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Giustizia: Grosso; la "riforma Mastella"? non è poi così male di Carlo Federico Grosso (Ordinario di Diritto penale Università di Torino)
La Stampa, 12 luglio 2007
Molti elettori, alle ultime politiche, hanno votato per il centrosinistra convinti, sulla base delle promesse fatte in campagna elettorale, che la nuova maggioranza avrebbe immediatamente bloccato la legge Castelli sull’ordinamento giudiziario e abrogato le cosiddette leggi vergogna approvate dalla Cdl in materia di giustizia penale. Questo non perché si riteneva che il nuovo governo dovesse eliminare per forza tutte le leggi fatte approvare da quello precedente, il che sarebbe stato assurdo. Ma perché la legge Castelli e molte delle leggi penali votate dalla passata legislatura erano pessime. Non aiutavano a risolvere i problemi urgenti della giustizia, ma anzi li aggravavano. Talune sembravano scritte deliberatamente contro la magistratura. Oggi, dopo oltre un anno di attività della nuova maggioranza parlamentare, si profila un quadro peculiare. L’unica legge penale abrogata, la legge Pecorella in materia di appello, è stata eliminata dalla Corte Costituzionale che l’ha giudicata illegittima. Il Parlamento non ha fatto invece nulla in materia, non riuscendo ad abrogare neppure la legge ex-Cirielli in tema di prescrizione, la cui cancellazione era stata indicata come urgente dallo stesso Guardasigilli. Quanto alla legge Castelli sull’ordinamento giudiziario, nel corso del 2006 c’era stata una sua parziale, tutto sommato accettabile, modifica. Si era quindi stabilito il termine del 31 luglio 2007 per gli ultimi interventi su taluni argomenti delicati. Ci saremmo aspettati che il Parlamento affrontasse per tempo anche quest’ultima incombenza. Invece il Senato ha cominciato a discutere in aula soltanto ora, a poche settimane dalla scadenza, con la prospettiva di non arrivare in tempo ad approvare i cambiamenti. Tanto più che, dopo il Senato, dovrà ancora votare la Camera. Per altro verso, poco è stato fatto, operativamente, per cercare di rimediare in qualche modo alle disfunzioni quotidiane della giustizia civile e penale. Il Guardasigilli ha predisposto, allo scopo, alcuni disegni di legge. Il Consiglio dei ministri li ha approvati. Tutto ancora tace, però, in Parlamento. Mentre, al contrario, non si è esitato ad approvare, nel luglio scorso, quel peculiare provvedimento di indulto che ha creato malessere nella successiva gestione della giustizia penale e contribuito a turbare l’ordine pubblico e il senso di sicurezza dei cittadini. A questo punto, di fronte a tanta apparente insipienza, sorge un sospetto. Che, forse, non tutto sia casuale; che nell’attuale maggioranza vi siano in realtà, accanto ai duri e puri di sempre, coloro che remano contro l’idea di una riorganizzazione del settore giustizia. In fondo una magistratura inceppata, una giurisdizione inefficiente, una prescrizione che falcidia, può fare comodo anche a sinistra. E allora a parole si enfatizza la discontinuità rispetto alle gestioni precedenti. Nei fatti, invece, qualcuno cerca di bloccare, di ritardare, perché una magistratura avvilita e una giustizia poco funzionante sono comunque in qualche modo funzionali. La situazione è oggi, su tutt’altro piano, del tutto peculiare. Si discute in Senato l’ultima tranche della riforma Mastella dell’ordinamento giudiziario. Gli avvocati iscritti alle Camere penali hanno immediatamente protestato contro di essa con la proclamazione di due lunghe astensioni dalle udienze. L’Anm ha dichiarato a sua volta uno sciopero dei magistrati per il 20 luglio. Non si era mai visto che le due principali categorie professionali del settore giustizia si agitassero contemporaneamente, sia pure per motivi opposti, contro l’approvazione della stessa legge. Ha colpito, soprattutto, l’agitazione dichiarata dai giudici. Di qui, le reazioni vibrate di numerosi parlamentari dell’Unione. La legge Mastella sull’ordinamento giudiziario non è una legge ottima. Non è comunque neppure una legge vergognosa. È, probabilmente, la legge migliore che il contesto politico consente di questi tempi. Né mi sembra che i profili criticati dai magistrati meritino le censure sollevate. Che un magistrato, cambiando funzione, debba anche cambiare il distretto o la Regione in cui opera mi sembra sacrosanto. Né mi preoccupa che nei consigli giudiziari anche gli avvocati possano sovrintendere alle questioni concernenti le carriere delle toghe, un principio già riconosciuto da anni per quanto concerne il funzionamento del Csm. Sarebbe d’altronde una iattura che, non essendo approvata la legge Mastella, entrasse in vigore la ben peggiore legge Castelli. Ma allora perché tanta agitazione, tanta rabbia? Perché un’iniziativa così dirompente come lo sciopero della magistratura, un potere dello Stato, contro una legge in discussione in Parlamento? Le ragioni, probabilmente, hanno radici profonde. Per anni fra magistratura e sinistra politica è stata luna di miele. Oggi l’incantesimo si è rotto. I ritardi del centrosinistra nell’abrogazione delle leggi vergogna, l’inefficienza lasciata deflagrare, la perdurante mancanza delle risorse necessarie, la legge d’indulto votata nonostante gli ammonimenti, hanno spezzato il filo che legava le due sponde. Alla fiducia si sono sostituiti sospetto e diffidenza. Le conseguenze non si sono fatte attendere: una reazione dura a una legge che non piace del tutto. A questo punto sarebbe tuttavia improvvido che la politica, senza avvertire le ragioni profonde della crisi, si limitasse a liquidare l’iniziativa dei magistrati con l’accusa sbrigativa di corporativismo associativo. Giustizia: perché l'attuale "sistema delle correnti" è un problema di Stefano Racheli (Magistrato)
www.radiocarcere.com, 12 luglio 2007
Nel prossimo mese di novembre si terranno le elezioni per il rinnovo del Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati (il "parlamentino" della magistratura associata), ma questa volta un certo numero di magistrati (tanti o pochi è presto per dire) non andranno a votare, così intendendo contestare il "sistema delle correnti", e ciò per tre motivi. Primo motivo. L’amministrazione della giustizia è, come suol dirsi, ai piedi di Pilato: appare dunque urgente e necessario rimboccarsi le maniche per invertire la tendenza in atto. Secondo motivo. Pur dovendosi ascrivere la crisi della giustizia a numerose concause (non poche sono infatti le responsabilità della classe politica e dell’avvocatura), è sembrato più ragionevole estirpare la trave dal proprio occhio, piuttosto che discettare sui legni ficcati negli occhi altrui. Terzo motivo. Tra le cause del dissesto della giustizia va sicuramente annoverato il "sistema delle correnti", il quale domina e accomuna Csm e Anm; un sistema fondato essenzialmente sulla regola dell’ "appartenenza" (indico con questo termine la "protezione" accordata dalle correnti, in seno al CSM, agli "appartenenti" o aderenti che dir si voglia). L’appartenenza costituisce punto di approdo di un progressivo degrado (specularmente a quanto è avvenuto nei partiti politici), determinato non tanto e non solo dalla "immoralità" di questo o quel magistrato, quanto dalla logica del sistema elettorale, secondo la quale il voto, come la pecunia, non olet. Ne sono derivate, per la magistratura, gravi cadute in ordine ai controlli di professionalità, ai livelli di deontologia, alla nomina dei capi degli uffici. L’urgente opera di bonifica non potrà dunque non iniziare proprio dal luogo ove viene declinata l’ "appartenenza": il luogo elettorale. Come? Svelando - con il fatto stesso di disertare le urne - la vera valenza oggettiva della votazione (al di là delle valenze soggettivamente attribuite dai singoli): il patto di "appartenenza". La contestazione non vuole creare nessun nuovo gruppo (per non creare nuova "appartenenza") né dividere la magistratura in "buoni" e "cattivi": intende solo distinguere tra chi ritiene che il sistema possa essere migliorato "dal di dentro", e chi, invece, pensa che esso vada ricostruito ex novo. Neppure si vuole creare un sistema-giustizia tutto nuovo e tutto santo; infatti come insegna N. Bobbio: "Quando la speranza è cieca, e non ha altro fondamento che la propria insoddisfazione del mondo, il desiderio spasmodico di un altro mondo tutto diverso e mai visto prima d’ora, finalmente libero e giusto e benedetto e riscattato dalla violenza sovvertitrice, esso altro non è che la maschera della disperazione". La contestazione ha ben chiari i rischi che l’attendono, essendo in agguato non solo fortissime resistenze "interne", ma anche forze "esterne", sempre pronte a ridimensionare il ruolo assegnato al Csm dalla Costituzione. Ciò nonostante rimane ferma la convinzione che una recuperata autorevolezza del Csm costituisca la migliore difesa per l’indipendenza della magistratura. La contestazione che si affaccia all’orizzonte può dunque definirsi come operazione di avanguardia - nel senso più oggettivo e meno retorico del termine - secondo le parole usate da J. Habermas per individuare il carattere proprio dell’intellettuale: "egli è caratterizzato dal fiuto avanguardistico per ciò che è rilevante. Egli si deve interessare agli sviluppi critici di un fenomeno quando gli altri sono fermi al businnes as usual. Ciò non richiede affatto qualità eroiche, bensì una sospettosa sensibilità per ciò che può danneggiare le infrastrutture normative della collettività; l’anticipazione apprensiva di pericoli che minacciano le condizioni mentali della vita politica collettiva; il senso per ciò che manca e che ‘potrebbe essere altrimenti’. Un po’ di fantasia nell’ideare alternative e un po’ di coraggio nel polarizzare, suscitare scandalo, scrivere pamphlet". È esattamente quello che intendiamo fare, per contribuire a curare il male denunciato da E. Scalfari: "l’intera società si è trasformata in un sistema di caste che si guardano reciprocamente in cagnesco. Nessuna di loro è portatrice di una visione del bene comune". Giustizia: pdl del Pdci; polizia penitenziaria tra i lavori usuranti
