Rassegna stampa 8 giugno

 

Prato: 30enne s’impicca in cella poche ore dopo l’arresto

 

Ansa, 8 giugno 2007

 

Si è impiccato mercoledì sera nella sua cella del Carcere della Dogaia, poche ore dopo essere finito dentro con l’accusa di essere coinvolto in una rapina avvenuta a Firenze nella mattinata. Ieri sul suicidio di Gianluca Tortomasi, trentenne pratese, la Procura di Prato ha aperto un’inchiesta per indagare sull’inaspettata decisione del giovane di togliersi la vita. Si trovava ancora nelle celle temporanee, quegli spazi dove i detenuti vengono sistemati temporaneamente, in custodia, prima del loro ingresso vero e proprio nel penitenziario.

Gianluca si è impiccato lì, prima di prendere posto nel carcere, e per farlo ha usato l’unica cosa che aveva a disposizione: i lacci della scarpe, che ha fissato alla finestra del bagno della cella. Inutili, davanti alla morte già sopravvenuta, i soccorsi del medico e dei volontari della Misericordia accorsi subito in carcere.

Tortomasi, già arrestato in passato sempre per rapina e uscito dal carcere per l’indulto l’anno scorso, era stato bloccato a Prato nel pomeriggio di mercoledì dai Carabinieri insieme a Fabrizio Carnovale, 27 anni: entrambi erano stati accusati di essere i presunti autori di una rapina avvenuta nella mattina alla filiale della Cassa di risparmio di Firenze, in piazza Puccini a Firenze.

Un testimone aveva annotato il numero di targa della Mercedes con cui erano scappati i rapinatori, auto risultata di proprietà di Tortomasi, fermato poi sotto la sua abitazione a Prato insieme a Carnovale. Dai primi accertamenti disposti dal pm Roberta Pieri, titolare dell’inchiesta, dopo l’arresto Tortomasi, portato al comando provinciale dei carabinieri di Prato, sarebbe apparso calmo sia ai militari che al suo presunto complice, non manifestando nessun proposito suicida.

Giustizia: il bisogno di sicurezza e la "caccia alle streghe"

 

Liberazione, 8 giugno 2007

 

La sinistra ha il dovere di chiedersi chi sono le vittime della giustizia che non funziona. Vi sono le vittime dei reati, ma non solo. In carcere oltre il cinquanta per cento dei detenuti è in attesa di giudizio.

Si invoca più sicurezza. Nei palazzi della politica, nei salotti televisivi, sulla stampa nazionale e locale è tutto un gran vociare, tutta una invettiva contro la sinistra che non ha ricette sulla sicurezza urbana. Si lancia - da anni, ad intervalli regolari - la questione sicurezza, indipendentemente dall’andamento effettivo dei tassi di criminalità. Giornali, TV e politici parlano sempre di sicurezza creando panico e rancori tra la gente, tacendo dati e circostanze, mistificando alcuni fatti (l’omicidio per rapina ad opera di stranieri sparato a caldo con titoli a nove colonne che diventa il giorno dopo la morte per mano di un familiare o di un condomino: basta ricordare Erika ed Omar, la strage di Erba, e da ultimo l’omicidio di Marsciano).

Non dicono i nostri media che secondo un recente Rapporto sul crimine e la sicurezza in Europa, commissionato dalla Commissione Europea, l’Italia sarebbe il Paese più sicuro dell’Unione, quanto a rapine ed aggressioni. Non dicono che secondo i dati del Viminale relativi all’andamento degli omicidi e dei furti si riscontra che, nel decennio 1995-2005, i primi sono diminuiti e i secondi restano costanti. Eppure i media giurano che l’aumento degli immigrati clandestini ha causato un aumento dei crimini di maggior allarme sociale, dimenticando che le carcerizzazioni dei migranti riguardano in gran parte reati connessi alla irregolarità dell’ingresso o del soggiorno (10 mila nel solo 2005!).

