Rassegna stampa 29 novembre

 

Giustizia: certezza della pena e diritti umani

di Alberto Marcheselli (Magistrato di Sorveglianza)

 

Diritto e Giustizia, 29 novembre 2007

 

Certezza della pena e diritti umani: il miraggio pericoloso delle riforme a "costo zero".

Ciclicamente, in occasione di ogni campagna elettorale o di qualche fatto di cronaca eclatante, si torna a parlare di sicurezza dei cittadini, efficacia della giustizia, disumanità della vita nelle carceri. Problemi che sono abitualmente affrontati con un approccio in cui tendono a prevalere atteggiamenti emotivi, più ancora che fattori ideologici. Resta latitante, almeno nel dibattito pubblico, qualsivoglia traccia di analisi dei dati obiettivi.

 

Certezza e flessibilità della pena

 

Sono del tutto ignorate le interrelazioni dei vari fenomeni, né è compresa la loro rilevanza sulla qualità della vita quotidiana dei cittadini e i pesanti costi sociali correlati.

L’opinione pubblica è informata delle questioni e delle riforme concernenti la giustizia nella dimensione del processo penale, ma un cono d’ombra sembra avvolgere il mondo della esecuzione della pena.

Si tratta di una realtà tutt’altro che di nicchia: non solo coinvolge mediamente gli oltre 70 mila condannati (valore medio di persone in esecuzione di pena in Italia al lordo e a monte dei provvedimenti di indulto), ma anche le migliaia di persone vittime di reati. Più in generale, la percezione del rischio criminale determina atteggiamenti e comportamenti concreti di tutti noi (dall’acquisto di porte blindate al non circolare in certi quartieri la sera): non è difficile immaginare l’entità dei costi sociali connessi al fenomeno della microcriminalità, anche se sarebbe arduo misurarli esattamente.

Eppure, quando si parla di efficacia della giustizia e di lotta alla criminalità, non si sfugge dalla contrapposizione, che ha sapore di slogan, tra certezza e flessibilità della pena. Sostanzialmente, la certezza della pena (meglio, la sua rigidità) garantirebbe la sicurezza dei cittadini, ma porrebbe a rischio l’umanità della sua esecuzione, mentre la sua flessibilità si tradurrebbe in una forma di impunità criminogena, pur essendo meglio compatibile con una attuazione umanitaria e costituzionalmente orientata della sanzione.

 

Verifiche e investimenti

 

Ma una simile impostazione regge a una verifica operata con criteri scientifici, almeno in senso lato? La efficienza del sistema è, evidentemente, correlata alla sua idoneità allo scopo, che per la sanzione penale è evitare la recidiva del condannato e la istigazione a delinquere per i terzi. È per questo che si dovrebbe preferire parlare, come già fatto in queste colonne, di pena adeguata, uscendo dal loop ossessivo di pena certa - pena flessibile.

Un discorso serio e obiettivo sulla materia, comunque, non dovrebbe quindi prescindere da criteri di misurazione di tali fattori. Nonostante le apparenze, non è una rilevazione difficile.

Si tratta di assumere come base di elaborazione il numero di persone che hanno completato una pena espiata in forma alternativa alla detenzione (pena flessibile) in un periodo dato, verificare se e quante di queste persone ricadano nel delitto durante o dopo la misura. Il dato va confrontato con quello ottenuto da un campione di persone che nello stesso periodo abbiano espiato una pena solo carceraria (pena rigida). Il confronto tra i due dati mostra quale sia il risultato dei due sistemi, al di là di ogni preconcetto ideologico.

È stupefacente come un approccio del genere sia per lungo tempo mancato nella cultura giuridica e politica italiana (per un interessante lavoro in tale direzione si veda Tucci R., Santoro E., Rapporto conclusivo Progetto Misura sulla recidiva, Firenze, 2004). E come, peraltro, alla effettuazione di tali primi tentativi di misurazione non sempre si accompagnino considerazioni sicuramente fondate sul piano scientifico.

Tale appare ad esempio la diffusa affermazione secondo la quale, ammesso che il tasso di recidiva successivo alla misura alternativa sarebbe minore di quello che risulta dopo la carcerazione, se ne dovrebbe desumere non un giudizio di buon andamento del sistema delle misure alternative (che ne è la conseguenza logica e dovrebbe essere la base di partenza di una dialettica ragionevole) ma la conclusione che le misure alternative dovrebbero trovare una generalizzata applicazione e una applicazione in via automatica.

Questo, ad esempio, è stato affermato in occasione di riflessioni sulla riforma del codice penale, laddove si tende ad affermare che il ricorso alla misura alternativa andrebbe direttamente previsto nella legge incriminatrice. Questa conclusione appare frutto di un cattivo sillogismo sotto almeno due profili. Il primo, già sottolineato in altro intervento su queste colonne, laddove collega la sanzione al solo fatto e non alla personalità del colpevole: anche ad ammettere, ad esempio, che una misura alternativa sia adeguata alla commissione del primo delitto di ricettazione, la stessa valutazione regge per chi commetta la trentesima ricettazione della sua vita? E, inversamente, ammesso che una rapina sia, di norma, un fatto grave, è proprio sicuro che tutti i rapinatori meritino il carcere?

Il secondo errore si annida laddove si trae un rafforzamento alla soluzione dell’automatismo delle misure alternative dal fatto che la recidiva dopo di esse sarebbe minore che dopo la carcerazione. Ebbene, ammesso il dato - obiettivo - della minor recidiva dopo le misure alternative, quanto dipende dalla maggiore efficacia in sé delle misure alternative e quanto dal fatto che alla misura alternativa sono ammesse le persone che sono valutate più meritevoli, quindi risocializzabili e quindi meno propense alla recidiva? Le misure alternative sono, insomma, oggettivamente più idonee o, più semplicemente, sono applicate ai soggetti che sono più facilmente risocializzabili?

Desumere dalla minore recidiva dopo le misure alternative che esse dovrebbero essere applicate a tutti contiene un errore logico: si confronta la recidiva di persone diverse, non solo dopo misure diverse.

E contiene una altrettanto grossolana trascuratezza circa il fatto che, tra la inflizione della pena e la sua concreta applicazione o trasformazione si trova la Magistratura di Sorveglianza, che stabilisce il tipo di pena applicabile in concreto.

Parlare di automatismo delle misure alternative equivale insomma, per usare una metafora, a dire che dato che dopo l’introduzione dei semafori gli incidenti agli incroci stradali sono statisticamente diminuiti, ormai si possono... eliminare i semafori.

In tale quadro di generale confusione concettuale, le cui responsabilità appaiono principalmente imputabili alla scarsissima cultura penitenziaria diffusa, non stupisce che, nel giro di tre anni, si succedano strumenti scoordinati e di segno sostanzialmente opposto come il cosiddetto indultino del 2003, la legge ex Cirielli del 2005 e l’indulto nel 2006: il primo volto a un automatico svuotamento degli istituti penitenziari senza alcun serio intervento di supporto, sostegno e controllo delle persone scarcerate, la seconda pensata per escludere l’espiazione della pena fuori dal carcere per i soggetti recidivi nel delitto, la terza ispirata nuovamente alla finalità di alleviare la gravità della situazione penitenziaria e la tensione sul principio del rispetto dei diritti umani, determinata dalla condizione di obiettivo degrado e sovraffollamento delle strutture. Su tali interventi normativi, poi, non solo è mancata, spesso, una adeguata analisi progettuale preliminare, ma, anche e soprattutto, il necessario follow up nella attuazione concreta.

Continua infatti a sfuggire, se non nella cerchia degli operatori del settore, che la scelta verso una pena flessibile richiede investimenti cospicui in termini di strutture di supporto, sostegno e controllo. Mentre la scelta opposta comporta o condizioni di vita disumane all’interno degli istituti penitenziari o la necessità di onerosissimi interventi sulla edilizia penitenziaria e in genere sui mezzi personali e materiali.

Per rendersene conto, basta riflettere sul fatto che, dati ufficiali alla mano, prima dell’indulto erano 37mila le persone che espiavano la pena fuori dal carcere: un numero elevatissimo e esattamente pari a quello di chi scontava la condanna in carcere. (Dati ufficiali ministero della Giustizia I semestre 2005). 37mila vicende criminali che necessitano di supporto e controlli (e quindi, investimenti), e alle quali si può ragionevolmente ricollegare una grossa parte del disagio personale e sociale di grandi aree del paese.

D’altra parte, la pena rigida, in parte attuata dal legislatore della legge ex Cirielli, andrebbe adottata solo una volta constatata l’inadeguatezza dell’altra, che al momento non risulta affatto, anzi. E in ogni caso questa scelta imporrebbe di reperire strutture penitenziarie adeguate. Ipotizzando l’esecuzione penitenziaria per solo la metà delle persone che scontavano la pena all’esterno, si dovrebbero trovare 18.500 posti in carcere. Si tratterebbe dunque di progettare la costruzione di trentasette nuovi istituti di medio - grandi dimensioni (da 500 posti), per un costo verosimile di svariate centinaia di milioni di euro. Ciò per tacere dei mezzi finanziari necessari al reperimento del personale da destinare a tali istituti e di quelli necessari all’adeguamento delle strutture esistenti a standard di umanità.

