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Giustizia: oggi l'incontro tra Dap e Sindacati sul "caso Uepe"
Comunicato stampa, 14 maggio 2007
No alla sperimentazione dei nuclei di Polizia Penitenziaria. Per una Conferenza nazionale sulle misure alternative al carcere e sul ruolo degli Uepe. Il blog nazionale lanciato dal Comitato di solidarietà Assistenti Sociali Milano, che da settimane raccoglie le dichiarazioni, i comunicati e le critiche contro l’idea del Ministro della Giustizia Clemente Mastella di affidare anche alla polizia penitenziaria il controllo dei detenuti in esecuzione penale esterna al carcere, in occasione dell’incontro avvenuto oggi tra il Dap e i sindacati sul "caso Uepe". Auspichiamo che abbiano seguito le parole del Sottosegretario On. Manconi quando nell’articolo pubblicato il 7 maggio su "Il Riformista" - "Il vaccino per la malattia del carcere" dichiarava: "una politica penitenziaria non ottusamente reclusoria ha bisogno del concorso di tutto il pubblico e il privato-sociale disponibile; il Ministero della Giustizia ha molte responsabilità, ma non è autosufficiente, non ha il monopolio delle risorse e delle competenze necessarie ad accompagnare i detenuti nella loro second life. Ne siamo consapevoli e consapevolmente chiamiamo a raccolta le forze, magari anche - se ne è iniziato a discutere - in una grande assise di enti e istituzioni, operatori e responsabili, uomini e donne di buona volontà, riuniti nella prima Conferenza nazionale sull’esecuzione penale". Il Comitato di solidarietà chiede che venga dato un chiaro segnale in tal senso, non dando seguito alla preannunciata sperimentazione dei nuclei di polizia penitenziaria per il controllo delle misure alternative presso gli Uepe in modo da evitare di prendere decisioni che saranno determinanti per il futuro della esecuzione penale esterna e che porterebbero di fatto a sgretolare definitivamente il sistema dei servizi sociali della giustizia. Nello stesso tempo chiede di avviare la fase preparatoria di una Conferenza nazionale sull’esecuzione penale dove venga dato spazio e rilievo alle misure alternative al carcere e al ruolo degli Uepe. Fase preparatoria e Conferenza nazionale, tesa ad ascoltare tutto il personale degli Uepe, i sindacati, le forze politiche, la Chiesa, il volontariato ed il terzo settore. È dalla Conferenza che dovrà uscire il progetto complessivo di riforma del sistema delle misure alternative (che tenga conto anche delle prospettive di riforma del codice e del disegno di legge Mastella). In tale sede si esaminerà anche il problema del controllo e di chi lo dovrà fare. Ma si dovrà parlare soprattutto delle riforme, del ruolo, dei mezzi, delle risorse che servono per fare funzionare meglio le misure alternative e gli Uepe che ne sono l’anima. Giustizia: vittime di reato; aumentano le richieste di sostegno
Redattore Sociale, 14 maggio 2007
Trenta quelle presentate dai sindaci della regione, 25 gli interventi che hanno portato aiuto a 32 persone, tra cui 9 minori, per un totale di 240 mila euro erogati tra il 2005 e il 2006. I dati della Fondazione per le vittime dei reati. Trenta richieste di sostegno presentate dai sindaci della regione Emilia-Romagna, 25 interventi che hanno portato aiuto a 32 persone diverse, tra cui 9 minori, per un totale di 240.000 euro erogati nel corso del biennio 2005-2006: sono solo alcuni dei numeri presenti nella "Relazione tecnica" sull’attività della Fondazione emiliano romagnola per le vittime dei reati, nata nel 2004 su iniziativa della Regione, delle Province e dei Comuni capoluogo, con l’intento di portare un aiuto immediato e tangibile a tutte le persone coinvolte, come parte lesa, in reati più o meno gravi. Dopo due anni di attività, la fondazione ha visto un aumento delle richieste di intervento e, grazie alla collaborazione degli enti locali, istruttorie più chiare, meglio definite e una maggiore celerità nell’erogazione dei contributi. Gli interventi hanno riguardato 11 casi di omicidio, 4 di violenze sessuali e 10 di aggressioni. La relazione sul bilancio dell’attività della fondazione evidenzia come nel 2005 "siano stati erogati aiuti a favore delle vittime per 55.000 euro", mentre nel 2006 siano stati finanziati interventi "per 185.000 euro. I fondi hanno coperto le spese per il sostegno psicologico, il cambio di abitazione, le rate del mutuo