Rassegna stampa 13 settembre

 

Giustizia: la repressione senza la solidarietà è un tragico errore

 

La Rinascita, 12 settembre 2007

 

All’indomani dell’annuncio del Consiglio dei ministri dell’inserimento del "pacchetto sicurezza" tra le priorità dell’azione di governo, la sinistra deve riflettere su due interrogativi. Il primo è se esista o meno, nella realtà della vita quotidiana degli uomini e delle donne, una "questione sicurezza" nel nostro Paese, oppure se questa sia soltanto una montatura, un falso problema, che ha l’obiettivo di attrarre l’attenzione dei media per distoglierla da questioni ben più importanti. Il secondo interrogativo è se siano necessarie leggi (quasi) speciali, se siano invece sufficienti quelle che già ci sono, oppure se sia necessaria una terza via di mediazione che sia maggiormente comprensibile ai più. La crociata contro i lavavetri - cui si è prestato purtroppo anche il ministro Giuliano Amato - è una priorità per il Paese? Certamente no, non scherziamo.

La lotta all’illegalità diffusa e alla microcriminalità è una reale necessità? Domanda e risposta qui sono indubbiamente più complesse. Innanzitutto, perché tale fenomeno riguarda principalmente le città, anzi, le città medio-grandi. Poi, perché se è vero che un lavavetri non ha mai fatto male a nessuno, un sistema di illegalità microcriminali che a tutte le ore preme sui cittadini arriva a soffocarli. Le periferie sono le aree urbane che maggiormente soffrono di insicurezza. E il fatto che il problema sia emerso perché se ne sono occupati i primi cittadini (di centro-sinistra) di città medio-grandi come Bologna e Firenze rafforza l’idea che il fenomeno sia reale ed avvertibile.

Forze politiche radicate nel territorio, partiti di governo e istituzioni non possono avere argomenti "tabù". Quello della sicurezza è argomento che non deve fare paura alla sinistra, ma va analizzato e risolto "da sinistra", senza rincorrere a quei linguaggi che non ci appartengono, fatti di manganelli e di presidi dell’esercito ai crocevia delle città.

Occorre fare dei distinguo, tuttavia, per evitare il tranello demagogico e populista del fare di tutta l’erba un fascio. Gli ultimi che cercano di sopravvivere alla giornata sbarcando il lunario vanno tenuti separati dai prevaricatori, dagli spacciatori, dagli sfruttatori della prostituzione. Combattiamo seriamente questi ultimi assicurando la certezza della pena e i lavavetri non faranno più paura a nessuno.

Evitiamo le estorsioni quotidiane dei parcheggiatoli abusivi e nessuno negherà una monetina ad un mendicante. Ragioniamo sulla solidarietà, sulla cultura della solidarietà, nei confronti dei sotto-proletari, ma combattiamo i criminali. Mettiamo tutti sullo stesso piano, non diamo risposte ai cittadini e prepariamoci ad affrontare il risentimento generalizzato, il rancore sociale, che porteranno inevitabilmente a razzismo e xenofobia.

A questo punto, sull’onda dell’attualità, bisogna chiedersi se sia il caso di introdurre nel nostro ordinamento leggi (quasi) speciali come quelle che, dalle dichiarazioni di rappresentanti del Governo e dalle indiscrezioni di stampa, sembrano essere state discusse nel Consiglio dei ministri di cui si è detto in apertura.

Nell’attesa di verificare il testo che verrà adottato dal Governo e nel rammentare l’imprescindibile centralità del Parlamento nella regolamentazione della complessa materia della sicurezza, è bene tuttavia porre attenzione sul fatto che in nessun caso il clima di illegalità descritto può giustificare la recrudescenza reazionaria nello stabilire ingiustificate misure repressive. Allo stesso tempo, è bene tenere a mente che nessuna reale sicurezza potrà essere effettivamente perseguita senza valorizzare e sostenere una sempre più efficace solidarietà sociale, per sottrarre finalmente gli ultimi dal ricatto della criminalità organizzata e consentire alle forze dell’ordine di occuparsi efficacemente dei veri eliminali.

Senza una effettiva solidarietà sociale, si rischia infatti che la libertà, specie quella delle persone più disagiate, si tramuti in un vuoto simulacro. Ed è inammissibile che un Governo di centro-sinistra sia forte con i deboli e debole con i forti.

Giustizia: ma i "codici penali" fatti dai Comuni non sono legali

 

Il Riformista, 12 settembre 2007

 

E giusto, è costituzionalmente legittimo, è coerente con i principi democratici che ciascuno degli oltre ottomila sindaci italiani abbia il potere di decidere l’arresto di una persona? L’archiviazione da parte del Procuratore della Repubblica di Firenze dei procedimenti penali aperti contro i lavavetri colpiti dall’ormai famosa ordinanza risponde di no, ma il sindaco ha insistito: ora c’è una nuova ordinanza, a mio avviso non meno sbagliata e illegittima della precedente.

Alla domanda che ho formulato all’inizio occorre dare risposta, soprattutto in vista della preannunciata predisposizione di un disegno di legge da parte del governo. Alcuni sindaci italiani, in particolare quelli di Firenze e di Bologna, chiedono, infatti, proprio questo: avere il potere di disporre misure che comportino la sanzione dell’arresto. E ciò attraverso due vie giuridiche. La prima è quella di ricondurre il potere di ordinanza previsto dal testo unico sugli enti locali nell’ambito dell’articolo 650 del codice penale, che prevede, per chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato, la sanzione dell’arresto fino a tre mesi in alternativa all’ammenda fino a 206 euro.

Se passasse questa tesi, ciascuno degli oltre ottomila sindaci italiani porrebbe, adducendo - per usare le parole dell’articolo 650 - ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene, creare un diritto penale differenziato rispetto a quello vigente nel resto del territorio nazionale. L’altra via, ventilata in questi giorni, per consentire ai sindaci il potere di ordinare l’arresto delle persone, è quello di affidare alla polizia municipale funzioni di polizia giudiziaria, in un non ben chiarito rapporto con i poteri che il nostro ordinamento attribuisce alle procure della Repubblica.

È di palese evidenza, e vorrei sapere se qualcuno è disposto a sostenere il contrario, che una normativa che consentisse l’una o l’altra di queste ipotesi sarebbe in evidente contrasto con i principi costituzionali sulla libertà della persona e l’eguaglianza della legge sul territorio nazionale. Inoltre essa sarebbe profondamente sbagliata ai fini della tutela della sicurezza dei cittadini, perché costringerebbe polizia e magistratura a inseguire i ghiribizzi di questo o quel sindaco rispetto a fatti che la legge nazionale considera invece irrilevanti ai fini penali, distogliendone l’attività dall’azione di prevenzione e repressione dei fatti che la legge della Repubblica considera reati. Senza considerare, infine, che non si può essere sicuri che tutti gli oltre ottomila sindaci italiani userebbero un siffatto potere per fini di interesse generale e non invece come strumento di lotta politica, o peggio.