Ansa, 12 luglio 2007
Una proposta di legge per estendere i benefici previdenziali previsti per i lavori usuranti ai lavoratori e delle lavoratrici del sistema penitenziario. L’hanno presentata, annuncia una nota, Silvio Crapolicchio e Ferdinando Pignataro, entrambi parlamentari del Pdci. Secondo i due esponenti del Pdci, "il malfunzionamento e la crisi permanente in cui versano il sistema penitenziario, protratti nel tempo, comportano per il lavoratore conseguenze psico-fisiche frutto di sollecitazioni e stimoli ambientali che opprimono e riducono la sua capacità di trovare un adattamento positivo all’ambiente di lavoro". Si avverte dunque, secondo i cofirmatari della proposta, "l’esigenza di una nuova proposta legislativa volta ad estendere a coloro che operano negli istituti penitenziari le disposizioni relative al lavoro usurante, di concedere a queste particolari categorie (riconoscendo carattere di straordinarietà alla loro attività) tutti i benefici pensionistici che si traducono nella riduzione dell’età anagrafica e di contribuzione, senza che il loro costo ricada sulla categoria stessa". Polizia Penitenziaria negli Uepe: decreto va ancora riformulato
Vita, 12 luglio 2007
Il confronto tra l’Amministrazione Penitenziaria e i Sindacati, sull’iniziativa di sperimentare l’utilizzo di agenti penitenziari negli Uffici dell’esecuzione penale esterna (Uepe), con il ruolo di controllo nelle misure alternative, si è concluso ieri con un nuovo nulla di fatto. Il Capo del Dipartimento, Ettore Ferrara tenuto conto delle numerose criticità evidenziate su tale proposta da tutte le organizzazioni sindacali, ha comunicato il rinvio della discussione a data da definire e la predisposizione di una nuova bozza di decreto (la terza). La notizia è rimbalzata subito sul blog di solidarietà degli assistenti sociali, da cui era partita proprio la manifestazione di dissenso all’iniziativa del Ministro della Giustizia Clemente Mastella. Il Comitato di Solidarietà Assistenti Sociali e il Coordinamento Nazionale Assistenti Sociali parlano di "un importantissimo risultato" in quanto "hanno avuto ragione, le obiezioni e i dubbi di legittimità sul decreto, espresse dagli assistenti sociali degli Uepe di tutta Italia e da tutti coloro che hanno appoggiato la mobilitazione di questi mesi, a dimostrazione che non è mai stato un dissenso preconcetto e contro una parte dei lavoratori del sistema penitenziario. Adesso prevalga il senso di responsabilità e si superi l’idea inaccettabile che l’unica cosa importante sia quella di partire con la sperimentazione, a prescindere da tutto". Secondo Anna Muschitiello, segretaria nazionale del Casg, la bozza di decreto interministeriale discussa ieri, non solo non accoglieva le richieste degli operatori degli Uepe, ma peggiorava le condizioni in cui sarebbe avvenuta la sperimentazione, ribadendo la volontà che i nuclei di polizia penitenziaria sarebbero stati collocati negli Uepe e configurando in maniera più incisiva, che nella precedente bozza di Decreto Ministeriale, un ruolo dei Direttori degli Uepe (assistenti sociali anch’essi), sempre più vicino a quello di funzionari di Polizia, piuttosto che di Dirigenti con una necessaria e specifica connotazione tecnico-professionale, rafforzando l’immagine del servizio Uepe come parte integrante degli Organismi di ordine pubblico e sicurezza a scapito della sua natura di servizio sociale". In previsione della stesura della nuova bozza di decreto, l’Associazione degli assistenti sociali della giustizia, chiede che venga salvaguardata la connotazione sociale degli Uepe e il sistema dei Servizi Sociali della Giustizia, superando la previsione di inserire presso gli Uepe i nuclei di polizia penitenziaria ed escludendo tra l’eventuale competenza della polizia penitenziaria sulle misure alternative al carcere, il controllo della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale (nel rispetto dell’art.72 dell’ordinamento penitenziario e dell’art. 118 del regolamento di esecuzione)". Nell’incontro di ieri, la delegazione Uil-Penitenziari (Sarno, Urso, Algozzino) nel proprio intervento ha ritenuto dover sottolineare come la nuova bozza di decreto interministeriale non rispondesse alle istanze richieste dalla Uil " …. è un decreto che aggiunge elementi di confusione , non chiarisce i compiti e le funzioni addirittura, anzi ci pare di poter dire che si ravvedono rischi di sovrapposizioni e ingerenze con altre professionalità …. Sia ben chiaro che la UIL è contraria a qualsiasi progetto che rischi di duplicare compiti e funzioni e affermi indebite ingerenze nelle competenze delle singole professionalità …. ". La Sag-Unsa, in merito al decreto interministeriale sottoposto ieri alle OO.SS., ha rilevato che - "ad oggi l’aspetto organizzativo generale degli Uepe non è stato affrontato ai sensi e con riferimento al vigente art. 72 - legge 26 luglio 1975 n. 354"; che "le misure alternative alla detenzione, in linea con l’indirizzo politico delineato dal Ministro, non sono state né incrementate né novellate"; che "le risorse umane e materiali degli Uffici Epe non vengono né richiamate né valutate"; che "nessun confronto è in essere circa le misure alternative alla detenzione". A fronte di tali carenze il decreto interministeriale presentato, sempre per Sag-Unsa, ha evidenziato:- "una totale assenza di copertura economica sia per l’operatività sperimentale sia per il fabbisogno formativo del personale";- "la mancata indicazione del contingente di Polizia Penitenziaria di cui si ipotizza l’impiego, al fine di consentire un’adeguata valutazione alle OO.SS. che lamentano, da tempo, la carenza di organico per i servizi d’istituto";- "l’inesistenza di riferimenti (e coinvolgimento) alle imprescindibili funzioni, e prerogative, della Magistratura di Sorveglianza alla luce dell’introduzione di misure di controllo in materia di esecuzione penale esterna";- "l’impropria estensione al Prefetto di funzione demandate all’Autorità Giudiziaria";- "l’inaccettabile ricorso a discutibili norme regolamentari in un quadro definito da fonti giuridiche". In concreto, per Massimo Capobianco, responsabile delle attività trattamentali del Sag-Unsa, non è stata superata la pregiudiziale, posta dalla nostra O.S., consistente nella apertura di un confronto generale sull’esecuzione penale esterna senza alcuna frammentazione della materia in favore "di forzature settoriali". Polizia Penitenziaria negli Uepe: documento Cisl-Penitenziari
Blog di Solidarietà, 12 luglio 2007
È proseguito oggi il confronto tra Amministrazione Penitenziaria ed OO.SS. del personale, relativamente alla ipotesi di decreto interministeriale sulla costituzione sperimentale dei Nuclei di Verifica della Polizia Penitenziaria negli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna. Abbiamo evidenziato, per l’ennesima volta, che è opportuno definire alcuni aspetti dell’ipotesi di decreto relativamente agli elementi di legittimità, e migliorando le parti che disciplinano l’operatività della sperimentazione. Ma l’aspetto principale della questione - per la Cisl - rimane quello che il progetto debba avere le caratteristiche di avvio di un percorso più complessivo, capace di sviluppare una riforma vera dell’Esecuzione Penale in Italia e dove il Parlamento debba legiferare in linea con gli indirizzi Europei sulle pene alternative. Questo aspetto è stato condiviso dallo stesso Capo del Dap. È stata per noi, per la Cisl, l’occasione per evidenziare la strumentalità di certe polemiche sviluppatesi negli ultimi mesi e dove qualche Organizzazione Sindacale, a parer nostro con scarso senso di responsabilità, ha inteso fomentare. Riteniamo di estrema evidenza che Tutti dovrebbero avere ben presenti gli obiettivi del nostro agire nel mondo penitenziario. L’articolo 27 della Costituzione Italiana non assegna a nessuna categoria di Operatori Penitenziari l’esclusività dell’Esecuzione Penale, né che sia nell’ambito delle strutture penitenziarie, né che si tratti di misure alternative al carcere e ricadenti nella attività dell’Esecuzione Esterna. Siamo soddisfatti del fatto che lo stesso Pres. Ferrara abbia potuto formalmente dichiarare che questa non è una operazione d’immagine, per nessuno e tanto meno per la polizia penitenziaria. Trattasi invece di una scelta indicata dal Ministro e che determina l’impegno dell’Amministrazione Penitenziaria a trovare una modalità attuativa di un sistema di controllo ancora più efficiente. Per questi motivi è ancora più incomprensibile l’atteggiamento di chi continua a fomentare divisioni tra Operatori che non hanno ragione di esistere. Cosa può esserci di strano se i compiti di controllo assolti oggi da Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato verranno assegnati al personale di Polizia Penitenziaria. Quelli - e solo quelli - sono i compiti che devono vedere avviata la sperimentazione proposta dal Dap e che, per quanto ci riguarda, non c’è niente di strano a voler realizzare. Se poi la sperimentazione dovesse dare indicazioni negative sarà quella l’occasione per valutare se si debba giungere ad un decreto interministeriale definitivo o meno. Il Pres. Ferrara ha ritenuto quindi opportuno aggiornare la riunione potendo quindi consentire alla delegazione di Parte Pubblica di verificare le osservazioni formulate dalle OO.SS. quest’oggi. Compatibilmente con gli altri tavoli di confronto già avviati sarà probabile una convocazione di una nuova riunione entro i prossimi 10-15 giorni. Sarà nostra cura informare di ogni ulteriore sviluppo.