Dimenticano, ancora, che gli stranieri con regolare permesso di soggiorno delinquono meno dei cittadini italiani. Infatti - secondo i dati resi noti dai responsabili del Dossier Immigrazione di Caritas/Migrantes che utilizzano le statistiche della Polizia di Stato - sul milione e ottocentomila stranieri titolari alla fine del 2006 del permesso di soggiorno i denunziati e gli arrestati sono circa 38 mila, ovvero una percentuale pari al 2,11.

Eppure, sulla spinta delle grida ed alla ricerca del consenso, le scelte politiche in materia di investimenti sull’immigrazione, secondo i dati della Corte dei conti, hanno portato a destinare l’80% delle risorse alla repressione e solo il 20% alle politiche attive, all’integrazione. La politica e i media dimenticano che la percentuale di recidivi tra coloro che beneficiano di misure alternative al carcere è di gran lunga inferiore rispetto a coloro che la pena comminata la scontano interamente in carcere (il 19% contro il 68%!).

A conti fatti - un detenuto in carcere costa 300 euro al giorno - un legislatore attento dovrebbe partire dai numeri e spiegare che la sicurezza è direttamente proporzionale al livello ed alla qualità della spesa sociale, e che il carcere deve diventare una "extrema ratio" all’interno di un sistema giuridico più efficiente.

Dentro questo clima di caccia alle streghe la sinistra ha il dovere di chiedersi chi sono le vittime della giustizia che non funziona. E certamente tra esse vi sono le vittime dei reati, ma non solo. In carcere oltre il cinquanta per cento dei detenuti è in attesa di giudizio. Coloro che subiscono sono, al solito, tutti i cittadini, vittime, indagati e condannati, soprattutto (o esclusivamente) chi non ha soldi per affrontare le spese legali necessarie per difendersi da una accusa o per far valere i propri interessi.

La vera causa del fallimento della giustizia penale italiana non è rappresentato quindi dal garantismo, come tanti populisti in mala fede vogliono farci credere, ma dalla lunghezza dei procedimenti, dovuta alla scarsità delle risorse ed all’eccesso delle fattispecie di reato. Ed ancor più grave è il cattivo funzionamento della giustizia se si guarda ai tempi della giustizia civile, amministrativa e del lavoro: i cittadini non riescono a soddisfare le proprie istanze a causa di procedimenti lunghi e uffici giudiziari intasati.

Tutta la giustizia italiana è lenta e inefficace, e spesso a vantaggio dei pochi che possono evitare condanne per corruzione, reati di mafia, bancarotta o altri gravi reati. I detenuti per reati di mafia sono solo il 2,5% del totale e quelli per reati contro la pubblica amministrazione il 3,5%.

Il resto è un arcipelago di micro-criminalità con uno "standard sociale" da far tremare i polsi: il 64% si colloca, quanto a grado di istruzione, tra l’analfabetismo e la licenza media inferiore; una grandissima parte è senza reddito e non ha possibilità di affrontare le spese necessarie per una difesa tecnica efficace. Anche chi si schiera - perché vittima di un reato - contro le nostre campagne ci approva su un punto: gran parte dei media e degli esponenti politici crea contentini per le vittime ma non si ripropone di risolvere il problema. Promettere sicurezza alimenta il potere, permette di vincere le campagne elettorali, permette, solo a chi ha mezzi sufficienti, di avere garanzie processuali per evitare la pena.

Nel programma dell’Unione la questione giustizia (la questione della sicurezza coniugata a quella della tutela dei diritti) aveva uno spazio significativo. La nostra volontà è quella di ripartire da lì, da quella convergenza di idee e di risposte, per andare oltre la superficie, per cercare strade efficaci e percorribili per una effettiva ed efficace tutela giurisdizionale dei diritti di tutti.

