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Giustizia: Margara; la legge Gozzini va difesa ad oltranza di Davide Vari
Liberazione, 5 ottobre 2007
L’attacco è a tutto campo e senza esclusione di tipi. Gli stati generali di Forza Italia, Lega Nord e An, con il beneplacito del guardasigilli Mastella e di qualche futuro piddino, hanno finalmente individuato l’origine di tutti i mali d’Italia: la legge Gozzini. Quella riforma del sistema penitenziario nostrano che nel 1986 ha riportato la condizione dei detenuti entro la filosofia della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti, contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato e del rispetto dei diritti umani", recita infatti l’articolo numero 27 della nostra Carta. A scatenare la battaglia contro la Gozzini una tentata rapina in banca, grossolana per modalità e risultato, organizzata maldestramente da un ex Br. Quell’ormai celebre Cristoforo Piancone, che dopo 25 anni di carcere beneficiava della semilibertà. Un pretesto come un altro, gonfiato ad arte, per "dimostrare l’eccessivo garantismo" di quella legge e la necessità di serrare "le maglie troppo larghe" di quei magistrati di sorveglianza che si ostinano a considerare il detenuto come una persona recuperabile alla comunità. Insomma, la lunga estate della sicurezza sembra proprio non finire. E dopo l’ondata giustizialista dei sindaci di centrosinistra - sui lavavetri, rom e mendicanti - sembra essere giunto il momento propizio per attaccare la legge Gozzini, l’unica che ha salvato il Paese dall’esplosione delle proprie carceri. Se è infatti vero che i nostri istituti di pena sono progettati par "ospitare" non più di 40mila persone, e se è altrettanto vero che ad oggi, e dopo un indulto, di persone recluse ce ne sono 46mila, è facile capire che il problema non è come continuare a riempirle, ma piuttosto come pensare a "svuotarle", per renderle più vivibili. Ovviamente l’attacco alla Gozzini è partito da destra, in particolare da una Lega che sembra molto preoccupata della recente concorrenza del Piddì in materia di sicurezza. "Lavoro forzato per i carcerati e meno benefici", ha infatti proclamato Gianpaolo Dozzo, vicepresidente del Carroccio a Montecitorio. "La colpa è della legge Gozzini" ha immediatamente fatto eco il senatore di An Mantovano. Non solo destra però, anche di Pietro si è detto favorevole a ridiscuterla. Con lui il vicepresidente del Csm Nicola Mancino: "L’uomo non è mai uguale e i suoi comportamenti sono variabili - ha premesso - quindi sulla Gozzini, eventualmente, si può discutere". Eppure gli operatori - giudici di sorveglianza, magistrati e associazioni - hanno ben pochi dubbi sulla validità della legge Gozzini. Alessandro Margara, magistrato di sorveglianza proprio negli anni della prima applicazione di quella legge, parla chiaro: "La Gozzini va difesa a oltranza - ha detto a Liberazione -, dobbiamo smetterla con questa americanizzazione della giustizia italiana. Gli americani stanno riempiendo le carceri da trent’anni. Basti pensare che sono passati da 1 milione di detenuti a 2 milioni". Del resto la cura Giuliani, il sindaco newyorkese della tolleranza zero, si è fatta sentire. Eppure Margara a quella cura lì non ha mai creduto: "Tutte sciocchezze - sbotta - non è stata la tolleranza zero di Giuliani a ridimensionare la criminalità, ma un’economia che girava". Insomma: meno disoccupati uguale meno crimini. "Giuliani ha solo colpito la cosiddetta criminalità percepita, la nuova passione dei sindaci italiani. Per il resto, la grande criminalità, non è stata quasi toccata. E in Italia sta accadendo lo stesso - continua Margara - si puniscono tutti quei fastidi sociali percepiti dalle persone: mendicanti, rom, lavavetri. Insomma, si puniscono i poveri. Il fatto è che nel nostro Paese stanno proliferando tutte quelle teorie di ascendenza tacheriana e reaganiana. Teorie che fanno proseliti anche a sinistra. Una cosa vorrei dirla: le politiche di destra lasciamole alla destra… che le sa fare". In tutto questo, l’attacco alla Gozzini sta spostando il dibattito intorno al falso problema dei presunti "delinquenti" in libertà, piuttosto che sul vero problema delle carceri strapiene: "Esattamente come negli Stati Uniti - continua Margara - si pensa che l’unica pena valida sia quella che manda in galera, la pena detentiva. Non è così ed il dato del Dap lo dimostra: solo il 20% di chi è in affidamento reitera il reato. Una percentuale che sale al 68% per chi sconta tutta la pena in carcere". "Il fatto che ogni piccolo episodio venga utilizzato strumentalmente permettere in discussione la pratica delle pene alternative la dice lunga sullo stato del nostro Paese. Come dice Marco Revelli, in Italia ormai domina una "pedagogia del disumano". Ripeto - conclude Margara - la Gozzini va assolutamente difesa. Per quanto riguarda il caso di Piancone direi che sarebbe uscito anche con il vecchio codice Rocco del 1930, che prevedeva la semilibertà dopo 28 anni di carcere". Su tutto questo, ben poche voci a difendere quella legge sotto attacco della destra. Tra i pochi Giovanni Russo Spena, di Rifondazione, che registra la critica bipartisan che arriva a quella legge - . "L’attacco che viene mosso in questi giorni alla legge Gozzini soprattutto da An ma anche da aree della sinistra è bugiardo e puramente strumentale" - e la difende dall’uso strumentale: "eliminare le misure alternative o restringerle avrebbe risultati disastrosi da tutti i punti di vista. La situazione nelle carceri, già difficilissima, diventerebbe esplosiva, si interromperebbe bruscamente il percorso di riabilitazione per migliaia e migliaia di detenuti". "Difendere la Gozzini - conclude il capogruppo del Prc - è fondamentale non solo per evitare che la civiltà giuridica di questo paese faccia un drastico passo indietro ma anche perché le conseguenze della sua eliminazione sarebbero devastanti in termini di sicurezza e contrasto alla criminalità". Con lui anche il sottosegretario alla giustizia Luigi Maneoni: "Sono profondamente contrario a conseguirne, come inevitabile, il processo alla magistratura di sorveglianza che ha concesso quel beneficio. Non dimentichiamo che a comportarsi come Piancone è lo 0,3% dei condannati che godono di questi benefici. Guai a buttar via la legge Gozzini che è sacrosanta e che ha contribuito a migliorare la sicurezza collettiva e a ridurre la criminalità". Nel frattempo l’Udc ha presentato un’interpellanza al ministro della Giustizia e al ministro dell’Interno "per sapere ogni notizia sull’arresto a Siena del brigatista Cristoforo Piancone, sulle le ragioni per le quali gli era stato concesso il regime di semilibertà e per sapere le iniziative assunte per controllare i criteri e l’uso complessivo della legge Gozzini". Giustizia: Gozzini, il riformatore che credeva nella giusta pena di Andrea Colombo
Liberazione, 5 ottobre 2007
Mario Gozzini, padre della legge più odiata da chiunque ami la forca, non era un fiancheggiatore delle Br, un massimalista radicale e neppure un riformatore astratto impegnato inseguire le sue chimere. Gozzini è stato uno dei principali esponenti della miglior cultura cattolica di questo paese, quella di Rossetti, La Pira e Balducci, dei quali fu amico e collaboratore, come lo era stato del suo maestro Papini. Per essere uno studioso, lo era, ma non si occupava tanto dei delitti e delle pene quanto di cristianesimo. Diresse per Vallecchi una collana di studi importante "I nuovi padri: saggi sul cristianesimo del nostro tempo", curò e coordinò con Alfonso Di Nola l’"Enciclopedia delle religioni". Quando approdò in parlamento nel ‘76, a cinquant’anni, eletto al Senato come indipendente nelle liste del Pci, vantava radici ideali per interpretare l’ispirazione sostanziale di una Costituzione come quella italiana, alla quale la sinistra e il cattolicesimo di Dossetti avevano più che ampiamente contribuito. Da religioso qual era, si occupò di questioni nevralgiche come la legge 194, quella che nel ‘78 legalizzò l’aborto, e poi della revisione del Concordato conclusa nell’84. È solo apparente lo scarto tra le questioni legate al rapporto tra stato e chiesa di cui Mario Gozzini