Il Coordinatore Responsabile, Marco Mammuccari Polizia Penitenziaria negli Uepe: comunicato del Sag-Unsa
Blog di Solidarietà, 12 luglio 2007
Il Sag-Unsa, in merito al decreto interministeriale sottoposto in data odierna alle OO.SS., richiamando tout court i contenuti delle note del 14 e 29 maggio 2007 e l’impostazione di quanto in esse sotteso, rileva quanto segue: ad oggi l’aspetto organizzativo generale degli Uepe non è stato affrontato ai sensi e con riferimento al vigente art. 72 legge 26 luglio 1975 n. 354; le misure alternative alla detenzione, in linea con l’indirizzo politico delineato dal Ministro, non sono state né incrementate né novellate; le risorse umane e materiali degli Uffici EPE non vengono né richiamate né valutate; nessun confronto è in essere circa le misure alternative alla detenzione. A fronte di tali carenze il decreto interministeriale presentato evidenzia: una totale assenza di copertura economica sia per l’operatività sperimentale sia per il fabbisogno formativo del personale; la mancata indicazione del contingente di Polizia Penitenziaria di cui si ipotizza l’impiego, al fine di consentire un’adeguata valutazione alle OO.SS. che lamentano, da tempo, la carenza di organico per i servizi d’istituto; l’inesistenza di riferimenti (e coinvolgimento) alle imprescindibili funzioni, e prerogative, della Magistratura di Sorveglianza alla luce dell’introduzione di misure di controllo in materia di esecuzione penale esterna; l’impropria estensione al Prefetto di funzione demandate all’Autorità Giudiziaria; l’inaccettabile ricorso a discutibili norme regolamentari in un quadro definito da fonti giuridiche. In concreto non si ritiene superata la pregiudiziale, posta dal Sag-Unsa, consistente nella apertura di un confronto generale sull’esecuzione penale esterna senza alcuna frammentazione della materia in favore "di forzature settoriali". Infine, non certo per importanza, appare del tutto impropria la premessa del decreto interministeriale ove subordina il ricorso all’ ampliamento dell’ uso delle misure alternative "al rispetto delle prescrizioni", compito quest’ ultimo conferito esclusivamente al Corpo di Polizia Penitenziaria. Tale impostazione appare riduttiva (anche culturalmente) e tesa a disconoscere l’apporto di tutte le figure trattamentali che pongono in essere da anni, e con puntualità, il dettato dell’ articolo 27 della Costituzione: elemento fondante dello intervento nel contesto della devianza, che ha indiscutibilmente una valenza primaria rispetto al „ semplice controllo.
Il Responsabile del Settore Trattamentale Dott. Massimo Capobianco Polizia Penitenziaria negli Uepe: comunicato della Uil-Penitenziari
Blog di Solidarietà, 12 luglio 2007
In data odierna Dap e OO.SS. hanno ripreso il confronto sulla bozza di un Decreto Interministeriale (Giustizia-Interno) per l’istituzione dei Nuclei di Verifica presso gli Uepe. La delegazione Uil-Penitenziari (Sarno, Urso, Algozzino) nel proprio intervento ha ritenuto dover sottolineare come la nuova bozza di decreto interministeriale non rispondesse alle istanze richieste dalla Uil "…. è un decreto che aggiunge elementi di confusione, non chiarisce i compiti e le funzioni addirittura, anzi ci pare di poter dire che si ravvedono rischi di sovrapposizioni e ingerenze con altre professionalità. Sia ben chiaro che la Uil è contraria a qualsiasi progetto che rischi di duplicare compiti e funzioni e affermi indebite ingerenze nelle competenze delle singole professionalità. La polizia penitenziaria deve essere deputata ai controlli, non alla redazione dei programmi di trattamento e alle indagini socio-familiari". Rilievi critici sono stati mossi anche rispetto all’impianto complessivo della proposta che pare ridurre gli ambiti di competenza " … questa proposta affida alla polizia penitenziaria solo i controlli sulle persone ammesse all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare… noi siamo dell’avviso che si possano prevedere anche altri controlli (art. 21, semilibertà, ecc.) , questo sarebbe funzionale ad una reale visibilità e ad un recupero di unità per le altre forze di polizia". Nel merito della bozza proposta la Uil ha fatto rilevare che l’attribuzione dei controlli alla polizia penitenziaria si ritiene debba essere prevista in via esclusiva e non in via prioritaria . Riserve sono state espresse in ordine al percorso formativo e alla presenza di funzionari del Ministero dell’Interno nelle Commissioni di selezione e valutazione "… abbiamo già detto che questi percorsi formativi ci appaiono inutili rispetto al progetto che abbiamo in mente. Ovviamente non è assolutamente condivisa la possibilità che personale della polizia penitenziaria sia selezionata ed esaminata da funzionari del Ministero dell’Interno, questo non sta ne in cielo ne in terra. La polizia penitenziaria ha già le competenze e le professionalità per esperire i controlli e compiti di polizia". Sul tema la Uil ha fatto anche rilevare la necessità di ridefinire le competenze del Prefetto rispetto alla gestione complessiva della sperimentazione "…ci sembra che i Prefetti assumano un ruolo sovradimensionato rispetto alle reali esigenze". Sulla sperimentazione Eugenio Sarno ha anche richiamato "…. la possibilità che sia in prima battuta il personale che già è impiegato negli Uepe ad assumere il servizio, piuttosto che impiegarlo come autista, portaborse, centralinista, ecc. lo si impieghi in compiti cui naturalmente sono destinati. Anche la previsione che la sperimentazione parta solo su quattro regioni ingenera delle perplessità. Occorre rilevare dati eterogenei, l’attuale previsione assumerebbe dati omogenei rispetto all’utenza e al tessuto sociale. Noi chiediamo che siano previsti Nuclei di verifica a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale". Il Pres. Ferrara avendo rilevato, anche dagli interventi delle altre OO.SS., i rilievi critici ha aggiornato la discussione ad altra data nelle more di una ulteriore redazione di bozza del Decreto Interministeriale. Calabria: la Crvg solidale con Provveditore Paolino Quattrone
Comunicato stampa, 12 luglio 2007
In merito all’articolo pubblicato dal "Giornale di Calabria" domenica 8 luglio, come Conferenza Regionale Volontariato Giustizia e a nome di tutte le Organizzazioni di Volontariato che operano nelle carceri, esprimiamo piena fiducia nell’operato del Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria dr. Paolino Quattrone. È sotto gli occhi di tutti noi la metamorfosi che le strutture calabresi, pur nella esiguità delle risorse e nella quasi chiusura delle Istituzioni, hanno subito. Il mondo del volontariato, che più di tutti vive la realtà del penitenziario, sa quanta dedizione, competenza e "amore" ha profuso il dr. Quattrone per migliorare la qualità della vita della popolazione detenuta. Se certe affermazioni rispondono a vero, conoscendo il dr. Quattrone, mi permetto di dire che sono dettate dalla "rabbia" e "delusione" della politica che privilegia le "parole" al "fare", che ama le "interrogazioni" anziché stimolare risposte concrete da parte di chi, preposto, fa sempre "orecchio da mercante" o si mobilita solo quando il "palazzo" trema. Conosco bene quanto ha sofferto il dr. Quattrone nel veder naufragare, proprio per l’insensibilità della politica, tutti i progetti che gli Uffici avevano elaborato per offrire concrete opportunità di reinserimento. Era ed è questa una delle risposte concrete alle varie "emergenze" della nostra Regione e non quella di sollevare polveroni a distanza da chi probabilmente disconosce la vera realtà delle carceri calabresi o non ha vissuto l’evoluzione che le stesse hanno subito nel giro di pochi anni, cioè durante la gestione del dr. Quattrone. Chi opera è sempre "additato", specie da chi ama l’immobilismo o da chi ha una visione unilaterale della questione e si prefigge, quindi, come obiettivo, solamente di colpire chi "agita le acque", perché è cosciente che solo agitandole si possono ossigenare.
