondamentalmente difettosa nella sua stessa essenza". Gli attivisti dello Stato si aspettando di ricevere un grande appoggio pubblico quando si riuniranno il 26 settembre per manifestare all’assemblea legislativa statale. L’opinione pubblica è stanca "dell’idea che possiamo sottrarci ai nostri problemi", ha concluso Tobin, uno degli attivisti dei diritti umani che parteciperà all’incontro.

Stati Uniti: consumo di cocaina in calo, ma solo fra i più istruiti

 

Notiziario Aduc, 1 settembre 2007

 

Secondo uno studio realizzato da ricercatori della John Hopkins Bloomberg School of Public Health, in Usa il calo di consumo di cocaina negli ultimi vent’anni è stato molto più netto tra persone con un buon livello d’istruzione che non nella fascia di bassa scolarità. Gli autori della ricerca deducono che il nesso tra consumo di cocaina e grado di studio dipenda dall’accesso all’informazione sanitaria e dal reddito.

"Analogamente a quanto avviene tra fumatori, è molto probabile che modifichino i loro comportamenti le persone che comprendono l’impatto che la cocaina ha sulla salute", ha spiegato Valerie S. Harder, una della autrici dello studio. "Individui con un maggior livello educativo possono disporre di più risorse e accedere più facilmente a programmi di disintossicazione", ha poi aggiunto.

I primi dati dell’indagine rilevano che diplomati e laureati erano più propensi a sperimentare e a mantenere l’abitudine di consumare cocaina rispetto alle persone di bassa formazione. Ma, alla fine degli anni 80, la quota di persone istruite, classificate come consumatori abituali, è scesa, e si è portata al di sotto del numero di consumatori privi di un diploma. Viceversa, tra il 1979 e il 2002, la quota di consumatori di cocaina tra le persone d’educazione solo primaria è rimasta stabile. Infine, nello stesso periodo, il numero di adulti che hanno iniziato a fare uso di cocaina è sceso a un ritmo costante, a prescindere dal grado di studio.

Svizzera: Svp; espulsione per famiglie degli "stranieri criminali"

 

Corriere della Sera, 1 settembre 2007

 

Il manifesto non dà luogo a troppi equivoci, benché sia concepito esattamente per questo. Nella parte alta, sullo sfondo di una limpida bandiera svizzera, tre pecorelle bianche brucano il suolo. In basso una di loro scalcia via una pecora nera, proprio sopra una grossa scritta: "Creare sicurezza".

È il manifesto di cui il Partito Popolare Svizzero (Svp) ha fatto il simbolo della campagna elettorale in vista delle politiche del 21 ottobre. Sotto quella bandiera, viaggia la raccolta di firme per un referendum calibrato sul filo dell’affronto razzista, esattamente come l’immagine delle pecore bianche contro quella di colore più scuro.

La proposta di modifica costituzionale punta a far passare una nuova legge contro i cosiddetti "stranieri criminali". Stavolta però lo fa dando loro un’accezione davvero vasta: secondo i popolari svizzeri, radicati in buona parte dei cantoni di lingua tedesca, dai 14 anni in su le "pecore nere" andrebbero espulse subito a ogni reato o irregolarità commessa.

Ma non da sole: con tutti i loro familiari immigrati, come se la condivisione dei geni fosse di per sé una colpa. Dovrebbe così scattare l’allontanamento dai confini in blocco per ogni nucleo di stranieri nel quale si trovi un ragazzo colpevole di reati legati alla droga, a episodi di violenza ma anche allo "scrocco di aiuti sociali".

"I capifamiglia devono essere in ogni caso responsabili delle colpe di componenti minorenni del nucleo familiare", recita la propaganda martellante di questi giorni. "Siamo convinti che i genitori debbano rispondere dell’ educazione dei figli. Se non lo fanno, toccherà loro sopportare le conseguenze del caso", taglia corto il presidente del partito Maurer.

Lui stesso qualche giorno fa era stato ancora più chiaro: "Non appena le prime dieci famiglie con i loro bambini saranno state espulse da questo Paese - aveva detto - le cose miglioreranno di colpo". E certo il fatto che la Svp corra nei sondaggi pre-elettorali nelle vesti di partito centrista non contribuisce ad allentare la pressione sul 20% di immigrati sul totale della popolazione elvetica. Né è un segnale distensivo il fatto che l’esponente di maggior spicco del partito, Christoph Blocher, sia ministro federale della Giustizia. Le associazioni per i diritti umani e le fondazioni antirazziste da giorni sono in ebollizione. Ronnie Bernheim, della Fondazione svizzera contro l’antisemitismo, ha richiamato esplicitamente la pratica nazista della "Sippenhaft", la "responsabilità di clan".