per la casa, il sostegno agli studi scolastici e universitari, la chiusura di esercizi commerciali o le spese funerarie", si legge nel documento. Le vittime sono risultate essere in maggioranza donne, con la provincia di Bologna in testa per il numero di domande presentate. Per il momento la fondazione emiliana è l’unica del genere ad essere attiva in Italia: "ci rivolgiamo sia alle persone vittime di reati e residenti nel nostro territorio sia ai cittadini emiliani coinvolti in crimini fuori dalla regione - dice Patrizia Vecchi, una dipendente della Regione che collabora con la fondazione -. La nostra particolarità è quella di intervenire rapidamente a favore dei più deboli (in media l’istruttoria dura 30 giorni); ma la nostra non è una semplice assicurazione, come qualcuno potrebbe pensare: in realtà cerchiamo sempre il contatto diretto con la vittima, proprio per offrire un servizio che sia il meno freddo possibile e più vicino alla realtà dei fatti". "Il nostro organismo continua a promuovere incontri per farsi conoscere e per informare sulle sue attività e finalità - continua Patrizia Vecchi -. La nostra è una realtà ancora poco conosciuta: i reati e i delitti trovano sempre molto spazio sui media, ma un’opera come la nostra, che si occupa di dare sostegno alle vittime, non ha risalto". "Interveniamo quando un cittadino è in stato di bisogno. Le caratteristiche della nostra azione sono la concretezza, la sensibilità e la velocità", ha sottolineato il senatore Sergio Zavoli, presidente della Fondazione per le vittime dei reati, ad un incontro tenutosi la settimana scorsa a Parma. "Le modalità dell’intervento sono concordate con il Comune in cui è avvenuto il crimine - conclude Patrizia Vecchi -: questo perché la richiesta di aiuto deve essere presentata direttamente dal sindaco, come prevede il nostro statuto, a garanzia della certezza del reato. Prevalentemente operiamo erogando denaro alle famiglie, senza mai entrare nel merito delle singole vicende". Per informazioni consultare il sito web www.fondazionevittimereati.it. Giustizia: sui "fatti di Rignano" basta col furore mediatico
Affari Italiani, 14 maggio 2007
La scarcerazione delle sei persone accusate di pedofilia a Rignano Flaminio ha creato sgomento tra le famiglie dei bambini coinvolti e imbarazzo nella giustizia italiana. Un caso che, oltre la colpevolezza o l’innocenza degli accusati, riporta in primo piano il fenomeno della pedofilia. Affari ha incontrato Marina Valcarenghi, psicoanalista e docente di Psicologia clinica presso l’Università di Urbino, autrice di "‘Ho paura di me. Il comportamento sessuale violento" (Bruno Mondadori). Questo mentre due striscioni della grandezza di sei metri per uno ed entrambi con la scritta "morte ai pedofili di Rignano Flaminino", sono stati trovati all’alba di oggi appesi sulla via Flaminia, all’altezza del civico 1060. Entrambi gli striscioni sono stati rimossi dai carabinieri della stazione Tomba di Nerone.
Insegnanti e maestre di Rignano scarcerati. Qual è la sua opinione a riguardo? "In quanto a Rignano tutto è possibile. I bambini possono inventare storie e essere strumentalizzati, possono dire quello che ci si aspetta da loro per essere poi finalmente lasciati in pace e possono ovviamente anche essere stati molestati. Purtroppo nel nostro paese la caccia alle streghe e i roghi preventivi fanno parte della tradizione da Raoul Ghiani a Pietro Valpreda, fino al caso recente di un padre incarcerato sotto l’accusa di aver sodomizzato la sua bambina. Un padre che era innocente e una bambina che soffriva di un tumore al retto. Credo che il comportamento più civile per tutti sarebbe quello di tacere e aspettare che la magistratura faccia il suo lavoro. Questo furore mediatico non giova a nessuno, soprattutto ai bambini".
Nei casi di pedofilia, la difficoltà è anche capire se il consenso sessuale di un bambino sia libero o meno, quanto sia influenzato da narcisismo, curiosità, desiderio di sentirsi importante. "Anche quando sembra libero, pensiamo che non lo sia. Questa convinzione ha origine nelle scienze psicologiche. In seguito si è affermata in un comune sentire, poi tradotto in norme giuridiche sanzionatorie. Inoltre ha dato progressivamente forma a un tabù sociale per cui la pedofilia non è solo un reato, ma un comportamento che genera orrore e sgomento, come per esempio l’incesto".
