Rassegna stampa 19 marzo

 

Giustizia: del carcere non si può mai gioire

di Sergio Segio (Società INFormazione)

 

Aprile on-line, 19 marzo 2007

 

Da diverso tempo si è diffuso un clima di "vendetta infinita" non solo verso chi, condannato, si è sottratto alla detenzione, ma anche verso coloro che hanno scontato la pena e tentano di reinserirsi nella società. La recente vicenda dell’ex membro dei Proletari armati per il comunismo, catturato in Brasile, lo conferma.

La vicenda di Cesare Battisti, culminata ora nell’arresto in Brasile, è delicata, perché chiama in causa direttamente ferite aperte, lacerazioni e lutti: un passato che non riesce a passare. Un grumo doloroso nel quale è sempre più difficile separare le singole parti e che sempre meno si riesce a sgravare da un alto tasso di strumentalità politica.

In passato, ho sempre dato un giudizio negativo circa le posizioni e i pronunciamenti di Cesare Battisti, privi di assunzione di responsabilità circa il passato e le drammatiche vicende della lotta armata.

È il motivo per cui, tre anni fa, non ho firmato l’appello a suo sostegno, che raccolse 22.000 adesioni. In quei giorni avevo invece sottoscritto l’appello per Nathalie Menigon, da tempo in carcere e gravemente malata, così come gli altri militanti di Action Directe detenuti in Francia. Una solidarietà, la mia, dovuta a ragioni umanitarie e non certo di simpatia politica. Mi pare indicativo che l’appello per Menigon avesse invece raccolto appena 1000 adesioni.

Ora che Battisti è catturato, sono però solidale con lui, come lo fui con Menigon, come lo sono nei confronti di chiunque sia in carcere, per ragioni politiche o comuni, innocente o colpevole che sia.

Per esperienza personale e per profonda convinzione, infatti, penso che il carcere non sia la medicina, ma più spesso la malattia: non risarcisce in realtà nessuno, non lenisce offese e dolore, ma si limita ad amministrare altra sofferenza, nell’illusione, o nell’ipocrisia, che ciò pareggi i piatti della bilancia. Lo ha detto bene, e bisogna immaginare con quale fatica, Olga D’Antona nel processo contro gli uccisori di suo marito: "mi ha colpito vedere quei ragazzi chiusi nelle gabbie come animali. Sapere che faranno l’ergastolo non mi fa mica esultare. Queste sentenze fanno giustizia ma non danno sollievo e non restituiscono nulla a chi ha subito".

Un conto, infatti, è la giustizia; un altro quel clima di "vendetta infinita" che trapela da molti dei commenti e, più in generale, da molte vicende che negli ultimi tempi hanno visto crescere l’ostracismo ma già solo verso chi, condannato, si è sottratto alla detenzione, ma verso chiunque, anche avendo scontato per intero la condanna, tenti faticosamente di reinserirsi nella società e nel lavoro.

Il caso recente di Susanna Ronconi, costretta a dimettersi dalla Consulta sulle tossicodipendenze o le ricorrenti polemiche verso il lavoro editoriale di Renato Curcio, sono indicative di questo clima, spesso provocato e cavalcato ad arte da esponenti della destra, che - incuranti della parabola evangelica che invita a non guardare solo il fuscello nell’occhio dell’altro, ma anche la trave nel proprio - hanno diffuso vere e proprie liste di proscrizione, pubblicate da giornali che si stanno specializzando nello "stanare" gli ex detenuti per i fatti della lotta armata, sino comprometterne la stessa possibilità di lavorare.

Non esito a dirlo: è un clima d’odio, che non fa bene a nessuno e che rilascia tossine che avveleneranno a lungo la società.

La violenza della lotta armata di quegli anni, circa i quali anch’io ho pesanti responsabilità, era ingiustificabile. Ha prodotto dolore e sofferenza, anziché maggiore giustizia sociale e liberazione, com’era nei nostri intenti. Ma, almeno, era una violenza "a caldo", un tragico abbaglio rivoluzionario dentro un contesto altamente conflittuale e violento, qual è stata l’Italia delle stragi fasciste e dei tentativi autoritari degli anni Settanta e qual è stata, in generale, la cultura e i miti del Novecento.

La vendetta infinita è invece una violenza a freddo, negatrice non già della memoria e della verità, che vanno salvaguardate e promosse, ma della riconciliazione e del superamento.

Altro, evidentemente, è il discorso relativamente a chi ha sofferto direttamente a causa di quegli eventi, i cui sentimenti e le cui posizioni vanno sempre e comunque accolte in silenzio e con rispetto. Occorre un cordoglio per le vittime che sia profondo e sincero e, così pure, evitare che sia reticente o a macchie di leopardo. La cornice in cui questo possa davvero avvenire deve però essere sottratta alla cronaca e alle contingenze, oltre che alla strumentalità politica. L’arresto di Battisti, allora, potrebbe diventare occasione per una riflessione seria e matura. Mi paiono irrealistiche le proposte di amnistia, che capisco possano offendere qualcuno. E, del resto, sono tardive: 50.000 anni di carcere sono già stati scontati, una misura senza precedenti storici, mentre sono rimaste impunite le stragi.

Il mio auspicio è semmai che si possa arrivare a una forma di indulto condizionato per coloro che sono fuggiti all’estero o sono ancora detenuti in Italia per i reati degli anni Settanta e Ottanta. Condizionato, così com’è stata la legge sulla dissociazione del 1987, a una presa di posizione chiara ed esplicita contro la violenza politica. In un percorso che veda operare una "Commissione per la verità e la riconciliazione".

Mi sembrerebbe il modo per evitare ambiguità, unilateralismi e reticenze sul passato e, allo stesso tempo, per evitare di accanirsi a trent’anni di distanza. Come invitò a fare, tre anni fa, Edwy Plenel, direttore della redazione di Le Monde: "Sorprende l’accanimento contro questo mondo di vinti [sorprende ] il rifiuto di voltare pagina. Non, certo, senza averla letta ad alta voce e con lucidità, senza tacere o dimenticare alcunché...".

E di nuovo colpisce che questa sensibilità e acutezza sia più facilmente venuta talvolta da chi dalle armi è stato colpito. Come Indro Montanelli, che scrisse: "Le loro colpe i terroristi le hanno pagate non tanto coi lunghi anni di permanenza dietro le sbarre, quanto con la presa di coscienza non solo della inutilità, ma anche della fallacia di tutto questo". Capisco benissimo che questa considerazione non può recare conforto ai famigliari delle vittime. Ma neppure il carcere può lenire o risarcire quel dolore.

Occorre provare a prendere atto che quegli anni sono stati una tragedia da entrambi i lati. Occorre provare ad andare oltre, nel rispetto di torti e ragioni. Occorre provare a recuperare una cultura diffusa che rinunci a fare del carcere e dell’ergastolo un valore di cui gioire.

Giustizia: arrestato in Brasile l’ex brigatista Cesare Battisti

 

Sesto Potere, 19 marzo 2007

 

Il Ministro dell’Interno, Giuliano Amato, nel trasmettere alla Polizia di Stato i meritati rallegramenti loro rivolti dal Presidente del Consiglio, ha unito il proprio personale apprezzamento e la propria grande soddisfazione per la brillante operazione che ha condotto alla cattura di Cesare Battisti. "Si conferma - ha detto il Ministro - l’efficacia delle nostre Forze di polizia verso il terrorismo vecchio e nuovo".

Catturato in Brasile, il 52enne Cesare Battisti, ex leader dei "Proletari armati per il comunismo", fu arrestato per banda armata nel 1979. Detenuto nel carcere di Frosinone, il 4 ottobre 1981 riuscì a evadere e a fuggire in Francia. Latitante da allora, Battisti é stato condannato in contumacia all’ergastolo perché ritenuto responsabile di quattro omicidi e varie rapine. Venne infatti giudicato colpevole di aver sparato al maresciallo Antonio Santoro (Udine, 6 giugno 1978), e all’agente della Digos Andrea Campagna (Milano, 19 aprile 1979); Battisti è stato anche condannato per aver partecipato all’assassinio del macellaio di Mestre Lino Sabbadin (Santa Maria di Sala, Venezia, 16 febbraio 1979) e alla pianificazione dell’omicidio del gioielliere Pieluigi Torregiani (Milano, 16 febbraio 1979).

Giustizia: morte di Carlo Giuliani alla Corte dei Diritti dell'Uomo

 

Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2007

 

Toccherà alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo accertare se la morte di Carlo Giuliani, durante gli scontri del G8 di Genova del 2001, è imputabile allo Stato italiano. Strasburgo ha, infatti, dichiarato ricevibile il ricorso dei genitori e della sorella della vittima (ricorso n. 23458/2002), dopo l’archiviazione disposta dal Gip, che aveva accolto la richiesta del Pm.

Per la Corte europea, il caso presenta importanti questioni di fatto e di diritto che richiedono un accertamento nel merito e quindi il ricorso deve essere dichiarato ricevibile. A questo punto i giudici dovranno verificare se c’è stata una violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela il diritto alla vita, dell’articolo 3, vieta tortura e trattamenti disumani e degradanti, dell’articolo 6, sull’equo processo, e dell’articolo 13 sulla tutela giurisdizionale effettiva.

Respinte le eccezioni presentate dal Governo italiano rispetto a quanto sostenuto dai ricorrenti, per i quali vi sarebbe stata una violazione del diritto alla vita per l’uso eccessivo della forza da parte delle autorità pubbliche, per la reazione sproporzionata rispetto al pericolo, che non rendeva necessario l’utilizzò di armi da fuoco, perché non erano state predisposte sufficienti misure di sicurezza e perché i soccorsi non erano stati tempestivi e adeguati. Il fatto che la jeep dei carabinieri fosse poi passata sul corpo di Carlo Giuliani implicava un trattamento disumano, vietato dall’articolo 3 della Convenzione.