 

A. Salerni (responsabile carceri Prc)

G. Santoro (Coordinatore Campagna Antigone - Prc "Il carcere dopo l’indulto")

Giustizia: legge sull’affettività; il punto della situazione

 

Adnkronos, 8 giugno 2007

 

Lettere, poesie d’amore e foto di donne e uomini appese dietro le sbarre che diventano luoghi di adorazione e di ricordi. Così i detenuti, tra le solitarie mura del carcere vivono giorno per giorno la propria sfera affettiva, aggrappandosi al ricordo dei bei momenti passati in libertà con i propri cari.

E così ci si improvvisa a scrivere versi destinati a restare nell’anonimato ma che spesso nulla hanno da invidiare alle ballate d’amore e alle rime dei poeti. Come una poesia che un detenuto 33enne della casa circondariale di Piacenza, recluso da 10 anni, ha voluto dedicare alla sua amata e che in un momento di nostalgia scrive: "Mi manchi donna, in tutto ciò che faccio, in tutto ciò che sono. In questo luogo la tua immagine è spesso ridotta a simbolo, quasi idolatrato, innanzi al quale si vedono uomini assorti in adorazione di calendari, nei quali tu metti in mostra le tue grazie.

Altre volte le tue foto patinate, diventano gelosi feticci, utilizzate nel momento più squallido che in carcere si è costretti a vivere, il surrogato della passione, dell’atto d’amore". E in quei versi si leggono le notti insonni passate in cella, i sogni che hanno come protagonista lei: "Ogni notte sogno te. Non ho un’immagine precisa, non posso descriverti. Potresti essere alta o bassa, bionda o bruna, portare gli occhiali o un filo di perle, non è quello che vedo di te". Infine, tra le rime, il ritorno al passato, alla delinquenza, di cui l’amore può essere un antidoto: "Ho avuto familiarità con le armi, ho avuto il coraggio o forse l’incoscienza di rapinare banche - conclude il detenuto poeta - ma mai imparerò a vivere senza di te".

Così il bisogno di affetto diventa un bene primario, come il bisogno di mangiare e bere. Tanto che si è tornato a parlare dell’ora d’amore in carcere, soprattutto nella scorsa legislatura si era ipotizzata la costruzione di appositi alloggi negli istituti penitenziari da destinare a questo scopo, fra detenuti in espiazione pena e le proprie consorti o conviventi. È stata fatta una proposta di legge, poi accantonata, un progetto che prevedeva investimenti ingenti a questo proposito.

Qualcuno ha lanciato l’idea di ampliare il beneficio dell’istituto dei permessi premio (art. 30 ter dell’ordinamento penitenziario), tenuto conto che tale norma può essere applicata anche per poche ore e all’occorrenza con l’accompagnamento della polizia penitenziaria, di conseguenza la coppia verrebbe a trovarsi a casa propria in un ambiente familiare, evitando quel fastidioso turbamento da parte di chi dovrebbe predisporre e di chi dovrebbe predisporsi "all’ora d’amore" dietro le fredde sbarre di una cella.

Una proposta quest’ultima che eviterebbe costosi investimenti oltre che la scontata difficoltà a realizzare tali strutture, tanto più che non tutti gli istituti penitenziari italiani possiedono gli spazi necessari per ospitare gli alloggi previsti. Qualcun altro ha proposto di concedere questo ‘beneficiò ai detenuti in qualsiasi fase processuale, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente e non solo a quelli con la condanna passata in giudicato.

Questo per far sì che il rapporto di coppia possa fin da subito continuare ad essere mantenuto e non dover invece attendere anni in attesa che si compia l’iter giudiziario. Ma l’amore dietro le sbarre non può riguardare solo il rapporto tra uomini e donne, perché nel contesto attuale la realtà delle coppie dello stesso sesso ha assunto una dimensione e un’attenzione ampia. Lo sa bene la Regione Lazio, il cui Consiglio regionale ha approvato un’innovativa legge quadro riguardante i diritti della popolazione carceraria che, per la prima volta, estende anche ai partner omosessuali quel trattamento che finora era riservato esclusivamente ai detenuti 0eterosessuali.