Antonio Morelli Responsabile Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Calabria: Movi regionale; solidarietà a Provveditore Quattrone
Comunicato stampa, 12 luglio 2007
Ingiustificato l’attacco dell’On. Pignataro. Il sistema penitenziario calabrese sta facendo passi avanti. Come responsabile regionale del Mo.V.I. (Movimento di Volontariato Italiano) esprimo sorpresa e sconcerto per i giudizi sommari ed ingiusti che l’on. Pignataro ha esternato verso la gestione delle carceri calabresi da parte del Provveditore Paolo Quattrone. Giudizi che non rispondono assolutamente alla realtà dei fatti. Probabilmente, il Parlamentare non è stato bene informato. Se egli avesse visitato le carceri calabresi, se avesse dialogato con le associazioni di volontariato che vi operano, con i detenuti, gli operatori, le valutazioni sarebbero state sicuramente profondamente diverse. Il Provveditore Quattrone ha trasformato in pochi anni una situazione di immobilismo e di palude in un cantiere di sperimentazioni, di attività trattamentali avanzate, di apertura delle carceri alla comunità esterna, di incentivazione al lavoro ed al reinserimento sociale. Come mondo del volontariato abbiamo avuto modo di apprezzare direttamente, attraverso progetti ed attività concrete, il suo impegno, testimoniato dal numero dei soggetti ammessi al lavoro, alla vivibilità delle carcere, alle intese con Regione ed Enti Locali per collaborazioni importanti per il recupero dei soggetti detenuti. Di fronte a questi attacchi, esprimiamo preoccupazione e timori che si voglia avviare in Calabria un processo di restaurazione in questo settore delicato che per decenni è stato caratterizzato da immobilismo e che ha avuto gli onori della cronaca solo per fatti delittuosi e per proteste dei detenuti piuttosto che per attività di valenza sociale e pedagogica. Certamente questa politica disturba chi vorrebbe una gestione "privata" e chiusa delle carceri. Come volontariato esprimiamo solidarietà al Provveditore e chiediamo che la sua opera di rinnovamento prosegua con ancora maggiore slancio ed incisività.
Giovanni Serra Presidente regionale del MoVI Milano: il Comune "taglia" fondi per sostegno agli ex detenuti
Redattore Sociale, 12 luglio 2007
Il loro compito è aiutare i detenuti a ricostruirsi una vita: sono i sei operatori del servizio Puntoacapo, gestito dalla cooperativa sociale A&I. Dal marzo 2003 al dicembre 2006 hanno seguito 1.097 detenuti delle carceri di San Vittore, Bollate e Opera: li hanno presi in carico quando mancavano pochi mesi alla scarcerazione e poi li hanno aiutati, una volta usciti, a trovare un lavoro, una casa, a mettersi in regola con i documenti (dopo anni fra le sbarre alcuni non hanno più una carta d’identità e una residenza), a riallacciare i rapporti familiari oppure a rivolgersi ai servizi sanitari se avevano bisogno di cure. Peccato che fra qualche settimana Puntoacapo chiuderà: il servizio è infatti del Comune, la convenzione con la cooperativa A&I è scaduta a fine dicembre e in questi sette mesi non è stata ancora indetta la gara d’appalto per assegnare il servizio. "Abbiamo avuto generiche rassicurazioni che il bando verrà ripubblicato, ma siamo a luglio e non abbiamo ancora visto nulla - spiega Luigi Pizzuti, direttore della cooperativa A&i-. Portare avanti questo servizio costa, per qualche settimana possiamo ancora farcela, ma poi dovremo abbandonare perché ci stiamo indebitando". Il primo bando per il servizio Puntoacapo risale al 2003 ed era triennale, con una spesa per anno di circa 140 mila euro. "Nel giugno dell’anno scorso c’è stata la nuova gara d’appalto - spiega Simona Silvestro, coordinatrice di Puntoacapo -. L’abbiamo vinta, ma era solo per sei mesi". Oggi la cooperativa A&I sta seguendo circa 200 fra detenuti ed ex detenuti. "In questi mesi siamo andati avanti col servizio solo perché non ce la sentivamo di abbandonare a se stesse queste persone - aggiunge Simona Silvestro -. In media le seguiamo per un anno e mezzo dopo che sono state scarcerate: è un lavoro lungo e paziente, hanno bisogno di chi li sostenga nel cambiare vita". Per questo il servizio è stato chiamato Puntoacapo: aiuta a dare una svolta, a lasciarsi alle spalle gli anni di carcere e a guardare avanti. Gli operatori non fanno tutto da soli: coinvolgono gli altri servizi per gli ex detenuti, come per esempio "Un tetto per tutti" (servizio gestito da diversi enti con capofila Caritas Ambrosiana e che offre posti letto e appartamenti; ndr) o il "Celav" (gestito sempre da A&I per l’inserimento lavorativo), oppure i servizi territoriali (settore adulti in difficoltà del Comune, asl, cooperative sociale, consultori ecc; ndr). "Il nostro compito è quello di prepararli ai vari passaggi - sottolinea Simona Silvestro -. È per questo che iniziamo a incontrarli quando sono ancora in carcere: possiamo capire quali problemi avranno fuori e organizzare il progetto migliore per loro. Per esempio, c’è chi può già tentare di trovare un lavoro e ha bisogno di un aiuto per fare il curriculum e un po’ di indirizzi ai quali spedirli, ma altri invece prima devono risolvere problemi di tipo psicologico, oppure trovare almeno un domicilio e rifarsi i documenti. Facciamo un po’ da registi, guidiamo queste persone lungo un percorso che ha come obiettivo quello di renderli autonomi. Ogni persona va seguita rispettando la sua storia e le sue potenzialità". Il caso della cooperativa A&I non è isolato. Anche la convenzione del servizio un "Tetto per tutti" non è stata rinnovata finora. C’è un malumore generale fra le realtà del non profit che si occupano di carcere a Milano. "Il Comune ha di fatto disconosciuto l’Osservatorio carcere - spiega Corrado Mandreoli, responsabile del dipartimento politiche sociali della Cgil di Milano -. Vi facevano parte associazioni, cooperative e istituzioni ed era il luogo in cui insieme progettare gli interventi a favore dei detenuti. Oggi l’assessorato ai Servi sociali ha istituito un tavolo sulle povertà mettendo tutti insieme, da chi si occupa di handicap ai senza dimora al carcere. L’Osservatorio va avanti da solo perché è nostro, ma non è più di fatto il luogo in cui non profit e comune lavorano insieme e questo è un danno grave sia per i detenuti sia per la città". Uno dei temi ricorrenti nel dibattito politico è quello della sicurezza, ma l’assistenza ai detenuti langue. "Da parte dei detenuti c’è una richiesta continua e pressante di aiuto, e noi siamo in prima linea anche a nome del comune, che però ci lascia soli", conclude Corrado Mandreoli.