Il Governo ha eccepito il mancato esaurimento dei ricorsi interni, sostenendo che prima di incamminarsi verso Strasburgo i ricorrenti avrebbero dovuto tentare un’azione civile. In sostanza, malgrado l’archiviazione del procedimento penale, ai parenti restava la possibilità di arrivare, seppure in via indiretta, all’individuazione del colpevole.

La Corte non ha condiviso questa posizione, anche perché le autorità nazionali non hanno fornito alcuna prova sull’efficacia dell’azione civile per l’accertamento della colpevolezza. L’azione per il risarcimento dei danni materiali e morali ha - precisato la Corte - non può essere considerata uno strumento sufficiente quando c’è il sospetto che la morte di un individuo sia stata causata dalle forze di sicurezza. Questo perché è necessario che il procedimento interno conduca all’individuazione dei colpevoli.

Il Governo ha poi sostenuto che le indagini interne erano state compiute in linea con le disposizioni della Convenzione. È vero - ha detto il Governo - che anche i Carabinieri, malgrado sotto inchiesta fossero proprio due componenti dell’Arma, avevano partecipato all’attività istruttoria, ma in realtà si erano limitati a svolgere atti di secondaria importanza, perché le indagini erano state affidate alla Polizia.

In ogni caso, poi, il Pm aveva svolto diversi accertamenti personalmente. Una ricostruzione contestata dai ricorrenti che hanno criticato le modalità con le quali sono state svolte le indagini, affidate alla Squadra mobile di Genova, investita delle funzioni di controllo dell’ordine pubblico durante il G8. Una situazione che - secondo i ricorrenti - ha inciso sull’obbligo d’imparzialità nello svolgimento delle indagini.

L’inchiesta, a differenza di quanto imposto dall’articolo 2 e dalla giurisprudenza della Corte europea, non ha garantito l’effettività perché ha trascurato di considerare se le operazioni della forza pubblica fossero state pianificate in modo adeguato. Di fronte alle contestazioni dei ricorrenti, rispetto allo svolgimento delle indagini, la Corte europea ha respinto le richieste di irricevibilità del Governo e ha rinviato l’esame alla sentenza di merito, proprio per l’importanza delle questioni in gioco.

Giustizia: Mastella; la mia legge fermerà gli scoop vergognosi

 

Il Messaggero, 19 marzo 2007

 

Clemente Mastella li indossa volentieri i panni della Cassandra: "Avevo fretta per il mio provvedimento, è vero. Perché sapevo che prima o poi sarebbe successa una cosa del genere". La vicenda Sircana, intende il Guardasigilli.

E assesta il colpo doppio: approvazione in tempi rapidi del suo ddl che regolamenta l’uso delle intercettazioni legali e illegali e, soprattutto, nuovi poteri al Garante della Privacy, per far rispettare i suoi regolamenti.

 

In effetti l’Autority ne aveva pochini, di poteri; anzi quasi nessuno.

"Lo so, ma i poteri richiedono anche norme diverse. Adesso io credo che i nuovi poteri del l’Autority possano essere tranquillamente inseriti all’interno del mio provvedimento".

 

Ci vorrà una "megacorsia" preferenziale, allora.

"Non è un discorso di corsia preferenziale: è che si è perso tempo. Io immaginavo che potessero succedere cose di questo genere; e adesso se il Parlamento approva velocemente il provvedimento, tutte queste informazioni vergognose che abbiamo visto sui giornali in questi giorni, che rovinano la vita delle persone, ledono la loro dignità o infangano la loro rispettabilità, non verranno più pubblicate".

 

Amato dice che doveva finirci in mezzo un politico per sbloccare l’impasse.

"Non condivido il ministro Amato. Certo, i politici sono più esposti, questo è il dramma".

 

E il provvedimento difende la politica.

"Quando la politica non ha più la mitezza di un tempo, accade che si può vincere o perdere anche per colpa di queste cose, perché l’elemento morale o immorale può avere una sua consequenzialità, soprattutto sotto campagna elettorale, Io ho fatto questo provvedimento immaginando un obbiettivo: voglio una democrazia che sia filtrata e depurata da queste vicende, in cui possono avere un ruolo i servizi deviati, i magistrati, gli avvocati".

 

Eppure qualcuno lo ha detto che è un provvedimento pensato per vip e politici.

"Parliamo dal punto di vista che questa non è la difesa dei politici o dei vip, questo è un atto di estrema garanzia per la libertà. Perché se garantisco la libertà delle persone, poi vengono tutelate tutte le altre libertà, la libertà investigativa, la libertà associativa, la libertà di stampa. Ma se si fa violenza alla libertà, si fa violenza alla persona. Se la politica vuole salvare la democrazia, deve fare alti di questo genere".

 

La sua legge sembra voler mettere la sordina alle intercettazioni e ai giornali che le pubblicano.

"Nessuna museruola per nessuno; però francamente, che in quattro anni si siano spesi un miliardo e trecento milioni di euro di intercettazioni in tutta Italia, cioè quasi quanto una manovra finanziaria, mi sembra eccessivo".

 

Qualcun altro si domanda se i magistrati di Potenza non abbiano inchieste più importanti da seguire di quelle sulle frequentazioni sessuali di attrici e modelle.

"Non mi interessa andare a fare la pulci al magistrato, ho mandato gli ispettori. Ma anche loro, che accertamenti potranno fare? E poi io non posso entrare nel merito delle priorità che si danno i magistrati. Se le decidono da soli, nella loro autonomia.".

 

Sembra che abbiano intercettato per un mese il direttore di un telegiornale, che non era indagato né parte lesa. Le risulta?

"Non lo so, immagino che lo leggerò sui giornali"

Giustizia: il Garante; ho vietato, ma con la morte nel cuore

 

Corriere della Sera, 19 marzo 2007

 

Il Garante ha adottato questo provvedimento con la morte nel cuore, dopo aver registrato che l’ultima decisione di dieci mesi fa (varata in occasione dell’inchiesta Vallettopoli uno, ndr) non era sufficiente. La decisione assunta, di vietare il trattamento dei dati personali, è volutamente circoscritta all’inchiesta di Potenza perché siano i primi a valutare la pesantezza sistemica di questo intervento, ma si tratta pur sempre di regole del codice deontologico dei giornalisti che la stampa dovrebbe rispettare a prescindere dal nostro intervento".

Detto questo, il garante per la tutela dei dati personali, Francesco Pizzetti, indossa di nuovo gli abiti di professore di diritto costituzionale e ammette che il codice penale fa a cazzotti con la libertà di stampa. Se davvero rischia la reclusione da 3 mesi a 2 anni chi insiste sul gossip e sulle abitudini sessuali dei Vip e dei politici finiti nel tritacarne dell’inchiesta lucana, questa deve essere l’ultima volta: "La sanzione penale non è per nulla la via preferibile. La dovremmo abbandonare perché non suona bene che una democrazia tuteli la libertà di informazione con il codice penale. Quindi, c’è assoluta urgenza di un intervento legislativo".

 

Si sente sfidato, professore, degli spazi bianchi sulle prime pagine del Giornale e di Libero con la didascalia "le foto di Sircana ce le abbiamo ma è vietato pubblicarle"?

"Non la ritengo una sfida. È un messaggio non verbale molto forte che va tenuto nella massima considerazione. Sono contento, poi, che questa vicenda abbia acceso un dibattito serio anche con l’Ordine dei giornalisti perché constato che l’equilibrio fin qui individuato, tra privacy e diritto all’informazione, funziona in modo non soddisfacente".

 

Cosa risponde a chi sostiene che vi siete mossi solo perché c’era di mezzo Silvio Sircana, il braccio destro di Prodi?

"Tecnicamente avremmo potuto fare, come è successo altre volte, un provvedimento ad personam. Casomai, l’arditezza del provvedimento sta nel fatto di non voler essere una decisione legata ad una persona specifica o a un numero ristretto di soggetti: infatti, tutte le persone coinvolte nell’inchiesta andavano tutelate".

 

Vi siete consultati con il governo prima di decidere?

"Non abbiamo informato nessuno, è stata una scelta che abbiamo fatto noi. Volutamente non c’è stato alcun contatto, meno che mai da parte mia, con nessun soggetto politico. Escludo con serenissima tranquillità che qualcuno possa mai dire il contrario. Questa autorità non è occhiuta e censoria, gli italiani possono fidarsi di noi come arbitro".

 

Ora, però, certe foto e certe notizie non possono essere pubblicate.

"Sì. Però relativamente alla vicenda di Potenza e rigorosamente nel reticolo delle norme richiamate: cioè, tenendo conto dei principi di essenzialità, di rispetto della dignità e di tutela dei dati sessuali. Tutto insieme: per cui anche la maggiore protezione della sfera della sessualità è legata all’essenzialità dell’informazione. Se c’è una notizia ritenuta essenziale non c’è divieto, e questo vale sempre. È un gioco di equilibri. Ma anche nei confronti del personaggio pubblico il voyeurismo non è un valore dell’informazione".

 

È d’accordo che per i politici l’aspettativa di tutela della privacy debba essere più bassa? Il suo predecessore, Stefano Rodotà, dice che bisogna riaprire il dibattito su quale debba essere l’altezza dell’asticella.

"Questo lo abbiamo sempre detto e applicato. I politici sono più esposti. Ma anche loro hanno un diritto alla riservatezza, seppure affievolito. E poi attenzione a non coinvolgere persone incolpevoli come i familiari. Per questo non sposterei nessuna asticella. Si tratta di una materia fluida. Bisogna decidere caso per caso".

 

Come si esce da questo pantano?

"Nel ddl Mastella sulle intercettazioni il governo aveva previsto alcuni interventi in favore dell’Autorità che erano stati inseriti su nostra richiesta informale, con l’idea che è meglio avere sanzioni amministrative modulate piuttosto che il ricorso alla legge penale. Ecco, se ci fosse un consenso bipartiscili, sarebbe possibile un emendamento del governo".

 

Quindi, lei suggerisce al governo dì presentare un emendamento al testo che già è in aula alla Camera?