Basti pensare, ad esempio, al diritto di poter avere dei colloqui. Essi sono consentiti solo in caso di parentela o di matrimonio, che devono essere provati con certificati. È evidente che questo tipo di normativa penalizza fortemente la popolazione gay, lesbica e transgender dal momento che in Italia le unioni che non siano matrimonio tra uomo e donna semplicemente per lo Stato non esistono, per cui è impossibile per certi detenuti anche solo poter parlare o vedere di tanto in tanto il partner, quando dello stesso sesso.

Il Presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, ha commentato l’approvazione dicendo che "il Lazio, con questa legge, si pone all’avanguardia in Italia. Una legge - ha spiegato - che è arrivata dopo un lungo iter che ha coinvolto molte commissioni consiliari, il garante dei detenuti Angiolo Marroni e i ministeri della Giustizia e della Salute".

"Siamo soddisfatti per questa legge - ha affermato Fabrizio Marrazzo, presidente Arcigay Roma - che con il termine estensione dei diritti per le persone che hanno una relazione affettiva, estende i diritti dei carcerati di coppie sposate anche alle coppie di fatto, senza distinzione di orientamento sessuale. Questo è un primo passo verso la parità dei diritti delle persone lesbiche e gay, è la prima legge della Regione Lazio che estende diritti anche alle persone lesbiche e gay".

Marrazzo si è complimentato con la Commissione Sicurezza, presieduta da Luisa Laurelli e Giuseppe Mariani, ed ai suoi membri, per aver elaborato tale emendamento.

"Speriamo - conclude Marrazzo - che presto il riconoscimento delle relazioni affettive delle coppie di fatto, venga esteso a tutti i settori di competenza della Regione Lazio". Anche Peppe Mariani, Presidente della Commissione lavoro e pari opportunità regionale, ha sottolineato che ci si impegnati "affinché la legge contenesse come cardine fondamentale questo diritto all’affettività, inteso come mantenimento dell’insieme dei rapporti e dei legami affettivi.

Dopo un lavoro d’aula lungo ed estenuante - ha spiegato - la Regione Lazio ha iniziato il percorso per il riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto, scavalcando il dibattito poco significativo e spesso elusivo mai arrivato all’approvazione dei Dico o dei Pacs". "Per la prima volta in Italia - conclude Mariani - è stata approvata una legge che consentirà non solo ai familiari dei detenuti, ma anche a tutta la comunità affettiva di mantenere relazioni sociali all’interno degli istituti di pena". Sono a migliaia le storie dove il connubio amore-carcere si realizza più delle altre. Come il caso di chi, ha dovuto sposarsi in carcere per realizzare il proprio sogno d’amore, perché le prospettive di un permesso erano ancora lontane e perché il desiderio di unirsi per sempre alla persona amata era troppo forte.

Storie che sono diventate anche un film dal titolo "Fine amore mai", realizzato dai detenuti di San Vittore. Nel film c’è la scena di un matrimonio vero dentro le mura del penitenziario, che testimonia una scelta quasi obbligata. Eppure si capisce che i due che si stanno sposando sentono ugualmente che quel gesto ha una sua felicità, nonostante le sbarre e lo squallore intorno.

È il caso di Chicca, che ricorda quando ha accompagnato la figlia a sposare un ragazzo detenuto, e nonostante la sua ansia di madre di fronte a una scelta così difficile della figlia, sente che lei sta vivendo, in ogni caso, uno dei giorni più importanti e felici della sua vita. Se almeno ci fosse quella legge più umana, che potrebbe consentire ai detenuti che non usufruiscono di permessi premio dei colloqui lunghi senza controlli visivi, la figlia di Chicca non avrebbe dovuto tornarsene a casa senza neppure vivere un minuto di intimità con il marito.