Si tratta di somme incomparabilmente superiori a quelle necessarie al potenziamento dei supporti al sistema delle misure alternative e, probabilmente e altrettanto significativamente, non più produttive di risultati in termini di sicurezza sociale.

Continuare a procedere in modo episodico e scoordinato, dal punto di vista concettuale, e senza adeguati investimenti, sul piano materiale, comporta, di fatto, scegliere tra la seguente alternativa: tra il rischio di un carcere disumano che calpesta i più elementari diritti delle persone, da un lato, o una pena esterna al carcere senza che ai condannati siano garantiti supporti e controlli idonei, dall’altro.

Non si tratta dunque di riforme a costo zero, come normalmente si dice, per giustificarne più o meno esplicitamente la adozione, ma di riforme a costo occulto, un costo enorme, traslato nel primo caso sulle persone detenute, conculcate nella loro sfera individuale e umana più sacra, ovvero sulle vittime dei reati, che spesso sono, come i detenuti, i soggetti socialmente più deboli. Un quadro non confortante per un paese civile nel terzo millennio.

Giustizia: sulle case famiglia destinate ai bambini detenuti

di Luigi Manconi (Sottosegretario alla Giustizia)

 

Il Riformista, 29 novembre 2007

 

Fatalmente, in occasione della giornata internazionale dell’infanzia, con Rosy Bindi, Paolo Ferrero, i vertici dell’Amministrazione penitenziaria e i rappresentanti dell’Amministrazione comunale di Roma ci siamo ritrovati nell’Istituto femminile di Rebibbia, a visitare i più piccoli tra i carcerati, bambini e bambine nei primi tre anni di vita, che accompagnano le mamme nell’espiazione della pena o ne subiscono con loro la custodia cautelare detentiva. Ultimi tra gli ultimi, dell’infanzia ferita e della sofferenza penale, rappresentano la suprema aberrazione: costretti in carcere senza colpa, impediti negli spazi, nei tempi, nei giochi e negli affetti durante l’età più difficile.

Non si sarebbe potuto celebrare la giornata internazionale per i diritti dell’infanzia senza preoccuparsi di loro; non si può (non si potrà) discutere di politiche della sicurezza e della pena senza preoccuparsi della loro (di sicurezza), senza ricordare, nella loro immagine dietro le sbarre, la necessità del carcere come extrema-ratio.

Sono di nuovo venti a Rebibbia, cinquanta in Italia, come prima dell’indulto, non per colpa dell’indulto, anzi. L’indulto ne aveva fatti uscire tanti, quasi tutti. Ma l’indulto, si sa, si sapeva, non può bastare: misura eccezionale, doveva servire a dare una risposta efficace in tempi rapidi, in vista di più lunghi processi di riforma.

L’indulto ha funzionato, eccome, per quello che gli era chiesto; lento è ancora il cammino di una più generale riforma del sistema delle pene, delle loro previsioni normative e delle loro prassi applicative. Aspettiamo la proposta di riforma del codice penale e l’esame di quelle sull’immigrazione, sul consumo di sostanze e sulla recidiva. Aspettiamo anche la discussione nell’Aula di Montecitorio della proposta Buemi di revisione della legge Finocchiaro di tutela dei figli di madri detenute. Approvata in Commissione il 3 aprile scorso, cerca di farsi largo nell’ordine del giorno della Camera. Il Governo ne chiederà formalmente la calendarizzazione.

Intanto però, stiamo lavorando alla sua futura applicazione; anzi, stiamo lavorando alla sua preventiva applicazione; meglio, alla sua anticipazione. La proposta Buemi prevede importanti modifiche che dovrebbero rendere più agevole l’accesso delle madri detenute alle misure alternative alla detenzione; ma prevede anche - riprendendo l’esperienza pilota realizzata a Milano - la realizzazione di case-famiglia protette per quelle donne (e quei bambini) che comunque non riuscirebbero ad accedere alle alternative. Su iniziativa della Provincia, con il concorso della Regione e del Comune, a Milano l’Amministrazione penitenziaria ha aperto quella che formalmente è una sezione distaccata di San Vittore, ma che sostanzialmente è una casa-famiglia nel centro della città, in un tranquillo appartamento "borghese", dove sono state trasferite le detenute con i loro figli, liberi di giocare in casa e fuori, nel giardino circostante.

Quella di Milano è l’idea originaria e l’anticipazione di ciò che la proposta di legge prevede. Del resto, una buona riforma si vede alla prova dei fatti, e allora tanto vale che la si metta alla prova da prima, se possibile. È così che, nelle more dell’iter parlamentare, stiamo lavorando perché Milano non resti sola: a Firenze è stata individuata una struttura adatta allo scopo; forse anche a Roma e a Venezia. Alcuni Comuni (Spoleto in Umbria e Lagonegro in Basilicata) si sono offerti per individuare strutture e ospitare case-famiglia. Ne basterebbero cinque, ma se ne avessimo dieci di case-famiglia l’Amministrazione penitenziaria potrebbe meglio garantire la territorializzazione della pena e sarebbe meno traumatica la separazione tra madri e figli, quando pure essa dovesse a un certo punto avvenire.

Sia chiaro: le case-famiglia non vengono su come funghi dopo le piogge autunnali. A Milano ci sono voluti anni per individuare, adattare, allestire le strutture e convenzionare le amministrazioni. Pur con la strada spianata dall’esperienza, tempo ci vorrà anche altrove. È un’impresa assai ardua, ma non impossibile. Non solo, l’apertura di una e più case-famiglia ha un altro importante significato: quello di alludere a una possibilità - e, insieme, di concretamente anticiparla - di sottrarre un pezzo di pena all’ipoteca onnicomprensiva della cella chiusa. In altre parole: realizzare luoghi dove la custodia sia attenuata, attenuatissima, segnala e dimostra che si possono applicare forme di sanzione differenziata e le meno "detentive" possibili, le quali forme di sanzione - a partire da una valutazione di ridotta o nulla pericolosità sociale - possono per determinati gruppi (tossicodipendenti o internati) rappresentare una opportunità di integrazione e riabilitazione e non l’irrimediabile certificato di esclusione.

Giustizia: Perugia; le 21 righe che hanno portato tre in cella

di Riccardo Arena (Avvocato e Direttore di Radio Carcere)

 

Il Riformista, 29 novembre 2007

 

Un foglio di 21 righe. L’intestazione: Questura di Perugia, Squadra Mobile. L’oggetto: Verbale di spontanee dichiarazioni rese da Knox Amanda Marie. Data: 6 novembre 2007. Ore: 5.45 del mattino. Amanda, 20 anni, è in Questura dalle ore 12 del giorno prima. 16 ore con la polizia. L’alba, ore 5.45. Amanda rende spontanee dichiarazioni al P.M. Giuliano Mignini. Risultato 21 righe di verbale.

È la "prova regina" che ha portato in carcere Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Patrick Lumumba, per aver violentato e ucciso Meredith Kercher. 21 righe sono bastate, tre ore dopo, al P.M. Giuliano Mignini per disporre il fermo in carcere dei tre indagati. 21 righe che determinano, alle 8.40, l’ingresso nel carcere di Perugia di Amanda, Raffaele e Patrick.

9 novembre. Il P.M. chiede la misura in carcere per tutti e tre. Il G.i.p. Claudia Matteini accoglie la richiesta ed emette l’ordinanza. Sia P.M. che G.i.p. ritengono che queste 21 righe contengano gravi indizi di colpevolezza. Le spontanee dichiarazioni di Amanda, nebulose, scarne e, soprattutto, rese alle 5.45 del mattino, dopo 16 ore in questura, vengono ritenute una prova schiacciante. Quelle 21 righe sono sufficienti per arrestare i tre ragazzi. Il Questore di Perugia: "Indagine chiusa solo in 4 giorni". Il Sindaco applaude.

Amanda Knox. Una ragazza di appena 20 anni. È dal 5 novembre con i poliziotti. Dopo 16 ore, alle 5.45 del 6 novembre, Amanda decide di fare spontanee dichiarazioni. Certo, la Polizia fa il suo lavoro. Ma è anche certo che quando si sta per 16 ore in questura non è che ti offrano the e pasticcini. Qualunque ragazza, incensurata, dopo 16 ore passate in questura, confesserebbe anche di aver sedotto Adamo e avvelenato Eva! Una stranezza, a volere essere benevoli. L’ascoltano senza avvocato. È un testimone, non un indagato, affermano.