si occupò nella prima parte della sua attività parlamentare e la legge sulle misure alternative alla detenzione che porta il suo nome e che fu approvata nell’86. In entrambi i casi, l’obiettivo era un’applicazione non estensiva ma semplicemente coerente dei princìpi costituzionali. Incluso quello che all’art. 27, comma terzo, vieta la pena detentiva in violazione dei diritti umani e sancisce, aldilà di ogni possibile dubbio interpretativo, la funzione rieducativi e non meramente punitiva della pena. I tantissimi che strepitano ogni volta che possono contro la Gozzini, dovrebbero avere il coraggio di sparare i loro siluri contro la Costituzione, della quale la legge in questione è solo una coerente applicazione. L’esigenza di dare corso al dettato costituzionale, in effetti, non aveva atteso la legge del senatore Gozzini. La riforma carceraria era stata varata già nel ‘75, sulla spinta di un movimento culturale e politico tanto evoluto e civile quanto barbari sono gli umori in circolazione oggi. Era stata quella riforma a incrinare per la prima volta la concezione puramente vendicativa della pena propria della cultura penitenziaria italiana sino a quel momento. Istituiva la figura del magistrato di sorveglianza, quello che oggi il ministro Amato ammonisce affinché consideri bene le proprie "responsabilità". Soprattutto introduceva il principio della flessibilità della pena, la possibilità cioè di modularla opportunamente in base allo stato di risocializzazione dei singoli detenuti. Quella riforma non se la ricorda e non la mitraglia nessuno solo perché, coi tempi che correvano, rimase praticamente lettera morta. Fra il terrorismo diffuso e un’impennata criminale senza precedenti, l’insicurezza, nell’Italia dei ‘70, era un problema reale, mica l’invenzione propagandistica di oggi. All’ordine del giorno non c’erano gli scippi ma i sequestri di persona. Il rischio di finire borseggiati lo si correva anche allora ma si aggiungeva a quello, più temibile, di incontrare qualche pallottola vagante. Capitava con una certa frequenza. La riforma carceraria fu di conseguenza messa nel cassetto insieme ai principi costituzionali, e al loro posto fu inventato il "circuito dei camosci", quello delle micidiale e durissime carceri speciali, inaugurate giusto allora. Undici anni dopo, Gozzini riprese quella riforma e ne ampliò lo spettro, nella convinzione che l’emergenza fosse terminata e si potesse tornare a confrontarsi con l’esigenza di interpretare la pena come via alla risocializzazione invece che come moderna legge del taglione. Sia chiaro, l’alta ispirazione del senatore incontrò i consensi del Parlamento non solo per tanto alati motivi. Le carceri erano un inferno, le esecuzioni all’ordine del giorno, il tasso di violenza palesemente fuori di controllo. La Gozzini fu interpretata come legge premiale che offriva ai detenuti la possibilità di ottenere misure alternative al carcere in cambio di un comportamento irreprensibile dietro le sbarre. Funzionò. Funziona tuttora. Se le galere italiane non sono più dominate dagli esecutori di don Raffaele o di qualche suo epigono, se non capita più di ritrovare teste mozzate nei cessi del carcere, se è scomparsa l’abitudine di accoltellare all’aria il nemico di turno, a volte, come nel caso di Francis Turatello, mangiandogli anche il cuore, lo si deve alla legislazione "premiale". La Gozzini aveva i suoi corposi limiti. Concedeva al magistrato di sorveglianza una discrezionalità praticamente illimitata e incrinava così, di fatto, il principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge: non perché rimuoveva la cosiddetta "certezza della pena" ma perché rendeva determinante il "capitare" con un magistrato di sorveglianza piuttosto che con un altro. Per un breve lasso di tempo, alla fine degli anni ‘80, la possibilità di migliorare ulteriormente la legge eliminando la discrezionalità parve concreta. Era un miraggio: si capì sin troppo presto che la Gozzini andava difesa così com’era, perché i soli cambiamento possibili erano quelli che la avrebbero peggiorata. Fu peggiorata infatti, e di parecchio, già nel ‘91, con il decreto Scotti-Martelli che eliminava per i reati di criminalità organizzata la possibilità di accedere alle misure alternative se non previo "pentimento" e per altre fattispecie, come il terrorismo, rendeva assai più lungo e difficile l’accesso a lavoro esterno, semilibertà e libertà condizionale. Gli innamorati del carcere non si sono accontentati e non si accontentano. La pacificazione di quell’inferno che erano diventate le prigioni gli pare un risultato insignificante. La trasformazione dell’Italia in un paese sostanzialmente sicuro la ignorano come se nulla fosse: tra la famigerata "microcriminalità" e la mattanza di trent’anni fa non colgono grandi differenze. A Mario Gozzini è stato dedicato un carcere dalle parti di Firenze, la sua città. Per il resto il suo nome è diventato un simbolo quasi di ignominia invece che di civiltà democratica e fedeltà allo spirito di una Carta che tutti esaltano solo a parole. Non che ci si potesse aspettare altro in un paese in cui l’editorialista di punta del principale giornale di centrosinistra, al secolo "Repubblica", e il ministro degli Interni duettano trattando Beccarla come un visionario pazzo e nessuno se ne duole. Giustizia: la Gozzini va bene, ma limitiamo le discrezionalità di Giancarlo Ferrero
L’Unità, 5 ottobre 2007
Il fatto è di una indiscutibile gravità e ben giustifica le vivaci reazioni a caldo dell’opinione pubblica e (un po’ meno) di quella politica: un terrorista assassino, condannato all’ergastolo viene legalmente posto nelle condizioni di commettere altri delitti fuori dal carcere. Non deve più accadere, è indispensabile un drastico intervento dello Stato che ripristini la sua autorità e dia sicurezza ai cittadini. D’accordo, ma come? Ritornando al Codice Rocco, al periodo antecedente alla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, buttando a mare le legge Gozzini o rivedendola drasticamente ed introducendo insuperabili barriere? Siamo un popolo di poca attenzione, di memoria corta e di coscienza mobile: sorvoliamo sulla Costituzione che all’art. 27 impone che le pene dei colpevoli debbono tendere alla rieducazione (e la rieducazione dentro una cella per tutta la vita può essere realizzata solo in vista dell’aldilà), che negli anni precedenti alla legge Gozzini le carceri erano polveriere pronte ad esplodere e che dopo, molti detenuti si sono comportati più correttamente proprio nella speranza di godere dei benefici previsti dal legislatore; che è troppo comodo far tacere la propria coscienza o mutarne la sensibilità per non dover affrontare certi problemi o per l’emozione del momento. L’acqua è diventata sporca: buttiamola via, pazienza se c’è dentro qualcuno! Certo, con il senno di poi, i magistrati piemontesi (oltretutto gente serie e non priva di esperienza) hanno sbagliato, dovevano negare il beneficio, considerare solo gli aspetti negativi del detenuto. Evidentemente è stata una previsione errata, ma proprio perché è una previsione, per definizione anticipatoria di ogni verifica fattuale, gli errori sono possibili. C’è un solo modo per non sbagliare mai, se non a carico di chi è privo di voce per protestare: non provvedere o negare sempre. Il ministro di giustizia fa bene a verificare se i magistrati coinvolti nel caso abbiano bene interpretato la legge e valutato i fatti, ma deve farlo "ex ante", non "ex post" cioè al momento in cui la decisione è stata presa e sulla base delle conoscenze dei magistrati. Se sono stati diligenti e non hanno commesso errori di interpretazione, non possono essere ritenuti responsabili dell’imponderabile, che per definizione sfugge ad ogni valutazione umana. Inoltre le statistiche parlano chiaro: i condannati che commettono reati mentre godono dei benefici di legge sono un’esigua minoranza, inferiore agli altri detenuti che sono usciti, provvisoriamente o definitivamente, dal carcere. A parte ogni considerazione etica ed umana, anche sul piano pratico e sociale la legge Gozzini dimostra tutta la sua attualità e valore, ne potrebbe essere diversamente provenendo da un uomo che, insieme a padre Balducci, ti lasciava un segno profondo ad ogni incontro. Naturalmente la legge può essere rivista in alcuni punti, per restringere la discrezionalità interpretativa dei magistrati e rendere più uniforme la sua applicazione (uniformità che effettivamente oggi manca). Le modifiche vanno però fatte con intelligente prudenza, per evitare di incorrere in disparità di trattamenti costituzionalmente rilevanti. Quanto a rendere più rigorosa l’applicazione dei benefici premiali possiamo solo dire, senza il garbo di Caselli nella sua intervista su Repubblica, che i politici proponenti difettano di letture e conoscenze giuridiche: per gli appartenenti ad associazioni terroristiche e di tipo mafioso già esistono leggi molto più severe, a cominciare dalla n. 152 del 1991. Giustizia: Casini (Udc); ciascuno si assuma sue responsabilità di Adolfo Pappalardo
