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Giustizia: Gonnella; legge "Gozzini", un baluardo da difendere di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)
Aprile on-line, 4 ottobre 2007
Da quando esiste questa norma, seppur mozzata da controriforme succedutesi negli anni, il patto fiduciario tra operatori e detenuti funziona. Per non parlare del fatto che ha consentito a tanti carcerati una speranza di riscatto e di reinserimento sociale. Mario Gozzini era un umanista, uno studioso di religioni, un giornalista. Era cattolico. Viveva a Firenze dove era legato a Ernesto Balducci, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, don Lorenzo Milani. Per alcuni anni è stato anche un politico. Fu eletto come indipendente nelle liste del Pci. Morì nel 1999. Due anni prima scrisse il suo ultimo libro La giustizia in galera? Una storia italiana, dove spiegava la sua concezione della pena, ossia non mera retribuzione o vendetta. Scriveva Gozzini: "non ci si può limitare a chiedere che i rei siano posti in condizione di non nuocere più: ci si deve innanzitutto interrogare se del reato commesso non esista una responsabilità collettiva, sia pure indiretta, in quanto non abbiamo saputo intervenire in tempo per risolvere un disagio e prevenirne le conseguenze criminose." Gozzini non era un giurista. Se lo fosse stato, forse, non avrebbe avuto quella lucidità che gli consentì di essere il padre di una riforma, quella penitenziaria, per la quale oggi è ricordato. Per alcuni anni ho fatto il direttore di carcere. E decisi di iniziare quella carriera dopo aver letto un altro libro di Gozzini, Carcere perché, carcere come. La legge che porta il suo nome, e che lui spiegava e difendeva in quel libro, era una legge che mirava ad attuare compiutamente il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena. Le misure alternative rendono la pena flessibile. Consentono una valutazione in itinere del percorso di risocializzazione e di affrancamento dal crimine del detenuto. Sono un investimento in termini di sicurezza. La percentuale di revoche di misure alternative per reati commessi durante le stesse è pari allo 0,14%. Da quando esiste la Gozzini, seppur mozzata da controriforme succedutesi negli anni, il patto fiduciario tra operatori e detenuti funziona, salvo alcuni casi più o meno eclatanti. È strano un paese che non si vanti dei propri migliori uomini e delle proprie migliori leggi. Anzi non appena accade un episodio di cronaca nera - tale pare essere quello del signor Cristoforo Piancone - si affollano dichiarazioni di coloro che se la prendono con la Gozzini, con il perdonismo, con il garantismo. Una intera generazione - quella che praticava la lotta armata negli anni settanta - si è potuta salvare anche grazie alla Gozzini. Alcuni giorni fa il Giornale pubblicava l’elenco dei terroristi di sinistra usciti dal carcere con l’indicazione dell’attuale occupazione presso cooperative, associazioni, sindacati. Un paese serio è un paese che riconosce in quelle scelte di vita non criminali non la propria sconfitta ma la propria vittoria. Non è possibile che al primo su mille che sbaglia si punti a cambiare la legge. Nella sua introduzione alla ristampa di Minima Criminalia, storie di carcerati e carcerieri, Giancarlo De Cataldo, giudice e romanziere di successo, scriveva: "il carcere con i suoi carcerati, che come aveva scritto una volta (e ancora una volta di un altro carcere, di un altro mondo) Igino Cappelli, sono, del gran pasto della giustizia, gli avanzi... Legata a certe facce che ormai stentavo a ricordare, alla presenza incombente di una tipologia di detenuti - i terroristi dissociati, pentiti, o irriducibili o i vecchi recidivi - che ormai appartengono, in buona parte, all’archeologia criminologica...". Cosa è mutato, e profondamente: la percezione sociale della pena. Sotto l’onda d’urto di una massiccia campagna propagandistica. Per impulso di una legislazione mirata contro l’immigrazione e la tossicodipendenza. Con l’assistenza di norme che rovesciano, a favore della prima, il bilanciamento costituzionale fra la proprietà e la stessa vita. Nel concludere Minima Criminalia paventavo il pericolo che il pendolo della politica criminale, perennemente oscillante fra garantismo e repressione, smaltita la sbornia della legge Gozzini tornasse a stabilizzarsi sulla seconda a tutto discapito del primo. Imperdonabile ingenuità. Della quale il lettore non faticherà a rendersi conto, ora che siamo sotto l’imperio di una legislazione che ha compiuto il capolavoro di assicurare il massimo garantismo ai forti e la più dura repressione ai marginali." Quel che resta della legge Gozzini va difeso con i denti, nel nome di una società così forte tanto da farsi carico fino in fondo di coloro i quali ne violino le regole. Giustizia: la "Gozzini", salvata nel 1999 da Diliberto e Fassino di Donatella Stasio
Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2007
Correva l’anno 1999, funestato, fin dai primissimi giorni, da decine di morti, vittime di rapine e di regolamenti di conti. Una ferocia che impose al Governo di Centrosinistra, guidato da Massimo D’Alema, di fare i conti con l’emergenza sicurezza. Così, settimana dopo settimana, prese corpo quello che fu battezzato "pacchetto sicurezza", per evitare le scarcerazioni facili, garantire la certezza della pena, rendere effettivo il coordinamento delle forze dell’ordine. Ad aprile, il "pacchetto" approdò in Consiglio dei ministri, ma il suo passaggio in Parlamento fu incerto e lungo, caratterizzato da brusche frenate e improvvise accelerazioni, quasi sempre sull’onda di fatti di sangue o di casi eclatanti, come il ferimento di due agenti per mano di un pluriomicida in semilibertà, a Milano. Fu così che si cominciò a parlare anche di modifiche alla legge Gozzini e della possibilità di agganciarle al treno del "pacchetto sicurezza". Era il febbraio del 2000. Mancava un anno al termine della legislatura, ma già si respirava un clima da campagna elettorale e la sicurezza divenne uno dei temi più gettonati dai candidati premier, Francesco Rutelli e Silvio Berlusconi. Il Centrodestra non aveva dubbi sulla necessità di un "giro di vite" sulla Gozzini e nel Centrosinistra, tradizionalmente contrario a modificare quella riforma, si aprì una breccia per ritoccarne alcuni punti. La storia si ripete. Allora come ora, si aprì una verifica sulla riforma e sulla sua tenuta. Allora come ora, si diffuse l’idea che la responsabilità fosse soprattutto dei giudici di sorveglianza, che applicavano spesso in modo superficiale o burocratico le regole sulla concessione dei benefici carcerari, a cominciare dalla semilibertà. Allora come ora, il Governo di Centrosinistra manifestò un’apertura a modificare la legge, ipotizzando un obbligo di motivazione più stringente nella concessione dei benefici da parte dei giudici. Ci furono vertici di maggioranza, che sconsigliarono di agganciare la Gozzini al "pacchetto sicurezza" per non metterne a rischio il già difficile cammino parlamentare e per non rischiare una pericolosa spaccatura nella maggioranza. Si decise di seguire una via autonoma, o con un apposito disegno di legge o con emendamenti a un ddl già all’esame delle Camere. Il ministro della Giustizia dell’epoca, Oliviero Diliberto, pur essendo disponibile ad alcune modifiche, difese la legge, dati alla mano: nel 1998, avevano beneficiato della Gozzini 35.717 detenuti e solo 85 avevano approfittato della semilibertà per commettere nuovi reati. Una percentuale irrisoria: lo 0,24%. Analoga a quella di questi ultimi sette anni. E così, il "pacchetto sicurezza" tagliò il traguardo sul finire della legislatura (marzo 2001: Amato premier, Fassino guardasigilli), senza modifiche alla Gozzini. Sopravvissuta anche ai cinque anni di Governo Berlusconi. Giustizia: Neppi Modona; mai negare la possibilità di recupero Intervista a Guido Neppi Modina, di Davide Vari
Liberazione, 4 ottobre 2007
Il giudice costituzionalista difende la Gozzini: "Negare la possibilità di recupero a una persona detenuta significa avere un cupo pessimismo sulla natura umana". Mettere in discussione una legge come la Gozzini sull’onda dell’emotività non mi sembra una buona pratica". Non solo, "bisognerebbe ripensare l’intero sistema penale e prevedere la pena detentiva per un numero più ristretto di reati". Guido Neppi Modona, giudice costituzionalista e professore di diritto penale è pacato ma deciso: "Negare la possibilità di recupero a una persona detenuta significa avere un cupo pessimismo sulla natura umana Quasi che un cittadino che ha commesso un reato sia irrecuperabile a vita".