Un testimone che appena finito di parlare viene arrestato con l’accusa di omicidio. Un testimone che rilascia spontanee dichiarazioni. Ma la persona informata sui fatti, non rilascia dichiarazioni spontanee. Risponde alle domande. Le dichiarazioni spontanee le può rilasciare solo l’indagato, assistito dal difensore, sempre che non ne abbia rinunciato. Eppure Amanda rilascia dichiarazioni spontanee senza difensore. Ora se Amanda era indagata aveva diritto a un difensore. E invece no. Amanda, 20 anni, alle 5.45 rilascia spontanee dichiarazioni. E poi viene arrestata.

Ma che dice Amanda in queste 21 righe? Tra molti non ricordo, dice che ha portato a casa Partick. Dice che, quando ha sentito le urla di Meredith, stava in cucina. Dice che ha avuto paura. Immagina, le sembra, non ricorda. 21 righe. Incerti ricordi di una ragazzina, magari "fumata". Leggendo queste 21 righe è impresa ardua scorgere quei gravi indizi di colpevolezza previsti dalla legge per emettere una misura cautelare in carcere. L’accusa a Lumumba. Importante dichiarazione accusatoria. Che perde un valore indiziante minimo per il luogo, l’ora e soprattutto il fatto che è rilasciata dalla principale sospettata. Una dichiarazione che il P.M. avrebbe dovuto verificare e riscontare. Riscontri che non ci sono stati.

Patrick Lumumba. Per il pezzo di carta, per le 21 righe di Amanda, è lui l’assassino di Meredith. Il Pm Mignini dopo 3 ore, lo sbatte il carcere. Il Gip è d’accordo. È lui l’assassino.

Il 20 novembre. Lumumba, dopo 14 giorni di galera, viene scarcerato. È lo spesso P.M. a chiederlo ed è lo stesso G.i.p. ad emettere il provvedimento. Lumumba è libero. Gli stessi magistrati che hanno creduto a quelle 21 righe di spontanee dichiarazioni di Amanda, 14 giorni dopo, le stracciano. Ammettono l’errore. Quello che ha detto Amanda su Lumumba in quelle 21 righe non è vero. È l’errore giudiziario. Il primo in questa indagine.

Raffaele Sollecito. Anche lui è in carcere per quelle 21 righe. 21 righe che fanno nascere dubbi sull’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Nel pezzo di carta, nelle 21 righe di dichiarazioni spontanee, Amanda fornisce un’indicazione assai generica su Raffaele. Dice Amanda: "Non sono sicura se fosse presente anche Raffaele quella sera".

Non sono sicura e Raffaele tre ore dopo va in galera. La paura: la ripetizione dell’errore fatto con Lumumba. Forse l’errore si potrebbe, non evitare, ma attenuare mettendo Sollecito agli arresti domiciliari. "Ringrazio molto Dio che mi ha aiutato a tornare a casa" dirà Lumumba uscito di galera. Dentro per caso. Libero per miracolo. E forse, in un’indagine come questa, solo la provvidenza può aiutare gli indagati. La giustizia no.

Giustizia: la valutazione della "testimonianza" nelle indagini

di Orlando Villoni (G.I.P. a Roma)

 

Il Riformista, 29 novembre 2007

 

Quando si parla di testimonianza nel processo penale, anche a causa di sempre più frequenti fiction televisive in tema o al crescente successo di scrittori di genere, si pensa subito all’esame incrociato, in cui PM e difensori pongono domande al testimone, con l’opposto intento o di far emergere dalle sue dichiarazioni dei fatti o di porne in dubbio l’attendibilità e la credibilità. È giusto così, poiché la formazione dialettica della prova costituisce il proprium del sistema accusatorio, in vista di una possibile e verificabile verità processuale.

Più recente è, invece, uno smodato quanto deprecabile interesse che l’opinione pubblica sembra coltivare anche per la fase iniziale del procedimento penale, ove relativo a delitti cd. di sangue: la raccolta degli elementi di prova da parte del PM inizia e procede così sotto la pressione di giornali, televisioni e curiosi, in una sorta di diretta mediatica che, tra l’altro, rende obsolete le vigenti norme sul segreto investigativo.

Anche in questa fase, tuttavia, v’è chi è chiamato in vario modo a valutare le dichiarazioni delle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini (art. 351 cpp.), tecnicamente non ancora definibili testimonianze poiché rese fuori dalla fase del giudizio: il PM, tenuto ad un primo vaglio di attendibilità e credibilità; il difensore, se procede ad investigazioni difensive (art. 391 bis cpp), il giudice delle indagini preliminari, specie se richiesto di adottare atti incidenti sulla libertà personale dell’indagato (convalida di fermo o arresto, applicazione di misure cautelari personali).

La differenza fondamentale rispetto al dibattimento sta nel fatto che tale valutazione non consegue ad un processo dialettico a più voci, quanto all’applicazione di regole d’esperienza, empiriche ancorché logiche; quasi sempre (ciò vale soprattutto per il giudice) in assenza di contatti diretti con il dichiarante, in genere già ascoltato dalla polizia giudiziaria; con le complicazioni di farla nel tempo ristretto concesso dall’adozione dell’atto processuale ed in assenza di riferimenti normativi specifici, la giurisprudenza ricorrendo a formule generali (credibilità ed attendibilità), prive di contenuto se non calate nella situazione concreta.

Se è, dunque, bene tenere a mente il principio logico di non contraddizione, la sua utilità appare relativa: chi afferma un fatto ed al contempo un altro con il primo incompatibile è certo un testimone inattendibile. Più spesso, però, è l’esperienza a far dubitare di dichiarazioni in apparenza ineccepibili, ma che difficilmente reggono al vaglio in contraddittorio: quella ad es. del teste che, in sede di individuazione fotografica dell’indagato, affermi di rico-noscerlo senza ombra di dubbio, va più prudentemente interpretata nel senso che sussiste forte somiglianza tra quello effigiato ed il soggetto fugacemente osservato al momento del fatto, essendo ben noti i fattori negativamente incidenti (scarsa affidabilità del meccanismo mnemonico, voglia di rivalsa se il teste è parte lesa, desiderio di dare un contributo alle indagini) sulla sua attendibilità. La prudenza impone, così, di non fondare la motivazione di una misura cautelare solo su tale elemento di prova, che va affiancato da altri utili alla decisione (testimonianze, altre individuazioni fotografiche, tracce materiali del reato).

Maggiore attenzione richiede poi la testimonianza della parte offesa: la giurisprudenza dice che la relativa valutazione deve essere oltremodo rigorosa, poiché da un lato l’offeso è portatore di interesse contrapposto a quello dell’indagato, talora preesistente al procedimento e poi perché quella deposizione viene spesso a costituire l’unica prova d’accusa. Il luogo deputato all’emersione di eventuali debolezze di tale testimonianza è l’esame incrociato dibattimentale, ma in fase di indagini ci si affida piuttosto a criteri di valutazione validi per situazioni che, pur non definibili seriali, si presentano con una certa frequenza (es. la dubbia attendibilità del debitore che accusi il creditore di pratiche usurarie, ove risultino già condotte di sottrazione del primo a legittime pretese di restituzione).

È una fase, dunque, in cui è inevitabile un certo tasso di precarietà nella valutazione, non di rado sovvertita da delibazioni successive (es. del tribunale del riesame): ad un’accusa fluida corrispondono, infatti, un materiale probatorio in divenire e determinazioni necessariamente provvisorie. Sarebbe così ottima regola di condotta, nel rispetto della funzione giudiziaria, garantire la massima tranquillità a chi fin dall’avvio del procedimento deve confrontarsi con tale delicato esercizio.

Giustizia: l’Area del Servizio Sociale si sente abbandonata

 

Blog di Solidarietà, 29 novembre 2007

 

Aree di Servizio Sociale ed Aree Pedagogiche-Trattamentali abbandonate ad un triste destino. Per l’Amministrazione Penitenziaria ci sono operatori di serie A e di serie B.

Mentre il Ministro Mastella e i Vertici dell’Amministrazione Penitenziaria si concentrano quasi esclusivamente sul demagogico progetto "polizia penitenziaria negli Uepe", si sono totalmente dimenticati dell’Area Sociale e di quella Pedagogica-Trattamentale. L’inseguire tale progetto sembra oggi i loro unico problema da affrontare con sospetta celerità, a discapito di quelli che sono gli annosi e veri problemi dei Detenuti e degli Operatori Tutti. L’accontentare una piccola parte che avrà la possibilità di "evadere" dal carcere (finalmente potranno sentirsi dei "veri poliziotti", alla faccia di tutti coloro che rimarranno in Carcere sotto organico e privi di risorse), pensando in questo modo di essere riusciti a valorizzare finalmente la professione del poliziotto penitenziario (chiaramente a costo zero per l’Amministrazione), diventerà un boomerang sia per il Ministro che per i Vertici dell’Amministrazione che saranno ricordati (e su questo non c’è alcun dubbio) per aver voluto affossare, con le loro consapevoli disattenzioni, un Servizio come l’Uepe e la stessa Area trattamentale-pedagogica delle Carceri così come per non aver in alcun modo affrontato i veri problemi della polizia penitenziaria, in questo grazie anche all’aiuto di alcune ben note OO.SS - non a caso in questi giorni estremamente silenziosi rispetto alla nuova bozza di decreto interministeriale (eppure avevano così tanto da dire sulla precedente bozza di decreto, sostanzialmente identica a quella presentata in questi giorni dal Dap.

Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

Il Riformista, 29 novembre 2007

 

43 donne detenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

"Caro Arena, siamo 43 donne detenute del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ti abbiano scritto con un po’ di ritardo perché volevamo scriverti tutte insieme, per farti arrivare le nostre 43 voci. Ti scriviamo per dirti come siamo costrette vivere qui dentro. Devi sapere che anche nel carcere femminile di Santa Maria Capua Vetere l’effetto indulto è da tempo svanito. Ora viviamo chiuse in 9 donne dentro una cella grande 6 metri per 6, e ti lascio immaginare le nostre condizioni di vita! Mentre ti scriviamo stiamo in un cortiletto a fare l’ora d’aria. Qui manca di tutto, compresa l’umanità visto che ci trattano come bestie.

Per noi c’è solo un corso e uno soltanto, ma se per caso devi fare il colloquio con un parente o con l’avvocato, siamo costrette a perdere ore di scuola o, quando capita l’occasione di qualche lavoro di pulizia dentro al carcere. Tutto qui. Ora, caro Riccardo, speriamo che ti arrivi questa nostra lettera, perché sai come funziona male la posta in uscita dal carcere! Grazie."

 

Michele dal carcere di Cassino

"Caro Riccardo, si sono fatte polemiche sulla legge Gozzini e queste sono alcune mie riflessioni. Mi spiace aver visto che nelle c.d. rivoltelle dei poteri, i soliti proiettili che si chiamano: tolleranza zero, abolire la Gozzini e via così. Mi spiace notare che nessuno in Tv o sui giornali abbia sottolineato l’importanza storica della legge Gozzini, il progresso che quella legge ha determinato, sia dentro che fuori dalle carceri.

Come mi dispiace che nessun politico abbia spiegato quanto sia difficile uscire prima del fine pena dal carcere. Ed è strano perché gli addetti ai lavori lo sanno bene quanto sia difficile mettere d’accordo l’educatore, l’assistente sociale, l’ispettore del carcere e via dicendo…per non parlare del magistrato di sorveglianza. Mi spiace notare come pochi hanno sottolineato i buoni effetti della legge Gozzini. Pochissimo sono infatti i detenuti ammessi alle misure alternative alla detenzione che poi ricommettono un reato. Tanti sono invece quelli che disperatamente cercano di rifarsi una nuova vita con la misura alternativa. Ma si sa è questa una Italia che va al contrario. Riccardo ti saluto e ti segnalo che qui nel carcere di Cassino ci è impossibile comprare il Riformista! Misteri della fede?".

 

Alessandro dal carcere Santa Maria Maggiore di Venezia

"Cara Radio Carcere ho 32 anni e mi trovo detenuto a Venezia per scontare 2 anni e 2 mesi per il reato di rapina. La mia detenzione mi preoccupa, non tanto perché sto in carcere, ma per le poche prospettive che mi vengono offerte qui dentro. Prospettive di lavoro e di fare un corso di formazione che mi potrebbero aiutare una volta libero a trovare un lavoro. Purtroppo qui nel carcere di Venezia non riesco a inserirmi in nessun corso o a fare nessun lavoro. Gli educatori sono pochi e pochi anche i volontari. Chiedo solo di dare un senso alla pena che sconto in carcere, ma la mia richiesta sembra non interessare nessuno. Ho fatto istanza per essere trasferito in un carcere della Lombardia, dove risiede la mia famiglia, da 2 mesi fa e aspetto una risposta che non arriva. Non mi rimane che sperare nella liberazione anticipata, una magra consolazione per chi vuole rifarsi una vita. Vi assicuro che oggi è la libertà che mi preoccupa di più. Cosa potrò mai fare una volta libero? Quale lavoro mi farà guadagnare uno stipendio dignitoso? È questa per me una pena più grande del carcere e della pena che devo scontare. Grazie per avermi dedicato 2 minuti".

Minori: nei Centri Prima Accoglienza il 55% sono stranieri 

 

Dire, 29 novembre 2007

 

Sono maschi, adolescenti, per la maggior parte sono in stato di arresto e sono stranieri, per lo più rumeni, bosniaci e serbi. È questo l’identikit dei minori entrati nei Centri di prima accoglienza del Dipartimento di giustizia minorile, e forniti dal servizio di statistica dello stesso Dgm, relativi ai primi sei mesi del 2007. Viene fuori che la maggior parte degli ingressi nei centri di prima accoglienza riguarda ragazzi di 17 anni (670), maschi nell’81% dei casi, e stranieri per il 55%, contro il 45% degli italiani. Gli adolescenti che entrano nei Centri di prima accoglienza sono dentro soprattutto per arresti (il 91% dei casi), solo il 9% per fermo o accompagnato.

Ma quali le nazionalità maggiormente presenti? Secondo i dati del Dipartimento di giustizia minorile i più rappresentati sono i rumeni con 424 presenze, seguiti dai cittadini della Serbia con 127 e della Bosnia-Erzegovina con 114. Per quanto riguarda gli africani, i ragazzi internati nel Cpa nei primi sei mesi del 2007 sono soprattutto marocchini (108), tunisini (19) e algerini (9). Pochissimi i ragazzi che vengono dal Gabon (5) e dalla Costa d’Avorio (4).

Pochissime invece le presenze dei ragazzi provenienti dell’America latina: nei primi sei mesi del 2007 i centri di prima accoglienza hanno ospitato 19 ragazzi, 18 dei quali nella fascia di età tra i 16 e i 17 anni. I più numerosi sono arrivati dall’Ecuador, seguiti dalla repubblica Dominicana (4) e dal Perù (3). Ma quali sono i motivi per cui ben 1.815 ragazzi dei 1.824 entrati nei centri di prima accoglienza da gennaio sono usciti? Il motivo principale è l’applicazione della custodia cautelare, da quella classica da scontare in carcere (19%) a quelle alternative: la permanenza in casa (19%) e il collocamento in comunità (19%).

I ragazzi sono usciti dai centri di prima accoglienza anche per la remissione della libertà (il 17% dei casi), l’applicazione della misura cautelare delle prescrizioni (11%), la mancanza di altri presupposti (7%) e la presenza di minori di 14 anni (nel 5% dei casi).

Minori: a Palermo un video-documentario, "Il male minore"

 

Dire, 29 novembre 2007

 

Presentato a Palermo in anteprima nazionale il video-documentario "Il male minore": un film con le testimonianze dei giovani e degli educatori che ha funzione divulgativa e che sarà proiettato negli istituti di pena italiani e nelle scuole.

Il reportage, realizzato dal giornalista Rai Dario Miceli, è un viaggio nella realtà degli istituti di pena e delle comunità per i minori con le testimonianze dei giovani e degli educatori degli istituti di pena di Palermo e Catania e della comunità di Caltanissetta. La proiezione si è tenuta stamattina nell’aula Baviera del Malaspina di Palermo.

Il video documentario "Il male minore" è stato co-prodotto dalla sede Rai siciliana e dall’associazione Euro nell’ambito del progetto "Il Male minore", ciclo di otto seminari dedicati agli operatori della Giustizia minorile che si è concluso oggi con un convegno. Il video ha una funzione divulgativa ed è stato voluto dal Dipartimento della Giustizia minorile come progetto pilota per essere proiettato all’interno degli istituti di pena italiani e nelle scuole. Il reportage, dura un’ora e rende, attraverso le interviste, un quadro chiaro del funzionamento dei servizi sociali per i minorenni nell’Isola.

Fra i ragazzi ascoltati dal giornalista Miceli, anche due giovani stranieri: giovani albanesi che stanno scontando la loro pena e che raccontano quella che è la loro vita all’interno dell’istituto o comunità. Fra le testimonianze raccolte, anche quella di un ragazzo che ha detto: "questo posto toglie tutto ma ti dà tanto".

Il reportage rende bene come, spesso, la prima cosa che i ragazzi dicono in dialetto è "non so fare niente". Ma poi, attraverso percorsi educativi, imparano a fare tante cose. I ragazzi raccontano, a fronte della libertà tolta, cosa abbia dato loro la vita dentro l’istituto di pena. Spiegano quello che hanno imparato, che tipo di persone sono diventate e cosa sperano di potere fare una volta usciti. Il loro racconto è intervallato dalle interviste ad alcuni educatori che lavorano all’interno del circuito minorile siciliano.