Perché la pedofilia è prevalentemente chiusa tra le mura domestiche? "In realtà non siamo così certi che le cose stiano realmente così perché le statistiche si basano sui casi denunciati ed è più facile individuare il colpevole all’interno delle mura domestiche che fuori. Comunque è certo più facile per un adulto approfittare della complessa rete affettiva nel quale il bambino è inserito per indurlo a un comportamento sessuale".
Pedofili e carcere. Nel suo libro riporta la drammatica testimonianza di Natale Terzo, condannato per reati di pedofilia, che invoca un intervento dello stato per favorire la sua guarigione psichica. Cosa si può fare nelle carceri oggi per la riabilitazione di chi ha commesso questo tipo di reato? "Possiamo solo sperare nel futuro. Se la pedofilia è un reato - e addirittura un tabù - ciò non esclude affatto che possa dipendere da un problema psicologico. Se è quindi evidente a tutti che un pedofilo debba essere imputato, processato e condannato, ciò non toglie che conservi tuttavia - anche e soprattutto in base alla nostra Costituzione - il diritto ad essere curato se lo vuole. Il diritto alla cura prescinde dal comportamento. Sarebbe per esempio come se un mafioso non avesse diritto a essere operato per un tumore. La nostra coscienza collettiva si ribellerebbe a una simile barbarie. Ma la nostra coscienza collettiva non si ribella alla barbarie della negazione della cura psicologica a chi ha commesso un reato. E non solo nel caso della pedofilia".
Qual è la funzione degli psicologi nelle carceri italiane? "La psicologia è per ora entrata in carcere solo come attività di diagnosi e di trattamento, ma non come attività di cura: serve a valutare come inserire il detenuto in reparto e nelle attività del carcere, serve a presentare periodicamente relazioni sul comportamento del condannato definitivo che saranno poi inviate al magistrato di sorveglianza, ma questo è tutto. Del resto con uno psicologo per circa 250 detenuti, è evidente che, anche volendo , niente altro sarebbe possibile. E quindi Natale Terzo, e tanti altri insieme a lui, ha ragione: avrebbero diritto a essere curati e la mia esperienza di tanti anni dimostra che si può guarire".
E la cura del disagio psicologico del comportamento sessuale violento non è però solo un diritto della persona, ma anche una difesa sociale. "Certo. Pertanto, a prescindere da valutazioni morali, alla collettività conviene spendere soldi e competenza per curare chi lo vuole: rappresenta un investimento sul futuro".
Qual è l’entità del fenomeno in Italia e in Europa? "I condannati per pedofilia in carcere in Italia oggi sono circa 600, ma noi sappiamo che l’entità del fenomeno è in larga misura sommersa, non solo nel nostro paese. È solo un esempio, ma ho avuto e ho in analisi donne e uomini abusati da bambini e mai, in nessun caso, il colpevole era stato denunciato, che fosse dentro o fuori dalla famiglia. Ci sarebbe inoltre da valutare l’incidenza della pedofilia turistica che parte dall’Europa verso i paesi poveri che offrono bambini a poco prezzo e praticamente senza rischi. Il comportamento si svolge altrove, ma i pedofili vivono qui". Giustizia: Cirielli (An); già che ci siamo... aboliamo le carceri!