"Avevo paura di uscire dal carcere": la storia di Omar
Da sette anni in carcere, Omar non voleva uscire. Aveva paura del mondo che c’era fuori dalle sbarre. "Che cosa può sperare uno straniero senza documenti, senza lavoro e senza una casa? - chiede -. Ero terrorizzato dall’idea di tornare in strada e di essere un nulla". Nel carcere di Opera invece Omar aveva un lavoro: scalpellino in una cooperativa che restaura anche i capitelli delle guglie del Duomo. Quando mancano sei mesi alla scarcerazione, Omar viene contattato da Dalia, una delle operatrici di Puntoacapo. "All’inizio non mi fidavo - spiega Omar -, ma poi ho capito che forse potevo con lei risolvere i miei problemi". Omar, prima di finire in galera, aveva convissuto con una donna italiana, dalla quale era nata una figlia. "Ci siamo resi conto - aggiunge Dalia -, che poteva avere qualche chance in più proprio perché con una figlia italiana non avrebbe ricevuto il foglio di espulsione". Per i detenuti stranieri infatti il destino fuori dal carcere è quasi sempre già scritto: espulsione, salvo alcuni casi particolari come quando hanno figli o coniugi italiani. Inaspettato poi arriva l’indulto. "La sera del 2 agosto 2006 sono stato rilasciato - ricorda Omar -, ma con altri detenuti stranieri sono stato caricato su un furgone e portato in questura. Quasi tutti hanno ricevuto il foglio di via. Io no perché nel frattempo Dalia e la mia ex convivente mi avevano procurato il certificato di nascita di mia figlia". Alle tre di notte Omar è libero. "Ero fuori dalla questura, pioveva e non sapevo che fare - racconta- . Sono andato alla cooperativa A&I e ho aspettato il mattino che aprissero gli uffici". Dopo avergli trovato un posto letto in uno degli appartamenti di "Un tetto per tutti", Dalia ha aiutato Omar ha procurarsi i documenti d’identità. "Per l’Italia ero solo uno straniero e per il consolato egiziano ero una persona di cui da anni non avevano più notizie - afferma -. Ci ho messo sei mesi ad ottenere dall’Egitto un nuovo passaporto". A quel punto ha ottenuto il permesso di soggiorno e ha trovato un lavoro. "Sono stato assunto part time da un’impresa di pulizie - spiega Omar -. Mi alzo alle quattro del mattino e con gli straordinari arrivo a prendere 800 euro. È dura, ma sono soddisfatto, sono fiero di quello che sto facendo". In questi mesi Omar ha potuto conoscere meglio sua figlia. "Quando sono finito in prigione aveva pochi mesi - dice -. A volte mi contesta, mi rinfaccia la mia assenza in questi anni. Ci vuole molta pazienza e la capisco. Ma ora sono cambiato e vivo per lei".
Il caso di Puntoacapo? "È solo la punta dell’iceberg"
"Il caso del servizio Puntoacapo è solo la punta dell’iceberg, l’assessorato ai Servizi sociali di Milano è di fatto paralizzato per mancanza di personale e non riescono a stare dietro a tutto": non usa mezzi termini Andrea Fanzago, consigliere comunale d’opposizione dell’Ulivo, nel commentare il malumore delle cooperative e associazioni che si occupano di carcere. "In particolare il settore adulti in difficoltà è stato ridotto all’osso e c’è stato un ricambio di funzionari che non ha migliorato la situazione - aggiunge Andrea Fanzago -. Abbiamo già fatto un’interrogazione in Consiglio e avevamo anche chiesto una seduta speciale della commissione servizi sociali per discutere della situazione dell’Assessorato, ma non abbiamo mai ottenuto risposta". E non è solo chi si occupa di detenuti a lamentarsi. "Anche nel campo delle tossicodipendenze molte convenzioni non sono state rinnovate - aggiunge il consigliere comunale dell’Ulivo -. Per esempio, il Ceas (Centro ambrosiano di solidarietà; ndr) continua a gestire la Linea verde droga, ma l’appalto è scaduto il 31 dicembre 2006. Inoltre, la manutenzione delle macchine scambia-siringhe è stata sospesa, dopo lo stop al servizio annunciato dalla Moratti, con una semplice telefonata dall’assessorato alle società che l’ha in appalto, mentre invece avrebbe dovuto esserci una delibera del Consiglio comunale". Dall’assessore ai Servizi sociali Mariolina Moioli per ora nessun commento. Il 21 giugno abbiamo inviato via mail al suo ufficio stampa la richiesta di un’intervista, abbiamo sollecitato più volte telefonicamente, ma finora non ci è stata concessa. Padova: il nuovo carcere, costruito male e subito sovraffollato
www.radiocarcere.com, 12 luglio 2007
Dopo tre anni di pena, il 30 maggio sono uscito dal carcere. Tre anni divisi tra il vecchio carcere di Padova e quello nuovo. Tre anni passati tra prima dell’indulto e dopo l’indulto. Come dire: sovraffollamento, sfollamento e di nuovo sovraffollamento. Degrado, trasloco, degrado. Il vecchio carcere di Padova era un lager. Sporco, e strapieno. Un carcere fatto per 120 detenuti dove, prima dell’indulto, eravamo in 308. Un inferno la cella piccola, di 6 mq, fatta per un solo detenuto, dove ci stavamo in tre. Dentro: i letti a castello di tre piani e un tavolo. Quando uno di noi andava al cesso, gli altri due detenuti si mettevano alla finestra. In quel buco di cella il cesso non era separato, ma stava a 30 cm dal letto. Poi c’erano le celle più grandi. I celloni. All’inizio nei celloni eravamo 9 persone, poi siamo diventati 10 e infine 12 persone. Un inferno di 18 mq. Noi stavamo chiusi lì dentro per 20 ore al giorno. Unico svago: guardare la Tv. Non eravamo persone, ma numeri con un reato. Ogni giorno solo umiliazioni e disperazione, sia nell’inferno di 6 mq che in quello di 18 mq. Per immaginare un inferno, basta dire della cella 19. Lì una mattina un ragazzo rumeno, di soli 24 anni, si è impiccato alle sbarre con dei pantaloni ed è morto. Il giorno prima aveva visto la psicologa. Nessun disagio riscontrato. 24 anni morto. Poi è arrivata la notizia dell’indulto. Molti sono usciti da quell’inferno e per qualche mese si stava meglio. Da 308 siamo scesi ad essere 170 detenuti e la differenza si vedeva. Purtroppo l’effetto indulto è durato 3 o 4 mesi. Infatti, presto il carcere si è ripopolato. 190, 220, fino a diventare, già all’inizio del 2007, 284 detenuti. Sono ricomparsi i letto a castello a tre piani, e siamo tornati più o meno a come era prima dell’indulto. Eravamo demoralizzati. Tornare al degrado di prima era come ricevere un’altra condanna. L’unica speranza era il nuovo carcere di Padova. Sapevamo che ci avrebbero trasferito e ci dicevamo: "tra poco ci porteranno nel nuovo carcere, staremo meglio!". Illusi. Il 5 febbraio, senza preavviso, ci hanno detto di preparaci a passare al nuovo carcere. Il trasloco è stato un gran casino. Tutti di fretta a mettere nelle buste le nostre cose. C’era chi si è scambiato la busta, chi si era dimenticato le ciabatte o la foto della fidanzata. Dopo due ore, a piedi come fossimo pecore, ci hanno portato nel nuovo carcere. Che poi è nuovo tra virgolette, perché è una struttura già usata in passato come caserma, riadattata a carcere. Appena entrati, abituati al vecchio carcere, eravamo contenti. Tutto era pulito, il bagno era separato dalla cella e avevamo la doccia, un lusso! Lì per lì non ci siamo accorti che eravamo già sovraffollati. Il nuovo carcere è fatto solo per 98 detenuti e noi, già il primo giorno, eravamo in 145. Ma il peggio doveva arrivare. La seconda notte tutte le celle del primo piano sono state invase dalle acque nere, ovvero merda. In pochi minuti cerano 16 cm di merda in tutto il primo piano. Usciva dai lavandini, dai gabinetti e dalle docce. Quel liquame ha invaso pure le cucine del carcere, igienico no? Nella notte, per non farci dormire in 16 cm di merda, c’hanno portato al piano di sopra e ci hanno messo nelle celle dove già cerano tanti detenuti. Questo il benvenuto nella nuova struttura del carcere di Padova. Un carcere fatto male. Così l’impianto elettrico, che è completamente computerizzato, saltava 3 volte al giorno. Noi rimanevamo al buio e suonavano gli allarmi, senza considerare che senza luce non potevamo vedere la Tv, rimasta per noi unico svago. Nei mesi successivi aumentavano i detenuti e i disagi. In poco tempo siamo arrivati a quota 190 detenuti. E nel nuovo carcere di Padova, ancora oggi, nella cella per un detenuto ce ne sono tre. Mentre nella cella grande ce ne stanno 7. Al sovraffollamento si aggiungevano i disagi del "nuovo" carcere, come le continue infiltrazioni d’acqua, o le porte elettroniche che si bloccavano in continuazione. Ma c’è pure da ridere! Il carcere di Padova infatti è stato rifatto per essere sicuro. Ora io, facevo la manutenzione, ho scoperto che le serrature automatiche che chiudevano le porte delle celle non funzionavano. Bastava spingere il cancello con un dito e la porta della cella si sarebbe aperta. Sicuro no? L’ho detto al comandante e abbiamo riparato le serrature, ma per modo di dire. Nel senso che non sono sicuro che tutte le serrature delle celle si chiudano bene. È una cosa assurda. La disfunzione peggiore riguarda il cortile per fare l’ora d’aria. Infatti, quando hanno progettato il nuovo carcere di Padova si sono dimenticati di fare il cortile per il passeggio dei detenuti. Allora hanno dovuto fare un altro progetto per il cortile. Poi sono finiti i soldi, e allora hanno fatto un solo cortile e per di più troppo piccolo rispetto ai detenuti presenti. Così invece di fare due ora d’aria la mattina e il pomeriggio, ce ne facevano fare solo una. Risultato: stare chiusi in cella non 20 ore, ma 22 ore al giorno! Questa realtà io ho lasciato nel carcere di Padova. Sovraffollamento e disperazione. Perché stare 22 ore chiusi in una cella sovraffollata significa impazzire. Non a caso anche nel "nuovo" carcere di Padova si fa un gran uso di sedativi, di gocce. Dormi e non vivi il degrado, l’umiliazione. Altri si tagliano le braccia, con i barattoli di pomodoro. Sono per lo più stranieri. Si fanno ferite tremende, e il sangue ogni giorno scorre nel "nuovo" carcere di Padova.