Il cronista, nel video, ha raccolto le testimonianze dei ragazzi impegnati quotidianamente in varie attività: dal nuoto alla partita di calcetto, dal laboratorio di arti manuali a quello di cucina fino allo spettacolo teatrale realizzato all’interno del Malaspina. Fra le testimonianze, significativa è anche quella di un giovane che, avendo scontato la sua pena, racconta l’esperienza di chi deve ricominciare a vivere nella società dopo essere stato in carcere.

Il documentario è stato presentato da Salvatore Cusimano, direttore della sede Rai siciliana, ha ricevuto il finanziamento dal Fondo sociale europeo ed è stato curato dall’associazione Euro, un centro di ricerca, promozione e iniziativa comunitaria. "Realizzare un progetto che ha una fortissima utilità sociale è una cosa che non ci capita di frequente. Questo reportage può considerarsi, oltre che uno strumento di conoscenza, analisi e riflessione, anche uno strumento di allargamento della coscienza nei confronti della realtà", riferisce Salvatore Cusimano. In occasione del convegno finale del progetto "Il Male minore", sono stati resi noti alcuni dati sulla Giustizia minorile in Sicilia. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, nei primi mesi del 2007 si sono avuti all’interno dei quattro istituti di pena per minori della Sicilia 98 ingressi. Nei primi sei mesi del 2006, invece, erano stati 196 i minori transitati nelle carceri.

159 minori sono entrati nei centri di Prima accoglienza nel 2006, il 60% di loro e poi andato in comunità rispetto all’anno 2007 dove da Gennaio ad ottobre il numero è salito di 312 ingressi. I minori presi in carico dai servizi della giustizia minorile in Sicilia, sempre nel 2006, sono stati 2000.

I reati commessi in misura maggiore sono quelli contro il patrimonio, seguiti da reati relativi alla detenzione e allo spaccio di stupefacenti. Mentre reati come l’omicidio o il tentato omicidio, in Sicilia sono spesso connessi all’appartenenza alla criminalità organizzata, a piccole gang e a riti di transizione di minorenni nell’escalation della carriera criminale oppure possono considerasi momenti di acting out di disagio psichico dovuto all’assunzione di alcolici e droghe.

Fra gli interventi anche quello di Caterina Chinnici, procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta, figlia di Rocco Chinnici. "Oggi credo che sia da rivedere sotto il profilo normativo - ha detto - l’istituto della messa in prova perché credo che l’occasione della rieducazione di un giovane debba essere sufficientemente lunga per il suo recupero e reinserimento nella società. Credo che potrebbe essere importante anche l’introduzione del lavoro socialmente utile per il minore".

A quelle del procuratore sono seguite le parole di don Gino Rigoldi, cappellano dell’istituto penale per minori "Beccaria" di Milano che ha sottolineato l’importanza di "capire la storia dei ragazzi che entrano in carcere, perché non sono clienti ma prima di tutto persone. Bisogna capire anche il perché è stato alla base di certi comportamenti". L’invito di don Rigoldi e quello di valorizzare e coltivare pienamente la capacità di relazione. "Quello su cui bisogna puntare oggi è la capacità di relazione - ha detto - che non è quella di fare prediche e dare regole ma quella di uno scambio umano di doni in cui ci può essere un progetto. I ragazzi hanno bisogno di sicurezza di adulti che siano adulti affidabili con un vissuto coerente e stabile. Muoviamoci per creare spazi di futuro ai giovani, diventando noi stessi attori di un cambiamento possibile nella società".

Al convegno hanno partecipato, tra gli altri, Michele Di Martino, direttore del Centro per la Giustizia Minorile per la Sicilia, Adalberto Battaglia, presidente del Tribunale per i minorenni di Palermo, Maria Teresa Ambrosini, procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Palermo, Caterina Chinnici, procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta, Salvatore Cusimano, direttore della sede Rai della Sicilia e Eugenio Ceglia, presidente dell’associazione Euro.

Bologna: nel carcere della Dozza... c’é solo l’acqua fredda

 

Dire, 29 novembre 2007

 

Bologna - Per farsi una doccia almeno tiepida, i detenuti del carcere di Bologna sono costretti ad alzarsi alle cinque di mattina. Da mesi ormai (ma Leonardo Gaetani, responsabile Cgil degli agenti di custodia, assicura che la situazione si ripete da qualche anno) alla Dozza c’è solo l’acqua fredda. E anche il riscaldamento lascia a desiderare. Colpa delle caldaie che andrebbero sostituite, ma per le quali mancano i fondi. Oltre al freddo, però, i 1.051 detenuti devono fare i conti anche con il sovraffollamento del penitenziario, cifre che riportano la situazione a prima dell’indulto, con tre persone in 10 metri quadrati (lo spazio di una cella).

Seppur di altro genere, diversi problemi riguardano anche gli agenti della Polizia penitenziaria nel carcere bolognese. Primo fra tutti, il netto scarto fra personale previsto (567 unità, di cui 64 donne) e numero di guardie in servizio. Ad oggi sono solo 380 gli agenti della Dozza, "insufficienti", spiega il comandante Sabatino De Bellis, per consentire spostamenti sicuri dei detenuti e, allo stesso tempo, per garantire un adeguato numero di poliziotti dentro il carcere. Il cahiers des doleances è stato snocciolato oggi, nella sala cinema dentro la Dozza, durante il Consiglio comunale straordinario organizzato in carcere proprio per tentate di dare una soluzione ai molti problemi del penitenziario. Il più sentito è il sovraffollamento, come ribadisce il Garante dei detenuti, Desi Bruno, presente all’appuntamento con Giunta e consiglieri di Palazzo D’Accursio.

Nella Dozza, "siamo tornati a una situazione pre-indulto - scandisce Bruno - in queste condizioni si esasperano le condizioni igienico-sanitario". Molti detenuti parlano infatti di scarafaggi in cella. "La Dozza avrebbe bisogno di una forte manutenzione. Abbiamo sollecitato più volte un intervento da parte del Comune", anche perché con la nuova Finanziaria "le risorse per le carceri sono ancor più ridotte". E lo si nota bene dal problema dell’acqua calda. "Da mesi la direzione del carcere chiede fondi per sostituire le caldaie - fa notare Bruno - ma non ci sono ancora risposte". Forse potrebbe arrivarne una nuova la settimana prossima. Ma intanto da mesi i detenuti sono costretti a fare la doccia con l’acqua fredda. Per non parlare dei pasti. "Nonostante le verifiche disposte nei mesi precedenti dall’Ausl- riferisce ancora Bruno- continuano le segnalazioni sulla cattiva qualità e la scarsezza del cibo". Alcuni detenuti, presenti al Consiglio straordinario, sono intervenuti denunciando proprio questo problema: dai prezzi troppo alti dei generi di consumo in carcere alla scarsa qualità del cibo fornito dalla cucina del carcere.

Dal punto di vista sanitario, c’è poi il grosso problema dei tossicodipendenti, che rappresentano un’alta percentuale della popolazione carceraria. In particolare gli stranieri, denuncia ancora la Garante, "spesso restano fuori dai percorsi di cura". Infine, il tema del lavoro, caro a moltissimi carcerati. "Le persone chiedono di lavorare - riporta Bruno - ma il lavoro non c’è dentro la Dozza oppure è sporadico, perché mancano i soldi per pagare i detenuti". Eppure il lavoro è di importanza centrale. "La ricaduta nel reato - afferma Bruno - scende dal 68 al 18% per chi esce dal carcere" con un percorso lavorativo alle spalle.

Altra nota dolente, sottolineata soprattutto dai detenuti stranieri della Dozza, è il rispetto del culto religioso. In molti chiedono infatti uno spazio per realizzare una piccola moschea dentro il carcere. Al momento, nel penitenziario è un costruzione una chiesetta ed è disponibile una cappella, ma entrambe per chi è di fede cattolica. A questo si aggiunge anche la richiesta dei detenuti musulmani di avere più rispetto per le prescrizioni della loro religione anche per quanto riguarda la carne venduta ai carcerati nel magazzino della Dozza, ovvero che almeno una parte sia macellata con rito musulmano.

La seduta del Consiglio straordinario è cominciata intorno alle 10.30 con il saluto di rito del sindaco, Sergio Cofferati. Il primo cittadino, prima di lasciare la seduta, ha incassato un applauso e gli auguri per il neonato Edoardo da parte dei detenuti. Una quarantina, fra uomini e donne, i carcerati presenti all’incontro con assessori e consiglieri di Palazzo D’Accursio, in rappresentanza di ogni settore. Fra loro, anche i detenuti che frequentano i corsi scolastici dentro la Dozza. Ogni anno, riferisce un’insegnante, si iscrivono ai corsi circa 300 persone, ma in generale il flusso di studenti-carcerati si aggira sulle 500 persone. Oltre ai sette corsi di scuola media, vengono organizzati anche corsi di alfabetizzazione per gli stranieri, corsi di inglese e corsi di scuola superiore in collaborazione con il liceo Keynes di Castel Maggiore.