Ansa, 14 maggio 2007
Il deputato di An Edmondo Cirielli critica il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella che ha chiesto al Presidente della Repubblica riforme strutturali dopo l’indulto lanciando una provocazione: "Perché già che ci siamo non abroghiamo anche le carceri?". Al presidente dell’Associazione Antigone che dopo l’indulto richiede a gran voce riforme strutturali in favore dei detenuti quali la limitazione dell’uso della pena detentiva, l’abrogazione della legge Fini Giovanardi sulle droghe, l’ex Cirielli sulla recidiva nonché la Bossi-Fini sull’immigrazione, suggerisco, ovviamente in maniera paradossale - dichiara Cirielli - di attuare la "riforma delle riforme" per i garantisti di tutta Italia e del mondo intero: abroghiamo le carceri e il codice penale in maniera tale che finalmente lo "stato capitalista" non provochi più afflizioni inutili ai "poveri delinquenti", vera avanguardia culturale della lotta di classe.... Lettere: carcere di Nuoro; qui i topi la fanno da padrone
www.radiocarcere.com, 14 maggio 2007
"Ho 48 anni e sono originario di Taranto, ma mi trovo qui nel carcere di Nuoro. Un carcere dove i topi, la fanno da padroni. Sono tantissimi e la situazione peggiora sempre di più. Ogni giorno ne ammazziamo qualcuno, ma non basta. Nel silenzio della notte li sentiamo camminare in cella, accanto alle nostre brande. Il fatto è che questo carcere è abbandonato a se stesso. Per poter parlare con un educatore dei essere molto fortunato. Eppure io avrei bisogno che qualcuno mi ascoltasse. Sono due anni che non vedo al mia famiglia che risiede a Taranto e che non può venire qui in Sardegna per ragioni economiche. Ho chiesto tante volte un avvicinamento a Taranto ma niente è stato inutile, non mi rispondono neanche. Ora io capisco che prima le carceri erano sovraffollate, ma ora che hanno fatto l’indulto e che nelle carceri c’è posto perché non mi trasferiscono? Qui nel carcere di Nuoro anche dopo l’indulto viviamo in condizione poco dignitose. La nostra cella è un buco. In un angolo, senza porta o muretto, c’è il bagno alla turca. Poi alle 7 di sera si chiude il blindo della cella e buona notte al secchio! Qui noi stiamo sempre chiusi in cella, senza lavoro, senza rieducazione. Solo i topi ci stanno qui".
Mimmo, detenuto nel carcere di Nuoro Immigrazione: pubblicato reportage "Mamadou va a morire"
Redattore Sociale, 14 maggio 2007
Esce "Mamadou va a morire" di Gabriele Del Grande, il reportage più completo finora scritto sui morti a causa dell’immigrazione africana e asiatica. Vittime delle politiche blindate e costose messe in atto da un continente "civile". In Tunisia, lungo la costa di Zarzis, c’è il Museo della memoria del mare. "Ogni giorno dopo il turno alle poste, Mohsen Lidhiheb raccoglie da undici anni gli oggetti consegnati dal mare lungo 150 chilometri di spiagge… Una memoria di plastica, fatta con opere d’arte sui paradossi dell’uomo moderno… Una delle installazioni… è dedicata a Mamadou. È una montagna di almeno 150 paia di scarpe. Sono scarpe nuove, sono scarpe sportive e giovanili. Roba che non si butta. Sono le scarpe dei naufraghi". Meglio di tanti saggi sull’economia globale - che (nei casi migliori) aiutano a capire le grandi dinamiche dietro le migrazioni - "Mamadou va a morire" (Infinito Edizioni, maggio 2007) ha il merito di spiegare cosa c’è prima, durante e dopo i viaggi verso la "Fortezza Europa". Prima c’è la miseria senza futuro, il febbrile mettere da parte denaro per un unico scopo, per scappare imitando "chi ce l’ha fatta". Durante ci sono condizioni di vita subumane, pericoli di ogni genere, corruzione e abusi subiti da qualsiasi tipo di "autorità", mesi, a volte anni di viaggio, e in molti casi la morte. Dopo ci può essere un traguardo raggiunto, ma spesso c’è una espulsione, un "rimpatrio" che può trasformarsi in una permanenza di mesi dentro carceri di massima crudeltà, in un abbandono in mezzo al deserto dopo 1.000 chilometri a bordo di un cassone senz’aria, o in entrambe le cose assieme; e di nuovo, dopo, ci può essere la morte. Sulle rotte africane e asiatiche verso il vecchio continente restano falciati da anni migliaia di uomini e donne, vittime di naufragi, di uccisioni a freddo o provocate dalle angherie, di stenti, del sole del Sahara. E a chi non è riuscito a raggiungere l’Europa, ma si è salvato dopo il primo tentativo, non resta che partire di nuovo, e poi ripartire, preda di un’ossessione che non sembra poter essere scalfita dalla paura di morire o delle conseguenze di un altro fallimento. "Mamadou va a morire" è il frutto di un réportage durato quasi dodici mesi, gli ultimi tre trascorsi in viaggio attraverso Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania, Mali, Senegal, Tunisia, e infine Turchia e Grecia. L’ha realizzato, con i suoi soli mezzi, il giornalista Gabriele Del Grande, 25 anni, già ideatore nel 2005 di Fortress Europe, una raccolta telematica di tutti gli articoli reperibili dalla stampa internazionale sulle tragedie delle migrazioni verso il nostro continente, dall’88 a oggi. Già