Giuseppe, 39 anni Viterbo: denuncia al Garante; la sezione del 41-bis è invivibile
Garante dei detenuti del Lazio, 12 luglio 2007
Situazione insostenibile nell’area riservata del carcere di Viterbo, dove sono reclusi i detenuti soggetti al 41-bis. I reclusi scrivono al Garante regionale dei detenuti Angiolo Marroni per denunciare "abusi e precarie condizioni igienico-sanitarie". Colloqui con l’esterno negati, precarie condizioni igienico-sanitarie, presunti abusi. Sarebbero queste alcune delle condizioni di vita nell’Area Riservata del carcere "Mammagialla" di Viterbo, dove sono reclusi i detenuti sottoposti al 41-bis. Le denunce arrivano dagli stessi detenuti sono contenute in diverse lettere inviate al Garante Regionale del Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni. Luigi - in carcere dal novembre 1986 e sottoposto al 41-bis dal 21 luglio 1992 - è stato trasferito a "Mammagialla" il 25 novembre dello scorso anno per scontare un ergastolo per omicidio e associazione mafiosa. Anche sua moglie Anna è in carcere, da 11 anni, a Messina, dove sta scontando l’ergastolo per concorso in omicidio. Luigi lamenta il fatto di non poter più fare "colloqui visivi né interni" con la moglie perché "quando inoltro domanda al Dap per un colloquio interno aspettiamo uno o due anni per avere una risposta non positiva". In 11 anni i due hanno potuto vedersi faccia a faccia solo due volte. In altri istituiti l’uomo poteva fare una telefonata mensile alla moglie. A Viterbo - dice - le cose sono cambiate in negativo. "Le richieste per telefonare sono respinte per un motivo o per l’altro o per diniego della direzione". Da novembre ha potuto telefonare solo due volte. "Ad aprile ho fatto ricorso, contro la decisione della direzione di non farmi telefonare, al Magistrato di Sorveglianza. La Camera di Consiglio è prevista a settembre." Al Garante Luigi ha chiesto di adoperarsi per poter stare nello stesso carcere della moglie. Un altro detenuto, Alessio, chiede al Garante di visitare l’Area riservata. Secondo l’uomo nella sezione sono attualmente ospitate tre persone, "due delle quali vantano un provvedimento dell’Ufficio di Sorveglianza di Viterbo con cui si accoglie il reclamo avverso l’arbitraria allocazione presso tale sezione priva di finestre, sempre al buio e spessissimo invasa da liquami che fuoriescono dai wc. Decine di abusi che vengono perpetrati con disinvoltura nell’istituto. Come le precarie condizioni igienico-sanitarie a causa dei liquami maleodoranti che settimanalmente invadono la sezione." "I miei collaboratori si sono già adoperati per verificare, con la direzione del carcere, la situazione all’interno dell’Area Riservata - ha detto il Garante dei Detenuti Angiolo Marroni - Sarebbe, infatti, gravissimo se la realtà fosse quella denunciata nelle lettere. A prescindere dal reato commesso, queste persone hanno diritti fondamentali che non possono calpestati come quello a non perdere la propria dignità. Questa denuncia nasconde, in realtà, un secondo aspetto della questione: l’impossibilità, per il sottoscritto, di verificare di persona le condizioni dei detenuti in regime di 41-bis. Al Garante è impedito l’ingresso nelle sezioni speciali non da una norma di legge, ma da una direttiva interna del Dap. Un limite assurdo che, spero, venga rimosso". Torino: progetto del "Survival Kit" per le persone scarcerate
Comunicato stampa, 12 luglio 2007
Mercoledì 18 luglio alle ore 11.30 presso il Palazzo della Prefettura, Piazza Castello, si terrà la conferenza stampa per la presentazione del progetto "Survival Kit". Questo progetto consiste nella distribuzione di uno zainetto, composto da beni di prima necessità, alle persone dimittende o dimesse dal carcere che non possono contare su una rete relazionale esterna o la conoscenza del territorio nel quale vengono rilasciati, una volta terminata la pena. Il progetto "Survival Kit" è stato elaborato e realizzato all’interno del Consiglio d’Aiuto Sociale (Tribunale Ordinario di Torino) presieduto dal Dott. Francesco Gianfrotta e ha visto la partecipazione concreta di alcune fondazioni bancarie presenti sul territorio della città, del Gruppo Torinese Trasporti, Telecom, del C.A.S. stesso e del Comune di Torino nella figura della Dott.ssa Maria Pia Brunato - Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Alla conferenza stampa parteciperà - tra gli altri - il Presidente del Tribunale, Dott. Mario Barbuto.
Marco Colturato, Segreteria Garante diritti detenuti - Torino Ascoli: il 25 settembre la musica classica fa ingresso in carcere
Corriere Adriatico, 12 luglio 2007
Il 25 settembre alcuni artisti varcheranno la soglia del penitenziario. L’iniziativa è stata accolta con entusiasmo dalla direttrice Lucia Di Feliciantonio. Nel cortile della strutturasi terrà un concerto caratterizzato da brani di Bach, Mozart e Litsz. La musica classica entra tra le mura del supercarcere di Marino del Tronto. Accadrà il prossimo 25 settembre quando, alcuni degli artisti da camera presenti all’undicesimo anno dell’Ascoli Piceno Festival varcheranno la soglia del penitenziario ascolano con una sezione speciale creata dagli organizzatori della rassegna denominata "La musica solidale". La proposta di allestire nel cortile della struttura un concerto caratterizzato da brani di Bach, Mozart e Litsz, non usuale in analoghi istituti di reclusione della Penisola, è stata accolta con molto entusiasmo dalla direttrice Lucia Di Feliciantonio, estremamente gratificata di poter far entrare sonorità di grande bellezza in un luogo raramente oggetto di iniziative volte a migliorare l’umore dei suoi ospiti. "Ma quella del supercarcere non sarà l’unica volta che porteremo i nostri musicisti tra persone che vivono in condizioni non sempre felici" ha assicurato il presidente dell’Ascoli Piceno Festival, Gaetano Rinaldi, anticipando che la musica solidale, il 2 ottobre, si addentrerà anche nell’ospizio per anziani "Ferrucci" di Porta Cappuccina. Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 12 luglio 2007
Francesco, dal carcere di Secondigliano "Caro Amico Riccardo, ti scrivo dal carcere di Secondigliano che, non so se lo sai, è soprannominato il cimitero degli elefanti. Io sono un detenuto di categoria comune, come dire uno dei tanti. Sono tossicodipendente e soffro di una grave malattia al sangue. Purtroppo non sono né un colletto bianco, né un ricco camorrista e quindi non mi posso permettere né medici a pagamento né avvocati di grido. Il risultato: sono io malato in cella, malato e non curato. Sono uno dei tanti poveracci che cerca si sopravvivere in carcere. Perché di questo si tratta. Il magistrato si è reso conto della gravità della mia malattia e ha disposto che io venissi trasferito in un centro clinico per le analisi mediche. Beh sono tre mesi che sto qui a Secondigliano e non ho ancor visto nessuno. Neanche il centro clinico, visto che sto in cella. È ovvio: sto sempre peggio. Allora ho deciso di fare uno sciopero della fame. Ho deciso come ci insegna Pannella di iniziare una lotta non violenta. Ma che senso ha una giustizia, che non fa giustizia sul diritto alla salute dei detenuti? Hanno fatto indagini su Calciopoli, Vallettolopi etc… perché un magistrato non fa un’indagine su Carceropoli? Sai quanti reati scoprirebbe nelle carceri? Ora tu saluto, mi mancano le forze… e saluto quei detenuti che non possono ascoltare la tua voce perché gli hanno negato la radiolina in cella… sai la coscienza sporca fa questo e altro".