Volterra: educatrice aggredita, la solidarietà dei sindacati

 

Blog di Solidarietà, 29 novembre 2007

 

Siamo venuti a conoscenza di un gravissimo atto di aggressione avvenuto il 23 novembre u.s. cui è stata vittima l’Educatrice della Casa di Reclusione di Volterra nei confronti della quale, durante il normale espletamento del compito istituzionale, un detenuto pare abbia infierito con estrema violenza. Esprimiamo forte solidarietà alla lavoratrice che ci risulta ne avrà per trenta giorni e condanniamo con fermezza l’accaduto che assume, a nostro parere, connotazioni ancora più inquietanti in quanto si è consumato in un contesto istituzionale e lavorativo che pur chiamando tutti i lavoratori a svolgere il loro mandato istituzionale, non garantisce, per la sua peculiarità e complessità, gli standard di sicurezza, che gli interventi professionali richiedono.

In tal senso crediamo che l’ottimizzazione dell’organizzazione passa attraverso l’incremento delle risorse strutturali (organico in primis) necessarie alla sua efficienza e a rendere efficace il suo mandato istituzionale che nello specifico, assunto ormai da tempo, si esplica nell’equilibrio operativo e culturale della dicotomia sicurezza e trattamento.

È evidente, a questo punto - e non possiamo esimerci dal denunciarlo - che l’episodio evidenzia una grave situazione di disagio operativo che risulta stia attraversando l’area pedagogica della Casa di Reclusione di Volterra, dove risulta in servizio solo l’educatrice aggredita. Tale disagio pare essere stato rappresentato ai vertici dell’amministrazione che, forse, sottovalutandone la gravità è degenerato nell’episodio in questione.

Non intendiamo, certo, esprimere considerazioni avventate in merito al fatto che, di per sé, esprime tutta la sua gravità ma, intendiamo, questo si, invitare l’amministrazione, ad alcune riflessioni che la questione induce a fare. Ad esempio: quanto si è investito, negli ultimi dieci anni, in termini di risorse nell’area "cosiddetta" pedagogica degli istituti penitenziari? In tal senso è ben nota - e più volte denunciata da questa O.S.- la grave carenza di organico di educatori, psicologi e di tutte quelle professionalità cosiddette tecniche, esperte del trattamento. Riteniamo necessario riprendere, con determinazione, quel dibattito e quel confronto sull’esecuzione penale, sul trattamento intramurario, sul significato dell’intervento pedagogico nell’istituzione carceraria e delle opportunità trattamentali offerte dall’istituzione con il dettato normativo di riferimento, tematiche che hanno positivamente caratterizzato il settore ma che paiono oggi prevaricate da scelte politico-amministrative poco condivise che evidenziano nel concreto una sorta di regressione culturale e politica dell’intero sistema penitenziario.

È innegabile infatti che dal silenzio assoluto e dall’indisponibilità offerta nelle precedenti gestioni, ancora poco si sia offerto in quella attuale in termini di proposte e potenziamento dell’operatività negli istituti: i concorsi per educatori sono fermi, le aree pedagogiche sono organizzate con numeri insufficienti ma su standard di efficientismo manageriale, le segreterie tecniche non sempre presenti, con sovrapposizione di mansioni, impoverimento di contenuti quando non, come nel caso di Volterra, di vita professionale.

Dove sono i contenuti pedagogici di una professione schiacciata fra l’esigenza di sicurezza, garantita dalla presenza degli operatori di polizia penitenziaria e quella trattamentale, delegata esclusivamente ai più numerosi e accreditati volontari, cooperative, enti territoriali? E che dire dell’idea, sempre più confusa, ambigua e palesemente strumentale, che in questa improvvisazione trattamentale la polizia penitenziaria, superando quanto prescritto dalla norma di riferimento,vada sempre più coinvolta in compiti che rischiano di sostituire o addirittura prevaricare quelli peculiari e specialistici dell’intervento pedagogico cui è demandato la figura professionale dell’Educatore?

Crediamo davvero che la lenta sparizione della professionalità trattamentale penitenziaria non giovi al processo di democratizzazione delle carceri, sempre più messo in discussione dal sensazionalismo scatenato a livello politico e sociale. Crediamo dunque che, se non si interverrà per tempo con espressioni serie e concrete da parte di codesta Amministrazione, anche le carceri italiane registreranno il lento processo involutivo dilagante nella società. Nel ribadire la necessità di un urgente incontro, in attesa di riscontro, inviamo distinti saluti.

 

Fp Cgil Nazionale

Il Coordinatore Lina Lamonica

 

La Consal Unsa esprime solidarietà alla collega Educatrice della Casa di Reclusione di Volterra che nell’espletamento del mandato istituzionale ha riportato gravi lesioni personali a seguito di aggressione da parte di un detenuto.

Questa O.S. denuncia la mancata attenzione verso il personale "civile" penitenziario, al quale è disconosciuta la particolare natura delle funzioni e l’atipicità del lavoro istituzionale svolto, nonostante l’evidente gravosità e rischiosità che caratterizzano l’ambiente detentivo.

 

Confsal-Unsa

 

Un silenzio assordante accompagna la violenza subita dall’Educatore della C.R. di Volterra Maria Bevilacqua. Per chi non lo sapesse (sono in molti, dal momento che la tendenza è quella di coprire le responsabilità che a prima vista sono in capo ad una serie di soggetti) l’Educatore di Volterra è stata violentemente percossa da un detenuto, alla fine di un colloquio. Quest’ultimo aveva con sé una padella, e, dopo averla rotta in testa alla collega, ha continuato l’operazione con i pugni. Risultato: 30 giorni di prognosi diagnosticati al Pronto Soccorso per rottura del setto nasale, possibile distacco della retina e conseguenti disturbi visivi. Fatalità così come nessuno aveva visto il detenuto andare a colloquio con una padella, nessuno ha sentito gli strilli della collega aggredita. Tutto questo avveniva in un carcere.

Sempre per onore di verità il detenuto aveva dichiarato un divieto d’incontro con l’educatrice, e tutti ne erano a conoscenza. Se questo fosse accaduto ad un poliziotto penitenziario, sarebbero già partite le interrogazioni parlamentari, ma si tratta di un Educatore e si dirà che se l’è cercata, perché non ha fatto come molti di abdicare al proprio ruolo, non si è fatta condizionare, ha cercato di avere la sua autonomia, e la risposta è stata quella tipica della peggior galera: è stata massacrata di botte…

Ma Volterra non era un esempio di trattamento avanzato? Un tempo ironicamente si parlava di trattamento, facendo gesti di menar le mani. In questo senso quella Casa di reclusione può essere di esempio agli altri.

I teatri e le cene galeotte dovrebbero servire per far crescere i detenuti, non dovrebbero essere un inutile palcoscenico per chi li organizza. Evidentemente tali attività non hanno cambiato nulla della cultura della galera. Sono quindi inutili

Sappiamo che è in corso un’ispezione, che il detenuto è stato incriminato per tentato omicidio… ma questo non può essere di consolazione ad una collega massacrata, né a tutti quelli che lavorano onestamente. Sono mesi che richiediamo per il lavoro in carcere il riconoscimento di lavoro usurante, questa non ne è una dimostrazione, o dobbiamo aspettare che qualcuno muoia per riconoscerlo?

Non solo, c’è un bel parlare di Polizia Penitenziaria negli Uepe… Ma se non sono in grado di proteggere un operatore nell’ambito della struttura ristretta, dove le regole sono tassative e definite… Non dimentichiamo che nessuno si è accorto che il detenuto aveva con sé una padella - oggetto peraltro difficile da occultare - né che la Bevilacqua strillava… Perché non insegniamo alla Polizia Penitenziaria a fare il proprio mestiere prima di permettere invasioni di campo , peraltro non del tutto né legittime, né corrette.

Questa organizzazione Sindacale dichiara lo stato di agitazione degli Educatori e indice una settimana di protesta, a partire dal 3 dicembre, astenendosi dai colloqui con i detenuti.

Ci aspettiamo quanto prima un segnale concreto di riconoscimento per questo lavoro da parte dell’Amministrazione

 

Il Coordinamento Rdb Penitenziari

Milano: polizia penitenziaria per l'anti-bullismo nelle piscine

 

www.corriere.it, 29 novembre 2007

 

Dal 1° dicembre gli agenti di polizia penitenziaria potranno entrare gratis nelle piscine e in tutti gli impianti gestiti da Milanosport.

Angeli custodi in costume da bagno o in calzoncini corti per combattere il bullismo. Dal primo dicembre gli agenti di polizia penitenziaria potranno entrare gratis nelle piscine e in tutti gli impianti gestiti da Milanosport.

Avranno la possibilità di fare sport senza spendere un centesimo, in cambio del fatto che continueranno semplicemente ad essere se stessi: agenti con l’occhio vigile anche nel tempo libero.