Come ho già avuto modo di dire, insomma, siamo anche tecnicamente nell’ambito delle grida così efficacemente illustrato da Alessandro Manzoni; anche se non vorrei sentirmi replicare che pure Manzoni va messo, come è stato detto in una memorabile intervista al ministro dell’Interno a proposito di Cesare Beccaria, tra i ferri vecchi di cui l’Italia moderna e riformista dovrebbe liberarsi.

Mi auguro che non si giunga a tanto da parte del governo e preannuncio fin d’ora che qualora invece norme siffatte dovessero essere proposte al Parlamento, voterei contro, come giurista, come uomo di sinistra, e come persona seria.

C’è però un altro quesito su cui riflettere. Come è possibile che sindaci provenienti dalla sinistra formulino proposte di questo genere? È stato detto in questi giorni, ed è vero, che c’entra la propaganda, la voglia di esser rieletti, l’incapacità di svolgere il complesso e difficile compito di integrazione sociale e di contrasto al degrado urbano che spetta ai sindaci in base all’ordinamento vigente. Ce del vero in tutto questo, ma c’è anche qualcosa di più.

Ho sentito dire, da un giornalista "democratico", in un dibattito televisivo che il sindaco eletto dal popolo deve disporre di tutti i poteri che servono per rispondere alle attese popolari. Che si sostengano tali tesi, le quali hanno un riscontro nel costituzionalismo contemporaneo soltanto nel pensiero di Ugo Chavez, è la riprova della caduta istituzionale e democratica che la retorica del maggioritario e dell’elezione diretta ha prodotto in questi anni. A meno che anche il destino di Montesquieu non debba unirsi, nel pensiero "democratico", a quello di Beccaria (e di Manzoni).

Del resto, quali brillanti risultati si ottengono con la concentrazione dei poteri nelle mani dell’eletto dal popolo, si è visto nella vicenda dei rifiuti in Campania. A integrazione di quanto da me qui scritto consiglio la lettura dell’equilibrato e condivisibile intervento, dal titolo "Non esiste sicurezza senza giustizia", dell’onorevole Giulia Bongiorno, di Alleanza Nazionale, pubblicato l’11 settembre sul quotidiano "Il Secolo d’Italia". Ma si sa, la sicurezza non è di destra né di sinistra: forse è solo questione di buon senso e di serietà.

Giustizia: ministro Amato; in arrivo alcune migliaia di poliziotti

 

Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2007

 

Per le imprese al Sud decolla il progetto del tutor antiracket. Ieri è stato ufficialmente annunciato dopo un incontro dei vertici del Viminale con il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, e il leader della Fai (Federazione Antiracket Italiana), Tano Grasso. Il modello è un’intesa sul territorio tra quattro soggetti: le associazioni antiracket e quelle d’impresa, lo Stato - attraverso le prefetture - e le aziende, già presenti o in fase di lancio.

"Con le associazioni - ha spiegato il viceministro dell’Interno, Marco Minniti - l’obiettivo è sviluppare un progetto di accompagnamento e di tutela per le imprese". In una prima fase le aree interessate sono Lamezia Terme, Gela, Napoli, un’area della provincia di Caserta, Messina e Siracusa. "L’obiettivo - ha sottolineato Minniti - è però quello di estendere questo progetto a tutto il Mezzogiorno". "C’è bisogno di più Stato. In un qualunque paese la sicurezza la deve garantire lo Stato" ha detto Montezemolo sottolineando che la rete in attuazione tra ministero degli Interni, Forze dell’ordine, prefetture, associazioni antiracket e imprese è "un importante seguito all’iniziativa di Confindustria" e che "non è un’operazione di marketing o fine a se stessa".

Poi aggiunge che "le associazioni di categoria potranno giocare un ruolo di "schermo", in quanto potranno fare materialmente le denunce al posto degli imprenditori". La decisione di imporre l’obbligo di denuncia agli imprenditori che subiscono taglieggiamenti è "un segnale di senso civico e di assunzione di responsabilità per il bene comune e un cambiamento culturale e comportamentale", sostiene il presidente di Confindustria. Il ministro dell’Interno commenta: "Un’iniziativa che abbiamo molto apprezzato".

Ma c’è di più. Giuliano Amato annuncia: nella Finanziaria saranno inseriti provvedimenti per avere "alcune migliaia" di uomini e donne in più per la sicurezza. Il ministro sottolinea che si procederà "ricollocando sul territorio personale che ora assolve altre funzioni, che sarà sostituito con personale civile": dovrebbero essere 1.500 unità. Poi, sarà utilizzata la mobilita di personale tra ministeri. Sugli esuberi dei marescialli - circa 40mila sottufficiali - non c’è però ancora una decisione: il passaggio dalla Difesa agli Interni, per ora, potrebbe riguardare solo il personale civile, circa 5mila unità.

L’intervento più consistente perciò riguarda la riapertura del turnover: il Viminale vuol tornare ad assumere i volontari a ferma prolungata (Vfp) delle forze armate. I Vfp, secondo la legge, dovrebbero entrare in polizia e nei carabinieri, ma il blocco del turnover finora l’ha impedito. Del resto, ricorda il segretario del Silp-Cgil Claudio Giardullo, "se non ci sarà un’inversione di tendenza, nei prossimi tre anni la Polizia di Stato potrebbe vedere ridotto il proprio organico di circa 3 mila uomini".

L’annuncio di una maggiore presenza delle forze dell’ordine sul territorio riceve l’apprezzamento dell’associazione degli imprenditori, anche perché appare la risposta alle richiesta fatte proprio da Confindustria: "Fa piacere prendere atto dell’impegno assunto da Amato in vista della Finanziaria", sottolinea Montezemolo.

Per quanto riguarda i fondi, il ministero dell’Interno ha chiesto per la prossima Finanziaria la conferma dell’assestamento per il bilancio del 2007, che era di oltre 25 miliardi di euro. E il leader del PD, Walter Veltroni, raccomanda: "La sicurezza è ormai una condizione della competitività, quindi lì non si può tagliare".