Professor Neppi Modona, un ex brigatista in semilibertà tenta una rapina in banca e d’improvviso viene messa in discussione l’intera legge Gozzini. Persino il Guardasigilli Mastella si è detto disponibile a ridiscuterla... Le misure alternative alla detenzione hanno radici lontane e sono il fiore all’occhiello del nuovo ordinamento penitenziario del 75. Pensare di cambiare quella legge sull’onda dell’emotività significa tradire l’articolo 27 della costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Non è pensabile che ogni volta che un detenuto noto commette nuovi reati in semilibertà si solleva una violentissima polemica per cambiare quelle disposizioni.
Quali sono state le modifiche più importanti che la legge Gozzini ha introdotto? Quella legge entrata in vigore nel 1986 andava lungo tre direzioni: primo, la possibilità per il condannato di usufruire delle misure alternative alla detenzione senza neppure transitare per il carcere; secondo, rendere più facile l’accesso a quelle misure alternative e infine la predisposizione di nuove misure alternative al carcere. Poi, nel 1992, in un periodo di recrudescenza dei delitti mafiosi, pensiamo alle stragi in cui persero la vita Falcone e Borsellino, c’è stato un decreto legge che ha stabilito alcune restrizioni alle misure alternative per determinate categorie di reati: mafia e terrorismo su tutte. Di fatto si poteva accedere alle misure alternative solo nel caso in cui si fosse collaboratori di giustizia.
E siamo al caso Piancone, che in effetti non era un collaboratore ma che nei suoi 25 anni di carcere ha dimostrato un comportamento tale da poter accedere alla semilibertà... Infatti la Corte Costituzionale, con varie sentenze, stabilì che alle misure alternative potevano accedere anche terroristi e mafiosi non collaboratori che avessero già raggiunto un "grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto", ad esempio la semilibertà, e sempre che non fosse stata "accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata", Evidentemente, nel caso Piancone, il Tribunale di Sorveglianza ha accertato una situazione tale da giustificare la semilibertà. Ma, al di là del caso Piancone, l’impressione è che le carceri siano di nuovo al collasso - gli ultimi dati parlano di oltre 46mila detenuti - e che in queste condizioni il recupero delle persone sia solo una chimera. È evidente che le carceri italiane soffrano di un cronico sovraffollamento. Basti pensare che a poco più di un anno dall’indulto siamo alla condizione di prima. In realtà i detenuti italiani dovrebbero essere non più di 15-20mila.
15-20mila? È possibile raggiungere questo obiettivo con un sistema penale che punisce con il carcere quasi ogni reato? È proprio questo il punto. Forse dobbiamo prendere atto che c’è qualcosa che non funziona a monte. Bisogna tornare a ripensare l’intero sistema sanzionatorio. La pena detentiva dovrebbe essere prevista solo per un numero molto ristretto di reati. In definitiva soltanto quelli più gravi - penso ai reati contro la persona, al terrorismo e a quelli di mafia - dovrebbero essere puniti con il carcere. Insomma, per i reati meno importanti, anche quelli di media gravità, bisognerebbe pensare a sanzioni effettivamente finalizzate al recupero sociale del condannato.
In concreto? In concreto, per esempio, penso che sia perfettamente inutile mandare in galera un pubblico impiegato corrotto. Penserei piuttosto ad una interdizione dai pubblici uffici e ad una serie di lavori socialmente utili. Misure che abbiano comunque un effetto deterrente e di prevenzione generale, idoneo a distogliere dal reato.
Ma a questo punto siamo daccapo: con le carceri così piene è difficile pensare a percorsi di recupero effettivi. È un cane che si morde la coda, come se ne esce? Ripeto, bisogna andare a monte del problema. In effetti ci sono già stati tentativi di riforma del Codice penale. Non ultimo quello dell’on. Giuliano Pisapia. Progetti di riforma che prevedevano un’articolata gamma di pene diverse dal carcere.