"Se l’alternativa è l’opzione atomica del codice penale, è molto meglio avere una possibilità variegata di sanzioni: obbligo di pubblicare sul giornale il verdetto del Garante oppure sanzioni pecuniarie modulate in base alla gravità della violazione e al numero di copie diffuse. E poi, quella amministrativa è una sanzione pubblicistica che risarcisce la collettività oltre che la persona. Nella mia visione, infatti, non c’è solo il rapporto tra il cronista e la persona ma c’è anche la tutela di un diritto a un’informazione corretta. Che poi è un diritto di tutti cittadini".

Giustizia: il "buon costume" e la Costituzione

di Sergio Fois (docente di Diritto Costituzionale)

 

Corriere della Sera, 19 marzo 2007

 

Sono rimasto colpito dalle informazioni relative ai recentissimi interventi di due Authority: quella per le Comunicazioni, e quella per la Privacy. Colpito nella mia razionalità, giuridico - costituzionale ma anche passionale. I due interventi toccano il nervo scoperto di questioni molto gravi. Mi limito a sollevare in maniera sintetica alcuni interrogativi.

Nonostante le apparenze, ritengo che sia più significativo il caso dell’intervento rivolto a impedire le diffusioni, per così dire, pornografiche.

Proprio la valutazione di tale intervento può rappresentare la cartina di tornasole, la prova del nove, per verificare la coerenza, e all’opposto la contraddittorietà, tra il riconoscimento dell’assoluta capacità di libera scelta (di ogni cittadino maggiorenne) quanto all’esercizio dei diritti elettorali e referendari, e l’identico riconoscimento di identica capacità, giuridicamente da presumere propria di ogni individuo maggiorenne nelle sue libere scelte relative al perseguimento dei suoi interessi nella materia sessuale, ovviamente purché la scelta non provochi un danno chiaro, evidente e concretamente effettivo ad altri soggetti.

Al riguardo, si ricordi, comunque, che in sede di assemblea costituente fu deliberatamente escluso ogni accoppiamento del buon costume con una qualsiasi morale. Ancora, qualora nell’intervento dell’Ageom si riscontrasse anche soltanto un’allusione alla dignità umana quale interesse che pretende di inglobare anche il buon costume, ci si deve chiedere se ciò sia o meno costituzionalmente ammissibile. L’intervento dell’Ageom solleva ulteriori dubbi quanto al rispetto dei costituzionali principi: di legalità; di riserva di legge; di tassatività e/o determinatezza delle prescrizioni che impongono divieti; comunque, della necessaria interpositio legislatori.

L’intervento dell’Authority per la privacy non sembra si sia posta la questione se il bene o l’interesse in causa coincida o meno con l’onore e la reputazione quali beni che, probabilmente unici, risultino presi in considerazione dalla Costituzione, quali legittimi limiti della libertà di manifestazione-cronaca. Inoltre, anche nel caso dell’intervento in questione sorgono fondati dubbi riguardo al rispetto del principio di legalità, di riserva di legge, di interpositio legislatori.

Bisogna sottolineare che entrambi gli interventi in questione convergono in senso negativo quanto alla più che probabile assenza, nei corrispondenti testi legislativi, di istituzione (delle due Authority) di un qualche adeguato riferimento a beni capaci di rappresentare la assolutamente indispensabile base legale di poteri che in qualche modo pretendano di avere anche efficacia esterna. Convergono anche nel senso del dubbio che la natura, i poteri e la collocazione delle Authority possano autorizzare quella qualifica di ircocervo, efficacemente usata da Piero Calamandrei.

Gravi dubbi, ancora, quanto alla legale possibilità di far valere nei confronti delle Authority in questione il fondamentale principio della responsabilità della Pubblica Amministrazione sancito nell’articolo 28 della Costituzione. In conclusione, e alla sommità delle questioni, tre domande. Quanto attiene ai diritti inviolabili ha o no la priorità logica e di livello nel, e per il, nostro ordinamento?

Secondo quello che, tempo fa, mi disse Eugenio Cannada Bartoli (esimio giurista), il nostro è "Stato di diritto", o invece soltanto "è stato... di diritto"? Ci troviamo, o no, all’inizio di una qualche deriva, di fronte ai sintomi, di uno Stato pedagogico, quindi etico, quindi autoritario quindi (in fondo e sullo sfondo) nella direzione di uno Stato che rischia di divenire totalitario?

Giustizia: quando la "tutela della privacy" diventa una censura

 

L’Unità, 19 marzo 2007

 

Abbiamo un problema. Da oggi, nelle redazioni. Un problema di cui faremmo volentieri a meno. E che possiamo illustrare sotto forma di parabola. Metti che in un Paese immaginario un uomo di governo avesse l’abitudine di convocare regolarmente il suo spacciatore di cocaina al ministero. Metti che questa notizia non appaia "essenziale" al Garante.

Se la scrivi, e lui si precipita in Procura chiedendo che ti venga applicata una pena da sei mesi a tre anni. Poi passa da Bruno Vespa, noto per avere mandato in onda molto "essenziali" macchie di sangue di bambino, e si lamenta perché il Parlamento non gli concede di irrogare lui direttamente carcere e manette. Le prime righe di questo testo sono ovviamente frutto di fantasia, come ben sapete, prive di riferimenti a fatti o persone.

Il resto è uno scenario concretamente reale, dal momento che è uscito in Gazzetta Ufficiale il decreto del professor Pizzetti. Che, per l’appunto, vieta con effetto immediato la pubblicazione di notizie che si riferiscano a fatti e condotte private che non hanno interesse pubblico, che contengano dettagli e circostanze eccedenti rispetto all’essenzialità dell’informazione, che rivelino particolari della vita privata delle persone diffusi in violazione della tutela della loro sfera sessuale.

Questo Pizzetti ha fama di moderato. Deve essersi fatto prendere la mano. Malattia che dilaga: Clemente Mastella, il ministro "moderato" del centrosinistra competente per gli affari di giustizia, ha mandato i suoi ispettori a Potenza, e promette un giro di vite nelle Procure. Altri più o meno "moderati", ma arrembanti parlamentari di diverse tendenze vorrebbero togliere, frattanto, ai magistrati la possibilità di autorizzare e disporre intercettazioni telefoniche: costano troppo e infliggono "gogne mediatiche" a malcapitati cittadini.

Intrattengono su questa solfa i cronisti delle agenzie di stampa, e non potendo concretizzare una simile enormità che porterebbe le indagini sulla criminalità a standard ottocenteschi, si danno da fare per accelerare un provvedimento bipartisan. Invece di impedire con una piccola norma di

buonsenso la trascrizione di intercettazioni che non riguardino le indagini, e la citazione del nome di estranei, in Parlamento giace, infatti, un disegno di legge draconiano che vieta la pubblicazione di qualunque atto processuale (anche per riassunto) fino alla conclusione delle indagini preliminari. Che aspettiamo ad approvarlo quel disegno di legge?, dicono i moderati. Che sono, tra l’altro, gli stessi che avevano incensato qualche anno fa la riforma della procedura penale che abolì l’istruttoria segreta proprio per consentire maggiore pubblicità al processo, e dunque maggiori controlli e trasparenza dell’operato dei giudici.

A scatenare questo impazzimento è stata una operazione politica, priva di profili penali, tesa a mettere in croce attraverso la figura del portavoce, il presidente del Consiglio e il governo. Però, né il Garante, né altri avevano avuto, in un recentissimo passato, nulla da ridire sulla campagna-spazzatura con i medesimi bersagli condotta dallo stesso giornale e dagli stessi ambienti, sulla base delle falsità messe in giro dai vari Marini, Scaramella, Betulla.

Si vede che l’aria è cambiata, e c’è chi pensa di percorrere qualche scorciatoia. Pericolosa per la libertà di stampa. Per il processo penale. Per proteggere la riservatezza vogliono spianare con le ruspe l’informazione. Senza accorgersi - o c’è chi lo prevede e si prepara - che alzando la soglia del segreto, si alimenterebbero i gossip, i dossier e i veleni. Chi ha fatto cronaca giudiziaria quando vigeva il processo istruttorio, sa bene che voci e notizie pullulavano nei corridoi, c’era il passamano dei veleni, e tra le righe dei giornali, per allusioni e strizzate d’occhio, potevano passare crisi di governo e rovinose

crolli di carriere. Con ciò nessuno nega che la privacy sia da tutelare. Quella delle veline e quella dei politici. E che il giornalismo trash sia sicuramente un problema. Che in Gran Bretagna, ma anche in Germania, hanno risolto dedicando al settore un intero grande business editoriale, destinato a lettori più deboli per censo e cultura. Che in Italia convive, invece, con l’informazione politica e televisiva.

Da noi non funziona questa divisione del lavoro, non sappiamo quanto invidiabile. E neanche l’autoregolazione funziona: per giustificare la mano leggera di una semplice sospensione a un giornalista che faceva la spia il nostro Ordine professionale (sede di Milano) ha accusato gli altri giornali di aver inflitto la gogna mediatica al collega a piè di lista del Sismi. Si aspetta il giudizio d’appello.

Abbiamo un problema, tanti problemi. Non solo in redazione. Volendo usare parole grosse: un problema complesso da affrontare con equilibrio, perché attiene alla libertà e alla democrazia.

Giustizia: "riabilitati i corrotti", l'ex pm Gherardo Colombo lascia

 

Corriere della Sera, 19 marzo 2007

 

Gherardo Colombo lascia la magistratura. Uno dei pm della scoperta della loggia P2 e di Mani pulite, ora giudice in Cassazione, dice addio alla toga a 60 anni. E spiega al Corriere: "In Italia quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su furbizia e privilegio. Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è arrivati a una riabilitazione complessiva dei corrotti". E per il futuro?

"Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia".

"Mi sono convinto che, affinché la giurisdizione funzioni, è necessario esista una condivisa cultura generale di rispetto delle regole". E invece in Italia "quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su due categorie: furbizia e privilegio. A questo punto del mio percorso di vita, quello che voglio fare è invitare in particolare i giovani a riflettere sul senso della giustizia. È una scelta del tutto personale, oggi mi sento più adatto a questo impegno che a quello di giudice".