allora Del Grande sapeva che la materia non poteva essere esaurita grazie a un motore di ricerca. Ha quindi cominciato a raccogliere i fili delle storie, raggiungendo madri e sorelle di tanti che avevano perso la vita nella corsa a "bruciare la frontiera" (questo il gergo usato nei paesi del Maghreb), incontrando rare associazioni di familiari delle vittime, e anche qualche testimone, tornato a casa salvo o che ancora ci sta riprovando. Centinaia di vicende personali e di numeri sono stati raccolti in sole 130 pagine (il libro ne ha 160, compresa l’introduzione di Fulvio Vassallo Paleologo e un’appendice), che richiedono molto più tempo del normale per essere assorbite. Tanta è l’abbondanza e la precisione dei dettagli quanto sono assenti le concessioni al romanzesco o al narcisismo del reporter; tanto è asciutto, serrato e incalzante lo stile quanto è privo di cedimenti al didascalico o alla facile indignazione. Con questa scelta di estrema essenzialità, Del Grande riesce anzitutto nella parte più nobile del compito che si era dato: restituire una storia, un passato a tanti morti "minori", di rado e distrattamente considerati dalla stampa europea, pur avendo moltissimo a che fare con l’Europa. Ma restituire anche una storia ai tanti che ce l’hanno fatta, e che vivono come trasparenti nelle nostre città, dietro un lenzuolo cosparso di cianfrusaglie da pochi euro, dietro una pila di pizze consegnateci a domicilio, dietro un bancone dei mercati generali. Questo libro può essere utile anche per capire che la maggior parte di essi sono persone che hanno combattuto per raggiungere quel sogno, che "non hanno perso, ma non hanno nemmeno vinto", e che guardandosi indietro e ricordando le sofferenze e gli affetti perduti, oggi "vivono come persone morte". Il libro di Del Grande, probabilmente il più completo réportage scritto finora in Italia sull’argomento, riesce a spiegare con esattezza tutte le principali varianti delle migrazioni, in particolare dall’Africa, verso le frontiere europee sul Mediterraneo. "Mamadou va a morire" è un alternarsi quasi ossessivo di viaggi infernali sulla terraferma con i mezzi più improbabili; di soldi cuciti nei risvolti degli indumenti, ceduti in anticipo a passeurs che magari ti hanno già venduto alla polizia; di soste lunghe mesi, ammassati in stanze fetide vicino alle coste, nutriti con latte e baguette; di partenze improvvise nel cuore della notte, preferibilmente quando il mare è grosso e ci sono meno controlli; di naufragi poche centinaia di metri dopo essere salpati. E poi di respingimenti, di detenzioni in autentici lager per clandestini africani ("gli intoccabili dei nostri giorni"), di botte e torture, di furti su furti fino a "restare spolpati", e infine di deportazioni nel deserto ai confini sud del Marocco, dell’Algeria o della Libia. Chi riesce a salvarsi (pochi, molti, nessuno può dirlo), non può che tornare indietro, risalire al nord o tentare la via delle Canarie partendo dalle coste dell’Africa occidentale. In entrambi i casi lo aspettano mesi, a volte anni di permanenza in terre di nessuno dove si vive in perenne attesa, accampati senza nulla a ridosso del campus universitario di Oujda in Marocco, nei boschi attorno alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, nelle grotte di Tamanrasset o nei sobborghi di Tripoli. Una popolazione maledetta, parallela a quella che nei paesi del Maghreb invece ci è nata, e che ugualmente tenta ancora di espatriare con le barche dirette a Lampedusa. Manca solo la Libia all’appello. A Del Grande non è stata concessa alcuna autorizzazione per entrare nel paese, ma nel libro c’è la testimonianza di numerosi immigrati africani (molti Eritrei), alcuni temporaneamente "sistemati" in un vecchio edificio universitario romano. La Libia appare oggi il più spietato paese dell’Africa mediterranea, il simbolo di quella "repressione con i guanti di velluto" attuata dall’Unione Europea, nella quale "il lavoro sporco viene appaltato ai gendarmi dall’altra parte della barriera". Un lavoro sporco che qui (ma anche nel resto del Maghreb) prende la forma di continui allontanamenti dei camarades (i "negri") a tutti i costi e con tutti i mezzi verso i confini sahariani, "in un deserto che è molto più pericoloso del mare in tempesta"; non prima di un lungo periodo di prigionia in carceri "dove basta stare un giorno per rimanere segnati tutta la vita", corredato di violenze, umiliazioni e tanti omicidi impuniti (come quelli di centinaia di africani neri uccisi pochi anni fa in diverse spedizioni razziste, tollerate di fatto dal governo di Gheddafi e da noi passate quasi sotto silenzio). Un lavoro sporco ripagato in denaro (anche per il mantenimento di strutture detentive come le tre finanziate dall’Italia), in attrezzature logistiche (imbarcazioni, tecnologie ecc.) e soprattutto in accordi economici che nulla hanno a che fare con l’immigrazione o la sicurezza. Sono gli effetti collaterali della strategia scelta a Bruxelles, da un’Europa "ossessionata da un’invasione che non c’è, blindata, spendacciona, ma civile".