Il Mattino, 5 ottobre 2007
Non bastavano le polemiche sull’indulto: ora si riapre anche il dibattito sulla legge Gozzini. Il primo a chiederlo è il ministro della Giustizia, Clemente Mastella all’indomani dell’arresto, per una rapina in banca, dell’ex brigatista Cristoforo Piancone, sei omicidi alle spalle, mai pentito o dissociato e una semilibertà, appunto, conquistata nel 2004. "Emergenza Gozzini" titolavano i giornali agli inizi del 1990 quando saltò fuori che uno dei rapitori del giovane Casella era un esponente della ‘ndrangheta che aveva usufruito della legge varata 21 anni fa. Oggi la scena si ripete e, mentre Mastella invia gli ispettori a Torino per capire come e perché siano stati concessi i benefici all’ex Br, chiede anche che si riapra la discussione. Il collega Giuliano Amato (a cui alcuni esponenti del centrodestra chiedono di riferirne in Parlamento) invece, stigmatizza l’operato dei magistrati: "Hanno una responsabilità grave riguardo alla decisione di concedere o meno permessi a detenuti". E le polemiche si fanno di nuovo roventi. Perché se da un lato tutti i partiti (ad esclusione di Rifondazione) chiedono di aprire un dibattito sulla legge, dall’altro controbattono giudici e avvocati. Per i primi, a esporsi è il procuratore generale di Torino, Giancarlo Caselli, giovane magistrato negli anni di piombo che avverte: "giuste le polemiche ma un caso singolo non può diventare un pretesto per attaccarci". La presidenza dell’unione dei penalisti italiani invece, accusa il titolare di via Arenula "di fare demagogia solo per recuperare un po’ di consenso elettorale". Ma la discussione intanto, è aperta ieri mattina proprio dal Guardasigilli che sembra lanciare un guanto di sfida. "Se si vuole aprire un confronto per correggere la legge Gozzini lo si faccia, ma nessuno - avverte - carichi il ministro della Giustizia di responsabilità che francamente non ha". Per questo auspica "una discussione serena: si ritiene che la Gozzini vada ancora bene o bisogna cambiarla? Io partecipo al dibattito ma non sono quello che stabilisce che va cambiata". Poi però, quasi ironizzando sui dibattiti che ciclicamente si aprono nel nostro paese, s’interroga: "Il Paese vuole chiudere, come è parso in alcune circostante, con chi aveva intentato guerra allo Stato, e oggi in larghissima misura forse ritiene di dover rimettere la spada nel fodero oppure no? Io credo che la repressione non garantisca la sicurezza. Serve invece, una gerarchia di valori". D’accordo con la discussione è il vice ministro degli Interni, Marco Minniti: "quando succede che un Br con sei ergastoli, non pentito, torna in libertà e fa una rapina vuol dire che qualcosa non funziona. Dobbiamo capire se c’è bisogno di cambiare la legge , oppure se c’è stata una interpretazione sbagliata della stessa legge". Il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini invece, è più duro: "ciascuno si deve assumere le proprie responsabilità, a partire dai giudici che hanno applicato questi benefici, perché è inutile fare delle leggi rigorose se poi vengono costantemente disapplicate dai magistrati". Il leghista Roberto Maroni ancora, si dice disponibile "a restringere i benefici, ma anche addirittura ad abolire la legge". Ad alzare le barricate invece, è il presidente delle camere penali, Oreste Dominioni. "È il caso di ricordare alla pubblica opinione che per un individuo che tradisce la fiducia accordata esistono migliaia e migliaia di detenuti che sono stati recuperati. Le statistiche dimostrano che la percentuale di recidiva di coloro che sono stati affidati ai servizi sociali o in semilibertà è insignificante e la Gozzini è - avverte - uno dei capisaldi del principio rieducativo della pena sancito dalla carta costituzionale". Giustizia: pm Matone; troppi criminali "assolti" dagli psicologi di Carlo Mercuri
Il Messaggero, 5 ottobre 2007
"Cristoforo Piancone lo ricordo bene. Fu arrestato nel 1978. Aveva ucciso la guardia carceraria Lorenzo Cotogno. Nel conflitto a fuoco lui restò ferito. Più tardi me lo sono ritrovato di fronte nel processo per l’agguato di via Fani e il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Patrizio Peci parlava di lui e diceva che aveva ben due "nomi di battaglia": Gerard e Sergio. Cristoforo Piancone era della colonna torinese delle Br, si interessava di armamenti e di organizzazione, non partecipò materialmente all’agguato di via Fani ma ne curò l’organizzazione. Ora il quesito che dobbiamo porci è il seguente: noi, quasi trent’anni dopo, stiamo parlando dello stesso Cristoforo Piancone o di una persona diversa? Abbiamo cioè di fronte un altro uomo rispetto a quello che sin dalle primissime battute del processo Moro non esitò a definirsi prigioniero politico? Venticinque anni di carcere lo hanno cambiato, lo hanno redento? Ne siamo proprio sicuri?". Parrebbero domande retoriche, queste che pone Antonio Marini, sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, un passato da pubblico ministero in tutti i principali processi per terrorismo degli ultimi anni, da Moro ad Ali Agca, da D’Antona agli anarchici. Domande retoriche perché la risposta già c’è ed è scritta nei fatti: Piancone è stato riarrestato per una rapina. Dunque 25 anni di carcere non sono bastati a cambiarlo. Significa allora che la legge Gozzini, che gli ha concesso il beneficio della semilibertà, è un istituto da rivedere? Che è un fallimento la sua filosofia, quella che vuole che la rieducazione del condannato sia favorita dalla flessibilità della pena? "La legge deve essere applicata bene - risponde Marini - E con estremo rigore nei casi di terrorismo. Il condannato deve mostrare un suo effettivo ravvedimento e nel caso di un ex terrorista, deve dimostrare di aver definitivamente ripudiato la lotta armata. Io sono per la tolleranza zero nei confronti del terrorismo. Serve un grande rigore nel giudicare una persona che si è macchiata di un fatto di sangue. Più alto è il delitto commesso, più alto è il rigore con cui si deve giudicare". Simonetta Matone, sostituto procuratore presso il tribunale per i minorenni di Roma e in passato Magistrato di Sorveglianza, punta invece il dito contro gli psicologi e gli assistenti sociali: "Quando ero magistrato di sorveglianza - ricorda - molte delle relazioni sui detenuti che mi venivano fatte descrivevano soggetti meravigliosi, personalità multiformi e interessanti. Mi veniva da ridere. Da allora penso che gli psicologi usino una eccessiva indulgenza nei confronti dei detenuti. Inoltre, ritengo che ci sia una diffusa incapacità tecnica di scandagliare l’animo umano. Ci vorrebbero fior di consulenti, ci vorrebbero". Vanno quindi ridimensionate, secondo il sostituto procuratore, le "uscite in massa dal carcere" che la legge Gozzini favorisce. "La legge va rivista - sostiene Matone - essa ha dato buoni frutti solo quanto alla governabilità delle carceri: prima i detenuti facevano le rivolte sui tetti e dopo, con la Gozzini, queste rivolte sono finite". Ma il magistrato non si nasconde le difficoltà: "La Gozzini non va - dice - ma anche il percorso rieducativo in carcere, purtroppo, lascia il tempo che trova. I mezzi sono scarsi. Quando vedo i fondi destinati alla Giustizia, mi metto le mani ai capelli. Bilanci troppo esigui, molte inefficienze si spiegano così".