In questo contesto i sindaci chiedono più poteri e nuove tipologie di reati per colpire pericolosissimi criminali quali lavavetri, writer e mendicanti. Come la mettiamo? Ognuno faccia il suo lavoro. I sindaci devono pensare ai programmi di recupero degli emarginati e di prevenzione sociale ma per quanto riguarda i poteri relativi alla repressione dei comportamenti cosiddetti devianti l’azione deve rimanere in mano alla giustizia. Giustizia: Palma; solo con misure alternative la vera sicurezza di Mauro Palma (Presidente del Comitato per la Prevenzione della Tortura)
Il Manifesto, 4 ottobre 2007
Il principio secondo cui l’esecuzione di una pena non è un mero fatto aritmetico, ma la costruzione di un percorso verso il ritorno alla società, nasce nel pensiero giuridico europeo e si sviluppa in base a un criterio di utilità. Un’utilità centrata proprio sul concetto di sicurezza: una società è più sicura se chi ha commesso un reato può tornarvi, riannodando i fili che il reato ha reciso, dopo aver trascorso non un semplice tempo segregato, ma un tempo caratterizzato sia dall’afflizione propria della privazione della libertà, sia dalla costruzione di consapevolezza e capacità di reinserimento. Da qui nasce l’idea di un tempo di detenzione da percorrere a tappe, con misure che scandiscano questo cammino verso il rientro: con l’osservazione in carcere, i benefici penitenziari, le misure alternative alla detenzione. Perché ciò che sfugge a molti commentatori è che comunque le persone che hanno commesso un reato, dopo un tempo più o meno lungo, rientreranno nella società. Ed è interesse della società, cioè di tutti noi, che esse abbiano avuto modi e tempi per vivere un’esperienza non di annientamento ma di ricostruzione graduale di una propria vita. In Italia è nata da qui la proposta ormai più che ventennale, divenuta poi legge e sempre citata dal nome di un fine intellettuale e uomo di grande sensibilità quale è stato Mario Gozzini. Non da buonismo, né da sottovalutazione del problema della prevenzione dei reati e della loro punizione. Al contrario, nacque proprio dal desiderio di garantire le diverse dimensioni in cui si articola il termine, semplice solo apparentemente, sicurezza: sicurezza per chi vuole essere difeso dal crimine, per chi vuole vedere i propri diritti garantiti, per chi vuole un percorso detentivo rispondente a quanto stabilito dalla legge, per chi vuole essere ricompreso nel consesso sociale dopo aver pagato il proprio debito senza essere inchiodato al proprio errore. In altri paesi l’adozione di misure alternative alla detenzione ha seguito altri percorsi, ma gli esiti sono stati simili: la pena deve essere legale, e deve essere certa, ma ciò non implica che debba essere rigida e fissa, solo scandita dallo scorrere del tempo, perché la realtà individuale di chi la sconta muta e proprio nel tempo della pena occorre saper offrire strumenti per una direzione positiva di tale mutamento. Questi provvedimenti hanno dato - lo sa anche chi vorrebbe cancellarli - buona prova di saper funzionare in questi decenni. Se è giusto non diminuire la gravità di ogni singolo episodio, tanto più quando questo poteva essere causa di danni alle persone o di morte, è altrettanto giusto riconoscere l’esistenza della stragrande maggioranza di esiti positivi proprio di quelle misure oggi additate come nefaste. La statistica non ripaga, è vero. Ed è argomento debole rispetto all’emotività degli episodi. Però dovrebbe essere davvero oggetto di un’attenzione più forte, soprattutto quando si riferisce alla valutazione di fenomeni sociali che coinvolgono persone, vite: fenomeni dove lo zero assoluto non può esistere. Giustizia: Mancino (Csm); possibile rivedere la legge Gozzini
La Stampa, 4 ottobre 2007
Il caso dell’ex Br Cristoforo Piancone, al quale il Tribunale di sorveglianza di Torino ha concesso nel 2004 la semilibertà ma che due giorni fa è stato arrestato per una nuova rapina, "si poteva anche valutare diversamente": "Si tratta di un terrorista mai pentito e proprio questo può porre dei problemi". Il monito arriva dal vicepresidente del Csm Nicola Mancino, che però invita a non fare di tutta l’erba un fascio e ad essere prudenti nel giudizio complessivo sulla legge Gozzini: le valutazioni vanno fatte "caso per caso". Di modifiche "se ne può parlare, ma salvaguardando lo spirito" di norme che hanno prodotto "risultati positivi". "Quello della legge Gozzini - osserva Mancino - è un principio condivisibile. Quando ero parlamentare l’ho appoggiata e ne ho parlato anche bene. La questione della semilibertà è riferita al caso per caso: bisogna fare la valutazione sul detenuto, approfondire l’istanza, tener conto anche dei rischi che si possono correre. Ma questo è affidato alla valutazione di esperti e dallo stesso magistrato che adotta il provvedimento". Il vicepresidente del Csm invita quindi a "non passare dalla sottolineatura positiva dello spirito della legge ad una sorta di recriminazione" perché le norme della Gozzini hanno avuto "anche dei risultati positivi". In ogni caso, chiarisce ancora Mancino, "in astratto non si può dire che nessuna legge è modificabile o che qualche legge è immodificabile: se ne può parlare, ma salvaguardando lo spirito che ha animato Gozzini all’epoca e il legislatore che quella posizione ha condiviso". D’altra parte, ci tiene a sottolineare ancora il numero due dell’organo di autogoverno delle toghe, è "caso per caso" che va valutata la possibilità di concedere i benefici penitenziari: "Nessuno può ipotecare il futuro, le condizioni in base alle quali viene concessa la semilibertà si possono modificare col tempo - aggiunge Mancino - l’uomo non è sempre uguale e i suoi comportamenti sono variabili a seconda dei bisogni, di valutazioni che possono intervenire anche smentendo il giudizio positivo che si è dato sull’adozione di un provvedimento". Nel caso di Piancone, dice Mancino, "è sopravvenuto un problema che fino a pochi giorni fa non c’era: si può fare una valutazione". E comunque, se pure è vero che l’ergastolo è una condanna a vita, il carcere "serve non solo per espiare ma anche per educare". Giustizia: Caselli; non sempre funziona, ma la Gozzini va difesa di Gian Carlo Caselli (Magistrato)
Corriere Veneto, 4 ottobre 2007
Spetta al Tribunale di sorveglianza concedere o meno ai condannati i benefici previsti dalla legge. Fra questi la "semilibertà" (che significa dormire in carcere e lavorare fuori, liberi, di giorno). Se un detenuto semilibero torna a delinquere, è evidente che qualcosa non è andato per il verso giusto. Se si tratta di persona condannata per gravi reati a pene pesanti, lo scandalo e le polemiche sono inevitabili, persino doverose. E nel caso di Cristoforo Piancone si intrecciano con la comprensibile ira dei familiari delle tante vittime della violenza brigatista, cui fanno da sfondo le crescenti paure ed insicurezze che di questi tempi angosciano l’opinione pubblica. Fortissima, in questo quadro, è la tentazione di chiudere il discorso con argomenti tipo "buttiamo via la chiave e poche storie", oppure "ma che caspita combinano questi magistrati, dove vivono?". Diventa impopolare, allora, provare anche solo a ricordare alcuni punti. È giusto e sacrosanto invitare i magistrati ad essere rigorosi e responsabili. Ma va anche detto che il mestiere forse più difficile al mondo è proprio quello di giudice di sorveglianza. Si tratta di stabilire se una persona già condannata (che perciò è stata certamente capace di delinquere) ha buone probabilità di non delinquere più perché la detenzione l’ha cambiata. Il giudice non può dire: troppo difficile, mi astengo. Non può perché è la legge che gli impone, lo obbliga ad assumersi il rischio di decidere. Se non lo facesse, di fatto il giudice abrogherebbe la legge quanto meno per certe categorie di persone, che sarebbero discriminate mentre la legge (uguale per tutti) non ammette discriminazioni. Gli elementi su cui il giudice deve fondare le sue scelte (rapporti delle forze di polizia; relazioni dei gruppi di