Il tema del racket rimane al centro del dibattito politico con la decisione, oggi all’ordine del giorno della commissione Antimafia, di fissare una serie di audizioni. Il presidente, Francesco Forgione, afferma che il progetto di tutor "è una svolta, ancora più significativa se si affermerà una nuova etica dell’impresa e la rottura di ogni forma di convivenza tra imprese e mafia". Proprio per registrare il nuovo rapporto tra imprese e Stato dovrebbe essere convocato a breve in Antimafia il presidente di Confindustria. Polemica invece la Confcommercio che apprezza l’iniziativa del patto anti-racket, ma giudica "parziali e inefficaci" gli strumenti pensati per affrontare la sfida.

Giustizia: Confindustria; meno criminalità.. e la gente ha paura

di Innocenzo Cipolletta (Segretario Generale di Confindustria)

 

Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2007

 

Non è la tolleranza che garantisce una buona integrazione degli immigrati nella nostra società; al contrario serve, tra le altre cose, un’applicazione puntuale della legge, in modo che si stabilisca un rapporto di maggiore fiducia tra i residenti e gli immigrati. Nasce da qui, a mio avviso, l’esigenza di non tollerare trasgressioni diffuse che possono sembrare minori e che in altri contesti o in altre epoche sono tate tollerate.

Infatti, la tolleranza delle relazioni presuppone una società omogenea, dove tutti i membri della comunità si conoscono e possono comprendere, prevedere e giustificare comportamenti devianti o anche piccole trasgressioni che si riassorbono in un tessuto omogeneo. Le cose cambiano quando la comunità si allarga, e ancora di più quando subentrano gruppi di immigrati con consuetudini e condizioni totalmente diverse che non sono più né conosciute né prevedibili da parte della società che li accoglie. In questi casi aumenta il timore nei confronti del "diverso" e solo la certezza che le leggi vengano rispettate puntualmente genera un nuovo effetto di fiducia, riduce le paure e consente una migliore integrazione.

Ecco perché la tolleranza non è un fattore di integrazione, ma è un fattore che genera piuttosto fenomeni di segregazione tra gruppi di comunità che si avversano. Può dispiacere che sia così e si possono e i devono fare tutte le azioni necessarie per far capire al maggior numero possibile di cittadini che non è l’immigrato la causa dell’accresciuta criminalità. Ma non si può ignorare che la percezione della gente vada in quella direzione.

L’insicurezza che cresce in Italia, pur in presenza di un ridursi dei crimini, proviene anche da questa convivenza con cittadini che vengono percepiti come diversi e che trasgrediscono leggi senza che le forze dell’ordine e la giustizia siano capaci di porre un argine. L’insicurezza non è necessariamente il prodotto di fatti reali, ma si alimenta con suggestioni e si amplifica con gli effetti della comunicazione. Se un crimine è commesso da un immigrato, subito si cita la nazionalità del criminale, mentre se il crimine è commesso da un italiano, si parla di altro.

Ci si può ribellare a questo modo di presentare le cose, ma si deve anche capire che l’insicurezza comunque è cresciuta e occorre dare una risposta. La non tolleranza delle trasgressioni è un passo necessario, per il quale non servono leggi nuove, ma l’applicazione di quelle che ci sono. È difficile credere che già oggi non ci siano leggi per impedire l’accattonaggio molesto, la vendita di falsi, la prostituzione e altri piccoli e grandi crimini. Forse mancano le risorse, la determinazione e la preparazione professionale. Ma la via migliore è quella di cominciare ad applicare bene le norme che ci sono e poi eventualmente varare integrazioni di norme, senza lanciare campagne altisonanti.

Una campagna generica contro la trasgressione, invece di rassicurare, rischia di generare nuove insicurezze, specie se dopo le declamazioni non si notano cambiamenti: se lavavetri e venditori di oggetti falsi saranno ancora nelle nostre strade dopo le grida contro queste trasgressioni quotidiane, si rischia di generare una maggiore paura nei cittadini, oltre che una sfiducia in chi ci governa.

Ricordiamoci le tanto discusse norme per contrastare l’arrivo di clandestini (la legge Bossi-Fini), nonché la "battaglia" per istituire il poliziotto di quartiere che avrebbe dovuto risolvere ogni cosa: se ne è parlato a non finire nella passata legislatura, sono state adottate le misure previste, eppure siamo sempre lì con gli stessi problemi di insicurezza che anzi la gente avverte con maggiore intensità, anche perché pensa che non si possa o non si voglia fare niente.

Perché le leggi siano fatte rispettare è poi necessario che siano scritte bene e in maniera semplice. Nel campo del diritto del lavoro, dell’avvio di attività economiche e della fiscalità il nostro Paese ha una legislazione invadente e complessa che finisce per favorire di fatto l’illegalità di chi si trova in situazioni marginali, come spesso sono gli immigrati: una semplificazione della legislatura è un altro passo verso la legalità e, quindi, verso una maggiore sicurezza.

È necessario abbandonare il sistema di legiferare in tutti i dettagli e di prevedere tutte le casistiche possibili, con il risultato che il rispetto della legge è difficile anche per un italiano e che ci saranno sempre punti specifici non esplicitati che costituiscono altrettanti varchi nei quali si insinuano avvocati cavillosi e giudici sofisti, con il risultato che, apparentemente, non si può condannare ed estradare quasi nessuno.

La decisione della procura di Firenze del 10 settembre di non procedere penalmente contro i lavavetri dopo la denuncia dell’amministrazione comunale, è sicuramente corretta, ma suscita disagio nei cittadini, che vedono conflitti tra amministrazioni che non collaborano tra di loro per individuare le soluzioni ai problemi. Siamo il Paese dove i giudici, su richiesta di un avvocato, stanno levando le multe agli automobilisti che non pagano la tariffa per la sosta nelle strade delle città, con la motivazione che nelle vicinanze non ci sono posti gratuiti! Si può essere certi che in punta di diritto questi giudizi siano corretti, ma le punte di diritto contribuiscono poi a rendere insicuro il Paese, perché chi rispetta le norme e paga si sente truffato da chi escogita stratagemmi giuridici per evaderle.

Resta infine necessaria una politica di prossimità, che non riporti tutto il problema dell’illegalità minuta alle istituzioni centrali, ma possa essere gestita a livello locale, dove si affrontano i problemi e le persone. In questo senso, più che di polizia comunale serve una capacità di intervento locale, sia interdittiva contro le illegalità, sia di inclusione con progetti e strutture capaci di ridurre i fenomeni di trasgressione delle leggi, ciò che favorisce l’integrazione degli immigrati e, quindi riduce anche i fenomeni di insicurezza.