Dentro il giudice Corrado Carnevale, fuori il giudice Gherardo Colombo. Depurato da coincidenze temporali e rispettivi profili professionali, in termini puramente numerici è uno scambio alla pari: uno (il giudice assolto dall’accusa di mafia, il collega del "Falcone è un cretino") è riammesso dal Csm in magistratura (dove da presidente di sezione di Cassazione resterà sino a 83 anni); l’altro (con Turone il giudice della scoperta della loggia P2 e del delitto Ambrosoli, con Di Pietro il pm di Mani pulite, con Boccassini il pm dei processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme ai giudici corrotti da Previti), dà le dimissioni da magistrato ad appena 60 anni, 15 prima della pensione.

Con una lettera presentata, in sordina, al Csm e al Ministero della Giustizia a metà febbraio, nei giorni delle stanche rievocazioni del 15esimo anniversario dell’inizio di Mani pulite. Non è una resa, dice, non c’è sfiducia nel lavoro di 33 anni in toga, né tantomeno ci sono porte da sbattere o superbe prese di distanza da coloro che invece restano con la toga addosso, convinti che far bene il proprio lavoro quotidiano contribuisca a migliorare da dentro il sistema: "Ci mancherebbe altro, anche l’amministrazione della giustizia è indispensabile".

Anche, dice però Colombo. Prima, un "prima che magari non è cronologico ma sicuramente concettuale", spiega di essersi reso conto che, per crederci ancora, ha bisogno di sentire esistere un prerequisito: "La giustizia non può funzionare senza che esista prima una condivisione del fatto che debba funzionare".

La scelta di dedicarsi a questo obiettivo nasce da "un rammarico: il verificare come la giustizia sia l’unica sede nella quale si pensa che debbano essere accertate le responsabilità. Oggi, chiunque dica al mattino una cosa e la sera il contrario, è irresponsabile di entrambe le dichiarazioni. Ma lo strumento del processo penale è inadeguato a riaffermare la legalità quando l’illegalità sia particolarmente diffusa e non esistano interventi che in altri campi vadano nella stessa direzione.

Diventa una spirale, crea sfiducia e disillusione". "È incredibile vedere quanto le persone siano coinvolte da questi contatti, da fuori è davvero inimmaginabile", si infervora Colombo raccontando di incontri "programmati per due ore e dove invece devo fermarmi per tre"; di centinaia di persone che magari vengono in un teatro o in una biblioteca all’antivigilia di Natale e quindi non certo perché non sanno cosa fare"; di "ragazzi che succede spessissimo restino con la bocca aperta" a sentire eventi della vita del loro Paese fondamentali, ma che nessuno mai gli aveva raccontato.

"Bisogna dar loro due cose: metodi e informazioni", ritiene Colombo, che, sostenuto anche dall’esperienza di tanti incontri in tema di corruzione, tecniche investigative, assistenza giudiziaria internazionale, ai quali è chiamato particolarmente all’estero, si propone ora di impegnarsi in questa direzione "sia attraverso contatti diretti, sia scrivendo che occupandomi di editoria: va comunicato il profondo perché delle regole e il come farle funzionare; occorre colmare la carenza di informazione non solo sui fatti, ma anche sulla concatenazione dei fatti e del pensiero; è necessario individuare le premesse e rendere evidenti le loro conseguenze, sottolineando la necessità di coerenza, in modo da dare risposte stimolanti alla tanta voglia di approfondire questi temi".

E si intuisce che, rapportata a sé, è proprio questa esigenza di "coerenza" a spingere ora Colombo a lasciare l’amministrazione della giustizia. Non ci crede più, non crede che si possa aumentare il tasso di legalità attraverso l’uso dello strumento giudiziario, quando nulla cambia all’ esterno. Da fuori forse sì, gli sembra possibile: "A questo punto della vita mi sono convinto che può esistere giustizia funzionante soltanto se esiste un pensiero collettivo che in primo luogo individui il senso della giustizia nel rispetto degli altri; che poi ci rifletta; e che infine, se ne viene convinto, arrivi a condividerlo.

Si tratta di confrontarsi con i fondamenti della nostra Costituzione, il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge". Mentre l’amministrazione reale della giustizia, quella che oggi a suo avviso arranca "senza una cultura condivisa delle regole, diventa qualcosa di estremamente difficoltoso, addirittura per certi versi eventuale, fonte essa stessa di giustizia casuale e quindi paradossalmente di ingiustizia", nel marasma di "una grande disorganizzazione e con scarsi mezzi".

Da questo punto di vista, per paradosso, "l’esperienza in Cassazione è stata per certi versi inaspettatamente confermativa: un impressionante numero di cause da trattare in poco tempo, scarsi mezzi, mancanza di stanze". Il tutto accompagnato da una sensazione di "ineluttabilità" alla quale "si rassegna" chi pure lamenta "le cose che non funzionano", ultima goccia del cocktail che ora a Colombo fa dire: "Dare così poca cura a un’attività cruciale per l’amministrazione della giustizia è stata, per me, la definitiva conferma che c’è anche altro da fare". Altro rispetto ai processi. E prima dei processi: la condivisione delle regole.

E qui sembra affiorare l’eco di una sconfitta, l’unica forse avvertita come davvero bruciante dall’ex pm di Mani pulite: corrotti e corruttori rientrati nella vita pubblica, o direttamente (votati) o indirettamente (nominati), comunque legittimati dai cittadini. Colombo si sente "tradito" dal "popolo" nel cui nome ha amministrato giustizia? "Piuttosto, sono contrariato nel vedere come la legalità, per questo Paese, sia ancora qualcosa che ha poche chance". Tra le concause, dice, " ha pesato il mutato atteggiamento dei media, le falsità dette contro le nostre indagini e talora contro di noi. Ma credo ci sia stato anche un altro elemento importante. All’inizio le indagini hanno coinvolto i livelli più alti della politica e dell’imprenditoria, perché nei loro confronti erano allora emersi gli indizi: persone lontane anni luce dal cittadino comune.

Poi, però, man mano che le indagini progredivano, sono comparsi anche fatti attribuibili a persone comuni: al maresciallo della Finanza, al vigile dell’Annonaria, al primario dell’ospedale, all’ispettore dell’Inps, al medico e ai genitori dei figli alla visita di leva, alla cooperativa di pulizie. E qui, ecco che l’atteggiamento della cittadinanza è cambiato". E voi magistrati siete finiti fuori mercato perché offrite un prodotto (la legalità) per il quale non c’è domanda? "Anche qui la misura della legalità è il rispetto dei principi costituzionali.

Di legalità non c’è n’è abbastanza. Sono molti, per fortuna, coloro ai quali interessa la legalità, che vuol dire piena attuazione dei principi costituzionali della tutela dei diritti fondamentali e dell’uguaglianza di fronte alla legge. Ma non sono ancora abbastanza. E soprattutto, hanno una scarsissima rappresentanza, non trovano voce sufficiente. In alcuno dei due schieramenti".

Colombo lo ricava "dal fatto che, altrimenti, sulla legalità sarebbero state fatte delle battaglie. E dico sulla legalità, non sul fatto che il signor Tizio o il dottor Caio siano colpevoli o innocenti: ad esempio sulla modifica delle regole del processo, per renderlo più agile e rapido; sulla dotazione di strumenti che consentano ai giudici di svolgere meglio la propria funzione; sulla cura della preparazione professionale". È questo il fronte che ora sembra prioritario a Colombo.

Il quale, a sorpresa, non ha tanta voglia di voltarsi per toccare con mano l’esito delle sue inchieste: "Vogliamo essere spietati? Sono magistrato dal 1974, per 3 anni giudice, poi da inquirente mi è capitato di occuparmi della loggia P2, dei fondi neri dell’Iri, di Tangentopoli, della corruzione di qualche magistrato. Alla fine - a parte la dovuta definizione giudiziaria delle singole posizioni -, i risultati complessivi di questo lavoro quali sono stati?

Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è sostanzialmente arrivati a una riabilitazione complessiva di tutti coloro che avevano commesso quei reati. Con un livello di corruzione percepita che non si è modificato. E, soprattutto, con una rinnovata diffusione del senso di impunità prima imperante". Cambiare dall’interno, no? "Dovrebbe davvero cambiare tutto". E invece, "possibile che per selezionare i capi di uffici giudiziari di dimensioni pari a una grande azienda, continuiamo a fare le scelte, quando va bene, sulla base della capacità di condurre indagini o scrivere belle sentenze, qualità che nulla hanno comunque a che fare con la capacità di organizzare un ufficio?

Anche a proposito delle questioni disciplinari, siamo sicuri che, nonostante tutti gli sforzi, pur fatti, non si potesse fare ancora di più per evitare che qualche magistrato fosse avvertito come arrogante o non sufficientemente dedicato alla sua funzione?". Per Colombo "l’Italia è un paese di corporazioni che per prima cosa si difendono auto tutelandosi (ha presente l’espressione "cane non mangia cane"?)".

E pur se "la magistratura mi sembra, tutto sommato, la migliore" di queste corporazioni, "anche al suo interno si avverte la tentazione di cedere alla stessa logica: la difesa della categoria, prima che dell’organizzazione, della disciplina, della laboriosità; con il rischio di isolamento per chi pensa il contrario".

La decisione di guardare alle regole da una posizione diversa - confessa Colombo, ieri in Procura a salutare alcuni colleghi - "non è stata facile e continua ad essere molto sofferta. Non soltanto perché questo lavoro ha assorbito buona parte della mia vita, ha accompagnato la nascita dei miei figli, la morte dei miei genitori, è stato intriso di eventi di dolore squarciante (come gli assassinii, proprio qui a Milano, di Guido Galli e Emilio Alessandrini, e dei colleghi eliminati da terrorismo e mafia); ma anche perché tanti sono i colleghi, dai quali mi separo, che con cura, attenzione e direi ostinazione non hanno fatto altro che cercare di rendere giustizia. Ma a mio parere, perché non sia un compito immane, occorre anche altro: che l’atteggiamento verso le regole cambi anche fuori dai palazzi di giustizia".