osservazione e degli psicologi esperti in "trattamento" dei detenuti; affidabilità dei riferimenti esterni, in particolare l’attività lavorativa) non sono prove scientifiche. E ciò aumenta il rischio, già intrinsecamente elevatissimo tutte le volte che si deve fare una prognosi sulla capacità di non delinquere più da parte di chi delinquente è sicuramente già stato. Se la prognosi risulta sbagliata e il soggetto torna a delinquere, si dovrà stabilire se e in che misura vi siano state eventuali colpe di chi ha operato la diagnosi. Senza dimenticare, per altro, che per suscitare scandalo e giusti interrogativi basta un solo fatto negativo, mentre non fanno notizia i 100 o 1000 casi positivi in cui la concessione di benefici ha facilitato il "recupero" del condannato, recupero che significa meno delitti e perciò più sicurezza per la comunità. Dunque, se proprio si vuol discutere della legge Gozzini, non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Fissiamo paletti tassativi che - vietando i benefici - escludano, in certi casi, l’obbligo del giudice di assumere decisioni a forte rischio. Paletti che già esistono per i delitti aggravati dalla finalità di terrorismo commessi dopo la legge del 1979 che ha introdotto tale aggravante (che ovviamente non è contestabile e perciò non produce effetti per chi - come Piancone - sia stato arrestato prima). Giustizia: Grosso; anche nel garantire i diritti occorre severità di Carlo Federico Grosso (Giurista)
La Stampa, 4 ottobre 2007
Cristoforo Piancone, componente della direzione strategica delle Brigate rosse, condannato all’ergastolo per concorso in sei omicidi e due tentati omicidi, imputato per la strage di Via Fani e l’omicidio di Aldo Moro, ammesso al regime di semilibertà per decisione dell’autorità giudiziaria, è stato arrestato l’altro ieri per tentata rapina. Nel corso del suo arresto ha minacciato gli agenti puntando contro di loro una delle quattro pistole di cui era in possesso. Il ministro dell’Interno ha commentato duramente l’episodio, osservando che i magistrati, nell’applicare i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, devono essere "consapevoli di esercitare una responsabilità enorme". Una nota del ministero della giustizia ha precisato a sua volta che "si provvederà a verificare che la decisione di concedere la semilibertà all’ex brigatista sia stata assunta previa attenta e completa valutazione delle condizioni richieste". Durissimo, a sua volta, il commento del questore di Siena, dove è avvenuta la rapina: "Se fosse morto un poliziotto, avrei avuto qualche difficoltà a spiegare ai suoi familiari perché un ex brigatista fosse in regime di semilibertà. Siamo stati fortunati". In astratto il provvedimento assunto a suo tempo dall’autorità giudiziaria nei confronti di Piancone rientra nei casi contemplati dalla legge. Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato di trascorrere parte del giorno fuori dal carcere per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al suo reinserimento sociale e può essere concesso, previa valutazione della sua personalità, dopo l’espiazione di una parte consistente della pena inflitta. Anche il condannato all’ergastolo, secondo la legge penitenziaria, può essere ammesso a tale beneficio quando ha espiato almeno venti anni di pena. Piancone, ergastolano, se aveva scontato venti anni di pena, e sembra che li avesse scontati essendo stato arrestato nel 1978 e sottoposto al regime di semilibertà nel 2004, aveva pertanto, teoricamente, titolo ad ottenere il provvedimento di favore. Il problema è valutare se erano, per altro verso, presenti i requisiti sostanziali che rendevano legittimo il provvedimento. La semilibertà, come le altre misure alternative alla detenzione, risponde alla funzione rieducativa della pena prevista dall’art. 27 comma 3 della Costituzione. Si tratta di un principio irrinunciabile di civiltà giuridica. La pena deve essere seria e proporzionata alla gravità del reato, deve essere certa ed applicata inflessibilmente in tempi sufficientemente rapidi. Quando è possibile, cioè quando si intravedono possibilità di rieducazione del condannato e costui non appare socialmente pericoloso, occorre tuttavia scommettere sulla possibilità di rieducarlo e di reinserirlo emendato nella società. In questa prospettiva l’esecuzione penitenziaria in carcere deve essere organizzata in modo da favorire la rieducazione del condannato. Al fine di assicurare il suo reinserimento sociale può essere d’altronde talvolta opportuno sperimentare forme di esecuzione penale fuori dal carcere anticipate rispetto al fine pena. Quando il condannato ammesso ad un regime di libertà anticipata o di semilibertà commette un reato, nasce quasi sempre lo scandalo e si manifestano le proteste. Può darsi che esse siano giustificate. Può darsi che il magistrato che ha concesso il beneficio abbia sbagliato nel valutare la personalità del beneficiato ed abbia assunto un provvedimento giudiziario che non doveva assumere. Può darsi che la nostra legislazione penitenziaria sia troppo permissiva ed occorra cambiarla. Quando si affronta il problema politico-criminale della riforma delle misure alternative al carcere occorre essere comunque cauti. Io credo che, effettivamente, la nostra legislazione in tema di benefici penitenziari debba essere rimeditata riducendo i casi in cui essi possono essere concessi. Il clima politico è cambiato rispetto a quello che ha favorito, anni fa, la moltiplicazione degli istituti penitenziari di favore. Il tema della sicurezza dei cittadini è diventato, a torto o a ragione, uno dei motivi dominanti del dibattito politico in materia di giustizia penale. L’opinione pubblica preme. Su di un punto occorre essere tuttavia in ogni caso sufficientemente fermi: la democrazia, che il nostro Paese si è data nel 1948 approvando la Costituzione, non tollera strappi rispetto ad alcuni principi fondamentali di civiltà, fra i quali, appunto, la funzione rieducativa della pena. Ed allora attenti. La sicurezza è esigenza primaria dei cittadini. Essa deve essere comunque conciliata con la salvaguardia di tutti i diritti costituzionali riconosciuti, compresi quelli riconosciuti ai condannati. È uno dei costi della democrazia. Si tratta, comunque, di individuare una linea accettabile di giusto equilibrio fra i due interessi contrapposti. Tornando al caso di ieri, fa specie che un ex brigatista condannato all’ergastolo per una sequenza impressionante di omicidi e di fatti eversivi, irriducibile, non pentito, non dissociato, abbia potuto ottenere il beneficio della semilibertà. Valutino le autorità competenti se il provvedimento è stato assunto nel rispetto dei requisiti sostanziali oltre che di quelli formali che legittimano oggi la sua emanazione. Se ciò non è accaduto, si sanzionino eventualmente i responsabili. Si colga, soprattutto, l’occasione per suggerire una revisione in senso restrittivo della legge Gozzini, sia pure nella cornice costituzionale indicata. Mantenendo fermo il concetto della rieducazione in carcere, ma circoscrivendo, nella prospettiva della difesa sociale, i casi di esecuzione penale fuori dal carcere alle situazioni in cui appaia ragionevolmente certo, sulla base della personalità del condannato, del tipo di reato per cui vi è stata condanna, di quant’altro possa essere utile, che la persona alla quale il beneficio viene concesso non commetterà trasgressioni. Giustizia: Laugeri; escludere dai "benefici" alcuni tipi di reato Intervista al pm Claudio Laugeri, di Maurizio Laudi
La Stampa, 4 ottobre 2007
"Bisognerebbe avere il coraggio di rivedere la normativa in materia di benefici per i detenuti". Non ha dubbi il procuratore aggiunto Maurizio Laudi, 59 anni, in magistratura dal 1974, giudice istruttore negli Anni di piombo, rimasto a occuparsi di criminalità organizzata e terrorismo per la Direzione distrettuale antimafia torinese. Cristoforo Piancone è una sua vecchia conoscenza, "avevo seguito la parte iniziale del suo percorso giudiziario" ricorda il magistrato.