Giustizia: la legalità non si tutela con delle logiche antiquate

 

www.radiocarcere.com, 13 settembre 2007

 

Roma, 28 agosto 2007. Il lungotevere è insolitamente poco trafficato. Sulla destra i marmi del foro italico, al centro l’obelisco mussoliniano e dopo di lui lo stadio olimpico. Il semaforo passa velocemente dal giallo al rosso. Immancabilmente si avvicina un ragazzo con in mano un pulisci-vetri. Sorrido, scuoto la testa. Lui prosegue. Accanto a me una panda blu. Il conducente una giovane donna. Il ragazzo si avvicina. Lei muove il capo orizzontalmente. Il ragazzo alza il tergicristalli. Lei si sbraccia, impreca. Il labiale è chiaro. Il pulisci-vetri noncurante si abbatte sul cristallo, lo insapona e lo pulisce. Il finestrino si abbassa e al giovane viene data qualche moneta. Il semaforo finalmente riprende vita ed il rosso diventa verde.

La panda mi segue. Superato l’ostello della gioventù e l’aula della Corte di assise, un altro rosso. C’è da chiedersi se i semafori romani conoscano la parola sincronizzazione. La panda si affianca. Il bastone pulisci-vetri mi snobba, preferisce la giovane donna. Testa, braccia e bocca ripetono con maggiore concitazione i movimenti fatti poco prima. Il bastone non si arresta, riempie il cristallo di sapone e poi lo tira via. Il finestrino però questa volta non scende. Poco più di un chilometro ed altro rosso. La panda questa volta non si affianca, rimane distante qualche metro dal mio paraurti. Il bastone si poggia sul vetro della mia autovettura. Dalle labbra esce un no secco e alterato. Il bastone cambia obbiettivo. La panda. La piccola vettura blu, sfrutta la distanza e con una veloce manovra si divincola. Mi supera e si lascia l’amante della pulizia dei vetri alle spalle. Con abilità riesce ad evitare al suo cristallo l’ennesimo.

Il cappuccino è veramente bollente, fatica a scendere giù, entra la giovane donna. Le chiedo notizie sullo stato del cristallo e sorrido. Non si può più vivere così: esclama. Sciorina apprezzamenti per il sindaco di Firenze e per il ministro dell’Interno, di cui loda il pacchetto sicurezza. Potere della comunicazione. L’opinione pubblica ritiene che sicurezza e legalità saranno ripristinati da questi provvedimenti.

Sicurezza e legalità: una dato di fatto il loro evidente venire meno. Ripristinarli una necessità improcrastinabile. Risultato raggiungibile con i provvedimenti annunciati. Più di una le perplessità. Ordinanze dei sindaci e l’annunciato "pacchetto" non convincono. Ulteriori provvedimenti legislativi appaiono ultronei. Forse sarebbe sufficiente applicare le norme esistenti. L’espulsione di coloro che non sono in regola, l’ammettere il soggiorno di chi ha un lavoro, sono norme che già esistono. La loro applicazione risolverebbe, almeno in parte, il problema dell’accattonaggio. Lavavetri e venditori ambulanti probabilmente diminuirebbero. I racket che li sorreggono forse svanirebbero.

È necessario riappropriarsi del territorio, di zone interamente consegnate alla malavita. Cessione e consumo degli stupefacenti, scippi, furti e vendita di prodotti contraffatti calerebbero drasticamente. Il riappropriarsi del territorio sarebbe inutile però laddove non vi fosse un corretto funzionamento della giustizia penale. Scoprire un reato, individuare l’autore, svolgere un giusto processo in tempi brevi ed eseguire la pena, sono tutti passaggi indispensabili per recuperare un giusto livello di sicurezza.

È soprattutto necessario che tra la commissione del reato e l’applicazione della pena non intercorra un intervallo temporale biblico. Una risposta veloce della giustizia determina un effetto deterrente sulla criminalità e sicurezza nel cittadino. Il nostro sistema invece registra una continua dilatazione dei tempi processuali, che allontanano in modo intollerabile l’applicazione della pena dalla commissione del reato e, talvolta, sempre più spesso, ne determinano la non esecuzione: la prescrizione. Dannoso sarebbe rendere penalmente punibile la condotta del lavavetri, causerebbe un aggravamento della situazione giudiziaria aumentando esponenzialmente il numero dei processi.

Dannoso sarebbe pure inasprire le norme sulla custodia cautelare, surrogando la non esecuzione della pena attraverso l’uso non corretto del carcere preventivo. Interventi frutto di logiche antiquate. L’inasprire e l’attenuare la custodia cautelare secondo logiche emergenziali ha caratterizzato la politica criminale dell’ultimo secolo. Logiche appartenenti ad amministratori antiquati che mai hanno risolto il problema o hanno determinato un miglioramento. È necessaria la ricerca soluzioni diverse che si sgancino dall’emergenza e che considerino il sistema nella sua interezza. È necessario costruire e non rattoppare.

Giustizia: riforma del ministro Amato appare strabica e confusa

 

www.radiocarcere.com, 13 settembre 2007

 

Le secche culturali dell’ideologia e della strumentalizzazione politica hanno prodotto, massimamente negli ultimi lustri, un’idea di legalità strabica, confusa, ondivaga.

Nella legalità strabica, ciascuno si sceglie la regola che più gli piace, la elegge archetipo della legalità medesima, si scaglia contro le sue violazioni, e dimentica che analogo disvalore ha la violazione di norme esterne al perimetro selezionato.

La legalità confusa è il prodotto di un’operazione intellettuale che identifica la legalità con la sicurezza e invoca quest’ultima con riferimento a una pluralità di fenomeni che con essa hanno poco da dividere. Propalare come problema relativo alla sicurezza quello concernente lavavetri, assurti all’onore delle cronache estive, e metterlo nello stesso calderone dei problemi generati dalla cd. criminalità predona è produrre confusione concettuale, condizione per la mancata comprensione e soluzione dei problemi.

La legalità ondivaga è il frutto della sinergia tra legalità strabica e legalità confusa e, per paradosso, costituisce una delle poche linee coerenti della legislazione in materia penale degli ultimi 30 anni.

A interventi legislativi che, nel solco delle varie emergenze, hanno accentuato la repressione penale e, talvolta, inciso negativamente su garanzie costituzionalmente protette, si sono susseguiti interventi di segno opposto che hanno, a loro volta, creato ulteriori emergenze.

Ed è singolare che oggi alcuni professionisti del garantismo dell’ultimo decennio, che non poco si sono distinti nel proporre e ottenere la, forse inutile, riforma dell’art. 111 della costituzione, propongano la cattura obbligatoria per talune ipotesi di reato, probabilmente in contrasto il principio, di significato costituzionale, della presunzione di non colpevolezza.

Com’è ovvio, non esistono formule magiche.