G., dal carcere San Vittore di Milano Cara Radio Carcere, lascio a te il mio e nostro pensiero su Fabrizio Corona. "Caro Corona, chi ti scrive è un tu ex compagno di detenzione del carcere di San Vittore, che a causa tua ha subito migliaia di perquisizioni. Perquisizioni subite anche dai miei familiari quando stavi qui. Perché quando tu stavi qui a San Vittore la nostra vita è peggiorata e molto. Altro che idolo dei detenuti! Noi ti chiamavamo "l’effetto Corona" e non era un effetto positivo. Poi, mentre noi rimanevamo a marcire in carcere senza una lira, abbiamo dovuto assistere alla tua sfilata fuori dal carcere. Ti sei fatto venire a prendere da una macchina che costa come la casa che non abbiamo e lì giù a pontificare. Hai promesso di far lavorare alcuni ragazzi, e te ne sei dimenticato. Dici di avere tratto tanti soldi dall’esperienza in carcere e non hai mandato neanche un euro a chi ne ha bisogno qui dentro. Ora che sei libero cerca almeno di pavoneggiarti di meno e di non parlare a vanvera di noi detenuti. Dici che vuoi fare uno spettacolo in carcere per noi. Ma a noi del tuo spettacolo non ce ne frega un cazzo, e sappiamo che sarebbe solo una trovata pubblicitaria per te e basta. È proprio vero, soldi chiamano soldi e pidocchi chiamano pidocchi. Anche che parli male dei giudici a noi non interessa, perché lo fai come uno spot e ti dimentichi che noi queste cose le viviamo sulla nostra pelle e senza il conforto delle prime pagine dei giornali o di trasmissioni televisive. Perciò non fare il nostro Don Chisciotte, non ne abbiamo bisogno. Lasciaci fare la nostra galera in pace e ricordati bene, ma bene però, che tu non sei il nostro idolo!" Immigrazione: Roma; poliziotti romeni "assoldati" contro i rom?
Aprile on-line, 12 luglio 2007
"Assoldare poliziotti": è questo il verbo usato dal "Corriere della Sera". Chissà se il sindaco di Roma, candidato alla segreteria del Partito Democratico, avrà studiato bene questa strategia di collaborazione con la polizia romena. Tanto per aprire una piccola parentesi, lunedì scorso un detenuto tunisino di 45 anni si è impiccato a Regina Coeli. Stava dentro per un tentato furto d’auto e aveva cercato di tagliarsi le vene il 3 luglio scorso. I suicidi di stranieri detenuti per reati minori (per i quali molti cittadini italiani neanche entrano in carcere) sono stati tanti in questi anni. Certo sarebbe bello che, anche in questo caso, Veltroni facesse arrivare dalla Tunisia, Romania, Egitto un’equipe di psicologi, assistenti sociali e avvocati per aiutare questi giovani detenuti al recupero, reinserimento e soprattutto a non togliersi la vita o auto-lesionarsi in maniera permanente con chiodi e fil di ferro infilati nelle labbra. Di questi tempi ci potrebbero essere anche coloro per i quali un immigrato romeno che si toglie la vita in carcere, o che muore in un cantiere a causa di un infortunio, rappresenta, con il passaggio all’altro mondo, una forma di rimpatrio senza costi. L’esperienza di un welfare strutturato secondo canoni prevalentemente militari e investigativi non ha mai dato buoni frutti a lunga scadenza. Di solito, sono le politiche sociali di ampio respiro che hanno la meglio, non quelle emergenziali. A volte si rincorre il bisogno di lenire paure collettive alimentate con perversione da sottili campagne di confezionamento e selezione di notizie di cronaca. La scelta di far venire polizia romena per lavorare a Roma sui campi nomadi e sulla criminalità e prostituzione e tratta ha una forte valenza simbolica di grosso impatto dai risvolti tutti da scoprire. È un gioco d’azzardo quello del sindaco Veltroni e del suo assessore. Certo è il segno chiaro inconfutabile di un fallimento delle politiche sociali adottate finora e, sinceramente, ci auguriamo che la scelta di etnicizzare la criminalità assoldando polizia straniera di una specifica nazionalità non rischi una deflagrazione di ritorno in termini di conflitti culturali e razziali. Anche perché ultimamente eccelle in tutto lo stivale la micro e macrocriminalità nostrana con vandalismi nelle scuole, baby pusher, quella dei colletti bianchi di casa nostra, nella sanità che uccide per errore, tra i cantieri "inquinati" della Salerno-Reggio Calabria, tra le lobbies massoniche sulle quali indaga un valoroso giovane pm di Catanzaro. L’emergenza criminalità non è questione di etnie, razze e colore della pelle ma è prevalentemente questione di politiche sociali inadeguate, vecchie e, a volte, inconsapevolmente razziste e discriminatorie. Immigrazione: Bologna; incontro con Amato sul futuro del Cpt
Il Domani, 12 luglio 2007
Il Cpt è un luogo dove "la sofferenza e l’assenza di prospettive alimentano disperazione e risentimento". È giunto il momento di fare chiarezza sulla struttura di via Mattei e stabilire in via definitiva se si prevede la chiusura del centro o il suo superamento e in che modo. Ecco perché il Coordinamento Garanti ha chiesto di incontrare il ministro dell’interno Giuliano Amato entro luglio per ottenere risposte. A chiedere una decisione in tempi stretti sul Cpt è Desi Bruno, la Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà (che lunedì tornerà in visita al centro): nella relazione in cui fa il bilancio sul terzo trimestre di attività, la Bruno scrive infatti che "deve porsi con chiarezza la questione sul futuro del Cpt di Bologna perché venga reso noto se ne verrà disposta la chiusura oppure se ne verrà cercato il superamento". Al momento, spiega "non è dato conoscere quale dovrà essere la destinazione finale del centro", ma sono in corso i lavori per cui, prima dell’approvazione del disegno di legge delega Amato-Ferrero, erano stati stanziati circa 700.000 euro. Quando a fine aprile vennero avviati i lavori erano presenti al Cpt 35-40 persone, di cui 20 uomini (in maggioranza nordafricani) e 15 donne (in gran parte dell’Est Europa). La Bruno, però, vuole vederci chiaro e ha chiesto copia del progetto alla Prefettura. Nel disegno di delega si parla di superamento dell’attuale sistema dei Cpt, che dovrebbe diventare un luogo di accoglienza, soccorso e tutela dei nuclei familiari. Due le tipologie previste; strutture di assistenza e soccorso o centri di identificazione. Rispetto a queste ipotesi per Bologna ancora non c’è nulla di certo, scrive la Garante, che sottolinea come, nell’attesa, il Cpt resti un ambiente molto ostico. "Ancora oggi sono trattenuti, in una commistione non accettabile, richiedenti asilo, ex prostitute, lavoratori irregolari, ex carcerati che vivono la pena aggiuntiva di un’ulteriore privazione della libertà personale prima di essere rimandate al paese di origine". Inoltre il Cpt è "circondato da reticolati di filo spinato che non migliorano l’impatto della struttura". Alla Garante, la direzione del Cpt ha mostrato anche gli esiti di due ispezioni dell’Ausl, che si sono concluse con "un giudizio di sufficienza delle condizioni igieniche del Centro". La Bruno, però, lamenta "una condizione di restrizione non accompagnata da nessun progetto di inserimento sociale né di rimpatrio assistito. Il che comporta una continua alterazione della vivibilità interna a cui si aggiunge la già indicata inidoneità strutturale dell’ex caserma Chiarini ad essere luogo di permanenza". Diritti: Bologna; programmi terapeutici per gli uomini violenti
Redattore Sociale, 12 luglio 2007
In un convegno il bilancio del progetto Daphne, attivo da due anni. L’obiettivo è sensibilizzare i cittadini sul problema dei comportamenti violenti maschili nelle relazioni con le donne e trovare soluzioni concrete. Sensibilizzare i cittadini sul problema dei comportamenti violenti maschili nelle relazioni con le donne, trovare soluzioni concrete di intervento, verificare l’opportunità di introdurre anche in Italia programmi terapeutici e rieducativi per gli uomini che usano violenza attraverso la creazione di un centro specifico. Sono gli obiettivi del progetto Daphne "Muvi - Sviluppare strategie di intervento con gli uomini che usano violenza nelle relazioni di intimità" presentato oggi a Bologna in occasione di un convegno organizzato dal Comune in collaborazione con la "Casa delle donne per non subire violenza". Punto di vista privilegiato dal progetto: trattare il tema della violenza nelle relazioni mettendo a fuoco i comportamenti maschili da controllare, ridurre ed eliminare. Il progetto, della durata di due anni, è stato approvato nel marzo 2007 e ora entra nella fase operativa. "La caratteristica di questo lavoro - spiega Giuditta Creazzo della Casa delle donne, coordinatrice scientifica del progetto - è quella di voler studiare, approfondire, mettere a fuoco le questioni critiche e le potenzialità di interventi già usati in altri paesi europei". L"idea, infatti, è quella di intervenire sui comportamenti degli uomini, provando ad applicare modelli che in altri paesi europei danno ottimi risultati. "Il punto di partenza - prosegue Creazzo - è verificare l’opportunità e le condizioni per introdurre anche a Bologna interventi rivolti