"Eccessiva indulgenza degli psicologi": il presidente dell’Ordine del Lazio Zaccaria chiede la smentita
"Ha tutto il sapore di uno scaricabarile l’attacco agli psicologi contenuto nelle dichiarazioni - riportate dal Messaggero - di Simonetta Matone, sostituto procuratore presso il Tribunale dei minorenni di Roma: "Penso che gli psicologi usino una eccessiva indulgenza nei confronti dei detenuti. Inoltre, ritengo che ci sia una diffusa incapacità tecnica di scandagliare l’animo umano. Ci vorrebbero fior di consulenti". Dichiarazioni "gratuite, gravi e offensive" che - secondo il presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio Marialori Zaccaria - scaricano solo sugli psicologi la responsabilità del caso Piancone, caso che ha riacceso il dibattito sul funzionamento della legge Gozzini. "Non possiamo accettare che si punti il dito verso la comunità scientifica degli psicologi, rei di enormi misfatti nei confronti della società perché incapaci di "scandagliare l’animo umano", nonché rei di assolvere detenuti ancora in grado di delinquere. Una vera e propria liquidazione di un intero corpo professionale che presta la sua opera al fianco della magistratura, con l’obiettivo di rendere possibile un’azione di recupero e di riabilitazione dei detenuti, attraverso gli strumenti che le leggi in vigore mettono a disposizione e che rappresentano una conquista di civiltà". "L’auspicio è che l’opinione della dottoressa Matone non sia stata correttamente riportata e che pertanto arrivi una pronta smentita, giacché in caso contrario l’Ordine degli Psicologi sarà costretto a tutelare la categoria nelle sedi opportune". Giustizia: Marcheselli; prognosi sbagliata, ma medicine giuste
Apcom, 5 ottobre 2007
Legge Gozzini da rifare o no? Un dibattito riaperto sull’onda del caso dell’ex Br Cristoforo Piancone, in semilibertà dal 2004 ma tornato in manette due giorni fa. Oggi è stato il giorno in cui ha preso la parola il vicepresidente del Csm Nicola Mancino. Per il "numero due" dell’organo di autogoverno delle toghe, quel caso "si poteva anche valutare diversamente": Piancone è "un terrorista mai pentito e proprio questo - ha detto Mancino - può porre dei problemi". Attenzione, però, a non fare di tutta l’erba un fascio e prudenza nel giudizio complessivo sulla legge Gozzini: le valutazioni vanno fatte "caso per caso". Di modifiche "se ne può parlare, ma salvaguardando lo spirito" di norme che hanno prodotto "risultati positivi". Una linea che piace molto al segretario dei Comunisti Italiani Oliviero Diliberto, già Guardasigilli nel precedente governo di centrosinistra. La legge Gozzini, ha detto Diliberto, "è un patto tra detenuto e Stato: se il detenuto si impegna ad avere una buona condotta, lo Stato gli sconta la pena". Non solo: è un patto che funziona, perché i casi come quello di Piancone "sono davvero le eccezioni", mentre la Gozzini "è una legge che ha garantito il reinserimento di migliaia di detenuti nella società e che rispetto a ciò che avveniva prima degli anni Settanta, continue rivolte nelle prigioni, ha garantito la tranquillità carceraria". Insomma, Diliberto e il suo partito dicono no a modifiche alla legge sulla scorta dell’arresto del brigatista irriducibile perché "un buon legislatore non legifera mai sull’onda dell’emozione, ma dopo un ragionamento a freddo". Il "movimento salviamo la Gozzini" non è solo del Pdci, ma trasversale a tutta la "Cosa Rossa": da Rifondazione ai Verdi, passando anche per Sinistra democratica, il no a modifiche della Gozzini è praticamente unanime. Il caso Piancone "è un’eccezione", mentre i benefici per buona condotta "hanno aiutato migliaia di detenuti". Sul fronte dell’opposizione, invece, oggi a far la parte del leone c’era Alleanza Nazionale. "Questa normativa che concede in maniera automatica sconti di pena ai detenuti - ha detto Maurizio Gasparri, membro dell’Esecutivo del partito di Gianfranco Fini - per An è superata da tempo, è un ferro vecchio da riporre in cantina. Andrebbe forse abrogata del tutto, ma riteniamo indispensabile escludere con immediatezza dai benefici i recidivi e coloro che hanno commesso crimini particolarmente efferati". Per quanto riguarda il caso specifico, la storia dell’irriducibile Br Cristoforo Piancone, che quattro giorni fa ha rapinato la sede centrale del Monte dei Paschi di Siena mentre era in semilibertà, oggi è intervenuto, dai microfoni di Radio 24, il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi. "Vedremo se qualcuno ha sbagliato - ha detto - però non dimentichiamo che a comportarsi come Piancone è lo 0,3% dei condannati che godono di questi benefici. Guai a buttar via la legge Gozzini che è sacrosanta e che ha contribuito a migliorare la sicurezza collettiva e a ridurre la criminalità". E alla radio è intervenuto anche il magistrato Alberto Marcheselli che ha firmato il provvedimento di semilibertà a Piancone: "Ho la coscienza tranquilla. Certo - ha spiegato - si va a letto come un medico il cui malato è morto pur avendo fatto tutto il necessario. Il dolore è grande, l’indignazione è enorme e lo scandalo è giustamente uguale a quello dei cittadini. Ho sbagliato la prognosi, ma le medicine applicate erano quelle dovute". Giustizia: Russo Spena (Prc); sulla Gozzini campagna di bugie
Apcom, 5 ottobre 2007
"Il caso di Cristoforo Piancone è certamente grave ma non può offuscare i risultati complessivamente ottimi della legge Gozzini e delle misure alternative alla detenzione". Lo afferma in una nota il capogruppo del Prc al Senato Giovanni Russo Spena. "La percentuale di detenuti che sfruttano queste misure per tornare a delinquere è minima e quasi fisiologica - scrive infatti l’esponente comunista - e tale, dunque, da attestare in realtà il pieno successo della Gozzini e non certo un suo fallimento". "L’attacco che viene mosso in questi giorni alla legge Gozzini soprattutto da An ma anche da aree del centrosinistra - prosegue Russo Spena - è bugiardo e puramente strumentale, frutto di una campagna orchestrata ignorando deliberatamente i dati reali. Eliminare le misure alternative o restringerle avrebbe risultati disastrosi da tutti i punti di vista. La situazione nelle carceri, già difficilissima, diventerebbe esplosiva, si interromperebbe bruscamente il percorso di riabilitazione per migliaia e migliaia di detenuti". "Difendere la Gozzini - conclude il capogruppo del Prc - è fondamentale non solo per evitare che la civiltà giuridica di questo paese faccia un drastico passo indietro ma anche perché le conseguenze della sua eliminazione sarebbero devastanti in termini di sicurezza e contrasto alla criminalità". Giustizia: Diliberto (Pdci); una buona legge, che ha funzionato
Ansa, 5 ottobre 2007
No dei comunisti italiani alla revisione della legge Gozzini. Lo stop arriva dal segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, secondo cui la legge "ha funzionato". "È stata una legge - ha detto Diliberto, a margine di un incontro con i dirigenti e gli amministratori del partito - che ha garantito non solo il reinserimento di migliaia di detenuti nella società, ma ha anche garantito, negli anni ‘70, la sicurezza della situazione carceraria. Prima di quella legge c’erano in continuazione rivolte nelle carceri". Secondo Diliberto dunque "la Gozzini, che è un patto con lo Stato secondo cui se ti comporti bene puoi ottenere uno sconto di pena, ha funzionato. Il caso del brigatista è una singola eccezione, ma un buon legislatore non legifera mai su una base di emozioni o di casi singoli, ma di ragionamenti a freddo".