In che modo andrebbe rivista la normativa? "Lo dico in modo un po’ rozzo e schematico, ma alcuni tipi di reato e alcune "personalità" dei condannati dovrebbero essere tenuti fuori dalle possibilità di beneficiare di scarcerazioni anticipate e semilibertà. Penso a omicidi con determinate aggravanti, come anche le finalità terroristiche, oppure i sequestri di persona che abbiano avuto come conseguenza la morte della persona rapita. In questi casi, i condannati dovrebbero scontare tutta la pena. Senza riduzioni. Soprattutto quando non sono stati manifestati pentimenti o comunque prese di distanza da quegli episodi. E bisognerebbe che fosse chiaro a tutti, in modo trasparente, per legge".
Le sembra che ci sia stata "mano leggera" con Piancone? "Premetto che non ho conoscenza diretta del fascicolo in questione, ma sono convinto del comportamento rigoroso del Tribunale di Sorveglianza. È un tribunale severo, conosco i colleghi, so che non applicano con leggerezza i benefici previsti dalla legge. Ribadisco, non ho visto le motivazioni, ma ritengo sia sbagliato porre come bersaglio il provvedimento di quei giudici. Il problema non è questo".
E qual è? "La norma comporta una valutazione delle intenzioni, proiettata nel futuro e basata sulle relazioni carcerarie del detenuto, sul suo comportamento, sulla prognosi di effettivo inserimento sociale e di non ripetizione di reati. È inevitabile un margine di assoluta incertezza. Sottrarre alcuni reati e alcune persone con comportamenti particolari dalla possibilità di ottenere i benefici potrebbe essere una soluzione. Le faccio un esempio. È diversa la situazione di un tizio che ammazza la moglie, poi si pente, sconta 20 anni e chiede la semilibertà, dalla posizione di un terrorista, condannato all’ergastolo per alcuni omicidi e mai dissociato da quei fatti di sangue. Al momento, la legge consente ad entrambi di ottenere benefici".
Non potrebbe suonare come una discriminazione? "Togliere del tutto i benefici sarebbe contrario allo spirito dell’articolo 27 della Costituzione, che prevede la rieducazione del condannato. Mantenere le norme come sono, però, espone a questi rischi".
E la sorveglianza? Possibile che nessuno controllasse quel detenuto? "Possibilissimo e le spiego perché. I controlli vengono fatti dalle forze dell’ordine e dai servizi sociali, d’iniziativa oppure su segnalazione del Tribunale di Sorveglianza. Ma c’è un problema di soldi, di personale. È impossibile monitorare in modo continuo i detenuti semiliberi, come anche quelli agli arresti domiciliari. E guardi che le forze dell’ordine ce la mettono tutta, davvero. È proprio questo il punto dolente della legge, non ci sono strumenti autentici per verificare la corretta applicazione delle prescrizioni". Giustizia: Travaglio; prima per l’indulto, adesso per la forca di Marco Travaglio
L’Unità, 4 ottobre 2007
Nell’estate dell’anno scorso i politici di destra e sinistra - salvo rare eccezioni - parevano tanti Babbo Natale, tutti intenti a spiegarci che la pena deve rieducare il condannato, che il carcere non risolve i problemi della sicurezza, che non si può metter dentro la gente e gettare la chiave, che il detenuto deve reinserirsi e socializzare, e la Costituzione, e Beccaria, e il Papa. Convinti dai loro stessi slogan, i partiti di destra e sinistra (salvo Idv, Pdci, An e Lega, più alcuni ulivisti sciolti come Colombo e D’Ambrosio) votarono l’indulto che, a oggi, ha liberato circa 50 mila detenuti che scontavano la pena in carcere o pene alternative al carcere o la custodia cautelare. Tra questi, alcune migliaia di assassini conclamati. Un quarto del totale è già tornato dentro per aver ricominciato a delinquere. Altri sono in arrivo a breve, appena saranno presi. Ora gli stessi politici che hanno creato questo grosso problema (con un boom dell’insicurezza reale e di quella percepita) se la prendono col giudice di sorveglianza di Vercelli che tre anni fa concesse la semilibertà all’ex brigatista irriducibile Cristoforo Piancone, riarrestato l’altro ieri per una tentata rapina in banca. Piancone, condannato a 6 ergastoli per vari omicidi e banca armata, aveva scontato 26 anni di galera (era dentro dal 1982). La legge prevede che anche l’ergastolano, se tiene una condotta buona, o anche soltanto "regolare" condotta in cella, cioè non sporca, non disturba, non si ribella, e così via, e magari partecipa a qualche programma rieducativo, dopo vent’anni di pena può accedere alle pene alternative. Tra cui la semilibertà. Piancone teneva buona e regolare condotta, partecipava a programmi, e di anni ne aveva scontati ben più di venti. Come faceva il giudice di sorveglianza a prevedere che sarebbe tornato a delinquere? Tra l’altro l’ha fatto al terzo anno di semilibertà (se fosse uscito con l’indulto, oggi risulterebbe ancora fra i beneficiari incensurati, dunque "recuperati"). La legge Gozzini affida al giudice di sorveglianza una sorta di funzione profetica: il magistrato deve vaticinare, alla luce della condotta del detenuto, se questo una volta uscito righerà diritto o ricadrà nei vecchi vizi. Ma di solito la buona condotta è tipica dei capibanda, che non hanno bisogno di dare in escandescenze per farsi rispettare in cella: a loro basta un’occhiata. Naturalmente ai giudici converrebbe ignorare la legge e tenere tutti dentro fino all’ultimo giorno di pena. Così non sbaglierebbero mai previsione e il rischio di errore si ridurrebbe a zero. Così facendo, si salverebbero la coscienza ma violerebbero la legge, che impone loro di valutare, passati i vent’anni, se il carcerato può cominciare a uscire. Diversamente dagli indultati, i semiliberi che tornano a delinquere sono un’infima minoranza: dunque la legge Gozzini, sostanzialmente, funziona. Se si ritiene che, come scrive Carlo Federico Grosso sulla Stampa, l’ipersensibilità dell’opinione pubblica sul tema della sicurezza imponga modifiche più restrittive della normativa, è giusto modificarla. Quel che non si può fare è accusare il giudice di Vercelli per averla applicata. Del resto, se si pensa di emendarla per evitare altri casi Piancone, è perché nel caso Piancone è stata rispettata. Qualcuno propone di escludere dai benefici della Gozzini gli ex terroristi: se s’informasse meglio, scoprirebbe che i terroristi sono già esclusi in base a una legge del 1979, che non è stata applicata a Piancone perché è finito in carcere nel 1978. Altri vogliono evitare che gli assassini escano anzitempo dal carcere: e sono gli stessi che un anno fa ne hanno liberati a migliaia con l’indulto, tra l’altro senza alcuna prognosi di ravvedimento da parte dei giudici: così, automaticamente e indiscriminatamente, su due piedi. Anche su questo si può concordare o dissentire. L’importante è accettare le conseguenze delle proprie scelte: senza le pene alternative al carcere, oggi le nostre prigioni ospiterebbero circa 30 mila detenuti in più ogni anno. E visto che, nonostante l’indulto, le carceri sono di nuovo piene come uova ben oltre la capienza-limite di 42 mila posti cella, l’Italia avrebbe una popolazione carceraria tendenziale di 80-90 mila detenuti. Col risultato di doverne metter fuori la metà con indulti continui, uno ogni anno (come del resto si faceva fino a qualche anno fa). O di doversi inventare un centinaio di nuove carceri dall’oggi al domani. Ma, si sa, quando c’è da fare demagogia, la matematica diventa un’opinione. Giustizia: Leoni (Sd): cambiare la "Gozzini" sarebbe un errore