Opg: Aversa; reportage televisivo sul "Filippo Saporito"

 

Il Mattino, 8 giugno 2007

 

In televisione l’esperienza di recupero dei pazienti dell’ospedale psichiatrico giudiziario "Filippo Saporito", da parte dell’Asl Ce2 nell’ambito del "progetto benessere". Il giornalista Valerio Cataldi del Tg2 ha fatto tappa al centro di salute mentale, in un appartamento per gruppi di residenza e presso la direzione generale dell’Asl Ce2 - dove hanno intervistato il direttore generale Angela Ruggiero - durante il viaggio-inchiesta che stanno realizzando sullo stato degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani.

Cataldi, dopo la visita al "Saporito", ha voluto documentare la storia di uno degli internati dimessi e attualmente in carico all’Asl Ce2. Il responsabile del settore socio-sanitario, Fabrizio Starace e il responsabile aziendale per la sanità penitenziaria, Giuseppe Nese hanno illustrato a Cataldi le iniziative messe in campo dall’Asl Ce2 sul fronte dei degenti dimessi o in fase di dimissione dall’ospedale psichiatrico giudiziario aversano.

Quale storia emblematica sarà raccontata quella di un cinquantenne - rimasto venticinque anni in manicomio, dove doveva scontare una condanna a cinque anni per un reato consumato all’interno del nucleo familiare - e che è attualmente alla scadenza dei sei mesi di licenza finale di esperimento. È stata, in pratica, filmata una giornata tipo, dai momenti di normale vita quotidiana nel gruppo di convivenza coordinato dal responsabile dell’unità operativa di residenzialità riabilitativa e centro diurno, Arturo Rippa.

L’uomo, inoltre, frequenta corsi di cucina e ballo, oltre a partecipare a un gruppo di self-help, attività coordinate dallo psichiatra Luigi Valoroso e dallo psicologo Fabio Dito. Grazie al lavoro portato avanti in questi mesi, si stanno ricucendo anche i rapporti con la famiglia d’origine, tanto che - si stima - entro fine anno potrà tornare a casa.

"Con il direttore dell’Opg Adolfo Ferraro - ha dichiarato la dottoressa Ruggiero - abbiamo deciso di affrontare il nodo della dimissione dei degenti dell’Opg. Abbiamo dimostrato come sia possibile andare oltre la paura che ammanta questo tipo di patologie e favorire un reinserimento non solo nel tessuto sociale, ma anche nella famiglia d’origine in seno alla quale spesso sono stati commessi i reati".

Opg: no alla chiusura da Associazione famigliari "Minerva"

 

Il Gazzettino, 8 giugno 2007

 

Dal Veneto la protesta contro la decisione del ministero: così si scarica il problema sulle famiglie. "La storia di Maria è quella di tantissimi altre donne e uomini che vivono a stretto contatto con la malattia mentale, che ne vengono travolti. Purtroppo il sistema sanitario non offre a queste persone percorsi sempre accessibili e si finisce con il perdersi".

Renata Dal Palù, psichiatra, è la fondatrice con il marito, il professor Cesare Dal Palù dell’associazione Minerva che affianca le famiglie dei malati di Disturbo Bipolare, spiega loro in che cosa consiste la patologia, le aiuta a superare le difficoltà e le indirizza verso i migliori Centri di cura. Maria, mamma veneziana, aveva raccontato il suo dramma al nostro giornale. Un percorso di dolore e di solitudine sia per lei sia per il figlio Paolo, malato psichico e ricoverato in un ospedale psichiatrico giudiziario.

Un atto di accusa, il suo, ad un sistema che non tutela e che abbandona spesso i più deboli. "Maria non deve sentirsi sola, ed oltretutto non deve credere di non avere via d’uscita: ci sono patologie, come i disturbi maniaco-depressivi, che si possono curare con i medicinali giusti".