Crapolicchio: sì a modifiche, ma in quadro di garanzie
"Massima disponibilità a rivedere la Gozzini ma solo nel quadro delle garanzie della Costituzione che prevede sì la certezza della pena, ma anche la rieducazione del condannato". Silvio Crapolicchio, responsabile Giustizia del Pdci, ricorda che "le garanzie per i detenuti fanno parte dello stato di diritto e del livello di civiltà di un paese. Non si può dimenticare, inoltre, che la legge Gozzini ha portato benefici straordinari nell’ambito del reinserimento sociale. Meno dell’un per cento di coloro che ne hanno beneficiato è tornato a delinquere. Non può essere un episodio isolato, seppur gravissimo - conclude Crapolicchio - a farci cambiare idea". Giustizia: la nascita del Pd e le campagne sulla "sicurezza"... di Piero Sansonetti
Liberazione, 5 ottobre 2007
A Milano un signore di 41 anni, originario di Avellino, è stato arrestato perché - sfuggendo agli arresti domiciliari concessigli dal giudice - aveva compiuto una rapina. Qualche dettaglio sulla notizia. La rapina, più che una rapina era un furto con destrezza. Al supermercato: il signore aveva provato a nascondere una t-shirt e due paia di calze, per un valore complessivo di quasi 10 euro. Lo hanno scoperto. Secondo dettaglio: il domicilio coatto dal quale il signore si è allontanato, violando le leggi, era una panchina. Come mai? Quel signore non possiede una casa, non può evidentemente permettersela, è un senzatetto. Così il giudice, quando ha deciso di applicare i benefici di legge e di concedergli i domiciliari aveva fissato in una ben determinata panchina di legno verde, situata vicina al carcere di san Vittore, il luogo dove scontare la pena. Il signore era libero di sedersi, alzarsi in piedi per qualche minuto, e addirittura, in alcune circostanze, di stendersi sulla panchina e di trascorrere in serenità la sua giornata. Il signore ora entrerà nelle statistiche di coloro che godono degli sconti di pena e tornano a delinquere. Ieri sono continuate le prese di posizione che finalmente affratellano quasi tutto il mondo politico italiano, dalla destra estrema a settori larghissimi del centrosinistra, che chiedono una cosa sola: l’abolizione della legge Gozzini, cioè di quell’insieme di norme che alla metà degli anni ‘80 avevano dato un senso alla Costituzione e al principio che il carcere deve servire a rieducare e non a consumare vendette. Tutti vogliono abolire la Gozzini (che prevede anche la semilibertà e la fine della pena, in caso di buona condotta, prima che la pena sia interamente scontata). Nessuno si preoccupa di leggere i dati ufficiali, che sono questi: tra i detenuti che escono di carcere usando i benefici della legge (Gozzini, indulto o altro) l’ottanta per cento non commette più reati, i recidivi sono solo il 20 per cento. Tra quelli che invece scontano per intero la pena e poi escono, il 68 per cento viene arrestato per nuovi reati. Dunque, se davvero la questione fosse la sicurezza, l’idea di abolire la legge Gozzini sarebbe una pura follia. È matematico che l’effetto immediato di una riforma di questo genere sarebbe l’aumento dei delitti. Ma siccome non è possibile che i quattro quinti, o i nove decimi del Parlamento, del mondo politico, dell’intellettualità italiana, siano così ignoranti e disinformati da non sapere come stanno le cose, non se ne può dedurne che una triste verità: la campagna contro la Gozzini, come quella precedente contro i lavavetri, come lo scatenarsi del razzismo anti-rom, come le richieste illiberali di aumentare i poteri dei prefetti, di sospendere le garanzie di legge per i migranti, eccetera, sono tutte pure e semplici conseguenze di cinici calcoli politici. Calcoli che purtroppo stanno accompagnando la nascita del partito democratico, e in parte ne sono l’effetto inevitabile. Il partito democratico sta nascendo sulla base di una scommessa: sfondare a destra, proporsi come alternativa elegante a Berlusconi e al centrodestra. E per fare questo non si limita a ricopiare i programmi politici ed economici della destra (meno tasse, meno salari, meno pensioni, meno welfare, più precariato, meno diritti, meno spesa pubblica, più privatizzazioni) ma sente necessario mandare segnali simbolici. Di tipo autoritario e illiberale. Un messaggio al paese: un centro politico guidato dal partito democratico è in grado di ridimensionare la democrazia e aumentare il livello dell’autoritarismo. Tutto qui. Anche per questo dobbiamo difendere con i denti la legge Gozzini. Giustizia: Pisicchio; subito la legge contro violenza a donne di Massimo Solani
L’Unità, 5 ottobre 2007
"Esiste un dramma che si chiama molestie insistite e persecutorie perpetrate nei confronti delle donne, un dramma che i magistrati non hanno armi efficaci per poter combattere visto che il reato di stalking non è previsto nell’ordinamento. Un dramma che troppo spesso ha esiti ferali sulle vittime". Pino Pisicchio (Idv) è il presidente della commissione giustizia della Camera, la sede dove da troppo tempo è fermo il disegno di legge antiviolenza proposto dal ministro per le pari Opportunità Barbara Pollastrini.
Onorevole Pisicchio che cos’è successo in commissione? Perché quel decreto è fermo al palo? "Quello proposto dal ministro Pollastrini è un buon disegno di legge, di cui peraltro in qualità di presidente mi sono preso in carico la relazione, che affronta il problema della violenza contro le persone più deboli con un approccio necessariamente articolato. Siano esse donne, bambini, anziani o omosessuali. Le forze politiche e le colleghe deputate hanno ritenuto necessario aprire un largo dibattito sull’insieme delle questioni evocate dal provvedimento governativo e da altre diciannove proposte di legge parlamentari, convocando un nutrito ciclo di audizioni che hanno interessato le associazioni territoriali dei centri antiviolenza, le associazioni omosessuali, esperti psicologi e giuristi. Le audizioni sono ancora in corso e questo iter, ovviamente, ha richiesto un tempo necessariamente lungo".
Nel frattempo gli episodi di violenza si susseguono. Per questo la sua proposta è stata quella di "stralciare" dal decreto Pollastrini la parte delle norme relative allo stalking? "Esattamente. Non posso accettare che a causa dei tempi lunghi delle decisioni politiche si possa arrecare ancora danno ad altre donne. Per questo per accelerare l’approvazione almeno delle parti relative alla molestia insistente, sui quali peraltro esiste la convergenza di tutte le forze politiche, l’unico percorso possibile è lo stralcio delle norme sullo stalking dal provvedimento governativo. Al quale peraltro verrebbe assicurato un percorso veloce in Commissione, auspicando poi la richiesta del governo di calendarizzazione in aula".
Si sente di azzardare una previsioni sui tempi che sarebbero necessari per l’approvazione del testo stralciato sullo stalking? "Ho parlato con i rappresentanti della maggioranza e dell’opposizione, e ho riscontrato una ottima comunanza di intenti. Per questo credo che in commissione giustizia si possa adottare addirittura una procedura accelerata, come la sede legislativa. Pertanto con un coordinamento utile tra Camera e Senato la legge anti-stalking potrebbe diventare realtà in una sola settimana". Giustizia: quando si muore tra le sbarre... come a Livorno di Nadia Francalacci
Panorama, 5 ottobre 2007
Mentre le polemiche sulle scarcerazioni facili e l’indulto riempiono le pagine dei giornali, il caso del carcere di Livorno richiama l’attenzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma passa inosservato all’opinione pubblica. Panorama ha deciso di raccontare quello che succede dietro quelle sbarre. Il corpo coperto con il lenzuolo, la testa avvolta in un sacchetto di plastica. Così è stato ritrovato nella sua cella nel carcere delle Sughere di Livorno, avvelenato con il gas di un fornello da campeggio, un detenuto polacco di 29 anni. È il secondo caso di suicidio in appena tre giorni registrato nel mese di settembre nell’istituto penitenziario costruito per ospitare 250 persone che ne accoglie mediamente 360. Qualche giorno prima si era tolto la vita un albanese poco più che ventenne da poche settimane trasferito nella casa circondariale livornese dal carcere di Prato. Per uccidersi aveva utilizzato la felpa che indossava legandola alle sbarre della finestra. Tra un caso e l’altro, ha tentato il suicidio il papà di uno dei bimbi rom morti nel rogo della sua baracca il 10 agosto. Sono 33, secondo la rivista on-line Ristretti Orizzonti, i detenuti che si sono tolti la vita nelle varie carceri d’Italia, nei primi nove mesi di quest’anno. Una lunga lista di morti che riaccende i riflettori sulle condizioni carcerarie tra sovraffollamento, cure mediche