I morti dell’immigrazione verso la "Fortezza Europa"
Droghe: i detenuti di Piacenza; ragazzi, lo sballo distrugge
Libertà, 14 maggio 2007
"Ragazzi, state lontano dalla droga, non finite come noi". Inedito, sorprendente, inatteso. È l’appello che alcuni detenuti della Casa Circondariale delle Novate di Piacenza inviano alla redazione di Libertà. Con uno slogan, quasi il prodotto di una sapiente azione di marketing professionistico, se a scriverlo non fossero stati i carcerati stessi: "Un soffio alla striscia". Capofila dei detenuti sottoscrittori dell’appello rivolto ai più giovani Luigi Esposito, 27 anni, in carcere a Piacenza, nell’istituto diretto da Caterina Zurlo, per la rapina alla banca di Sarmato dello scorso gennaio. "Quello che ho commesso - dice tra l’altro l’uomo nella missiva inviata al giornale - l’ho fatto essendo schiavo di quel demone che è la cocaina. Speriamo che il nostro appello, mio e di altri ragazzi del carcere, possa far colpo su qualche giovane, che magari ci penserà due volte prima di commettere una sciocchezza". "Il valore di questo appello - afferma Antonio Mosti, responsabile del Ser.T. (Ausl) di Piacenza, la cui équipe alle Novate nel 2006 ha seguito oltre 400 detenuti con problemi di tossicodipendenza - sta tutto nella testimonianza. I nostri operatori non hanno sollecitato questo intervento, e, ad aggiungere valore all’appello, c’è anche il fatto che non viene da quegli "ex tossici" che stanno meglio, ma da coloro che stanno pagando un prezzo non trascurabile. Voglio capire quale sarà la ricaduta tra i giovani, spero in un dibattito finalmente non tra cosiddetti esperti ma tra chi purtroppo è esperto per l’esperienza di vita e chi, speriamo, non sperimenterà mai", conclude Mosti (la cui équipe in carcere, guidata dalla referente dell’Ausl per la medicina penitenziaria Cristina Fontana, è formata da due psicologhe, M. Cristina Belloni e Lucilla Passerini, dall’infermiera Marilena Nolli e dall’assistente sociale Daniela Perotti). "Sono favorevole a che il messaggio dei detenuti abbia ampia diffusione - interviene don Giorgio Bosini, presidente del Ceis - La Ricerca che coordina il progetto "Carcere" per il Comune - perché, in fondo, l’avvertimento ai ragazzi è chiaro: Guardate dove siamo arrivati noi. Le reazioni dei giovani? Le testimonianze dirette sono più ascoltate delle prediche, questo posso dirlo", chiude don Bosini. E don Giampiero Franceschini, direttore della Caritas diocesana che opera alle Novate sia con animazione liturgica e catechesi tramite l’intervento di 3 persone ogni settimana, e con sostegno sociale (è attivo un Centro d’ascolto per i carcerati con suor Claretta, religiosa delle suore missionarie di Mortara) rilancia: "È un messaggio assolutamente positivo, perché viene da chi ha fatto questa esperienza. Anche se c’è purtroppo l’amara consapevolezza che spesso le esperienze degli altri sono illuminanti, ma non convincenti, e ognuno vuole toccare con mano". Carla Chiappini, giornalista piacentina, è direttore di "Sosta forzata", il giornale della Casa Circondariale delle Novate a cui collaborano 12 detenuti: "Questo appello mostra che i ragazzi che l’hanno fatto vogliono sentirsi utili a qualcuno, e ciò in carcere è rivoluzionario, perché in genere tra i detenuti prevale un senso di totale distacco dal mondo esterno". E Brunello Bonocore, operatore per il Comune delle iniziative nel carcere piacentino: "Il 90 per cento degli ospiti - spiega Bonocore - è dentro per reati in cui è implicato anche l’uso di sostanze. In questo loro messaggio c’è sincerità, c’è anche la voglia, secondo me diffusa nei tanti carcerati di sesso maschile, di recuperarsi in un ruolo genitoriale, che le esperienze di vita ha loro il più delle volte negato". Droghe: il governo sostenga le famiglie che hanno problemi di don Umberto Nizzoli (Ausl di Reggio Emilia)