Apcom, 4 ottobre 2007
Rivedere la legge Gozzini sarebbe "un errore gravissimo" e l’offensiva della Cdl è "strumentale". Lo dice Carlo Leoni (Sd), commentando le polemiche nate dopo l’arresto dell’ex Br che ha compiuto una rapina mentre era in semi-libertà. "Toccare la Gozzini sarebbe errore gravissimo", dice Leoni. "Sorprende l’attacco strumentale della destra contro la legge Gozzini. Anche questo attacco dimostra che sono garantisti a giorni alterni". "Per quanto mi riguarda - prosegue Leoni - la Gozzini rappresenta una delle conquiste migliori della cultura giuridica e democratica italiana. Ha prodotto i suoi effetti positivi aiutando il reinserimento sociale di migliaia di condannati. L’obiettivo dell’esecuzione penale deve essere quello di restituire alla società una persona migliore rispetto a quella che commise il reato. E questo dà più sicurezza a tutta la collettività". Per Leoni, "l’errore di uno non può oscurare i benefici che la società e la sicurezza dei cittadini hanno ottenuto dalla legislazione premiale e dalle attività di reinserimento sociale dei detenuti". Giustizia: Gasparri; la legge Gozzini ormai è un ferro vecchio
Apcom, 4 ottobre 2007
"Verificheremo sul campo se davvero Mastella è disponibile a mettere in discussione la legge Gozzini. Per An questa normativa che concede in maniera automatica sconti di pena ai detenuti è superata da tempo. Andrebbe forse abrogata del tutto, ma riteniamo indispensabile escludere con immediatezza dai benefici i recidivi e coloro che hanno commesso crimini particolarmente efferati". Lo afferma in una nota Maurizio Gasparri, dell’esecutivo di An. "Caleremo subito le carte sul tavolo - aggiunge - con una nostra proposta di legge per stanare coloro che si indignano il giorno dopo fatti eclatanti, come il nuovo arresto del brigatista Piancone, ma che poi, passato il clamore, difendono leggi permissive. Occorre certezza della pena. Occorre severità contro il crimine. Occorre fermezza soprattutto contro il terrorismo. La legge Gozzini è un ferro vecchio da riporre in cantina. A questa normativa si è poi aggiunto l’effetto deleterio dell’indulto che An ha contrastato con determinazione". "Riteniamo che la sicurezza sia stata messa a dura prova dal governo Prodi. Scendiamo in piazza il 13 ottobre a Roma per un’Italia più sicura, ma già dai prossimi giorni sfidiamo in Parlamento tutti i partiti ad un confronto serrato per correggere immediatamente la legge Gozzini", conclude Gasparri. Giustizia: Stasi, vittima del falso mito della "prova scientifica" di Giuseppe Frigo (Avvocato)
www.radiocarcere.com, 4 ottobre 2007
Nelle indagini sul delitto di Garlasco, forse è solo questione di diversa misura, ma pare difficile negare la reciprocità delle pressioni operate dai media sulla Procura di Vigevano e viceversa: dirette, le prime, a pre-tendere un colpevole presto, anzi subito, e a suggerirlo (tanto meglio se improbabile, insospettabile, ma lì a portata di mano, per rendere più sapida e clamorosa la notizia, e poi "schiacciato" da quei maghi della prova scientifica che sono, come tutti sanno, i Ris); dirette, le seconde, a insistere sul fatto che proprio colui è e resta l’unico indagato; come a dire, sì, che si continua a cercare, ma essenzialmente nei suoi confronti, per dare senso univoco alle "temporanee" insufficienze, finché non arrivi - da Parma - il dato decisivo. Quando poi si crede o si fa credere che sia arrivato, il pm si affretta a prendere dal codice lo strumento del fermo, sbattere l’indagato in galera, contro di lui dalla folla si grida: "assassino!" e si pensa che il resto sarà roba di ordinaria, burocratica giustizia, si agiteranno più o meno inutilmente i soliti avvocati, magari piatendo arresti domiciliari, ma… il più è fatto, anzi giustizia è fatta ed il cielo (che è l’immagine della coscienza pubblica) è sereno. Sennonché (riprendiamo da un commento auto-revole) come un fulmine (appunto) a ciel sereno giunge il provvedimento del Gip: non c’è gravità indiziaria, non c’è alcun pericolo di fuga, l’indagato va rimesso in libertà. I media abbozzano delusi, gli assetati lettori sono storditi, la Procura fatica a nascondere l’imbarazzo, ma nessuno, a quanto pare, fa autocritica (le regole del perverso gioco non si toccano, buone per la prossima volta, quel grido di "assassino!" non pesa sulla coscienza di nessuno). E il Paese segna un’altra tappa nel regresso del modo di fare e rappresentare giustizia. Vediamolo quel provvedimento, che pare quasi esso lo scandalo e non ciò che lo ha preceduto, cui ha posto rimedio. Il fermo è un congegno che la nostra Costituzione legittima solo nella cornice dei "casi eccezionali di necessità e di urgenza, indicati tassativamente della legge", poiché sottrae al giudice il potere di privare una persona della libertà e lo consegna, del tutto provvisoriamente, alla polizia o al pm, riservando poi al giudice sia di convalidarlo sia di applicare o meno una misura definitiva. Non è una cautela, è una pre-cautela, cui si può ricorrere solo per delitti gravi, quando vi sono gravi indizi di colpevolezza e vi è fondato pericolo di fuga. Qui certo il delitto è grave, anzi gravissimo, ma, quanto agli indizi, lo stesso procuratore della re-pubblica andava dicendo da giorni che non erano "concludenti" e, quindi, tantomeno gravi e si aspettava il dato taumaturgico di un accertamento scientifico. E questo sarebbe arrivato, neanche a dirlo, dai Ris: un frammento di dna sul pedale di una bicicletta! Si doveva sapere che non poteva essere decisivo, ma lo si è fatto passare per tale e c’è voluto il gip per dirlo, per sconfessare il mito della prova scientifica "schiacciante", novello e laico "giudizio di Dio" (o del demonio). Eppure sono ben noti e sperimentati i rischi, gli equivoci, i possibili errori, anche e proprio della prova costruita sul dna. Si