non sempre adeguate e il crescente numero di immigrati. Le storie dell’albanese e del polacco potrebbero confondersi e perdersi tra le centinaia di storie di detenuti che decidono di uccidersi in cella. Ma nel carcere livornese delle Sughere, struttura costruita alla periferia della città nel 1984 e fortemente compromessa dall’umidità, le morti per suicidio appaiono troppo frequenti. Il numero più alto è stato registrato negli anni 2003 e 2004 quando i morti sono stati 7. Al fianco dei suicidi, tanti tentativi sventati dalla polizia penitenziaria che in qualche caso non sono neanche finiti nelle statistiche. La stessa direzione del carcere ha colto la gravità del problema e ha deciso di potenziare i controlli tra i detenuti considerati a rischio, migliorando il servizio d’ascolto tra i carcerati extracomunitari, con più disagi nella comunicazione e nella gestione degli affetti. Proprio loro, spiega il direttore del carcere sono i più fragili e incapaci di affrontare il regime carcerario. "Dal 2004 abbiamo pianificato e incrementato la presenza all’interno del carcere di associazioni costituite da immigrati nate anche in collaborazione con soggetti istituzionali" dichiara Anna Cirneco, direttore del carcere delle Sughere "ciò ha permesso una sensibile riduzione dei casi di suicidio". Un dato che rimane comunque molto alto anche per la presenza di un settore, quello dedicato all’osservazione psichiatrica dei detenuti, che non è presente in altre strutture carcerarie toscane. Un reparto che coesiste con sezioni di massima sicurezza (sia maschile che femminile), con sezioni di alta sicurezza e con quella di elevato indice di vigilanza (presenza media di 75-80 persone spesso declassificate dal 41 bis). Caratteristiche peculiari che, secondo uno studio effettuato da Laura Astarita, Paola Bonatelli e Susanna Marietti sulle 208 carceri italiane, rendono il carcere livornese un modello della massima separazione e fanno sì che sia gestito "con una forte attenzione agli aspetti custodialistici che hanno ricadute negative su attività trattamentali". E il clima non è certo favorito da un giallo che ancora scuote l’ambiente carcerario livornese: era l’11 luglio del 2003 e un detenuto, Marcello Lonzi, fu trovato senza vita nella sua cella. Morte naturale fu il verdetto che portò ad una prima archiviazione. Una ventina di detenuti pochi giorni dopo scrissero a un quotidiano: "Siamo tutti sotto choc per quanto sta accadendo. Abbiamo paura persino ad andare a colloquio con i familiari perché non sappiamo che cosa possa accadere". Oggi, oltre 4 anni dopo, la procura di Livorno ha riaperto quell’inchiesta e disposto la riesumazione del cadavere. Benevento: siglata intesa per il reinserimento dei detenuti di Filippo Panza
Il Denaro, 5 ottobre 2007
Il Comune di Benevento, la locale Casa circondariale, l’Ufficio esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia e la cooperativa sociale "La Solidarietà" hanno firmato un protocollo d’intesa per l’inserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Il progetto, che dovrebbe coinvolgere complessivamente fino a quindici tra soggetti carcerati, indultati e sottoposti a misure di detenzione alternativa, si rivolgerà alla tutela del verde e del decoro dei quartieri cittadini. Offrire un’opportunità d’inserimento lavorativo ai detenuti attraverso proposte che coniughino la tutela del verde e del decoro cittadino con politiche tendenti a favorire l’inclusione sociale di soggetti svantaggiati. È questo l’obiettivo fondamentale del protocollo d’intesa tra il Comune di Benevento, la Casa circondariale di Benevento, l’Ufficio esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia e la cooperativa sociale "La Solidarietà". Il documento, sottoscritto ieri nella sala giunta di Palazzo Mosti, riguarda alcuni detenuti, fino ad un massimo di quindici unità, inseriti in tre progetti finalizzati al reinserimento sociale ("Opportunity", "Paracadute" e "Germogli di libertà") attraverso lavori di manutenzione del verde in città, secondo le disposizioni fornite dal settore Ambiente del capoluogo sannita. "Questo progetto costituisce un decisivo atto concreto che, coerentemente con gli indirizzi dell’amministrazione comunale impegnata nel favorire il reinserimento sociale di soggetti svantaggiati, ci vede al fianco delle strutture carcerarie - spiega il sindaco di Benevento, Fausto Pepe - solo offrendo un reale percorso virtuoso si può favorire il recupero di chi ha avuto problemi con la giustizia ed oggi vuole rientrare pienamente nell’esercizio del proprio diritto di cittadinanza". La particolarità del protocollo d’intesa è legata alla capacità di coinvolgere persone che vivono situazioni diverse. "È la prima volta in città che si crea un progetto di qualità per i detenuti, non semplici lavori socialmente utili - afferma il responsabile dell’iniziativa per la Cooperativa sociale ‘La Solidarietà’, Angelo Moretti - è indice di grande sensibilità aver pensato contemporaneamente a gruppi di soggetti carcerati, indultati e sottoposti a misure di detenzione alternativa. È un buon modo di fare giustizia". Per il raggiungimento dello scopo di una reale inclusione sociale è fondamentale l’apporto del Comune di Benevento. "Il primo progetto, Opportunity, impiegherà quattro detenuti in quattro quartieri diversi della città per la cura di giardini pubblici - chiarisce l’assessore comunale all’Ambiente, Enrico Castello - forniremo l’abbigliamento e le attrezzature idonee alle operazioni. Si tratta di un’iniziativa che ha il merito di perseguire un duplice obiettivo: in primo luogo quello di avviare una politica tesa ad aiutare socialmente persone che si trovano in condizioni di svantaggio e, in secondo luogo, fornire al servizio di igiene ambientale un ulteriore contributo alla pulizia del territorio". L’iniziativa, per la quale sono stati già individuati i soggetti interessati, ora al vaglio della magistratura di sorveglianza, potrebbe essere il primo passo di un rapporto nuovo con la Casa circondariale di Benevento. "Siamo riusciti a creare una rete virtuosa in cui ognuno ha pari peso ed importanza - spiega il direttore dell’Istituto, Maria Luisa Palma - abbiamo creato premesse, attraverso l’avvio di collaborazioni con gli altri enti pubblici che operano sul territorio, per il corretto recupero sociale e lavorativo delle persone che stanno scontando una pena". Reggio Emilia: Università in carcere, cresce l'offerta formativa
Modena 2000, 5 ottobre 2007
Prosegue a Reggio Emilia l’esperienza pilota che vede impegnati l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia ed il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nell’offerta di alta formazione rivolta ai detenuti della locale Casa Circondariale. Il legame che unisce l’Ateneo emiliano e l’Amministrazione Penitenziaria ha segnato un ulteriore passo in avanti con la firma giovedì 4 ottobre 2007 da parte del Rettore dell’Ateneo di Modena e Reggio Emilia prof. Gian Carlo Pellacani e del Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria dott. Nello Cesari dell’atto integrativo che prevede l’ampliamento dell’offerta formativa rivolta ai detenuti della Casa Circondariale reggiana. A due anni dalla firma della convenzione che nel novembre 2005 dietro l’impulso del Direttore della Casa Circondariale di Reggio Emilia dott. Gianluca Candiano ha aperto, primo esempio in Italia, le porte dell’università ai detenuti del penitenziario di Reggio Emilia, i quali da allora hanno potuto frequentare il corso di laurea triennale in Comunicazione e Marketing, ora per i detenuti si dischiudono nuove e maggiori opportunità formative riguardo gli indirizzi di studio che possono scegliere. L’atto integrativo firmato prevede, infatti, la possibilità di seguire anche i corsi di laurea di I livello in Scienze dell’Amministrazione e in Economia ed Informatica per la gestione dell’impresa, offerti nella medesima modalità del precedente corso, ovvero attraverso una piattaforma elettronica realizzata e messa a disposizione dal Centro E-Learning d’Ateneo, che - grazie ad un collegamento informatico a circuito chiuso - consente agli interessati di seguire le lezioni in videoconferenza tra l’Università e le aule multimediali realizzate presso l’Istituto di pena. Per ora l’esperienza di studio nel penitenziario reggiano, che rimane l’unico luogo di detenzione in Italia dove è possibile ricevere un’istruzione universitaria in frequenza a distanza, ha coinvolto 11 persone, 4 delle quali come semplici uditori. Dei 7 veri e propri iscritti, 3 si sono immatricolati nell’anno accademico 2005/2006, anno della stipula della convenzione, mentre altri 4 si sono aggiunti nel 2006/2007. All’interno del penitenziario per gli studenti sono state allestite una biblioteca ed un attrezzato laboratorio con 18 computer ai quali è possibile collegarsi per seguire in differita le lezioni tenute dai docenti dell’Ateneo. Volterra: al via un corso di video-giornalismo per i detenuti