Progetto Uomo, 14 maggio 2007
Lettera aperta alla Ministra della Salute Livia Turco Illustre Signora Ministra, so che ci sono molti argomenti importanti di cui chi governa deve occuparsi. Penso che uno di essi sia la riduzione degli effetti correlati all’alcol e in particolare il problema che tocca direttamente molti ed in modo indiretto tutti: le famiglie dove c’è un genitore con problemi di alcol o di droga. Il Governo di cui Lei fa parte si prefigge, finalmente, di produrre delle politiche di settore nel campo delle dipendenze patologiche inaugurando così, spero, una nuova stagione che allinea il nostro Paese con gli altri paesi dell’Unione Europea. Le scrivo perché il Suo Ministero ha emesso in questi giorni il Piano nazionale Alcol e Salute, un documento molto ricco ed impegnativo. Tuttavia relativamente al tema che Le dicevo vi è un solo fugace accenno tra la pletora di obiettivi. I genitori alcolisti o tossicodipendenti non sono necessariamente abusanti, così come esistono genitori abusanti che non fanno per nulla uso di sostanze psicoattive. Tuttavia la concomitanza dei due problemi (alcol e violenza ai figli) comporta un fattore di rischio elevato per il minore: la violenza all’interno dei legami affettivi più significativi, come quelli familiari, può essere facilmente aggravata dal consumo di sostanze psicoattive illegali o legali come l’alcol, contribuendo a creare un ambiente disfunzionale, denso di conflitti ed inadatto ad uno sviluppo armonioso. Il rischio è duplice: da un lato, il bambino può essere la vittima diretta o il testimone della violenza che gira per casa; dall’altro, l’abuso subito in età infantile, e spesso per periodi tutt’altro che brevi, è uno dei principali fattori che aumenta il rischio di psicopatologia nell’adolescente e nell’adulto, comprendendovi anche la dipendenza da sostanze psicoattive: numerose ricerche internazionali hanno messo in chiaro questa correlazione. Infatti i minori che vivono con genitori con problemi di alcol e che subiscono abuso e violenza domestica sono a più alto rischio di subire danni nel breve, nel medio e nel lungo periodo. Per dimensionare questi fenomeni è bene ricordare che ad esempio prove di ricerca rilevate in Inghilterra riguardo alle popolazioni in trattamento per l’abuso di alcol dimostrano che il 60-80% delle donne in trattamento per problemi di alcol ha subito almeno una volta abuso domestico negli ultimi 12 mesi e che circa il 50% degli uomini seguiti dai servizi di alcologia lo ha perpetrato. Oltre un terzo di questi uomini e donne sono genitori ed è perciò probabile che i loro figli stiano vivendo in un ambiente domestico negativo (sia con problemi di alcol nei genitori che di abuso). Credo che sia tempo di fare qualcosa circa questa questione. La prevenzione di tali fenomeni e la protezione di soggetti vulnerabili, come lo sono di solito le donne e soprattutto i bambini, dovrebbe perciò essere un obiettivo tra i principali del Piano nazionale Alcol e Salute. In linea di principio tutti si è dalla parte dei bambini. Secondo il sentire comune in generale i bambini italiani godono di un ambiente piuttosto sano e sicuro; ma spesso si trascura il tema della violenza contro i bambini. La questione però sta nel fatto che spesso si tratta di capire meglio che l’alcol è un elemento molto differente per i bambini rispetto a quanto non lo sia per noi adulti. Con l’eccezione delle PAC, le patologie alcol correlate, i danni solitamente non sono irreversibili. I bambini inoltre dispongono di doti innate per fronteggiare le difficoltà della vita. Molti bambini figli di famiglie con problemi di alcol sopravvivono bene finché almeno hanno un altro adulto competente che li sostiene o hanno intensi contatti con altri coetanei. Nei casi severi poi possono essere inviati rapidamente a servizi capaci di offrire terapie