Minerva oggi segue costantemente 200 persone e ha oltre 600 sostenitori. "È molto facile che coloro che soffrono di una patologia maniaco-depressiva finiscano in carcere o in ospedale giudiziario, entrambi strutture inadeguate per affrontare questo tipo di situazioni - spiega la dottoressa Dal Palù - Carcere e ospedale giudiziario rappresentano un inferno per i pazienti, quando vengono dimessi la croce passa ai familiari: non si può pensare di rispedirli a casa, obbligarli ad una vita normale che normale mai sarà se non li si aiuta con farmaci mirati, cercando la dose minima efficace, per evitare dosaggi insufficienti o sovra dimensionati".

La dottoressa Dal Palù non ha dubbi: le armi di cui è dotato il sistema pubblico sono insufficienti e non riescono ad affrontare queste situazioni che sono tanto drammatiche quanto complesse e hanno bisogno di una rete territoriale di sostegno. "Vorrei dire a Maria, se mi legge, che la nostra associazione, come altre, gratuitamente e in modo del tutto disinteressato, possono darle una mano, evitarle gli orrori a cui è costretta a sottostare - spiega la dottoressa - Non è umano che malati e parenti vengano abbandonati".

Questa storia è solo la punta di un iceberg che nel solo Veneto nasconde centinaia di drammi. "Il dramma è la mancata presa in carico dei casi come questo, oggi ci sono percorsi separati fra chi è vittima della droga e chi soffre di malattie mentali. Vengono visti come ambiti separati, ma non è così. - spiega Lina Tali Corona - I Sert non hanno al loro interno riferimenti per chi soffre di problemi mentali, come non li hanno i Dipartimenti di salute mentale che non hanno personale e strutture idonee, così s’innesca un rimpallo infinito e per il paziente si aprono così le porte del carcere o dell’ospedale giudiziario. Nella maggior parte dei casi il giudice pretende poi che lo psichiatra dichiari che il paziente non delinquerà mai più: nessuno lo fa, perché è impossibile, e le sbarre diventano l’unica alternativa possibile".

Le associazioni ritengono che per evitare che il calvario di Maria e di suo figlio diventino una prassi si devono realizzare le strutture previste, ma si devono anche aiutare le famiglie a non far crescere figli fragili, che perdono l’equilibrio e si lasciano andare. "Non possiamo avere ragazze di 25-26 anni che restano chiuse in casa per due o tre anni solo perché non c’è nessuno che le prenda in carico - spiega Tali Corona - Costringendole ad una vita ai margini. È abominevole".Intanto il Ministero incontrerà le Regioni la prossima settimana per discutere il progetto "D’Alema" di chiusura degli Opg. Ma il 14 giugno il Veneto marcerà compatto, con tanto di documento al seguito per spiegare che così non si può fare: chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari e non creare alternative è pericoloso. "Non siamo preparati - spiega Silvio Frazingaro, coordinatore per la psichiatria del Veneto - E non possiamo caricare il problema sulle spalle delle famiglie e delle strutture di diagnosi e cura".

Pare che altre regioni abbiano in questi giorni affrontato il problema. Il "Piano D’Alema" che propone la chiusura degli Opg con conseguente scarcerazione degli ospiti, vada affrontato con gradualità. Gli ospiti degli Opg costituiscono un insieme molto eterogeneo, comprendendo diverse categorie, sia dal punto di vista giuridico sia dal punto di vista clinico - assistenziale e per gli esperti quindi, anche prevedere una "scarcerazione selvaggia" può rappresentare un grave pericolo.

Padova: l'Università avvia una ricerca sui detenuti disabili

 

Redattore Sociale, 8 giugno 2007

 

Si tenterà di "fotografare" la realtà veneta. Per le detenute con figli disabili previsti i domiciliari; un recente decreto si limita alle barriere architettoniche.

Il carcere è una realtà eterogenea, che racchiude in un unico luogo diverse nazionalità, diverse religioni, diverse esperienze di vita e, anche, persone diversamente abili. Ad oggi, in Italia, non esistono studi che indagano la presenza di detenuti disabili all’interno degli istituti penitenziari, né il tipo di disabilità o gli interventi educativi nei confronti di queste persone. Se ne è discusso ieri al convegno - in corso a Padova fino a domani - dal titolo "Disabilità, trattamento, riabilitazione", promosso dall’ateneo patavino.