Ma Blocher è troppo navigato per lasciarsi identificare facilmente con il feroce populismo alpino dell’austriaco Jorg Haider. Con il passare dei giorni, la partita della Spv per il referendum si trasforma così in una provocazione dal dosaggio perfetto perché il messaggio passi pur restando sempre inafferrabile.

Il governo della città di Ginevra, a maggioranza di centrosinistra, ha condannato pubblicamente i manifesti sulle pecore di diverso colore. Ma non è riuscito, o non ha voluto, concludere che quell’immagine viola le leggi sulla tolleranza etnica della Confederazione.

"Le pecore bianche e quella nera rappresentano i buoni e i cattivi cittadini, non etnie diverse", spiegano senza sosta i portavoce della Spv. D’altra parte il manifesto del partito sottolinea anche che "gli stranieri che si attengono alla legge e si comportano con decenza sono i benvenuti". E il partito di Blocher si è subito affrettato a presentare e propagandare "forti liste di giovani immigrati".

In queste condizioni, il gioco sul filo del rasoio continuerà fin dopo il voto. Per ora i socialisti segnalano che non ripeteranno una nuova coalizione di larghe intese che includa Blocher, che però governa con loro già dal 2003. Ma la frattura potrebbe aprirsi soprattutto su linee geografiche, non di partito: la minoranza francofona del paese, centrata sulla cosmopolita Ginevra, rischia di trovarsi sempre più schiacciata da una maggioranza di lingua tedesca isolazionista in Europa ma tollerante verso la sottile propaganda populista di nuova generazione.

Portogallo: legge su intercettazioni, carcere per i giornalisti

 

www.radiocarcere.com, 1 settembre 2007

 

Il nuovo codice penale portoghese che entrerà in vigore il 15 settembre prevede multe, ma anche pene fino a un anno di carcere, per i giornalisti che pubblicheranno la trascrizione di intercettazioni coperte dal segreto giudiziario o senza l’autorizzazione degli interessati.

Lo rileva oggi la stampa portoghese, all’indomani della pubblicazione delle nuove norme penali nel "Diario da Republica", la gazzetta ufficiale portoghese. Le nuove norme segnano un netto rafforzamento delle disposizioni contro la pubblicazione delle intercettazioni.

I giornali non potranno pubblicarle se non sarà stato tolto prima il segreto e se non avranno ricevuto una "autorizzazione esplicita" da parte delle persone di cui saranno state registrate le comunicazioni. In caso di non rispetto di queste disposizioni da parte dei giornalisti, potranno essere condannati a multe o al carcere fino a un anno.

Iraq: aumentano ancora i detenuti, a rischio i diritti umani

 

Asca, 1 settembre 2007

 

Decine di migliaia di iracheni arrestati nelle ultime operazioni dagli Stati Uniti, hanno poche speranze di riacquistare la libertà. Come consolazione, il vice presidente Tariq al-Hashimi ha detto loro che si sta più sicuri in prigione che fuori. In queste operazioni militari, portate avanti dalle forze di coalizione per combattere il terrorismo, ai già 135 mila soldati appostati in questa regione se ne sono aggiunti da gennaio 30 mila.

La strategia di Washington, che include metodi decisamente aggressivi, è stata disegnata per ridurre la violenza settaria e migliorare la condizione di sicurezza, specialmente a Baghdad, affinché i leader politici di tutte le fazioni potessero avere le condizioni necessarie per la riconciliazione nazionale. Negli ultimi sei mesi, il numero di persone arrestate dagli statunitensi è aumentato del 50%. A febbraio c’erano 16 mila prigionieri, ora secondo fonti officiali degli Stati Uniti ce ne sono 24.500.

L’unità statunitense che ha l’incarico di gestire i centri di detenzione in Iraq, la Task Force 134, ha affermato che il tempo medio di permanenza di una persona all’interno dei centri è di circa un anno. Attualmente, ha aggiunto, ci sono circa 800 minori detenuti. Le stime sulla quantità di iracheni arrestati variano secondo le fonti, ma la maggior parte della gente crede che non siano meno di 50 mila persone. Secondo fonti irachene e dell’esercito statunitense, la maggior parte dei prigionieri sono sunniti provenienti dalla regione occidentale dell’Iraq, arrestati senza accuse e senza un mandato giudiziario.