Giustizia: Cassazione; reato di usura resta fuori dall'indulto

 

Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2007

 

Non è rilevante l’intervenuta modifica delle sanzioni, ma il tipo di crimine. Anche per i vecchi reati confermato il no allo sconto di pena.

Non conta che ci sia stato un cambiamento normativo: l’usura continua a essere esclusa dall’indulto. E anche la violenza sessuale. Decisivo è il disvalore sociale che si accompagna ad alcuni delitti, più che le novità sotto il profilo sanzionatone o della definizione delle condotte criminali.

Con la sentenza n° 9178 depositata il 2 marzo 2007 la Corte di cassazione, Sezione Prima Penale, fornisce una serie di indicazioni sull’applicazione del provvedimento di clemenza deciso dal Parlamento nell’estate scorsa con la legge 241/2006. Il caso che si è trovata ad affrontare la Corte era relativo all’esclusione, confermata dal giudice unico di Cagliari, dagli effetti dell’indulto di un condannato per usura sulla base del "vecchio" articolo 644-bis del Codice penale.

La norma era poi stata assorbita in un nuovo articolo 644 del Codice, in conseguenza dell’entrata in vigore della legge 108/96: la nuova fattispecie ha inglobato tutti gli elementi costitutivi del 644-bis qualificando alcuni di questi come circostanze aggravanti dell’usura. I giudici di merito, perciò, valutando che ci fosse continuità normativa, hanno ritenuto di escludere l’applicazione del beneficio anche nei confronti della "vecchia" usura, visto che la nuova rientrava esplicitamente nell’elenco dei delitti fuori dal campo dell’indulto.

La Cassazione ha concordato con questa valutazione. Ma ha fatto una serie di considerazioni di ordine generale che permette di affrontare la situazione della successione delle norme penali nel tempo in tutti quei casi in cui non ci stata l’abolitio criminis. A monte del ragionamento strettamente giuridico, però, la sentenza ritiene opportuna una valutazione di ordine politico generale, sottolineando come l’indulto del 2006, al contrario di altri, "è stato frutto di un compromesso politico che lo pone non in linea con precedenti indulti del periodo della Repubblica (solitamente abbinati all’amnistia), in quanto diretto a ottenere da un lato lo sfollamento degli istituti carcerari, ma dall’altro anche il rispetto della coscienza sociale attraverso la esclusione di reati ritenuti "infamanti" per i quali i cittadini non avrebbero accettato l’applicazione dell’indulto".

È per questo, puntualizza ancora la Cassazione, che nell’indulto è stato compreso l’omicidio volontario e sono stati invece esclusi altri reati di sicuro meno gravi sotto il profilo della pena, ma comunque considerati più detestabili da una coscienza sociale che il legislatore ha voluto rispettare.

Dovendo così interpretare le ipotesi di esclusione non è alla gravità della pena che bisogna fare riferimento, quanto piuttosto al titolo del reato "e in particolare alle condotte che il legislatore ha voluto escludere a causa della loro odiosità secondo il criterio della coscienza sociale valutata all’attualità".

È così che si spiega come la legge abbia voluto escludere anche reati di scarsa importanza sotto il profilo della sanzione, "ma che oggi sono valutati come reati che ripugnano ai più": ad esempio la detenzione di materiale pornografico e la pornografia virtuale, per i quali la pena minima è di 15 giorni di reclusione.

Venendo al caso specifico, la sentenza osserva che, in realtà, il problema interpretativo si pone non solo per l’usura, ma anche per altre condotte penalmente rilevanti, come quelle relative ai reati sessuali, definiti attualmente dagli articoli 609-bis, quater, quinquies e octies del Codice penale.

Per cui, avverte la Corte, potrebbe sostenersi, contro ogni logica peraltro, che i precedenti delitti di violenza carnale, atti di libidine, corruzione di minorenne, visto che non sono stati espressamente ricordati nella legge sull’indulto, dovrebbero essere compresi nello sconto di pena. La Cassazione però è drastica e mette in evidenza come l’apparente "dimenticanza" del legislatore, che non ha specificamente indicato l’articolo 644-bis ormai abrogato, è irrilevante, perché non aveva senso che venissero indicati reati cancellati anni prima, quando le condotte non avevano comunque perso rilevanza penale ed erano stati invece tradotti in altre norme criminali venendo così assorbiti da queste ultime nel segno della continuità normativa.

Del resto nella legge sull’indulto, accanto alla norma dell’attuale Codice civile, è stato indicato esplicitamente il titolo ("Usura") a conferma del fatto che il legislatore ha voluto escludere tutte le ipotesi di usura previste dall’articolo 644 del Codice penale, comprese quelle inglobate in seguito a modifiche normative. Legislatore che non ha certo inteso procedere a una depenalizzazione per reati, come la violenza sessuale, il cui disvalore sociale si è semmai alzato provocando un aumento delle relative pene.

Indulto: un nuovo progetto di Italia Lavoro per i beneficiari

 

Ansa, 19 marzo 2007

 

In 14 aree metropolitane, 2000 ex detenuti seguiranno tirocini di sei mesi. Favorire il reinserimento sociale degli ex detenuti attraverso il lavoro e contribuire a prevenire il rischio di una loro ricaduta nella criminalità. È l’obiettivo del progetto "Lavoro nell’inclusione sociale dei detenuti beneficiari dell’indulto", promosso dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale e affidato a Italia Lavoro.

L’intervento, di carattere sperimentale, mira a pianificare percorsi di reinserimento lavorativo per almeno 2mila ex detenuti che abbiano manifestato l’intenzione di trovare un impiego. A questi Italia Lavoro intende offrire l’opportunità di seguire tirocini formativi - che permettano loro di riqualificare il proprio profilo professionale - e di entrare in contatto con i sistemi territoriali di incontro tra domanda e offerta di lavoro.

In 14 aree metropolitane - Torino, Milano, Venezia, Genova, Trieste, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Cagliari, Catania, Messina, Palermo - gli ex detenuti che parteciperanno al progetto potranno seguire dei tirocini della durata di 6 mesi, che saranno ideati tenendo conto del livello di esperienza professionale e delle aspirazioni di ciascun beneficiario, nonché del fabbisogno occupazionale delle aziende presenti sul territorio.

Il progetto prevede delle facilitazioni economiche sia per i suoi beneficiari sia per le imprese coinvolte. I primi potranno contare su 450 euro mensili per tutta la durata del tirocinio, mentre le imprese disposte ad accoglierli riceveranno un contributo di 1.000 euro per le attività di formazione che metteranno in atto. Inoltre, qualora un’azienda dovesse assumere un tirocinante prima della fine del suo percorso formativo, i contributi mensili per il periodo di tirocinio non svolto andranno all’impresa stessa.

Roma: dal carcere alla società, due ex detenute al lavoro

 

Roma One, 19 marzo 2007

 

Il Municipio XI ha promosso un progetto di reinserimento che prevede un tirocinio per due donne provenienti dalla Casa Circondariale di Rebibbia. Una sarà impegnata nella sede dell’ex circoscrizione Roma, 19 marzo 2007 - Dal carcere alla società civile: un percorso complesso, fatto di pregiudizi, strade chiuse e difficoltà a reinserirsi.

Proprio per facilitare questo tragitto, l’ex circoscrizione XI e l’associazione "Il Pavone" hanno promosso ‘Municipio a porte apertè, un progetto di sostegno lavorativo che prevede un tirocinio di formazione e orientamento per due donne provenienti dalla Casa Circondariale di Rebibbia.

Ma cosa faranno le ex detenute? Una lavorerà presso la sede del Municipio, nell’ufficio della delegata alle Politiche Culturali Carla di Veroli che sarà anche la tutor; l’altra verrà ospitata dalla cooperativa "Euroservizi" dove collaborerà alla gestione delle risorse umane. Le due tirocinanti percepiranno anche un rimborso spese mensile di 400 euro.

"Dopo l’approvazione della Legge sull’indulto - ha detto il Presidente dell’XI, Andrea Catarci - si è fatto un gran parlare dei reati commessi da chi aveva appena beneficiato di tale provvedimento, ma nulla si è detto sulle inesistenti misure di accompagnamento e di sostegno al reinserimento nella vita associata". "La lettera di apprezzamento che ci è stata inviata dal sindaco Veltroni - ha poi aggiunto - ci induce a sperare che la nostra esperienza-pilota venga raccolta e riproposta su scala territoriale più vasta."

Durante la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa, sono stati consegnati anche i fondi raccolti con la campagna "Belli come il sole". I soldi saranno utilizzati per sviluppare progetti di ricollocamento nella società delle madri recluse a Rebibbia e per individuare strutture alternative al carcere che possano accoglierle assieme ai loro bambini.

Reggio Emilia: l’arte del restauro per il recupero dei detenuti

 

Redattore Sociale, 19 marzo 2007

 

Progetto destinato a formare nuove figure professionali nel campo del restauro archeologico. È l’iniziativa "La Pulce al Museo", avviato a Reggio Emilia con 5 detenuti, grazie alla collaborazione tra Provincia, Comune e Casa Circondariale.

L’arte come strumento di recupero sociale dei detenuti per favorire il reinserimento nel mondo del lavoro una volta lasciato il carcere. Parte da qui il progetto "La Pulce al Museo" avviato a Reggio Emilia con cinque detenuti, grazie alla collaborazione tra Provincia, Comune e Casa Circondariale. Si tratta di un progetto di tirocinio destinato a formare nuove figure professionali nel campo del restauro archeologico.

L’iter prevede l’acquisizione delle fondamentali conoscenze della storia e dell’archeologia della Reggio romana, delle caratteristiche dei materiali che si rinvengono in scavi di età romana, delle tecniche dello scavo archeologico, del trattamento del materiale ceramico dal momento dell’acquisizione dopo lo scavo sino alla musealizzazione ed esposizione al pubblico. "A differenza di altre iniziative in Italia - spiega l’assessorato comunale ai diritti della cittadinanza e pari opportunità di Reggio - questo progetto presenta alcune caratteristiche del tutto nuove. Innanzitutto è sviluppato totalmente fuori dal carcere".