Certo è che trasportare i problemi della legalità e della sicurezza fuori dalle secche dell’ideologia e della strumentalità politica, porli come valori condivisi e indivisibili costituisce un primo passo per un approccio corretto ed efficiente.

Un approccio sistematico, che consideri i problemi nel loro insieme, che sia il frutto di una riflessione strategica che abbia ad oggetto l’insieme delle aree interessate, che eviti l’errore del medico che per curare la febbre ti dà l’antibiotico che ti rovina il fegato.

È possibile chiedere quanti, tra quelli che oggi evocano il panpenalismo, proponendo la punibilità di condotte non sanzionate (lavavetri e quant’altro), si rappresentino gli effetti che sulla macchina dell’amministrazione della giustizia soluzioni simili producono?

È così difficile immaginare che l’ampliamento della punibilità a condotte di lieve disvalore sociale e molto diffuse da un lato non porterà alla esecuzione di pene detentive neppure per un solo giorno e, dall’altro, finirà per ingolfare i meccanismi dell’amministrazione della giustizia, già malmessa di suo, così producendo una minore destinazione di risorse a fatti di grave allarme sociale e dunque indebolendo la risposta complessiva ai fatti di criminalità predona?

È così complesso ipotizzare l’impatto che, in termini di costi, avranno simili processi, per la loro quantità e per la circostanza che inevitabilmente, in relazione a ciascuno essi, dovrà farsi ricorso al gratuito patrocinio, cioè al pagamento di un avvocato a carico dello stato?

È così complicato effettuare una valutazione di benefici/costi che tenga conto quanto si risparmierebbe destinando una parte delle risorse sterminate, che verrebbero coinvolte in una sciagurata ipotesi di penalizzazione diffusa, al controllo del territorio?

Ed allora, forse, occorre nettamente distinguere i meccanismi della prevenzione da quelli della repressione e scegliere le strategie più opportune, che non necessariamente passano per la penalizzazione delle condotte, per il conseguimento degli obbiettivi .

È privo di senso a fronte di emergenze sociali immaginare che l’unica risposta possibile sia la penalizzazione di condotte diffuse. Intanto perché la tecnica della penalizzazione, in simili casi, non produce alcun effetto concreto, né immediato né futuro. In secondo luogo perché la risposta a tali emergenze può essere trovata attraverso l’attivazione di strategie di controllo del territorio, che producono effetti immediati e non devono attraversare le secche del processo penale.

Occorre ripensare, sistematicamente e al netto di contingenze storiche o convenienze politiche, ai meccanismi del processo penale, alla loro capacità di far conseguire, nel rispetto di garanzie intoccabili, l’aderenza della verità processuale a quella storica e la tutela per le vittime del reato.

Occorre infine rimeditare il problema dell’effettività della pena, principio inciso non solo dai provvedimenti di clemenza, ma anche dal combinarsi di istituti processuali (quali il giudizio abbreviato, che garantisce una diminuzione obbligatoria di un terzo seco di pena o il patteggiamento in appello) e norme di diritto penitenziario che, non di rado, rendono una dura sentenza di condanna molto simile a una grida manzoniana.

Giustizia: per i reati associativi ci sono in vista delle modifiche 

 

Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2007

 

Non sempre l’età anagrafica coincide con l’età biologica. E la legge 13 settembre 1982 n° 646 - che ha introdotto l’associazione a delinquere di stampo mafioso e la confisca dei beni patrimoniali - sembra a molti più vecchia dei suoi 25 anni sulla necessità di un maquillage alla norma passata alla storia per l’introduzione dell’articolo 416-bis nel nostro Codice penale, concordano più o meno tutti - legislatori, magistrati, operatori vari - anche se le sfumature sono tante. Il 416 bis è stato infatti introdotto sull’onda emotiva dell’omicidio mafioso del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 settembre 1982) avvenuto a pochi mesi da quello (30 aprile) del padre putativo della legge, il deputato comunista Pio La Torre.

Quel lungo articolo, il 416-bis, era stato pensato per combattere Cosa Nostra nelle sue forme più consolidate e conosciute e gli addetti ai lavori si chiedono oggi se, a distanza di 25 anni, quella "cornice" tenga abbastanza conto del pericolo rappresentato da realtà diverse come la ‘ndrangheta calabrese o dalle mafie straniere salite alla ribalta italiana solo negli ultimi anni.

Meno profondi, ma ugualmente incisivi, sarebbero poi i ritocchi alla parte della legge su sequestro e confisca dei beni dei mafiosi, universalmente considerato uno degli strumenti principali di contrasto.

Il primo a criticare la legge è Francesco Forgione, presidente della Commissione parlamentare antimafia. "Di quella legge - afferma - regge lo spirito, ma oggi le sezioni distrettuali e la stessa Direzione nazionale antimafia sono pressoché escluse dalle proposte per le misure di prevenzione. La Commissione ha quasi pronti due ddl per correggere queste procedure. Ma il cambiamento radicale è un altro, quello di equiparare la pericolosità sociale dei beni a quella del mafioso. Il bene immobile confiscato deve tornare subito alla collettività, ma su questo fronte non colgo segnali dal Governo, né dal viceministro all’Economia Vincenzo Visco, né dell’Agenzia del demanio".

Antonio Maruccia è ben al corrente dei ritardi nella destinazione sociale dei beni. Magistrato, è stato nominato il 15 giugno commissario del Governo proprio per seguire la sorte delle confische di beni mafiosi, è ancora in attesa del placet del Csm: "Sono troppe e frammentate - dice - le competenze che incidono sui procedimenti di assunzione e assegnazione dei beni. Dovremmo compiere lo sforzo di far parlare la stessa lingua alle varie amministrazioni. Il 27 settembre presenteremo la banca dati che permetterà alle procure, ai tribunali di prevenzione e agli altri soggetti interessati di catalogare in tempo reale tutti i beni sottoposti a sequestro giudiziario o confiscati".

Michele Prestipino, della dda di Palermo (il pm che ha catturato Bernardo Provenzano), disegna un quadro più articolato: "Quella norma è stata introdotta per combattere mafia e camorra, ovvero organizzazioni pervasive del tessuto sociale, ferree nel controllo del territorio, e che, di fatto, esercitano un potere alternativo allo Stato in determinate aree del Paese. A mio avviso - dice ancora il pm - abbiamo avuto esiti straordinari dai processi imperniati sul 416-bis, ed è quell’intuizione normativa che, nel primo maxiprocesso palermitano, ha permesso di disegnare Cosa Nostra come organizzazione unitaria e verticistica".