La loro presenza sarà un aiuto per la sicurezza - spiega il presidente di Milanosport Cesare Cadeo - ma l’iniziativa è anche un segno di attenzione verso persone che svolgono un lavoro molto difficile per stipendi minimi". Dopo aver registrato nei mesi scorsi alcuni episodi allarmanti negli impianti cittadini (in particolare al Lido e all’Argelati), il presidente di Milanosport ha pensato di correre ai ripari e di rispolverare un progetto già sperimentato in passato all’Idroscalo con ottimi risultati.

Allora erano stati coinvolti carabinieri, poliziotti e finanzieri, stavolta la collaborazione avverrà invece con gli agenti di polizia penitenziaria di San Vittore, Opera, Bollate e del Beccaria, grazie a una convenzione che verrà firmata con il provveditore regionale delle carceri per la Lombardia, Luigi Pagano, e che garantirà agevolazioni sugli ingressi nei 31 impianti gestiti da Milanosport anche alle famiglie degli agenti (circa 2000 in tutto).

"Il lavoro che svolgono gli agenti polizia penitenziaria è difficilissimo - conferma Pagano - ed è importante che il personale trovi valvole di sfogo al di fuori del carcere. Per gli agenti questa è un’ottima occasione di confronto con l’esterno, ma il fatto che siano presenti nelle strutture sportive, sia pure in borghese, rappresenta certamente anche un modo di prevenire e contrastare certi fenomeni. La logica è quella degli angeli custodi". Il presidente Cesare Cadeo nei prossimi giorni porterà il provvedimento al Cda di Milanosport, ma al di là dei passaggi formali e burocratici la strada è spianata.

"La presenza a rotazione degli agenti di polizia penitenziaria nelle piscine, nelle palestre e sulle piste di atletica per noi sarà un aiuto molto valido - sottolinea Cadeo - Nel corso dell’esperienza all’Idroscalo, per esempio, ci erano arrivate molte segnalazioni importanti, utili per mettere in atto azioni di prevenzione".

Ma per Cadeo sicurezza non vuol dire solo presenza di agenti in borghese. "Abbiamo ristrutturato già sei piscine su undici - ricorda il presidente - e ciò va nella direzione di garantire impianti più sicuri sotto tutti i punti di vista. La strada indicata dal sindaco Moratti è proprio questa". E non è la prima volta che Cadeo e Pagano stringono un patto di collaborazione. In passato il presidente di Milanosport aveva promosso nel carcere di San Vittore l’organizzazione di alcune polisportive. Stavolta l’obiettivo è soprattutto la lotta al bullismo.

Immigrazione: parole Papa aprano strada a rispetto diritti

 

Asca, 29 novembre 2007

 

"Finalmente parole coraggiose sul tema dell’immigrazione e dei Centri di Permanenza Temporanea. Nel contesto attuale, dove informazione e comunicazione politica sono in preda a un conformismo inquietante, che associa crimini a intere popolazioni migranti e che legittima atti che violano lo stato di diritto, le parole di Benedetto XVI confortano e mi spingono ad affermare con ancora più forza che i Cpt sono strutture che negano la dignità umana, sono scempi che una società civile non può accettare". Lo dichiara, in una nota, Peppe Mariani, consigliere dei Verdi alla Regione Lazio. "Già Amnesty International, attraverso i suoi rapporti, aveva denunciato l’Italia per l’uso spregiudicato di queste vere e proprie strutture detentive, in violazione dello stesso diritto internazionale in tema di asilo - continua Mariani - Ma gli atti di denuncia indirizzati contro questi carceri a statuto speciale e permanente, sono cadute nel silenzio. Spero che le parole del Papa abbiano la forza per aprire una strada ancora mai percorsa dal mondo politico che riaffermi i diritti e dignità umana per i migranti".

Droghe: Consiglio dei Ministri approva un "Piano d’azione"

 

Notiziario Aduc, 29 novembre 2007

 

Un piano valido un anno, per recuperare il tempo perduto e intanto preparare quello a più lungo respiro, che avrà durata triennale come vuole l’Europa: è il Piano italiano di azione sulle droghe, che il ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero ha scritto in collaborazione con alcuni colleghi di governo, e che l’Ue ci ha chiesto da tempo visto che l’Italia, insieme a Malta, è l’unico Paese europeo a non esserne dotato.

Quello di oggi è il penultimo step del Piano d’azione, che dopo l’ok del Consiglio dei ministri dovrà ora affrontare il vaglio della Conferenza Stato-Regioni ed enti locali. Il documento prevede per la prima volta una valutazione del raggiungimento degli obiettivi e un forte coordinamento tra tutti i soggetti impegnati nell’intervento sulle droghe. Sempre per la prima volta, sarà fatta una mappatura delle risorse e del sistema dei servizi per le dipendenze; saranno anche definiti i criteri per trasformare i servizi a fronte delle nuove forme di consumo, includendo oltre a sostanze stupefacenti come la cocaina e le droghe sintetiche anche il doping e il gioco d’azzardo patologico.

Cinque gli assi sui quali è incardinato il piano, che copre tutto il 2008: coordinamento nazionale e interregionale; riduzione della domanda; riduzione dell’offerta; cooperazione internazionale; informazione, ricerca, valutazione.

Coordinamento - Prevista la creazione di un coordinamento permanente tra le amministrazioni centrali, regionali e locali competenti e la ricostituzione del Coordinamento tecnico tra le Regioni in materia di droga. Una delle grosse novità è la valutazione del raggiungimento degli obiettivi indicati nel Piano, che sarà attuata mediante la stesura di un report indicante le criticità e i suggerimenti per il Piano triennale.

Riduzione domanda - Si prevede la creazione di Piani d’azione regionali di durata pluriennale. Nei locali di divertimento, i servizi per le dipendenze faranno interventi di prevenzione selettiva rivolti ai consumatori. Sarà istituito l’Osservatorio sul disagio giovanile legato alle dipendenze. Si farà una mappatura del sistema dei servizi, che servirà a definire i criteri per riformarli, anche a fronte di nuove forme di consumo come la cocaina, le droghe sintetiche, le sostanze dopanti e il gioco d’azzardo. Poi ancora definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza per le dipendenze patologiche, produzione di linee guida sulla riduzione del danno e individuazione delle tipologie di intervento che possono, da sperimentali, diventare stabili, oltre al coinvolgimento dei medici di base nel trattamento delle persone dipendenti, in collaborazione con i Sert.

Bollini contro gioco patologico e doping - Previsti accordi con le associazioni dei gestori di slot machine, per sensibilizzarli alle problematiche del gioco patologico e farli aderire a un codice di auto-regolamentazione: i locali che si adegueranno avranno una sorta di bollino di qualità, una certificazione di "locale libero da gioco patologico". Stesso percorso per le palestre: accordi con le associazioni di categoria per sensibilizzare i gestori alle problematiche del doping e rilascio finale della certificazione di "palestra sicura".

Riduzione offerta - Obiettivo principale è migliorare gli interventi repressivi di contrasto alla produzione e al traffico, concentrandosi sulla criminalità organizzata.

Previsti accordi di cooperazione transnazionali. Tra le curiosità, la modifica della legge attuale sulla droga (309/90) per consentire la coltivazione della canapa sativa (la pianta da cui si ricava la fibra, non quella da cui si ottiene l’hashish) ‘a fini leciti’. Da segnalare anche la lotta al traffico di droghe via Internet, anche attraverso una mirata revisione normativa (come già avvenuto per la pedopornografia).

Cooperazione internazionale - Prevista l’assistenza finalizzata alla creazione di attività economiche alternative alle coltivazioni illegali (ad esempio l’aiuto ai contadini afghani per trasformare le colture di oppio).

Informazione - Previsto l’avvio del nuovo Sistema Informativo Nazionale Dipendenze (Sind), un nuovo modello di raccolta dati sui consumi. Il piano vuole anche attivare in via sperimentale il Sistema di Allerta Rapido (Early Warning System) nazionale, in linea con quanto previsto in ambito europeo: si tratta, in sostanza, di raccogliere, validare e diffondere le informazioni, fornite dagli operatori delle dipendenze, sulle nuove sostanze che compaiono sul mercato o su sostanze tagliate in modo da essere pericolose, sulle nuove tendenze e i nuovi fenomeni. Per quanto riguarda le sostanze dopanti, infine, si prevede un’azione di informazione da attuare per telefono e attraverso i mass media: in pratica, una sorta di numero verde sul doping. "Entro fine anno si avvierà finalmente la discussione in seno al Governo per superare la legge Fini-Giovanardi sulla droga". A darne l’annuncio è stato lo stesso Ferrero.

"Per la prima volta in Italia abbiamo uno strumento utile per definire una politica organizzativa sulla droga, che coinvolge tutti i ministeri e permette anche alle Regioni di rispondere delle politiche di intervento sulle dipendenze". Francesco Piobbichi (Rifondazione comunista), responsabile delle politiche sociali del suo partito, saluta positivamente il piano nazionale di azione sulle droghe, varato oggi dal Consiglio dei ministri. "Consente di avviare una strategia coerente e di riprogrammare le politiche in maniera più efficace - prosegue Piobbichi -, eravamo l’unico Paese che non si era dotato di piano antidroghe, eredità della legislazione di centrodestra".