Un gruppo di detenuti, infatti, è stato autorizzato con il beneficio del lavoro all’esterno a uscire dalle mura della Casa circondariale per seguire l’iter formativo nel Museo di Reggio Emilia, lavorando fianco a fianco con specialisti del settore.

"In secondo luogo - prosegue il Comune - non va sottovalutata la possibilità che si offre ai partecipanti al progetto di trovare uno sbocco lavorativo e anzi una possibile assunzione nel campo dei beni culturali (come tecnici dello scavo archeologico o come restauratori), assicurata dalle ditte che collaborano al progetto".

Non solo: "è anche un’occasione - concludono dall’assessorato - offerta ai detenuti come momento di crescita culturale e di reinserimento nella società, in attuazione del mandato istituzionale, così come detta l’art. 27 della Costituzione. Ma anche di condivisione partecipata della storia della città che li ospita.

I detenuti coinvolti sono infatti prevalentemente stranieri e la conoscenza del luogo in cui vivono, a cominciare dal suo passato più antico, non può che favorirne l’integrazione e la convivenza con la popolazione residente". Il progetto prevede 164 incontri per un totale di 350 ore di tirocinio e 90 ore di docenze (2 di presentazione del progetto, 18 di illustrazione del Museo e delle sue collezioni di archeologia, 21 di disegno archeologico, 21 di restauro, 28 di tecniche dello scavo archeologico).

Roma: il Papa a Casal del Marmo, cemento e protocollo

 

www.korazym.org, 19 marzo 2007

 

La voglia di un contatto diretto, i rigidi limiti imposti dal cerimoniale: anche la visita al carcere minorile di Roma non ha fatto eccezione. Incontri intensi, ma fulminei, sullo sfondo di una comune e impossibile volontà a fare di più.

Per arrivare a Casal del Marmo, devi percorrere un lungo viale verde. Campagna a destra, campagna a sinistra. Alberi, erba, colline verdi. Un carcere non è mai un posto qualunque ma questo per di più non sorge nemmeno in un posto qualunque. La separazione con il resto della città è netta, visibile, fisica: dietro ti lasci la frenesia, la via Trionfale con il suo traffico meno animato del solito in questa domenica mattina, e uno dei più grandi ospedali della capitale, il San Filippo Neri; davanti hai solo "Casal del Marmo", solo il carcere dei ragazzini. Perché il viale finisce proprio lì, al cancello d’ingresso, e non c’è una sola via laterale, una sola alternativa. Il viale alberato è una strada senza uscita. Una strada che ti butta "dentro".

Fuori hanno tagliato l’erba, fino a pochi giorni fa eccessivamente alta ai lati della strada; dentro, hanno fatto diventare perfino elegante l’ampio spazio verde fra la palazzina degli uffici amministrativi, la chiesa e la struttura dedicata alle attività di svago, il teatro e la palestra. Sono spariti i gatti, le siepi sono curate e nel prato un piccolo fossato di pochi passi - quattro o cinque metri, poco più di una pozzanghera in tempi di normalità - fa addirittura da laghetto artificiale, con l’acqua azzurra e un elegante ponticello in legno che sembra fatto apposta per far divertire bambini in età d’asilo. Qua dentro però non ce ne sono. Non di solito, almeno, perché in questo giorno invece ci sono. Anche se poi hanno altro a cui pensare, e il laghetto artificiale resta comunque abbandonato a se stesso. Sono qui con genitori, nonni e parenti tutti, perché l’occasione è di quelle che si segnano sul calendario: per loro e soprattutto per quei loro fratelli e sorelle maggiori che al di qua dell’alto e gelido muro di cemento che circonda l’intera struttura ci vivono. Giorno e notte.

In visite come queste, c’è sempre qualcosa di artificiale e molto di ingessato. Il rigido cerimoniale vaticano lascia poco all’immaginazione e alla stessa volontà dell’illustre ospite. Ci sono le autorità, i cardinali, i vescovi, i ministri e i sottosegretari. Ci sono naturalmente i direttori e gli operatori, i responsabili e i lavoratori che giornalmente qui compiono il loro dovere. Ci sono i volontari, ci sono anche i familiari, e finalmente poi ci sono loro, i cinquanta ragazzi che sono dentro e ci rimarranno anche al termine di questa strana domenica. I filtri sono imperanti, precedono ogni cosa, comandano.

Decidono cosa si fa, dove, quando e forse perfino perché. Quando il papa arriva, i ragazzi di Casal del Marmo sono già in chiesa, ai loro posti. Telecamere e taccuini sono impegnati a cogliere il saluto del cardinale vicario e del ministro della Giustizia, e ancor più forse il fitto parlare che i due, Ruini e Mastella, hanno messo in scena per ingannare l’attesa. Questo papa insomma i ragazzi lo vedono quando arriva sull’altare, a dire messa. Lui, Benedetto XVI, lascia totalmente da parte il testo scritto e si giudica libero di parlare a braccio, in modo più semplice e più diretto. Come l’omelia di un parroco. Sarebbe stato troppo, il contrario.

Parla dell’illusione della "libertà dal carcere delle discipline e delle regole", di "voglia di fare tutto ciò che piace", di libertà apparente; e parla di libertà vera, del "trampolino di lancio" per ritrovare il binario giusto, per "ripartire" e per "ricominciare". Perché "gli errori che commettiamo, anche se grandi, non intaccano l’amore che Dio prova per gli uomini". Anche i canti, per una volta, parlano di semplici chitarre e melodie non troppo sofisticate, e al microfono cinque giovani possono leggere le preghiere prima dell’offertorio.

Piccoli momenti da protagonisti, in diretta tv e con il volto sfocato, la voce ferma o solcata dalla paura di sbagliare. Con mamme e papà, fratellini che corrono e scappano, vecchie nonne con il vestito della festa a guardarli - loro che non hanno trovato posto nella chiesetta - dallo schermo acceso nella sala del teatro: per l’occasione l’hanno lavata, risistemata, riverniciata di rosso. La visita papale ha portato anche questi piccoli guadagni.

L’incontro vero, quello a tu per tu con i ragazzi, avviene nella palestra del carcere. Due tabelloni senza canestro (un campo da basket completo è poco più in là, all’aperto) e nessun attrezzo: non una palla, non una sbarra, non un bastone, non un peso. Troppo pericolosi, qua dentro. È un saluto rapido, uno per uno: qualche secondo appena, un concentrato rapido di quelli - appena più lunghi - vissuti poco prima dal ragazzo che a nome di tutti gli altri lo aveva salutato: "Siamo rimasti di stucco quando ci hanno detto che saresti venuto a trovarci: non pensavamo che una persona come te venisse qui. Abbiamo commesso tanti sbagli" , aveva ammesso ricordando però che "in tante situazioni non eravamo noi ma erano altri che ci spingevano a fare tante cose". "Ma il prezzo è elevato" aveva concluso: "Siamo costretti a stare chiusi e soffriamo molto, speriamo che tu ci possa capire e quando usciremo da qui potremo dare una svolta alla nostra vita".

Un rapido saluto è davvero troppo poco: è quasi impotente il papa, ma se non altro lo nota: "Il tempo è stato poco ma troveremo, forse, un’altra occasione". Sarà difficile. Il protocollo, no, è come un muro: non si fa comandare e non si fa scavalcare. Non lo ha fatto due mesi fa con i poveri della mensa della Caritas a Colle Oppio e non lo ha fatto con i giovani detenuti di Casal del Marmo. Dove però un grande muro, alto, anonimo e gelido, già c’era. Smuovere questi appuntamenti, renderli meno rigidi, lasciar spazio alla spontaneità, alla naturalezza, perfino al rischio dell’imperfezione, contribuirebbe a renderli più veri, a far risaltare l’umanità del rapporto personale, del confronto, dell’incontro. A buttar giù almeno i muri che possono essere sconfitti.

Libri: "Il carcere speciale", intervista a Renato Curcio

 

Redattore Sociale, 19 marzo 2007

 

Vent’anni di storia carceraria raccontati dalle testimonianze dirette e attraverso i documenti giuridici. È volume pubblicato da Sensibili alle Foglie, presentato a Galassia Gutenberg da Renato Curcio.

Vent’anni di storia carceraria raccontati dalle testimonianze dirette dei detenuti e attraverso i documenti giuridici che li riguardano. È "Il carcere speciale", volume pubblicato da Sensibili alle Foglie (a cura di Maria Rita Prette), presentato a Galassia Gutenberg da Renato Curcio, direttore editoriale della casa editrice.

Il volume - il quinto della collana "Memorie" sulla lotta armata tra il 1969 e il 1989 - mostra l’evolversi della vita in carcere non soltanto, ma soprattutto, per i detenuti politici, fotografando anche le dinamiche interne alle formazioni armate e i mutamenti delle politiche statali. Ne abbiamo parlato con lo stesso Curcio.

 

Un libro che parla di persone e della loro esperienza nel carcere. Nessuna rivisitazione della storia?

"Come tutti i volumi precedenti, si ispira a una precisa metodologia che è quella di fornire fonti documentarie su questa esperienza e non interpretazioni o analisi perché di questi anni si è molto parlato anche per non parlarne, si sono usati linguaggi emozionali, linguaggi della politica, linguaggi legati alle esigenze giornalistiche ma non se ne è ancora parlato come il grande fenomeno sociale, complesso, difficile che, oltre condannare, occorre casomai anche capire".

 

Per innescare un cambiamento?

"Certo. Crediamo che il primo cambiamento sia parlare e togliere dal silenzio e dall’isolamento l’esperienza che le persone compiono. Il peggior destino che possa capitare a un uomo è il silenzio sociale. I fenomeni sociali che non vengono ‘parlati’ non possono neanche essere discussi, ragionati e maturati, né elaborati o cambiati".

 

Esiste un filo conduttore delle testimonianze, non solo di tipo emozionale?