I problemi ci sono, certo, e il magistrato ne indica almeno due: "Il concetto di concorso esterno al reato di 416-bis ha dato dei problemi ma perché il legislatore non ha mai precisato quali siano le condotte che integrano questo reato. E perché in due decenni non l’ha fatto? L’altro problema di questo strumento nient’affatto datato è la sanzione: troppo blanda, troppo incerta. Tra accesso ai riti abbreviati (che riducono la pena di un terzo, ndr) appelli in cui si può concordare la durata della pena, più la Gozzini una volta in carcere, se un condannato per 416-bis sconta due o tre anni è già tanto".

II vero punto dolente è quello, ed è d’accordo anche un altro magistrato d’esperienza, Ferdinando Pomarici, procuratore aggiunto a Milano nonché coordinatore della locale dda: "no, il 416 bis non va criticato in astratto, perché ha dato notevoli prove di essere efficace. A Milano significa tuttora la condanna del 90% degli inquisiti. Certo, nel concreto bisogna essere in grado di dimostrare con descrizioni ampie e puntuali la fondatezza dell’accusa. Però non mi convince l’ipotesi di inasprire la pena minima: il problema è semmai, ma in generale, il rito abbreviato. Non sempre è così conveniente per guadagnare tempo, perché è sufficiente che un imputato vi ricorra e un coimputato no per perdere ogni vantaggio nella rapidità di giudizio. Anzi - aggiunge Pomarici - io sarei preoccupato che, aggravando la sanzione per il 416 bis semplice, un giudice preferisse assolvere anziché infliggere una pena ritenuta eccessiva".

Dello stesso avviso Alberto Nobili, altro aggiunto a Milano, esperto in sequestri di persona, ‘ndrangheta al Nord e ora impegnato sulla "nuova criminalità" (cinesi, albanesi, eccetera): "La funzione di quell’articolo non è superata. Migliorabile, certo, ma io trovo che sia applicabile anche in processi "nuovi", com’è accaduto di recente relativamente a bande di cinesi e il giudice ha accolto l’ipotesi accusatoria che parlava di "controllo del territorio" di Chinatown e dello "stato di soggezione" in cui venivano costretti gli abitanti di quella zona".

Giustizia: mons. Caniato; 30mila i minori in attesa di processo

 

Adnkronos, 13 settembre 2007

 

C'è un motivo reale se la Corte di Cassazione ha stabilito con una sentenza che in Italia è possibile la custodia cautelare per i minori che hanno commesso un reato: sono infatti circa 30mila i ragazzi colpevoli di qualche reato che rimangono in attesa di processo. È quanto ha affermato in un'intervista alla Radio Vaticana mons. Giorgio Caniato, ispettore in Italia dei cappellani delle carceri; la settimana scorsa si è tenuto a Roma il XII Congresso mondiale della Commissione internazionale della pastorale cattolica nelle carceri.

"In Italia la detenzione minorile ha un suo Codice - ha spiegato mons. Caniato - una sua procedura, per cui si tende a non mettere in prigione chi fa i reati". "Lei pensi - ha aggiunto - che in Italia ci sono detenuti - in una ventina di carceri - soltanto 500, 600 minori, non di più. Tutto il resto, tutti quei ragazzi presi a rubare e via di seguito, che sono in attesa di processo, sono circa 30mila". Questa, ha osservato il responsabile dei cappellani delle carceri italiane, "non è una cosa bella, sotto tanti punti di vista. Ad un certo punto, la gente è stufa di vedere questi ragazzini che rubano entrare un giorno ed uscire subito dopo. È tutto da rivedere". "Il che - ha osservato mons. Caniato - non vuol dire che la giustizia nei confronti dei minori debba essere una giustizia punitiva. Ma è vero che qui entra in gioco tutta la società, perché ormai siamo in una società dove tutto sembra lecito, dove la misura della propria azione è solo nella propria coscienza, dove non si riconosce più una legge morale oggettiva, come del resto ha detto il Papa. Naturalmente ne scaturisce nella giustizia quello che ne scaturisce".

Polizia Penitenziaria negli Uepe: Sappe chiede 3mila assunzioni

 

Blog di Solidarietà, 13 settembre 2007

 

Alla luce del Decreto Interministeriale istitutivo del Servizio di Verifica da parte del Corpo di Polizia Penitenziaria presso l’Uepe sul territorio, in corso di definizione; a questa O.S. preme rappresentare che gli organici degli Istituti già in grave difficoltà per assicurare i diritti soggettivi al personale vengono distaccati senza criterio, unità del Corpo per essere impiegate presso l’Uepe

È pertanto, opportuno procedere alla definizione Decreto Interministeriale di cui in premessa ed impartire direttive a livello nazionale, affinché i provveditorati regionali non distolgano più personale dal Servizio a turno per destinarlo all’Uepe. In particolare il Sappe si rivolge con fermezza all’On. Mastella affinché si faccia promotore di una iniziativa legislativa diretta all’ampliamento dell’organico per almeno 3.000 unità, che consentano di assegnare, previo apposito corso di formazione e dopo uno specifico interpello, pari numero di unità per le esigenze dell’Uepe. Auspicando una significativa attenzione e manifestiamo la più ampia disponibilità ad una preventiva concertazione sindacale, si inviano distinti saluti.

 

Il Segretario Generale del Sappe

Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 13 settembre 2007

 

Emanuele, dal carcere dell’Isola della Gorgona

"Cara Radio Carcere, io ora mi trovo detenuto in Italia, ma il reato l’ho commesso all’estero. Dopo un po’ che ero detenuto in Germania, ho chiesto in base alla Convenzione di Strasburgo di scontare il reato della pena in Italia. E la mia richiesta è stata accolta. Poi è arrivato l’indulto e io, come Silvia Baraldini condannata negli Usa e poi detenuta in Italia, ho fatto istanza di indulto. Il fatto è che alla Baraldini l’indulto l’hanno dato e a me no. Come vedi nel provvedimento della Corte di Appello di Caltanissetta, l’indulto mi è stato rigettato perché nella convenzione di Strasburgo c’è solo la parola amnistia, grazia e non indulto. Perché alla Baraldini l’indulto l’hanno dato e a me no? Ora ho fatto ricorso in Cassazione e spero che la Corte faccia finalmente giustizia. Per quanto mi riguarda, so solo che se fosse vero che la legge è uguale per tutti, beh allora sarei già libero. Io avrò sbagliato ma non è giusto che a un poveraccio come me la legge non venga applicata. Grazie per avermi ascoltato"

 