Esistono, questo sì, precise norme di legge per tutelare la persona disabile sottoposta a procedimenti penali o reclusivi: il ministero di Grazia e Giustizia ad esempio ha emanato un decreto, che si limita tuttavia al tema delle barriere architettoniche. Le competenze sanitarie nelle carceri, inoltre, sono state inoltre trasferite dall’amministrazione penitenziaria alle Ulss, mentre gli arresti domiciliari sono previsti per le madri detenute di figli disabili al 100%.

Per dare una risposta a tutti i punti interrogativi che vengono sollevati dalla presenza di detenuti disabili, l’Università di Padova ha iniziato a lavorare a una ricerca specifica sull’argomento, focalizzata sul Veneto. Lo studio deve servire "ad analizzare, alla luce dell’ultima classificazione Icf dell’Organizzazione mondiale sulla sanità, se i detenuti con disabilità siano tutelati all’interno delle carceri" come spiegano Roberta Caldin, Alessandra Cesaro ed Elisabetta Ghedin, che hanno presentato il progetto nel corso del convegno sulle disabilità a Padova.

"L’obiettivo è anche capire quali siano le iniziative educative e riabilitative poste in essere o se al contrario questi detenuti siano sottoposti a ulteriori limitazioni oltre a quelle derivanti dalla detenzione di per sé". Deve essere inoltre verificato se i fruitori di misure alternative "possano operativamente concorrere al proprio progetto di vita, compresa la tutela della salute e la promozione del benessere".

In che modo dare una risposta a questi punti? "Prima di tutto bisogna capire la grandezza del fenomeno, cioè quanti sono i detenuti disabili a Padova e nel Veneto e quanti godono di misure alternative, poi bisogna confrontare strutture più e meno efficaci per poter elaborare criteri orientativi per migliorare la formazione degli operatori e le caratteristiche ambientali degli spazi occupati". In questo modo si vuole sollecitare il legislatore, sia nell’area della disabilità sia in quella del diritto penitenziario, a emanare norme specifiche e mirate alla tutela e alla promozione di progetti di vita riguardo all’essere disabili in carcere.

Ferrara: il servizio dentistico è sospeso ormai da 40 giorni

 

www.estense.com, 8 giugno 2007

 

La denuncia arriva dai detenuti del Carcere di Ferrara: da ben 40 giorni sarebbe sospeso il servizio del medico dentista a causa della non idoneità dell’ambulatorio interno. "Il diritto alla salute e alla cura, è bene ricordarlo, è tale per tutti i cittadini, qualsiasi sia la loro condizione".

Lo afferma Barbara Diolaiti, capogruppo in consiglio comunale dei Verdi per la Pace che in una interrogazione chiede "se il Comune fosse stato informato della sospensione del servizio di medico dentista all’interno del Carcere di Ferrara (e in caso affermativo perché non abbia provveduto ad informare il Consiglio nel corso del dibattito sul Garante dei detenuti, il 4 giugno 2007); in quali tempi il servizio verrà ripristinato; se risulta che nel corso della sospensione del servizio sia stata data comunque risposta positiva, e con quali strumenti, alle necessità dei detenuti del Carcere di Ferrara".

Un problema che, ironia della sorte, cade proprio nei giorni all’indomani dell’ultima seduta del consiglio comunale, dove è stata approvata a maggioranza l’istituzione della figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. "Denuncie come quella dei detenuti di Ferrara - continua Barbara Diolaiti - dimostrano una volta di più l’opportunità della scelta compiuta dal Consiglio Comunale. Il Garante non è però ancora operativo. L’interrogazione chiede anche quali tempi sono previsti per l’elezione da parte del consiglio comunale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale".