Sicuramente, prosegue l’esponente di Rifondazione, "nel piano ci sono linee guida che possono prefigurare un ampliamento delle politiche di prevenzione, ma bisogna anche fare un secondo passaggio, intervenendo sulla legge Fini- Giovanardi, per fare in modo che la sperimentazione sul trattamento terapeutico dell’eroina, che già c’è in molte parti d’Europa, possa essere sperimentata anche da noi". Secondo l’esponente "occorre ridurre la possibilità che si faccia ‘vita da tossicodipendenti’ fuori dai servizi. Anche le ‘stanze del bucò andrebbero sperimentate, perché abbiamo un trend in crescita di overdose". Rispetto al piano, Piobbichi apprezza, in particolare, l’attivazione in via sperimentale dell’Early Warning System, il sistema di allerta rapido: "Le sostanze possono essere in qualche modo individuate dai servizi e pubblicizzate rispetto alla loro composizione. Oggi, per esempio, non possiamo più parlare di cocaina ma di cocaine".

La legge Fini-Giovanardi, secondo Piobbichi, "non è servita a scoraggiare i consumi, aumenta, infatti di molto la cocaina, anche per il fatto che sono state messe nella stessa tabella droghe pesanti e leggere. Così i giovani le assumono, tanto, dicono, "tutte le droghe sono uguali’". Occorre quindi intervenire perché la legge attuale rimane, secondo Piobbichi, "il punto debole" rispetto al piano. "La situazione di stallo sulla legge è grave - conclude - e la responsabilità di questo è anche di Prodi, c’era un programma, ma non c’è la voglia di capire come bisogna andare avanti".

"Il ministro Ferrero ha forse seguito le indicazioni di qualche suo conoscente abile nella coltivazione della canapa? Fa bella mostra di un piano d’azione contro le tossicodipendenze mal celandosi come salvatore dell’Italia, mentre le sue intenzioni vanno nella direzione opposta". È il giudizio di Maurizio Gasparri, deputato di Alleanza nazionale sul piano nazionale contro le droghe varato oggi dal Consiglio dei ministri. "Prova ne è - continua Gasparri - la modifica della legge 309/90 che dietro il via libera alla coltivazione della canapa sativa nasconde l’intenzione di estendere la coltura anche alla canapa dalla quale si ottiene l’hashish. Quanto al piano- incalza- Ferrero mente spudoratamente perché il governo di centrodestra aveva approvato, proprio in Consiglio dei ministri, un piano d’azione, che ha però trovato l’ostruzionismo delle Regioni rosse che ne hanno impedito l’approvazione. Lo stesso iter che dovrà superare il piano appena presentato".

È poi ovvio, secondo il parlamentare di via della Scrofa, "che senza una discussione politica seria sulle tossicodipendenze il piano da solo non basta. E Ferrero sa bene che la maggioranza è troppo spaccata per offrirgli una stampella appoggiando una legge sulla droga lasciva, che abolisce le tabelle per il consumo personale e facilita lo spaccio. Intanto - conclude - assistiamo solo all’ennesimo bluff".

Droghe: Ferrero; la Fini-Giovanardi è una legge "barbara"

 

Notiziario Aduc, 29 novembre 2007

 

"Una legge barbara": così il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, definisce in una nota la Fini-Giovanardi sulle droghe, annunciando che domani "sarà esaminato dal Consiglio dei Ministri il Piano di azione sulle droghe, dopo che il governo precedente non aveva fatto nulla in tal senso".

Secondo il ministro, però, è necessaria, anzi "l’elemento su cui si deve intervenire ora", soprattutto una nuova legge sulle droghe. "Domani al Consiglio dei Ministri segnalerò a Prodi la necessità di una rapida discussione in tal senso da parte del governo".

Questa mattina a Milano è stata presentata la quarta conferenza latina sulla riduzione del danno (Clat4), che si terrà da domani a sabato con la partnership della Provincia e soprattutto del Ministero della Solidarietà sociale.

"L’organizzazione della conferenza, che si concluderà il primo dicembre in occasione della giornata mondiale contro l’Aids rappresenta una novità significativa per il nostro Paese. È infatti la prima volta che si svolge in Italia, in un contesto dominato spesso da un dibattito ideologico su questi temi e che ha visto il varo di una legge barbara come la Fini-Giovanardi". "In questo caso al centro del confronto ci sono invece la riduzione del danno e l’idea che una seria politica in questa materia non possa che basarsi sulle evidenze scientifiche".

Brasile: nelle carceri affollamento e torture sistematiche

di Juan Gasparini (Infosud) e Frédéric Burnard

 

Swissinfo, 29 novembre 2007

 

Il Comitato contro la tortura lo ha appena ricordato: la tortura è praticata in maniera sistematica nelle prigioni brasiliane. Una realtà documentata in un rapporto dell’organismo dell’Onu, che il Brasile tenta di occultare. La Svizzera, che cerca di intensificare le sue relazioni economiche con il Brasile, fatica ad esprimersi sul tema, nonostante gli appelli di Amnesty International. "Sovraffollamento cronico, condizioni di reclusione spaventose, calore soffocante, mancanza di luce, violenza e isolamento permanente": è questa la situazione nelle carceri brasiliane secondo un rapporto del Comitato dell’ONU contro la tortura.

"La tortura e i maltrattamenti sono generalizzati e sistematici", afferma ancora il documento, redatto da due dei dieci esperti del comitato, lo spagnolo Fernando Mariño Menéndez e il cileno Claudio Grossman. I due esperti hanno visitato le prigioni e i commissariati dei cinque stati del Brasile tra il 13 e il 29 luglio del 2005. La visita era stata chiesta a gran voce da varie ONG già nel 2002. Secondo Manon Schick, portavoce della sezione svizzera di Amnesty International, la situazione descritta dal rapporto rimane di stretta attualità. Nulla è cambiato nelle carceri del Brasile.

Il governo brasiliano ha a lungo evitato di rispondere alle accuse, cercando di far passare sotto silenzio le conclusioni della missione d’inchiesta del comitato ONU. Solo la settimana scorsa, nel corso di una sessione del Comitato contro la tortura di Ginevra, Brasilia ha preso posizione. Ebbene: la risposta (contenuta in un documento confidenziale di cui l’agenzia Infosud ha ricevuto una copia) non contesta affatto le accuse sollevate dal comitato ONU e approva il rapporto. Questo non fa che aumentare la sorpresa degli esperti ONU sulla lentezza del Brasile nell’affrontare la riforma del suo sistema carcerario. Una lentezza denunciata anche da Amnesty International. Da oltre 20 anni il paese è uscito dalla dittatura, durata dal 1965 al 1985. Il Brasile dispone di una costituzione democratica dal 1988 e ha ratificato la Convenzione contro la tortura il 28 settembre 1989.

Gli esperti dell’ONU, pur sottolineando il carattere sistematico della tortura nelle prigioni brasiliane, ammettono tuttavia che ciò non è necessariamente dovuto alla "volontà diretta del governo". A loro avviso altri fattori possono entrare in linea di conto, come l’assenza di coordinazione delle politiche fra i vari livelli dello Stato e alcune lacune della legislazione. Tuttavia gli esperti sottolineano che nulla giustifica ciò che hanno visto in Brasile. E ricordano come la tortura abbia anche effetti discriminatori, colpendo spesso i detenuti che appartengono alla popolazione d’origine africana. Inoltre stigmatizzano l’impunità di cui godono gli autori delle sevizie.

Sulla questione la Svizzera, che pure ha posto i diritti dell’uomo al centro della sua politica estera e che sta cercando di rafforzare le sue relazioni economiche con l’America del Sud, non ha fatto sentire la sua voce.

Doris Leuthard, ministra svizzera dell’economia, si è recata in visita in Brasile nel febbraio di quest’anno, accompagnata da una delegazione di imprenditori svizzeri. Sui diritti dell’uomo non ha speso una parola, nonostante gli appelli di Amnesty International. "Abbiamo inviato alla ministra un dossier sulle principali violazioni dei diritti dell’uomo, domandandole di evocare il tema durante i suoi colloqui con le autorità brasiliane. I suoi servizi ci hanno risposto che trattandosi di una visita economica e non di Stato, queste questioni non potevano essere discusse", precisa Manon Schick.

Stando al portavoce Lars Knuchel, la questione non è ignota neppure al ministero svizzero degli affari esteri. Il ministero preferisce però affrontarlo all’interno degli organismi dell’ONU direttamente interessati, come il Consiglio dei diritti dell’uomo. Intanto il parlamento si appresta a ratificare un trattato di cooperazione giudiziaria con il Brasile. E questo nonostante le forze di polizia brasiliane siano ben lungi dall’offrire garanzie sufficienti sul rispetto dei diritti umani.

 

 

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