In Toscana, 5 ottobre 2007
Con microfono e telecamera prende il via il progetto della redazione della Casa di Reclusione di Volterra. Un gruppo di persone detenute del carcere di Volterra, da qualche settimana, sta seguendo un corso di educazione al "video-giornalismo". L’iniziativa è partita dall’Istituzione Centro Nord-Sud della Provincia di Pisa ed è sostenuta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, oltre che dalla direzione del carcere, dal Comune di Volterra e dalla Società della Salute della Val di Cecina. Così undici detenuti hanno costituito una piccola redazione e, sotto la guida di giornalisti e tecnici di Telegranducato, stanno preparando il loro primo servizio, che poi andrà in onda nel telegiornale dell’emittente toscana. Per il futuro, si punta a far diventare il servizio dal carcere, un appuntamento settimanale in un’apposita finestra all’interno del TG. Si occuperanno di sport e poesia, di animali e cibo, ma affronteranno anche temi più "spinosi", come gli effetti dell’indulto, la sessualità in carcere, il confronto tra culture e religioni. Nei vari incontri hanno imparato a "costruire" i servizi, a girare correttamente le immagini, a formulare le domande. E ora potranno documentare, con un appropriato linguaggio televisivo, tutti gli eventi principali che si svolgono qui. "Sarà anche un modo - dicono loro - per abbassare le barriere che ci separano dalla città, dalla gente". I primi effetti di questo corso peraltro si vedono già: tutto il gruppo, che è composto da persone di diverse età e di tanti luoghi diversi, adesso si mostra molto più attento e critico quando segue la televisione, che per molti è l’unico "punto di contatto" con il mondo esterno. Milano: arresti "domiciliari" su una panchina del parco pubblico di Patrizia Albanese
Secolo XIX, 5 ottobre 2007
Condannato a stare in panchina. E non soltanto per i 90 minuti regolamentari, ma per 12 ore filate. Antonio Cappone, 41 anni, di Avellino, non è un mediocre calciatore emarginato dal suo allenatore, ma uno talmente malmesso con la vita da non avere una casa, neppure una baracca, nemmeno una vecchia auto senza ruote dove stabilire "fissa dimora". Così, quando lo hanno mandato agli arresti domiciliari dopo un breve soggiorno in prigione per furto, il suo indirizzo è stato individuato su una panchina al parco. "In piazzale Aquileia, a Milano, dove Cappone ha eletto la sua residenza, essendo senza fissa dimora", spiega il suo legale Robert Ranieli. Dalle 19 alle 7, vietato muoversi di lì. Ma Cappone di lì è evaso, si è allontanato per andare a rubacchiare una maglietta e due paia di calzini in un supermercato. Preso, e stamattina sarà formalmente accusato di evasione con processo per direttissima. Tecnicamente il reato è definito "violazione degli obblighi di sorveglianza" e per di più Cappone è recidivo, perché già una volta, l’anno scorso, aveva abbandonato la sua residenza a cielo aperto. Il vero scandalo - sottolinea il difensore - è che magistratura e forze dell’ordine abbiano accettato come domicilio di una persona in forti difficoltà economiche una panchina in un parco pubblico. Oggi sarà inevitabile un’altra condanna, e chissà se questa volta la corte userà clemenza: l’avvocato non dice quali sarebbero le preferenze del suo assistito, ma c’è da pensare che, anche in vista dell’inverno, il detenuto-panchinaro si sentirebbe meglio tra le mura di San Vittore. Stando all’ultimo rapporto Istat - di ieri - i poveri sono 7 milioni e mezzo: il 12,9% degli italiani. L’istituto di statistica rassicura: rispetto al 2005, l’incidenza della povertà non ha subito variazioni. Tradotto: i poveri non aumentano. Peccato, però, che neppure diminuiscano. Se ci si allontana da percentuali e grandi numeri e si riflette su un caso del genere, Antonio Cappone da Avellino sta in fondo perfino alla classifica dei poveri. Droghe: Turco; fornire il metadone in "dosi" da 30 giorni
Notiziario Aduc, 5 ottobre 2007
Oggi viene distribuito giornalmente dai Ser.T., ma, in futuro, il metadone potrebbe essere consegnato ai tossicodipendenti da eroina in dosi che coprono fino ad un mese. Lo prevederebbe, secondo un’esclusiva de "Il Quotidiano Nazionale", il decreto che il ministro della Salute Livia Turco dovrebbe presentare oggi alla Conferenza Stato-Regioni. Gli eroinomani, dunque, potrebbero vedersi consegnare dosi da autogestire per un mese. "È consentita la consegna dei medicinali - si legge nel passaggio del decreto riportato dal Quotidiano Nazionale - da parte del servizio di cura, per una durata non superiore ai trenta giorni, direttamente ai pazienti". "Sono profondamente sconcertata dall’enfasi data ad una notizia che non è una notizia. E ancora di più lo sono per l’evidente superficialità, che evidenzia una palese ignoranza delle norme in vigore, di quanti hanno commentato la mia presunta volontà di elargire "metadone a go-go" come titolava, imprudentemente, stamattina un quotidiano". Così il ministro della Salute Livia Turco commenta le notizie di stampa e i successivi commenti apparsi oggi in merito a un suo decreto sui medicinali per il trattamento delle tossicodipendenze. Il ministro ci tiene a precisare che "la realtà è ben diversa e - specifica Turco - l’onorevole Giovanardi ne dovrebbe essere consapevole avendo lui stesso firmato le modifiche alla legge sulla droga (con la Fini-Giovanardi, ndr) che hanno portato da otto a trenta giorni la durata massima della terapia oggetto di una singola prescrizione di farmaci contenenti sostanze stupefacenti, compresi quelli utili al trattamento delle tossicodipendenze, tra i quali per l’appunto il metadone". Con il decreto, all’esame della Stato-Regioni, chiarisce il ministro, "abbiamo semplicemente dato attuazione a quella legge prevedendo le modalità attraverso le quali i Sert possono erogare tali trattamenti, sempre secondo il piano terapeutico stabilito dal medico e per un massimo di trenta giorni come, lo ribadisco, previsto dalla legge Fini-Giovanardi all’articolo 43". A tale proposito, Turco spiega anche che è bene sottolineare che "già oggi la legge consente al tossicodipendente di ritirare in farmacia il metadone per terapia fino ad un massimo di trenta giorni". "Se di scandalo dobbiamo parlare - prosegue il ministro - è per quest’ennesima strumentalizzazione politica della lotta alle tossicodipendenze, basata tra l’altro su una grave disinformazione all’opinione pubblica". Il ministro interviene anche "sull’altra finta notizia scandalo sulla presunta libertà di movimento in Italia dei tossicodipendenti in cura con metadone. "Anche in questo caso - spiega - è sempre la legge Fini-Giovanardi a stabilire che il tossicodipendente possa circolare con un quantitativo di metadone per un massimo di trenta giorni di terapia, purché in possesso del piano terapeutico o della prescrizione medica". Lo stesso dicasi per quel che concerne la possibilità di portare all’estero la quantità di medicinale legalmente posseduta, per la quale, chiude il ministro, "è stato predisposto un ulteriore decreto per ottemperare agli accordi di Shengen e alle linee guida delle Nazioni Unite, che hanno invitato gli Stati a emanare norme per regolamentare il libero transito dei medicinali stupefacenti al seguito dei pazienti in trattamento (morfina, metadone, codeina, buprenorfina, benzodiazepine, barbiturici, etc.) per tutte le patologie, tossicodipendenze incluse". "Spero che, contrariamente a quanto strillato dall’ala oscurantista della Casa delle libertà, o a quanto annunciato sulla canapa terapeutica o le narco-sale, la ministro Turco confermi finalmente e con chiarezza quanto anticipato dal Quotidiano Nazionale. Occorre rompere il tabù del metadone che non è una droga di stato ma una medicina considerata fondamentale per la cura della tossicomania anche dall’Organizzazione mondiale della sanità". Lo dichiara Marco Perduca, vice presidente del Senato del Partito radicale nonviolento, secondo cui "perché la misura si possa tradurre in un effettivo allargamento della libertà di cura di chi fa un uso problematico di stupefacenti, occorre affiancarla con una vasta campagna di informazione sul fenomeno delle tossicomanie, per responsabilizzare il malato. Non è possibile - aggiunge Perduca - che nel 2007 si continui a considerare ciò che circonda gli stupefacenti come una mera questione di ordine pubblico come gridano i vari reazionari forzisti o dell’Udc". Per l’esponente radicale, infine, "i tempi, e gli italiani, sono più che maturi