"La cosa più interessante che emerge è che nelle carceri italiane si è sviluppato, unico in Europa, un movimento di detenuti del tutto o relativamente indipendente dalle organizzazioni armate, un movimento che è iniziato con le grandi lotte nei giudiziari di Milano Torino e Genova nell’aprile del 1969 e che ha portato a un radicale cambiamento dell’istituzione carcere.

Se teniamo presente che nel 1969 il carcere italiano era attestato ad un regolamento del 1931, ecco allora che questo movimento si configura come un soggetto importante, escluso dall’attenzione del sistema politico italiano, che è riuscito a modificare una concezione arcaica e a mettere in atto dinamiche che hanno portato alle versioni più moderne del sistema penale italiano".

 

C’è anche una riscoperta dei detenuti che, con la loro capacità di pensare, affermano di esistere all’interno del carcere?

"Sì, nel momento in cui i detenuti scoprono di essere portatori di diritti compiono una grande rivoluzione perché escono dallo sguardo che su di loro è stato gettato, lo sguardo del delinquente e del criminale: stereotipi sociali che buttano le persone in una prigione linguistica che è lo stigma. Pur avendo violato leggi, scontano una pena e quindi entrano in un sistema di cittadinanza, sono portatori di diritti, stabiliti dal regolamento carcerario".

 

Un movimento da dentro al carcere che si afferma anche come intellettuale?

"Un movimento consapevole, capace di attrezzarsi, collegarsi, mantenersi lucido di fronte agli attacchi esterni, a volte estremamente repressivi, che è riuscito a fondere un soggetto sociale fino ad allora considerato molto negativamente anche dalla sinistra italiana. Né la lotta contro il fascismo né la resistenza avevano determinato alcuna sinergia, nessuna capacità di pensare insieme un moto di rinnovamento dell’istituzione carceraria. Un nuovo soggetto sociale, che si pone un compito di cittadinanza, e comincia a pensarsi come portatore di diritti".

Droghe: don Battaglia; su cannabis opportunità di confronto

 

Progetto Uomo, 19 marzo 2007

 

Le dichiarazioni del presidente della Fict in merito alla sentenza del Tar che ha sospeso il "Decreto Turco".

"Mi auguro che tale momento di sospensione imposto dal Tar, non sia un braccio di ferro tra poteri, ma una opportunità di confronto tra le Istituzioni e il mondo delle Comunità terapeutiche per formulare una proposta condivisa sul problema droga, visto che la proposta del Ministro della Salute aveva già suscitato ampi dissensi fra gli operatori delle tossicodipendenze".

Questo il commento di don Mimmo Battaglia, presidente della Fict (Federazione italiana comunità terapeutiche) alla decisione del Tar del Lazio che ha sospeso il cosiddetto "Decreto Turco", che ha innalzato da 500 milligrammi ad un grammo la quantità massima di detenzione di cannabis, al di là della quale scattano le sanzioni penali.

L’ordinanza del Tar, pubblicata oggi, accoglie le richieste di sospensione del Decreto avanzate dal Codacons e da una Comunità terapeutica di Taranto. Il Tar ha ritenuto che la legge non conferisce "al Decreto un potere politico di scelta in ordine all’individuazione dei limiti massimi delle sostanze stupefacenti o psicotrope che possono essere detenute senza incorrere in sanzioni penali", ma "un potere di scelta di discrezionalità tecnica, soprattutto per quanto attiene alle competenze del Ministro della Salute". Per il Tar "la scelta effettuata con il decreto impugnato non risulta supportata da alcuna istruttoria tecnica che giustifichi il raddoppio del parametro moltiplicatore".

Droghe: don Battaglia; ora torniamo a parlare di educazione

 

Progetto Uomo, 19 marzo 2007

 

La risposta del presidente della Fict alle proposte del ministro Amato per combattere la diffusione delle tossicodipendenze nelle scuole.

In questi giorni ci ritroviamo ad essere spettatori di nuovi interventi e posizioni politiche che appaiono rispondere più a livelli ideologici che ai bisogni reali dell’uomo. In questi anni, si è visto un susseguirsi in modo alternato di leggi repressive e di proposte di liberalizzazione, entrambi rispondenti a logiche di sicurezza collettiva.

Le risposte per affrontare la droga sono state finora incomplete, a volte contraddittorie, senza una strategia politica adeguata per combatterne l’uso, ma solo provvedimenti che andavano ad eliminare gli effetti esterni, visibili fermandosi ad una percezione approssimativa del problema, per isolarlo, criminalizzarlo, circoscriverlo in un recinto. Siamo convinti che affrontare il problema delle dipendenze tramite una politica repressiva o punitiva illuda la gente del superamento del problema stesso, semplificandolo e operando a livello superficiale. Vorrei ricordare che la politica non è solo fare leggi per ridurre i danni ma, soprattutto, ricercare e affermare una strategia condivisa ad ampio raggio.

Noi della Fict che operiamo sul tutto il territorio con un lavoro di trattamento, coesione sociale e di prossimità delle persone a stretto contatto con i giovani, le famiglie, le scuole riteniamo che nessuno è prettamente colpevole per le azioni che compie, ma agisce in rapporto ai valori e ai principi che gli sono stati impartiti.

Da qui l’importanza del mettersi in discussione e dell’educare per poter realmente prevenire. Viviamo in una società sempre più complessa "schizofrenica nelle risposte e negli atteggiamenti", perciò aperta a esiti inattesi, in cui, con costanza e caparbietà, abbiamo continuato a gridare che il fenomeno della droga è espressione di un disagio diffuso, di una sofferenza morale. Oggi più che mai è viva la crisi interiore dell’uomo, abbandonato ad un sistema che si finge ordinato e che promuove messaggi provocatori e contraddittori, fini a sé stessi. Se è vero come dice il Ministro Amato che in Italia "occorre una campagna enorme contro la droga", non possiamo condividere la scelta metodologica mirante al controllo di una generazione che si sentirebbe penalizzata in modo aprioristico.

Noi diciamo, invece, che la questione delle dipendenze è questione anzitutto educativa che dovrebbe vedere impegnati tutti i soggetti pubblici, privati e Istituzioni. Affermiamo la necessità di formulare un messaggio chiaro: la droga fa male, drogarsi non è un diritto, il tossicodipendente va aiutato e non punito. Non ci riconosciamo nell’approccio rigido e punitivo né in quello che considera un dato di fatto l’abuso di droghe. Pertanto, scegliamo la prospettiva della centralità della prevenzione per un paese complessivamente meno drogato.

Ricordiamo a noi e a tutti che la vera origine del disagio giovanile va ricercata nella società degli adulti. In questo momento il sistema più urgente da privilegiare è quello preventivo, educativo, della cura e del trattamento viste come fasi della prevenzione stessa. Il tema della droga, specialmente per le giovani generazioni, è questione trasversale in stretta connessione con le politiche giovanili, della famiglia, della scuola, della sanità, della giustizia e del lavoro. Di conseguenza prevedere armonizzazioni tra le normative in essere con l’opportuno coinvolgimento di altri Ministeri competenti e delle politiche regionali.

Auspichiamo una politica che punisca e persegua piuttosto i trafficanti di morte. Appoggiamo una politica che ponga il giovane al centro delle proprie azioni per renderlo protagonista attivo della società, una politica concertata che coinvolga tutte le agenzie educative del paese per invitare i ragazzi ad essere positivamente nel mondo.

Droghe: è l’ora di superare il proibizionismo

di Paolo Cento (Sottosegretario al Ministero dell’Economia)

 

Aprile on-line, 19 marzo 2007

 

La riflessione del sottosegretario: " È necessario il ricorso al Consiglio di Stato annunciato dal Ministro Livia Turco contro la sentenza del Tar. Bisogna impedire di tornare ai devastanti effetti prodotti dalla Fini - Giovanardi ed aprire un confronto per sperimentare la via della legalizzazione".

Devono essere impedite in tutti i modi le conseguenze della sentenza del Tar che di fatto ci riporta agli effetti, assolutamente non condivisibili, delle tabelle della legge Fini - Giovanardi, con le quali si corre il rischio di mandare sotto processo o di togliere il passaporto a chi ha la sola colpa di fumare qualche spinello.

È per questo che valuto positivamente la volontà del Ministro per la Salute Livia Turco di ricorrere al Consiglio di Stato per annullare la sentenza emessa dal Tribunale amministrativo del Lazio.

La decisione del Tar segna un momento involutivo, in cui si colloca anche la recente proposta del Ministro Amato di prevedere l’antidoping nelle scuole e all’uscita dalle discoteche, nel processo di revisione delle fallimentari politiche proibizioniste che il Governo dell’Unione aveva iniziato con l’approvazione del decreto del Ministro della salute Livia Turco che ha innalzato l’utilizzo personale di cannabis da 500 milligrammi a 1 grammo.

È ora di dire basta ai fallimentari risultati del proibizionismo che continua ad arricchire gente senza scrupoli e malavitosi e non risolve il grave problema sociale della droga, ma che anzi lo aggrava con il continuo aumento di reati perpetrati per procurarsi i soldi necessari all’acquisto delle dosi.

La sentenza del Tar, fa emergere in modo evidente, la necessita di abolire la legge Fini - Giovanardi sulle tossicodipendenze e di aprire, nel Paese, un ampio dibattito sull’esigenza di porre fine a politiche repressive e indiscriminate per individuare percorsi che, al contrario, offrano una forte capacità di prevenzione nell’uso delle droghe.

Personalmente e come più volte sostenuto, ritengo che una possibilità per evitare che i consumatori di cannabis passino alle droghe pesanti e a quelle chimiche sia quella di consentire la coltivazione ad uso individuale di marijuana come pure giungere alla sperimentazione sulla distribuzione controllata dell’eroina per i tossicodipendenti per evitare che si compiano reati o si muoia ancora per overdose.

Un ulteriore sforzo deve essere compiuto poi, nella direzione della prevenzione attraverso una dura lotta al narcotraffico che va colpito alla radice e, soprattutto, occorre intervenire per giungere alla separazione del mercato nero della marijuana e dei suoi derivati da quello delle droghe pesanti, evitando di punire i consumatori. Un percorso, questo, che il governo Prodi ha voluto iniziare con il decreto del Ministro Livia Turco dando un segnale preciso verso la non criminalizzazione del consumatore di cannabis.