sa bene che la scienza nella sua evoluzione quotidiana divora se stessa e, dunque, fornisce ben altro che una prova "regina". E, del resto, non sarebbe bastato neppure se quel dato avesse avuto il peso che pervicacemente si pretendeva. Per legittimare il fermo occorreva anche che ci fosse il pericolo di fuga. E qui si è caduti nel grottesco di attribuirlo ad una persona che dal giorno del fatto a tutte le ore è sempre stata a disposizione degli inquirenti: casa e caserma, caserma e procura della repubblica! E all’esterno e nei tragitti, folla e codazzi di giornalisti e affini: un’inedita modalità, forse, di arresti domiciliari. Perché mai allora questo fermo anomalo? Perché, se il pm era tanto convinto che fosse necessaria una misura cautelare restrittiva, non l’ha chiesta per le vie normali al giudice? Esclusi marchiani errori di valutazione, resta da pensare ad un uso di questo strumento eccezionale a fini, per così dire, di pressione, confidando, magari, che potesse indurre ad una confessione. Significativo, al riguardo, il controcanto mediatico: "Nonostante il fermo, l’indagato continua a dirsi innocente". Certo è che tale fine occulto non è tra quelli propri dell’istituto. Nel provvedimento con cui il giudice non lo ha convalidato ed ha negato i presupposti anche di una misura cautelare sono state applicate ovvie regole di civiltà giuridica, le prospettive capovolte sono state rimesse a posto. Ed il cielo buio si è rasserenato (senza fulmini). Giustizia: il caso De Magistris, l’inizio di un'inchiesta più ampia? di Stefano Pesci
www.radiocarcere.com, 4 ottobre 2007
Il c.d. "caso De Magistris" è forse solo all’inizio. Perché la vicenda della Procura della Repubblica di Catanzaro, da un lato non si può esaurire con le richieste del Ministro e, dall’altro, ha una significato più generale. Sul primo aspetto: è evidente che il fatto più grave, in ipotesi accaduto a Catanzaro, è rappresentato dalla asserita connivenza del Procuratore con una serie di indagati eccellenti, ai quali il capo dell’ufficio avrebbe addirittura comunicato la prossima effettuazione di alcune perquisizioni. La circostanza è stata riportata da tutta la stampa, e - se fosse vera - si tratterebbe di un fatto gravissimo, assai più grave dei comportamenti addebitati sino ad ora a De Magistris ed allo stesso Lombardi. Ebbene, nessuno ha ancora chiarito se il fatto sia vero o meno, adottando, in entrambi i casi, le opportune misure. E sino a che questo fatto non si chiarirà, non solo il c.d. "caso De Magistris" (forse più opportunamente da indicare come "caso Lombardi") rimarrà aperto, ma rimarranno pesanti ombre su un importantissimo ufficio giudiziario e sulla correttezza nella sua gestione. E questo ci porta al secondo aspetto: il generale funzionamento degli uffici giudiziari. Perché patologie come quelle si ipotizzano a Catanzaro sono certo un’eccezione, ma altrettanto certamente germinano in un contesto assai diffuso di modestissima qualità nell’andamento quotidiano del servizio giustizia. Che in generale gli uffici giudiziari siano mal diretti è sotto gli occhi di tutti. Chi li dirige è stato troppe volte selezionato sulla base di criteri che privilegiavano la anzianità sulle capacità, la "mancanza di demerito" sull’attenta verifica delle competenze, le appartenenze correntizie sul possesso delle qualità indispensabili per dirigere. Inoltre, sino ad ora, non esistevano meccanismi efficaci per rimuovere i dirigenti disonesti, inerti o incapaci: le nomine erano a tempo indeterminato e prive di qualsiasi verifica di gestione. Il risultato? Dirigenti che, per età e formazione, sono spesso disinteressati alla qualità del servizio, privilegiando - all’esterno come all’interno - la logica del quieto vivere. Inoltre, sino ad ora, non esistevano meccanismi efficaci per rimuovere i dirigenti disonesti, inerti o incapaci: le nomine erano a tempo indeterminato e prive di qualsiasi verifica di gestione. Tutti gli operatori sanno che questa è una delle ragioni, una tra le principali ragioni, dell’intollerabile situazione in cui versa la giustizia in questo paese. Abbiamo ora una importante occasione. Il nuovo ordinamento giudiziario abolisce (finalmente) il criterio dell’anzianità nella scelta dei dirigenti e stabilisce la temporaneità (quattro anni rinnovabili una sola volta) degli incarichi direttivi. Per effetto della nuova legge, a gennaio 2008 abbandoneranno l’incarico 140 dirigenti. Alcuni di essi andranno in pensione. Molti altri cercheranno invece di ottenere altri incarichi direttivi. Quanti se lo meritano veramente? Non molti, visto che mediamente gli uffici giudiziari sono diretti male o mediocremente. Sta ora alla magistratura, ed in primo luogo al CSM, affrancarsi da logiche corporative, che, ovviamente, spingono con forza verso un approccio indulgente, per imporre invece giudizi seri, corretti ed attenti sulle effettive capacità e qualità di questi dirigenti: come hanno gestito gli uffici negli anni precedenti? Si valutino, finalmente, meriti e capacità e si scartino non solo coloro che si sono distinti per gestioni opache e trascurate (e purtroppo non sono pochi), ma anche quelli che, degne persone e degni magistrati, hanno tuttavia gestito gli uffici in modo mediocre. In una situazione di allarmante degrado, servono dirigenti diversi. Per le incrostazioni culturali della magistratura italiana sarebbe una sorta di rivoluzione copernicana: un approccio serio, consapevole della gravità della situazione e non corporativo, avrebbe l’effetto di precludere nuovi incarichi alla gran parte dei perdenti posto, valorizzando nel contempo le non poche esperienze positive che certamente ci sono. Consentirebbe un robusto (e quanto necessario!) svecchiamento dei quadri direttivi. Nel giro di pochi anni molti uffici giudiziari potrebbero avere capi giovani, non solo: questi nuovi dirigenti saprebbero di essere soggetti ad una seria verifica quadriennale in ordine alla efficienza ed alla trasparenza della gestione. Le ricadute sulla qualità della giurisdizione e sulla risposta alla domanda sociale di giustizia potrebbero essere rilevantissime. L’occasione, insomma, non può essere sprecata, perché solo vincendo logiche di protezione corporativa degli incapaci e dei mediocri la magistratura potrà cominciare a dare risposte credibili alla domanda di qualità che viene dal paese. Livorno: Marcello Lonzi; una "morte naturale" molto strana... di Nadia Francalacci
Panorama, 4 ottobre 2007