agli uomini che usano violenza contro le donne, su modello dell’Alternative to violence di Oslo, uno dei centri per uomini con maggiore esperienza d’Europa". Non solo: una strategia nuova per l’Italia, ma diffusa in paesi sia europei che degli Stati Uniti, consiste nell’aprire e sviluppare programmi terapeutici e rieducativi per gli uomini violenti, anche come alternativa al carcere. Concretamente, saranno sperimentate azioni differenti nelle tre città partner del progetto, oltre a Bologna anche Atene e Barcellona. "Partiremo da un’analisi approfondita del territorio - conclude Creazzo - per capire in che contesto ci muoviamo, attraverso interviste agli operatori, alle vittime e anche agli uomini, e coinvolgendo le associazioni che lavorano sul tema. Il passo successivo sarà quello di creare momenti di formazione per gli operatori e infine valutare la possibilità, se il contesto bolognese risulta adatto, di creare anche qui un centro per uomini che usano violenza". Qualche dato che riguarda l’Italia: secondo il risultato della prima indagine nazionale sulla violenza alle donne condotta dall’Istat nel 2006, il 14% delle donne (2.938.000) ha subito almeno un atto di violenza fisica o sessuale da partner o ex partner nell’arco della vita; nel 67% dei casi le violenze si sono ripetute. Nel 2005, 1271 donne sono state accolte o ospitate dai Centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna, mentre la Casa delle donne di Bologna, da sola, ne ha accolte 350. Droghe: quella di Ferrero è una... "relazione della sconfitta" di Vincenzo Donvito (Presidente Aduc)
Notiziario Aduc, 12 luglio 2007
Il documento inviato al Parlamento dal ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero è la dimostrazione dell’ennesimo fallimento nelle politiche di lotta alla diffusione delle sostanze stupefacenti. Bisogna cambiare al più presto l’attuale legge Fini-Giovanardi, e scoraggiare questo fenomeno attraverso l’informazione e l’educazione. Il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, ha inviato al Parlamento la "Relazione annuale sullo stato della tossicodipendenza". In una marea di numeri e di dati, per un Paese come il nostro, dove la legislazione è esclusivamente punizionista, è la relazione dell’ennesima sconfitta. Se le sostanze sono sempre di più alla "alla portata di tutte le tasche", come dice il ministro, se la loro "maggiore accessibilità economica, oltre alla ampia disponibilità di reperimento sul mercato illegale le rende ancor più popolari", vuol dire che ciò che si è prefisso il legislatore, non solo è fallito, ma ha generato un effetto contrario. In un Paese che ragionasse in modo semplice e pragmatico, se ne dovrebbero subito trarre le conseguenze e cambiare rotta. Non è con la minaccia della punizione - e l’illegalità delle sostanze - che si inducono le persone a non consumare le droghe: l’illegalità e le punizioni, invece di intimorire i potenziali consumatori, li incuriosiscono e li inducono all’approccio. La delinquenza organizzata nei traffici e quella spicciola nello spaccio, ha trovato un terreno fertile e, come sempre dove c’è domanda, ha moltiplicato l’offerta, trovando un buon mercato in espansione. Lo Stato, invece di capire questo fenomeno e scoraggiarlo nelle ragioni attraverso l’informazione e l’educazione, lo ha ignorato e si è concentrato sulla repressione; trattandosi però di un fenomeno di larghissima diffusione, non potendo punire e mettere in galera quasi la metà dell’intera popolazione, si è ritrovato con questi risultati. A questo punto, chiunque, anche il più integerrimo punizionista, dovrebbe auspicare un cambiamento di rotta, altrimenti non sta cercando di fare gli interessi della popolazione ma solo agitando un suo drappo ideologico, all’altissimo costo di vite, salute e denaro che coinvolge l’intera nazione. Il primo passo? Cambiare subito l’attuale legge Fini-Giovanardi. Alla camera c’è già un progetto di legge a prima firma dell’on. Marco Boato. La discussione va cominciata subito. Ogni giorno di ritardo aumenta solo la complicità nello sfascio in corso. Droghe: il Ser.T. è a "guardia" della salute... o della legge? di Pier Paolo Pani (Presidente Società Italiana Tossicodipendenze)
www.antiproibizionisti.it, 12 luglio 2007
Test antidroga per i lavoratori: la cannabis sarà come l’alcol per i lavoratori? È bene che i lavoratori impegnati in compiti di responsabilità per la sicurezza dei cittadini siano liberi dall’influenza delle droghe (alcol incluso, ovviamente). Dopo 17 anni dalla Legge 309/90 che ne prevedeva l’emanazione, il provvedimento che impone e regolamenta l’effettuazione degli accertamenti tossicologici per determinate categorie di lavoratori è di nuovo nell’agenda politica. È una scelta di civiltà, tesa a garantire la sicurezza di chi si affida ad un pilota, autista, vigile del fuoco, etc. Prima che l’iter normativo sia completato, vorrei fare qualche considerazione sul rischio che, dati i tempi, le soluzioni possano essere affidate ad una deriva ideologica, poco idonea a rispondere alle angosce della società, ma certamente idonea ad angosciare la vita di numerosi lavoratori. Prendiamo in considerazione alcuni casi concreti: dapprima uno facile. Un lavoratore risulta positivo all’alcol: alcolemia 0,20 g/l, inferiore, per intenderci, alla soglia stabilita per le sanzioni dal codice della strada. All’esame clinico conferma di fare uso abituale di alcolici a pasto. Non emergono elementi significativi di dipendenza o abuso, per cui può tornare al lavoro. Veniamo ora al caso di una persona con alcolemia superiore a 0,50 g/l. Poniamo che nel corso del colloquio clinico a questo si aggiunga la difficoltà a controllare l’uso degli alcolici. Viene emessa la diagnosi di abuso/dipendenza. Il lavoratore viene spostato ad altra mansione. Nel frattempo il Ser.T. imposta un programma terapeutico al completamento del quale il lavoratore potrà tornare alla sua mansione abituale. Passiamo a sostanze diverse dall’alcol. Prendiamo il caso di un autista di autobus che risulta positivo agli accertamenti per la cannabis. Poniamo che dagli accertamenti e verifiche cliniche si confermi l’utilizzo della sostanza. La persona in questione, consapevole degli effetti prodotti dalla cannabis, riferisce di confinare il suo utilizzo a situazioni occasionali: la sera, dopo il lavoro. Non si rileva la presenza di dipendenza, né di abuso. Sarà sufficiente che il Ser.T. certifichi l’assenza di malattia e la non interferenza con l’attività lavorativa dell’uso della sostanza perché la persona possa continuare il suo lavoro? Ne dubito. Si potrà fare riferimento a soglie (concentrazioni della sostanza nel sangue), in analogia a quanto avviene per l’alcol, che aiutino a valutare la rilevanza dell’alterazione psico-fisica indotta dalla cannabis? Ne dubito. Temo invece che verrà esteso al lavoratore in questione un percorso simile a quello riservato alle persone inviate ai Ser.T. dalle Prefetture perché scoperte a fumare uno spinello: l’applicazione di una penalizzazione fino al completamento del programma di recupero. Nel caso dell’autista di autobus ci sarà la sospensione dal lavoro/mansioni svolte fino al completamento della terapia di recupero elaborata dal Ser.T.: in assenza di diagnosi, di patologia e di interferenza con il lavoro. L’autista in questione sarà uno dei tanti. Poiché l’utilizzo della cannabis riguarda il 12% della popolazione, il rischio di impiegare risorse e personale per trattare malattie che non ci sono aumenterà, così come si aggraverà il danno morale e materiale per il cittadino, lavoratore in questo caso, inutilmente esposto ad un percorso stigmatizzante. Si possono prefigurare percorsi alternativi, pragmaticamente rivolti ad evitare l’impatto negativo delle sostanze psicoattive sulla sicurezza della collettività, ma nel rispetto dell’ambito di vita privata del lavoratore? Sicuramente si. L’esperienza di altri Paesi dimostra, ad esempio, l’efficacia, in termini di riduzione dell’uso di sostanze psicoattive, dell’effettuazione degli esami tossicologici all’interno di programmi articolati di sensibilizzazione ed educazione sull’abuso di sostanze nel posto di lavoro. Perché non discuterne, magari con i lavoratori? C’è un altro aspetto che voglio considerare: riguarda la credibilità della funzione sociale e sanitaria del Ser.T. e l’efficacia complessiva della sua azione. Il progressivo aumento del carico dovuto alla delega di funzioni di controllo, associato nella legislazione attuale a prescrizioni che non distinguono fra condizioni mediche diverse, ma uniformano l’uso alla dipendenza, avvalla surrettiziamente la possibilità di mettere in campo terapie contro l’uso, come se si trattasse di condizione patologica. Il superamento "ope legis" di funzioni di diagnosi e valutazioni di prognosi di natura chiaramente tecnica svilisce e dequalifica la funzione del Ser.T., delegato a guardiano della legge piuttosto che della salute dei cittadini.
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