per attuare la parte del programma dell’Unione che voleva riformare radicalmente la legge Fini-Giovanardi. "Lo Stato non può diventare spacciatore di metadone. No alla droga di Stato. Dopo la depenalizzazione dell’hashish e le stanze del buco, ora la Turco si inventa addirittura la fornitura mensile del metadone per i drogati". Questa la reazione di Isabella Bertolini, Vicepresidente dei deputati di Forza Italia alle indiscrezioni de "Il Quotidiano Nazionale". Se saranno confermate, dice Bertolini, "siamo di fronte ad un’altra scelta scellerata di un ministro e di un governo sempre più schiavo dei ricatti dei comunisti antiproibizionisti. Ancora una volta il governo Prodi, pur di rimanere a galla, paga una cambiale salatissima alla sinistra radicale, provocando un danno enorme per la nostra società". "Siamo fiduciosi che il Ministro Turco smentisca la davvero incredibile notizia anticipata questa mattina dal Quotidiano Nazionale relativa ad un’altra estemporanea iniziativa del Governo, un decreto con il quale i Sert fornirebbero ai tossici una scorta di metadone per un mese, liberamente gestibile dagli interessati". Lo afferma in una nota l’onorevole dell’Udc Carlo Giovanardi, riferendosi a quanto riportato dal quotidiano nel quale si annuncia l’imminente presentazione alla Conferenza Stato-Regioni di un decreto sulla somministrazione di questo farmaco ai tossicodipendenti. "Se è vero si tratta di una follia che scardinerebbe anche la teoria della riduzione del danno per diffonderlo e moltiplicarlo in modo irresponsabile". Un’interrogazione al Presidente del Consiglio è stata presentata da Maurizio Gasparri, coordinatore dell’Intergruppo parlamentare Libertà dalla droga e membro dell’esecutivo di An, per sapere se risponda al vero quanto riportato oggi dal Quotidiano Nazionale. "Il ministro - dice infatti Gasparri - avrebbe manifestato l’intenzione di fornire ai pazienti tossicodipendenti in cura presso i Sert una quantità autogestibile di metadone. Mi auguro francamente che questa notizia non trovi alcun riscontro e sia prontamente smentita. In caso contrario - prosegue - si tratterebbe dell’ennesima follia di un ministro che dopo aver provato a liberalizzare la droga, dato il placet alle cosiddette narco-sale dove spacciare droga di Stato, adesso vorrebbe fornire scorte intere di metadone dando così il via allo spaccio dello stesso. Piuttosto che aiutare, non si sa più come far morire chi è entrato nel disperato tunnel della tossicodipendenza. Ora anche il metadone spacciato dallo Stato, il cui uso selvaggio è pericolosissimo e causa più morti dell’eroina. La Turco spacciatrice di metadone - conclude Gasparri - è l’ultima triste icona di un governo in agonia". Nessuna novità: la legge Fini-Giovanardi già prevede la possibilità, per i medici dei Sert, di prescrivere dosi di metadone sufficienti fino a un massimo di 30 giorni ai pazienti in cura da dipendenza da eroina: la precisazione è di Alfio Lucchini, presidente nazionale di Federserd, la federazione dei servizi pubblici per le dipendenze in merito al decreto che il ministero della Salute starebbe preparando. Interpellato dall’Ansa, Lucchini spiega di essere a conoscenza di un’iniziativa del Ministero per dare una sistematizzazione alla normativa già esistente su questo punto delicato. "Al Ministero ci sono state consultazioni delle società scientifiche - afferma - per delle valutazioni su un decreto in itinere, che ha lo scopo di chiarire e rendere omogenea su tutto il territorio nazionale l’attuale normativa, che era stata variamente interpretata". "Per ciò che ne so - prosegue Lucchini - le linee del decreto prevedono un piano terapeutico per i pazienti tossicodipendenti da eroina, alla cui attuazione possono anche concorrere i medici di medicina generale". L’insieme del provvedimento, aggiunge, "tende a rafforzare le capacità dei soggetti in cura di inserirsi in una vita lavorativa e sociale sempre più normale". Pericoli che possono derivare dall’affidamento ai pazienti stessi - o a un parente da loro delegato, come prevede la legge - di una grande quantità di metadone come può essere quella sufficiente per un mese? "Non ne vedo - risponde Lucchini - perché il medico e l’equipe hanno tutti gli strumenti scientifici e di valutazione socio-ambientale per valutare, caso per caso, se ci sono le condizioni per un affido del farmaco per tempi prolungati". "Chi non sa nulla e parla di queste cose - ammonisce il presidente di Federserd - guardi a quanti sono i pazienti che ricevono il metadone per un intero mese. La maggior parte ce l’ha per un periodo limitato". Droghe: metadone per 30 giorni?… brava ministro Turco di Pietro Yates Moretti (Presidente Associazione Utenti e Consumatori)
Notiziario Aduc, 5 ottobre 2007
La decisione del ministro Livia Turco di permettere la consegna di metadone in dosi che coprono fino ad un mese, è sensata, oltre che umana. Un tossicodipendente che usa metadone, e che quindi cerca di uscire dal mercato illegale di eroina, ha il diritto di riprendere una vita il più possibile normale. Dovendosi recare ogni giorno al Sert, il reinserimento nella società e nel mondo del lavoro è assai molto più difficile, esponendolo al rischio di ricadere nella vecchia abitudine. Tutto questo è ancora più vero nel momento in cui quel giorno si è in ritardo e si trova il Sert chiuso. È come se il malato di cuore dovesse andare all’Asl ogni giorno a prendere i medicinali. Oltre alla enorme perdita di tempo e denaro (anche per le Asl), rischierebbe spesso di non assumere i medicinali necessari perché il treno, il tram o l’autobus sono in ritardo. In questo modo, la terapia metadonica potrà essere continuativa ed efficace per il trattamento della dipendenza da oppiacei. Ci auguriamo che i soliti noti non usino nuovamente questo provvedimento, prettamente di carattere sanitario, per chiedere ancora la condanna all’inferno per i tossicodipendenti che chiedono di curarsi. Droghe: Torino; "stanze del consumo", sarà la volta buona? di Susanna Ronconi
Fuoriluogo, 5 ottobre 2007
Procede spedita, a Torino, la raccolta firme per l’apertura di una stanza del consumo, decollata quindici giorni fa grazie a Forum Droghe, Associazione Adelaide Aglietta e Malega9, il gruppo di ragazzi che ha prodotto un bel film attorno alla narcosale. Un primo risultato è stato che qualcosa, in Comune, si è mosso: dopo mesi sonnacchiosi seguiti alle numerose audizioni promosse dalla coordinatrice della IV commissione, Terry Silvestrini, attorno al sistema dei servizi di riduzione del danno e alla loro innovazione, la maggioranza ha finalmente votato una mozione per rimettere all’ordine del giorno - a distanza di cinque anni da una simile, precedente iniziativa del sindaco Chiamparino - la discussione attorno alla sperimentazione di una stanza del consumo. Ora, iniziativa dal basso e iniziativa istituzionale marciano di pari passo. Nuove audizioni il 9 ottobre e di nuovo in Consiglio il 16. Intanto, se ne discute: la destra, AN e Lega, scendono in piazza con i loro striscioni "contro la morte", paradosso dell’ipocrisia e dell’ignoranza che contrappone narco-sale a comunità terapeutiche invece che, come si dovrebbe se non si fosse così strumentali, mettere a confronto narco-sale con argini, parcheggi, case abbandonate e marciapiedi fetidi sporchi e pericolosi. A pochi metri, i nostri tavoli per la raccolta firme: che non lesinano "sorprese", prima tra tutte che quando si parla con pacatezza e razionalità, quando si spiega e non si proclama, quando si informa e si ascolta, la "gente" ragiona con te. E, se non certo tutti, molti condividono e firmano. Questi tavoli, insieme ma anche molto oltre, a perseguire l’obiettivo del quorum di firme, sono una straordinaria occasione di contatto e dialogo, di quelle che dovremmo saper inventare di più e più spesso. È importante, allora, il consenso. Se siete torinesi passate ai nostri tavoli, guardate il calendario sul nostro sito. Se non siete torinesi, ma siete d’accordo per lo sviluppo, l’ampliamento e l’innovazione degli interventi di riduzione del danno, per la tutela dei diritti, della vita e della salute di chi usa sostanze e vive in strada e per una nuova possibilità di mediazione e di convivenza nelle città, per una "sicurezza" che sia per tutti, nessuno escluso… allora inviate la vostra adesione. Ci serve il vostro sostegno. E anche, laddove contesti e stili di consumo lo pongano all’ordine del giorno, a noi tutti serve moltiplicare le iniziative locali: in fondo, anche se abrogare una pessima legge resta un obiettivo primario, la riduzione del danno vanta una nascita "bottom up" di cui, ottimisticamente, non dovremmo mai dimenticarci.
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