Gani, dal carcere Bassone di Como

"Caro Riccardo, ti scrivo per informarti dell’ingiustizia che sto subendo in carcere. Un’ingiustizia che a molti può sfuggire ma che mi provoca molte sofferenze. Devi sapere che io sono nella c.d. sezione di Alta sicurezza, una sezione o meglio una qualifica per me detenuto. Una qualifica che mi impedisce di avere misure alternative al carcere. Dico che questa mia qualifica di detenuto in A.S. è un’ingiustizia perché il reato per cui dovrei stare in questa sezione è decaduto, ma nonostante ciò da 21 mesi sono qui. A dimostrazione di ciò è che anche i miei coimputati, condannati come me a più di 5 anni di carcere, sono stati declassificati e messi nella sezione comune. Invece di me si sono letteralmente dimenticati. Ho chiesto un incontro col direttore, ho fatto 64 domandine e 18 lettere per poterci parlare ma è stato inutile. Ho scritto al Ministro Mastella ed ho inviato 5 fax al Dap. Ma fino ad oggi non ho ricevuto risposta. Io vorrei sapere solo perché devo stare in una sezione di A.S. Caro Riccardo, spero che questa mia lettera arrivi tramite Radio Carcere a chi ha le nostre vite in mano. Grazie per il tuo impegno"

 

Marco e i suoi compagni di detenzione della colonia agricola di Isili in Sardegna

"Caro Arena sono internato nella colonia agricola di Isili. Ti scrivo per dirti come siamo costretti a vivere qui. Siamo internati, ovvero sottoposti a misura di sicurezza detentiva, ma il trattamento che ci spetta è simile a chi è sottoposto al c.d. carcere duro, al 41 bis. Per noi internati nella colonia agricola di Isili c’è solo lavoro malpagato: 250 euro al mese. Per il resto non c’è nulla: né sport, né socialità e neanche la possibilità di vedere un film. Noi qui siamo veramente indignati per come veniamo trattati e la frustrazione è forte, tanto che ce la sentiamo addosso 24 ore su 24. Tra l’altro tra noi internati ci sono anche persone anziane e malate, che però non vengono curate. In altre parole se ne fregano di noi, che siamo detenuti senza condanna. Se non lavoriamo stiamo in cella, col blindo chiuso e la paura a farci compagnia. Le nostre celle qui a Isili sono fredde e umide perché ci piove dentro. Neanche le bestie si trattano così. Noi ti preghiamo Riccardo di non stancarti mai a parlare di noi internati, perché tu sei l’unica nostra voce. Ti saluto, insieme ai mie compagni, con un abbraccio. Rimaniamo in ascolto di Radio Carcere!"

Roma: Regina Colei; dal 1999 a letto in attesa di un’operazione

 

www.radiocarcere.com, 13 settembre 2007

 

Mi chiamo F. Ho 67 anni. Dal 1999 vivo su un letto del centro clinico del carcere di Regina Coeli, reparto medicina, secondo piano. Sono romano, e ho tanti anni ancora da scontare. Io condannato non solo alla galera. Io, condannato a stare sempre a letto. Mi sono rotto il femore in carcere, sono caduto mentre ero in cella. Già soffrivo di artrosi e camminavo male. Un passo falso e il femore si è spezzato.

Da allora vivo su un letto. 8 anni allettato non sono pochi! Il mio problema oggi non è tanto la detenzione che devo scontare. Il mio problema è alzarmi da questo letto. 24 su 24 dipendo da un detenuto, chiamato in carcere piantone, che mi aiuta a mangiare, a lavarmi e a cambiarmi il pannolone. Io non sono autonomo, e questa cosa mi fa parecchio arrabbiare. Non so da quanto tempo non mi faccio una doccia, non mi ricordo più l’ultima volta che mi sono messo un paio di scarpe e da 8 anni non faccio neanche l’ora d’aria. In attesa dell’operazione, avrei bisogno di un letto ortopedico e invece qui sto su una vecchia branda con un materasso di gomma piuma.

Le pieghe da decubito mi massacrano il corpo e quando devo cambiare posizione, mi aiuto con delle buste di plastica attaccate alla branda che uso come cinghie. Le lenzuola, anche se questo è un centro clinico, le cambiano una volta a settimana. Un po’ poco per chi sta a letto tutto il giorno! Prima almeno potevo usare la carrozzina. Ora non ci riesco più a salire. Da 8 anni le mie giornate sono tutte terribilmente uguali. Mi sveglio, il piantone mi lava, mi cambia e mi aiuta a fare colazione. Poi, si accende la tv e aspetto con ansia l’arrivo del giornale. Giornale che mi leggo dalla prima all’ultima parola! Il resto del tempo lo passo in silenzio ad ascoltare quello che dicono i miei compagni di cella. Quando arriva l’ora del pranzo io mangio a letto. Qui non c’è un vassoio, come in ospedale. Così ci siamo inventati una piccola scatola di cartone da usare per appoggiare il piatto.

Siamo in 4 detenuti dentro questa cella del centro clinico di Regina Coeli. Una cella che assomiglia più a un accampamento di disperati. Ogni tanto leggo di questo centro clinico che dicono moderno. Si certo. Moderno è solo il terzo piano dove c’è una bellissima sala operatoria costata milioni di euro! Peccato che sui giornali non dicano mai nulla degli altri due piani, il secondo e il primo, che sono due gironi infernali. Io ora sto proprio al secondo piano, chiamato "medicina". Su un lungo corridoio si affacciano le celle del centro clinico. Si tratta di vecchie celle, buie, fredde d’inverno e calde d’estate a causa degli infissi rovinati.

Dentro le celle un campionario vario di malattie. Detenuti in carrozzina, cardiopatici, diabetici o malati mentali. Ci sono anche le celle singole, dove di solito ci mettono i detenuti con la tubercolosi.

Il cesso è quello di una cella normale. Una tazza e un lavandino. Il problema del bagno c’è l’hanno soprattutto i detenuti paralizzati che non ci possono entrare. Infatti lo spazio tra il muro del bagno e il lavandino non consente di farci entrare la carrozzina. Così il piantone prende il detenuto paralizzato sotto le ascelle e lo trascina in bagno. Qui lo sostiene mentre lui si lava. Non è una cosa semplice e spesso qualcuno cade.

L’ho detto, più che celle per detenuti malati, sembrano accampamenti. I panni stesi alla finestra, che non si asciugheranno mai per l’umidità. Accanto ai letti ci stanno le padelle per fare i bisogni, messe magari vicino al mangiare. Lo chiamano centro clinico, ma in queste celle si lava la biancheria, ci si lava, si mangia. In queste celle ci stanno detenuti con malattie diverse. Chi ha delle perdite d’urina convive con chi ha crisi epilettiche o con un cardiopatico. E questo che accade tutti i giorni. Insomma non è un posto lontano dall’idea di un ospedale. È una sezione di un vecchissimo carcere e dopo, molto dopo è centro clinico. Per esempio il mangiare non è fatto a posta per chi è malato. No. È quello cucinato per tutti i detenuti. Anche se il medico scrive: "dieta iposodica per detenuto x" che vuoi che capiscano in cucina: "Ipo…che?" Morale: a noi malati arriva la sbobba uguale agli altri detenuti.