"Le accuse di abusi sono peggiori nei centri di detenzione irachena che in quelli statunitensi. È difficile conoscere il numero reale di detenuti. Questo perché c’è un sistema ufficiale di detenzione e uno non ufficiale", ha dichiarato alla stampa John Sifton, membro dell’organizzazione Human Rights Watch, con sede a New York. Sifton ha segnalato che la sua organizzazione e altre che lottano per i diritti umani "sono preoccupate per l’aumento del 50% dei detenuti che rappresentano il 50% di persone in più che potrebbero esser state arrestate in modo arbitrario o nella peggiore delle ipotesi, consegnate a funzionari iracheni che potrebbero torturarle".

Le cifre date dal governo iracheno non sono accreditate e l’esercito statunitense non dirà niente a riguardo, ha aggiunto Sifton. "I miei tre figli stavano vendendo la verdura in un mercato di Baghdad quando sono arrivati gli americani e li hanno presi, e questo un anno fa", ha detto all’Ips Saadiya, 55 anni, che vive a 32 chilometri da Baghdad, a Abu Ghraib. "Dopo tre mesi abbiamo saputo che erano stati portati alla prigione di Bucca, accanto alla città meridionale di Basora. Sono semplicemente degli agricoltori e ora compaiono nelle liste dei terroristi solo perché sono sunniti", ha affermato. Storie come queste abbondano nella regione occidentale irachena, dove i sunniti sono la maggioranza.

"Una bomba accanto alla nostra casa è esplosa uccidendo tre soldati statunitensi" ha spiegato Sumaya, della zona di Dora, a sudest di Baghdad. "In seguito - ha aggiunto - sono arrivati dei convogli americani con centinaia di soldati, e hanno catturato 30 uomini del quartiere, incluso mio marito". "Stavamo dormendo quando è esplosa la bomba alle cinque di mattina, ma ugualmente hanno creduto che l’abbiamo fatta esplodere noi.

Ora devo lavorare per dare da mangiare ai miei quattro bambini", ha specificato la donna. "Da nove mesi, una squadra del ministero dell’Interno ha preso 45 uomini della nostra comunità e tutt’ora non abbiamo nessuna notizia della loro destinazione", ha detto Farhan Abbas. Abbas, di Youssufiya, a 25 chilometri a sud di Baghdad, è arrivato nella capitale irachena con l’intenzione di ottenere qualche informazione riguardo ai suoi amici arrestati. "Abbiamo perso le speranze perché quando siamo arrivati al ministero, i funzionari hanno negato di aver arrestato i nostri vicini e ci hanno detto che a prenderli probabilmente saranno stati dei ribelli con uniformi militari", ha aggiunto Abbas.

"Ma noi gli abbiamo risposto - ha sottolineato - che quegli uomini erano arrivati a bordo di veicoli del ministero. A quel punto ci hanno intimato di andarcene o altrimenti avrebbero arrestato anche noi". I due vicepresidenti dell’Iraq, Adel Abdul Mahdi, sciita appartenente al Consiglio Supremo Islamico Iracheno e Tariq al-Hashimi, del Fronte sunnita di Accordo Iracheno, hanno visitato il centro di detenzione Camp Cropper, centro statunitense situato vicino all’aeroporto internazionale di Baghdad.

Il canale televisivo Al-Sharqiya ha detto che Mahdi non ha avuto contatti con i detenuti, mentre Hashimi ha tenuto contatti prolungati con molti di questi e ha promesso che i loro casi verranno studiati entro breve tempo. "State meglio qui che fuori", ha detto Hashimi ai detenuti. "Credetemi, è molto più sicuro restare qui che fuori".

"Che grande vicepresidente che abbiamo", ha controbattuto Ahmad Ali, di Ramadi, che si trova a Baghdad. "Pensa che è meglio stare in prigione che a casa". Il Fronte di Accordo Iracheno si è ritirato dal governo del Primo ministro Nouri al-Maliki il 1 di agosto dopo che molte delle sue richieste non sono state tenute in conto. La prima cosa fra queste era proprio la rimessa in libertà dell’80% dei detenuti, considerati innocenti.

Libia: anniversario rivoluzione, amnistia a duemila detenuti

 

Ansa, 1 settembre 2007

 

Le autorità libiche hanno amnistiato 2.091 detenuti di diritto comune in occasione del trentottesimo anniversario della rivoluzione del 1 settembre 1969 che ha portato al potere il colonnello Muammar Gheddafi. La decisione è stata presa dal Consiglio superiore delle istanze giudiziarie, un organismo che dipende dal ministero della giustizia. Nel dare la notizia, la Tv libica ha precisato che il provvedimento riguarda anche detenuti stranieri. L’emittente ha aggiunto che l’amnistia è stata concessa ai condannati che hanno espiato metà della pena e che in carcere si sono distinti per una buona condotta.

 

 

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