Pur nella consapevolezza che sarebbe meglio non assumere droghe di alcun genere, è indispensabile però individuare quelle misure che impediscano al circuito dei consumatori abituali o saltuari della cannabis di passare al mercato clandestino delle droghe pesanti e, per far questo, è prima di tutto necessario giungere al più presto alla totale depenalizzazione sia penale che amministrativa dei semplici consumatori.

Dopo i fallimenti delle politiche proibizioniste degli ultimi cinquant’anni, i tempi sembrano maturi per sperimentare la via della legalizzazione, cercando, se necessario, il dialogo con quella parte del centrodestra che sembra avere posizioni più avanzate di alcune componenti dell’Unione.

Droghe: e adesso la politica batta un colpo

di Franco Corleone (Forum Droghe)

 

Il Manifesto, 19 marzo 2007

 

Abbiamo sentito migliaia di volte in questi anni levarsi la denuncia dell’invasione del terreno della politica da parte della magistratura. Troppo spesso questo lamento veniva alzato da chi voleva difendere malversazioni e malefatte, coprendole sotto il manto di un falso e strumentale garantismo.

Oggi, leggendo la sentenza del Tar del Lazio contro il decreto Turco, siamo autorizzati a proclamare che davvero ci troviamo di fronte a una sentenza politica nel senso deteriore del termine. Cioè di un atto dettato da arroganza e compiacenza. Ha fatto bene il senatore Calvi a parlare del dovere di critica, severa e rigorosa, contro sentenze che appaiono errate. È ovvio che le sentenze si debbano rispettare per i loro effetti, ma è lecito disprezzarle nel contenuto quando questo è palesemente infondato dal punto di vista giuridico.

La questione all’esame del tribunale amministrativo era semplice. Si trattava di stabilire se il moltiplicatore stabilito da Berlusconi, come ministro della salute ad interim, e da Castelli come ministro della giustizia, per definire la "quantità massima detenibile" (al di sopra della quale scattano le pene da sei a venti anni di carcere) fosse modificabile con un nuovo decreto dei nuovi ministri Turco e Mastella.

Per la canapa, il moltiplicatore individuato dal precedente governo era venti volte la "dose media singola" (DMS), per l’equivalente di 500 milligrammi di THC. La ministra Turco il 19 novembre 2006 alla Camera dei deputati aveva spiegato le ragioni dell’innalzamento a 1000 milligrammi di THC fornendo i dati sugli effetti repressivi della nuova legge. Nel periodo di applicazione fino al 31 ottobre 2006, si era verificato una aumento di arresti per marijuana del 63%, per hashish del 10%. Qui sta la ragione di una misura assai modesta, rispetto all’obbiettivo di abrogazione di una legge fra le più punitive d’Europa.

È davvero esilarante che il Tar sia stato attivato da una associazione di consumatori; questo dettaglio forse spiega perché in Italia tale movimento sia di assoluta irrilevanza politica e culturale. Se, come sostiene il Tar sbagliando, la legge non "conferisce al decreto un potere politico di scelta in ordine alla individuazione dei limiti massimi delle sostanze che possono essere detenute senza incorrere nelle sanzioni penali", allora anche il decreto Berlusconi - Castelli deve essere cancellato: visto che nello stesso documento a suo tempo illustrato da Giovanardi per spiegare il decreto del governo Berlusconi, si precisava che il moltiplicatore della DMS era variabile e deciso "dall’amministratore" (ossia dal governo), e non dalla commissione di esperti. Che lezione si deve trarre da questa vicenda?

Sarebbe stato meglio abrogare tutto il decreto ministeriale contenente l’attuale Tabella Unica e contestualmente nominare una nuova commissione per rivedere tutta la materia, con un atto politico forte: l’abbiamo sostenuto a suo tempo e ne siamo oggi ancora più convinti. Tuttavia, il nodo vero è la modifica della legge vigente. Di questo sembra che il governo Prodi cominci ad avere piena consapevolezza.

Mi auguro che ora, finalmente, il parlamento non si lasci scippare le proprie competenze dalla giustizia amministrativa e inizi l’esame della proposta di legge Boato, sottoscritta da più di 70 deputati. Forum Droghe ha chiesto con un digiuno a staffetta che venissero nominati almeno i relatori nelle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera. Dopo lo schiaffo del Tar e dopo le "idiozie" di Amato sarebbe proprio il caso che la politica battesse un colpo.

Droghe: Veronesi; proibire e punire a volte non serve... anzi

 

Notiziario Aduc, 19 marzo 2007

 

"Sono un convinto oppositore di tutte le droghe, pesanti e leggere, compreso fumo e alcol perché creano assuefazione fisica e psicologica e danni irreparabili e talvolta legali. Sono altrettanto convinto che e proibire e punire a volte non serve, anzi. La droga è un problema più sociale che penale".

Così l’oncologo Umberto Veronesi interviene sulla sentenza del Tar del Lazio che ha sospeso il provvedimento del ministro Livia Turco che innalzava da 500 mg a 1000 mg la quantità massima di detenzione di cannabis per far scattare le sanzioni penali.

In un intervento ieri su La Repubblica lo scienziato milanese sostiene che "è sorprendente, per non dire inquietante che nel nostro paese un tribunale amministrativo regionale abbia più peso di un ministero della salute su questioni sanitarie fondamentali per la società come la lotta alla droga. Poco importa se per esse il ministro si avvale di istituzioni scientifiche come l’istituto superiore di sanità e il consiglio superiore di sanità".

Per Veronesi "tanti anni di proibizionismo non hanno attenuato il fenomeno e anzi il recente allarme del ministro Amato sulla diffusione dell’uso di cocaina sottolinea il fallimento di questo sistema. È facile capire che chi ha voluto l’attuale legge crede ciecamente le valore deterrente delle sanzioni pecuniarie e detentive".

"Le prigioni sono piene di piccoli spacciatori che sono anche tossicodipendenti e ogni giro di vite ne aumenta il numero senza avere un effetto sul mercato complessivo delle droghe. Infatti i ragazzi e le ragazze che cadono nella tossicodipendenza (che è una malattia vera e propria) non hanno che tre scelte: rubare, spacciare, prostituirsi.

Dovremmo innanzitutto prendere atto che il problema del consumo delle droghe leggere non è un problema di pochi dannati ma riguarda il 50% dei nostri giovani; significa che metà degli studenti italiani è criminale? Rendere la cannabis un tabù o un piccolo crimine non serve ad affrontare il problema. Le soluzioni devono essere altre.

Lo spinello è considerato dai giovani una droga ludica e innocua, uno strumento di socializzazione e di relax. Allora chiediamoci perché i giovani hanno bisogno dello spinello per rilassarsi e socializzare e cosa possiamo fare per aiutarli".

Gran Bretagna: allarme per lo "skunk", hascisc 25 volte più forte

 

Notiziario Aduc, 19 marzo 2007

 

Tante scuse: la cannabis fa male anzi malissimo. Lo scrive oggi in Gran Bretagna l’Independent on Sunday, affermando che la testata "da oggi cancella la sua campagna di richiesta di depenalizzazione dell’uso della cannabis". Motivo: "numeri record di adolescenti necessitano di terapie antidroga perché fumano skunk, il potente tipo di cannabis che è 25 volte più forte della resina che si vendeva dieci anni fa". Peggio di Lsd e ecstasy.

Queste piante sono vari tipi di incroci fra "cannabis indica" e "cannabis sativa". Secondo l’Independent, l’anno scorso in Inghilterra "oltre 22.000 persone sono state curate per dipendenza da cannabis e quasi la metà avevano meno di 18 anni. Medici e esperti avvertono, la skunk (in inglese vuol dire puzzola) può essere dannosa quanto eroina e cocaina, provoca problemi mentali e psicotici".

L’Independent lanciò dieci anni fa una campagna per la depenalizzazione della cannabis, che serva a convincere il governo a declassare la droga alla categoria C. Ma oggi, appunto, si cosparge il capo di cenere. Colpa della tecnologia genetica. La skunk fumata dalla maggioranza dei giovani britannici "non ha alcun rapporto con la tradizionale resina"; l’hashish, perché "ha un aumento di 25 volte della quantità del principale ingrediente psicoattivo, il tetraidrocannabinolo (Thc)".

Una ricerca sulla prestigiosa rivista medica The Lancet questa settimana, avverte il giornale, dimostrerà che è più pericolosa dell’Lsd e dell’ecstasy. Risultati che inviteranno il governo ad aprire un dibattito pieno sulle droghe con una commissione indipendente.

Gli esperti a voler abolire la distinzione fra droghe leggere e pesanti sono tanti, per esempio Robin Murray, docente di psichiatria, secondo cui 25.000 dei 250.000 schizofrenici britannici avrebbero potuto non ammalarsi se non avessero usato la cannabis: "Il numero dei consumatori forse non aumenta, ma quello che consumano è molto più potente". E Neil McKeganey, dell’università di Glasgow, rincara: "La società ha sottovalutato gravemente la pericolosità della cannabis".

Brasile: sei detenuti uccisi in carcere in scontri tra bande

 

Associated Press, 19 marzo 2007

 

Regolamento di conti tra due bande di detenuti in un penitenziario brasiliano: 6 detenuti, quattro dei quali bruciati vivi, sono stati uccisi nel carcere di Barreto Campelo, nello stato di Permabuco. Un gruppo di detenuti - è la ricostruzione fornita dalla portavoce del carcere - ha fatto irruzione in una cella occupata dai rivali e ha appiccato un incendio dando fuoco a una bomboletta di gas: "Quattro detenuti sono stati bruciati vivi, altri due sono stati uccisi mentre tentavano di scappare". Molto probabilmente, "gli omicidi sono stati ordinati da uno dei leader della gang il quale aveva saputo dell’esistenza di un piano per assassinarlo".

 

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