Marcello Lonzi, un tossicodipendente livornese di 28enne, muore in carcere. Il suo cadavere viene ritrovato dalla polizia penitenziaria e dal suo compagno di cella. Il corpo disteso sul pavimento, tra la porta e il radiatore ha numerose ferite e il volto tumefatto. È l’11 luglio 2003. Poche settimane dopo, il caso viene archiviato come morte naturale, ovvero arresto cardiocircolatorio. Ma la madre del ragazzo non si è mai arresa a una verità difficile da accettare. La lotta di Maria Ciuffi, che in questi anni ha continuato a chiedere giustizia, ha fatto sì che la stessa Procura livornese riaprisse il caso e riesumasse il cadavere. Nuovi elementi, infatti sono emersi recentemente e molti fatti nuovi stanno venendo alla luce proprio in questi giorni: il magistrato Antonio Giaconi sta ascoltando nuovamente i detenuti che erano con Marcello Lonzi, lo stesso compagno di cella che aveva trovato il corpo e anche alcuni agenti della polizia penitenziaria che quel giorno erano in servizio. La Procura livornese, con queste nuove indagini, vuole capire che cosa abbia provocato l’arresto cardiaco al giovane detenuto. Se, in sostanza, Marcello Lonzi, come sostiene la madre da anni e come sembrano rivelare alcune foto choc del cadavere appena rinvenuto (che Panorama ha potuto vedere ma ha deciso di non pubblicare), è stato vittima di un pestaggio. La riesumazione del cadavere ha portato alla luce fratture costali e altre lesioni che difficilmente possono essere spiegate con la tesi della morte naturale. Modena: "reinserirsi" a 62 anni… e l’indulto mi ha aiutata
www.radiocarcere.com, 4 ottobre 2007
Elleci, 62 anni, dopo 4 anni di carcere è uscita con l’indulto: "Scarcerata sono stata aiutata e ora ho un lavoro". Sono stata in carcere per quattro anni, e sono stata liberata con l’indulto. Se mi incontrate oggi, nulla vi direbbe del mio recente passato di detenuta. Ora ho riacquistato la normalità di una vita, ed anche il suo anonimato. Sono una di quelle persone che dopo l’indulto ha avuto la fortuna di ricominciare una vita onesta. Per questo, forse, gente come me non fa notizia. Ma per questo mi importa raccontarvi la mia storia. Agosto 2006. Quando è arrivato l’indulto ero nel carcere di Modena. Noi donne del carcere di Modena avevamo atteso l’indulto con un misto di speranza e di timore. Speranza per la ritrovata libertà, timore per quello che ci avrebbe aspettato fuori. Gli anni di carcere mi avevano logorato. Quattro anni in celle affollate e promiscue, agenti nervosi e stressati. E, soprattutto: una noia mortale. Sì, noia, perché per quanto in carcere una detenuta ce la metta tutta a cercare di essere attiva, le possibilità di spezzare il ritmo sempre uguale della cella sono pochissime. Infatti, oltre che privati della libertà, si è anche privati della possibilità di lavorare. Vedete in carcere lavorare è importante. Non solo perché vinci la maledetta noia, non solo perché impari qualcosa che fuori non sapevi, ma anche perché lavorando in carcere puoi guadagnare qualche soldo, che sono indispensabili anche lì. Io in carcere ho cercato tanto un lavoro e ho trovato un deserto. Al massimo una detenuta su trenta poteva pulire, una volta la mese, gli spazi comuni. Punto. E le altre 29 detenute? Chiuse in cella a guardare il soffitto. 4 anni in cella senza fare nulla ti devastano anche l’idea di un domani. Per questa ragione quando è arrivato l’indulto molte tra noi detenute avevano paura. Paura della libertà. Io, per esempio, dopo 4 anni di carcere avevo perso tutto. La casa, il lavoro, la famiglia. E che cosa fa una donna sola, senza soldi, senza alloggio, senza aiuto? Ovvio: torna in galera. E non era solo il mio caso. Qualche mese prima di me uscì con l’indulto una detenuta, che aveva la reputazione di essere una dura in carcere. Camminando per il corridoio passò davanti alla mia cella e ho visto che piangeva. Mi salutò con un abbraccio e mi disse: "Ora esco, ma dove dormo stasera? Io non so dove andare, e non voglio tornare a spacciare e a prostituirmi per avere un letto su cui dormire. Sono disperata!" Quella che era una detenuta dura e rispettata in carcere, ora piangeva come una bambina che si era smarrita. Anche io ero terrorizzata al solo pensiero di come avrei potuto affrontare la libertà. Mi feci coraggio, anche perché a me restavano alcuni mesi per preparare la mia uscita: una vera fortuna. I volontari di "Carcere-città", un’associazione che opera nel carcere di Modena, e gli assistenti sociali mi hanno seguito, mi hanno ascoltato, senza farmi sentire uno scarto, un avanzo di galera. Poi hanno segnalato il mio nome ai Servizi Sociali del Comune. Quando venne a incontrarmi in carcere il responsabile dei Servizi Sociali ero preoccupata e nervosa. Da un lato mi spingeva l’orgoglio e la voglia di dire "No, grazie, so fare da sola". Dall’altro sentivo la consapevolezza che avevo bisogno di aiuto e che da sola non ce l’avrei potuta fare. Dopo un po’ di colloqui in carcere, hanno costruito su di me un progetto per la libertà. Così quando sono uscita con l’indulto mi hanno dato un alloggio in un appartamento e un piccolo sussidio mensile. Eravamo in tre in quell’appartamento e la vita non era facile. Piccoli spazi da condividere e tante diversità tra di noi, la mentalità, l’età. Ma sapevamo che eravamo tre donne fortunate e volevamo rifarci una vita. Dopo alcuni mesi, il Comune mi ha dato anche a una borsa-lavoro. Io lavoravo per un ente e il Comune mi pagava. Ero contenta, mi piaceva il lavoro e piano piano riacquistavo una normalità che avevo dimenticato. Dopo poco però ho capito che con quel sussidio, con solo quell’aiuto, non sarei mai riuscita a ritrovare la mia vera indipendenza. Ho capito che quell’aiuto era un inizio e non una fine. Così ho risparmiato, finché ho potuto disporre di cento euro da investire in telefonate con lo scopo di trovare un vero lavoro. Non è stato facile, tantissimi "No, grazie", si accumulavano a dei ben peggiori: "Sì, interessante le facciamo sapere noi". False aspettative. I mesi passavano e io avevo quasi finito i cento euro di telefonate e anche il coraggio, la speranza. Poi il colpo di fortuna: una telefonata, un colloquio e il lavoro. Finalmente. All’inizio è stata durissima. Subito la decisione di dire al mio capo da dove venivo, perché non me la sono sentita di tacerlo. Poi il dovermi abituare a ritmi di lavoro competitivi e, cosa non da poco, ad un ambiente professionale. Tante volte ho pensato di mollare. Ma non l’ho fatto. Ora vivo in casa mia e fra poco riceverò il quarto stipendio. Ripeto: sono stata fortunata perché ho incontrato le persone giuste, così come "allora" ho forse incontrato le persone sbagliate (la vita, in fondo, è equa). Oggi, se mi incontrate, nulla vi parla del mio passato.
Elleci, 62 anni
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