qualificate. Ad esempio l’azienda sanitaria di Reggio Emilia partecipa a progetti sostenuti dalla Commissione Europea finalizzati alla costruzione di reti collaborative tra servizi sociali e sanitari per l’adulto e per i minori. Agendo sulle diverse categorie di professionisti che si trovano a contatto con i bambini e le loro famiglie, attraverso attività volte a sviluppare la consapevolezza del problema, si migliora la capacità di identificazione delle situazioni a rischio, si creano reti di supporto per le famiglie e i bambini, si fondano reti di professionisti che possano costituire una fonte di conoscenza e buone pratiche; in poche parole si mira a rilevare precocemente ed a contenere i danni derivanti dall’essere figli di genitori alcolisti o tossicodipendenti. Però ci sono altri mezzi efficaci e tuttavia poco costosi per aiutare i bambini figli di famiglie con problemi di alcol e di droga: ciò che serve è il supporto di tutti gli adulti e la sensibilizzazione attiva di tutti i professionisti della scuola, dell’educazione, della sanità e sociali. Tutto l’arco degli attori che va dai genitori fino alle autorità è necessario. Infatti questo obiettivo è troppo grande per essere affrontato solo da qualche servizio od operatore o da qualche agenzia di volontariato. Ci vuole una grande risposta collettiva di contrasto. Ecco perché serve includere il sostegno alle famiglie con problemi di alcol e di droghe tra le strategie di governo: l’obiettivo consiste nell’aiutare i bambini delle famiglie con problemi di alcol e droghe a disporre di un ambiente sicuro per potere crescere al meglio. Ci sono leggi che riconoscono il diritto di molti cittadini a ricevere aiuto in varie situazioni di grande portata e serie quanto lo è questa. Non dovrebbe essere dato un diritto simile ai bambini figli di famiglie con i problemi di alcol o di droga? Gran Bretagna: ferrovie assoldano i detenuti, sottocosto
Ansa, 14 maggio 2007
Le linee ferroviarie britanniche, da tempo sotto accusa per la scarsa sicurezza del servizio, sono finite ancora nell’occhio del ciclone questa volta per aver utilizzato carcerati in importanti lavori di manutenzione su una delle tratte più trafficate del Regno Unito. Un gruppo di detenuti sono stati portati in piena notte sulla linea West Coast che collega l’Inghilterra settentrionale alla Scozia per effettuare alcune riparazioni. L’iniziativa fa parte di un programma del governo che punta a facilitare il reinserimento dei carcerati nel mondo del lavoro una volta scontata la pena. Ma all’indomani del quinto anniversario della tragedia dell’Hertfordshire dove per il deragliamento di un treno causato dal cedimento di un binario morirono sette persone, il progetto ha suscitato enormi polemiche soprattutto da parte delle famiglie delle vittime. Molti puntano il dito contro lo sfruttamento dei detenuti che ricevono per il loro lavoro la paga minima di 5,35 sterline (8 euro) l’ora, molto meno delle 17 sterline (25 euro) guadagnate dagli impiegati delle ferrovie. Per il loro turno notturno di 10 ore i carcerati hanno racimolato 53,50 sterline (79 euro) a testa ma le regole del sistema penitenziario britannico impediranno loro di disporne a piacimento. I galeotti sono autorizzati ad avere in tasca solo 20 sterline a settimana (29 euro). Il resto viene depositato in un libretto di risparmio. Giappone: nasce il primo carcere privato... senza sbarre
Ansa, 14 maggio 2007
È stato inaugurato a Tokyo il primo penitenziario giapponese gestito da un’impresa privata. Situata nella provincia meridionale di Yamaguchi su una superficie di 28 ettari, la nuova prigione è priva di sbarre alle finestre ma dotata di avanzati sistemi elettronici di sicurezza. Vi saranno detenuti un massimo di 500 uomini e altrettante donne alla loro prima condanna.
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