Ma questo è niente. Come negli ospedali, anche qui ci sono i campanelli per chiedere aiuto. Non c’è però una luce che da fuori indica all’agente da quale delle 10 celle si sta chiamando! Io sto parcheggiato sul mio letto e non solo penso a me, penso anche a G. che sta nella cella accanto alla mia. G. ha 45 anni e c’ha una lesione midollare. G. da 5 anni ha il problema del dolore che lo affligge ogni momento. Qui gli danno solo i classici antidolorifici, che non bastano. Anche sulla terapia del dolore la medicina ha fatto progressi, ma quei progressi non entrano a Regina Colei. E G. soffre, soffre e aspetta da anni la visita di uno specialista. Vorrei registrare le sue urla di notte! Direbbero l’abbandono.

L’ultimo girone del centro clinico di Regina Colei è al primo piano. Lì è buio, sporcizia e muri ancora più neri. È fatiscente e c’è una puzza terribile. È il piano dei dimenticati e dei destinati a morire. Nelle prime celle ci sono le urla dei drogati, in altre i lamenti dei barboni, nelle ultime c’è silenzio. Dalla penombra appaiono le ossa di visi con occhi spalancati. Sono i malati di Hiv. Per quanto mi riguarda vivo nella speranza di essere operato e di potermi alzare da questo maledetto letto. Sono 8 anni che ogni mattina aspetto una buona notizia che non arriva. Quando mi viene a trovare un volontario o il garante dei detenuti Marroni capisco da come mi guardano che non hanno novità per me. E io prima che iniziano a parlare gli domando: "Ma allora devo morire su questo letto?"

 

F., 67 anni

Roma: detenuti di Rebibbia da oggi in sciopero contro carovita

 

Comunicato stampa, 13 settembre 2007

 

Il Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni: "una protesta pacifica e civile per dire che anche in carcere si avvertono gli effetti del rincaro dei prezzi".

Da questa mattina, e per tutto il giorno, i detenuti del carcere romano di Rebibbia si stanno astenendo dall’acquistare i prodotti "sopravvitto" dallo spaccio interno, per protestare pacificamente contro il carovita. La notizia dello sciopero, organizzato dall’associazione "Papillon", è stata diffusa dal Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni.

"Questa manifestazione - si legge nel volantino che ha accompagnato lo sciopero - servirà a far sentire la nostra voce che sosterrà quella dei cittadini liberi e delle nostre famiglie. Infatti la popolazione carceraria è certo una delle fasce più deboli della società." I detenuti chiama "sopravvitto" tutti i generi alimentari che acquistano e consumano oltre ai pasti forniti dall’amministrazione penitenziaria.

"Quella che hanno inscenato i detenuti di Rebibbia è una protesta pacifica e civile - ha detto il Garante dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni - che rappresenta un segno tangibile del disagio loro e delle loro famiglie. È vero che, nella stragrande maggioranza dei casi, i detenuti sono fra i soggetti più deboli della società ed è altrettanto vero che il problema di far quadrare i conti interessa anche chi è costretto a vivere in carcere".

Milano: corso di formazione per la tutela dei figli dei detenuti

 

Vita, 13 settembre 2007

 

Un seminario diretto ad operatori che a vario titolo si occupano di minori con genitori in carcere. È quello che si terrà a Milano il prossimo 26 ottobre, organizzato dall’associazione "Bambini senza sbarre" con Cbm, Centro per il bambino maltrattato.

Un incontro che mira all’acquisizione di conoscenze e competenze necessarie per affrontare i problemi e le situazioni nei casi in cui l’interruzione dei rapporti affettivi a seguito di sanzione penale, costituisce per il bambino un ulteriore elemento di disagio o trauma, legato alla perdita della risorsa psicologica e affettiva importante per il suo sviluppo. Per molti genitori detenuti la carcerazione determina una "cancellazione" della genitorialità; in alcuni casi la genitorialità è compromessa o a rischio non solo per la detenzione di uno o entrambi i genitori ma anche per l’esistenza di specifiche difficoltà connesse a comportamenti trascuranti o violenti nei confronti dei figli. Le situazioni di rischio che si vengono a generare e la conoscenza degli aspetti chiave legati alla detenzione, facilita gli operatori offrendo loro un’opportunità di riflessione e di acquisizione di strumenti per la riduzione dell’impatto sul bambino e la gestione del compito di cura e sostegno del genitore. Il seminario si terrà presso la sede milanese del Cbm dalle 10 alle 17.

GB: un ex detenuto torturato a Guantanamo fa causa al MI6

 

Ansa, 13 settembre 2007

 

Un cittadino britannico, ex detenuto a Guantanamo, vuole trascinare in tribunale i servizi segreti del Regno Unito, l’MI5 e l’MI6 e chiedere i danni per le torture subite durante gli interrogatori. A riferirlo è il Guardian, entrato in possesso della denuncia di Tarek Dergoul, 29 anni, contro gli 007 britannici e il ministero degli Esteri per abuso d’ufficio. Dergoul nel 2004 è rientrato in patria senza aver subito alcuna incriminazione. L’obiettivo dell’azione legale è ottenere una sentenza che impedisca all’intelligence di servirsi di informazioni estorte mediante maltrattamenti ai prigionieri detenuti fuori dalla Gran Bretagna.

La lista delle accuse mosse da Dergoul è lunga e pesante: percosse, umiliazioni sessuali, maltrattamenti in condizioni di freddo estremo, insulti all’Islam. Le torture gli sarebbero state inflitte sia in Afghanistan, dove venne catturato nel 2001 dai Signori della guerra e poi venduto agli Stati Uniti per 5.000 dollari, sia dopo il suo trasferimento a Guantanamo. "Il governo britannico e i suoi funzionari sapevano che il ricorrente era sottoposto a maltrattamenti e torture così disumane e degradanti perché lui li aveva informati", dicono gli atti. Di più, Dergoul sostiene di esser stato interrogato "con metodi illeciti" dagli 007 britannici sia in Afghanistan che a Guantanamo e gli agenti restarono indifferenti alle sue proteste. Dergoul ha sempre sostenuto di essere andato in Afghanistan solo per studiare l’arabo.

 

 

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