Ascoli: i detenuti chiedono l’indennità di disoccupazione

 

Corriere Adriatico, 8 giugno 2007

 

Quattro detenuti attualmente reclusi presso il carcere di Marino del Tronto, e sottoposti al regime del 41 bis, hanno consegnato alla direzione dell’istituto penitenziario una denuncia contro la stessa direzione carceraria per omissione d’atti d’ufficio non avendo tempestivamente fornito all’Inps la documentazione necessaria per la percepibilità dell’indennità di disoccupazione.

Le quattro denunce sono finite, trasmesse dal direttore Di Feliceantonio, sul tavolo del sostituto procuratore della Repubblica Crincoli il quale ha dato disposizione ai carabinieri della sezione di Polizia Giudiziaria di espletare le indagini necessarie per chiarire in termini legali della vicenda. Nei prossimi giorni verranno ascoltati dagli inquirenti il direttore del carcere di Marino del Tronto ed i funzionari dell’Istituto di Prevedenza. Quest’ultimo avrebbe dovuto erogare il beneficio economico a partire dallo scorso mese di gennaio.

In effetti fino allo scorso anno i detenuti potevano godere dell’attribuzione dell’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti. Però, qualche mese fa il giudice di sorveglianza delle Marche ha emesso un pronunciamento che inevitabilmente ha posto fine a questo "privilegio". Il magistrato ha infatti sentenziato che i reclusi sotto il regime del 41/bis, ossia il carcere duro che li priva di alcuni benefici, non svolgono la loro prestazione d’opera per ditte esterne ma si avvicendano all’interno della struttura carceraria partecipando ai vari lavori che vengono organizzati per loro per cui viene a cadere il requisito del licenziamento. Non solo, ha anche aggiunto che il lavoro del detenuto ha esclusivamente fini riabilitativi che escludono categoricamente il guadagno personale.

Da diversi anni presso il carcere ascolano vengono tenuti dei corsi di lavoro come quello di legatoria, al quale possono partecipare soltanto i detenuti del giudiziario, che insegna ai partecipanti il mestiere di rilegatore che, una volta riacquistata la libertà, potrebbe risultare utile per trovare una sistemazione lavorativa adeguata.

Ma anche per i reclusi del penale, quelli che sono sotto il regime del 41/bis, c’è la possibilità di lavorare dedicandosi alla pulizia della sezione oppure a portare il carrello delle vivande per servire le persone che si trovano in cella. Come detto nel 2006 l’indennità di disoccupazione è stata regolarmente pagata dall’Istituto Previdenziale. Poi, a seguito di quanto stabilito dal giudice di sorveglianza, i pagamenti sono stati interrotti anche perché il caso, a seguito di altre denunce, è finito sui tavoli dei giudici della Cassazione che hanno sentenziato il non diritto da parte dei detenuti all’indennità di disoccupazione.

Così come è da escludere che la direzione del carcere sia potuta incorrere in una omissione di atti d’ufficio. Risulta che non tutti i documenti necessari siano stati trasmessi entro la data prevista alla sezione Inps di Ascoli Piceno ma la cosa non ha certo determinato alcun danno a coloro che avevano presentato regolare domanda per ottenere l’indennità.

Udine: in via Spalato 143 detenuti, il 70% sono stranieri

 

Il Gazzettino, 8 giugno 2007

 

Le porte del penitenziario di via Spalato si sono aperte ieri per la visita del consigliere regionale Paolo Menis, che era assieme all’esponente dei Radicali Italiani Gianfranco Leonarduzzi e all’avvocato Enrico Bulfone. Menis, dall’ultima visita avvenuta a dicembre 2005, ha potuto rilevare i benefici che i lavori di ristrutturazione hanno avuto sulla distribuzione degli spazi ad uso dei detenuti. Anche la biblioteca e le classi di studio sono state motivo di interesse. Durante il colloquio con il direttore Macrì si è analizzato il quadro delle problematiche che la giustizia si trova ad affrontare maggiormente sul nostro territorio e si è sottolineata l’urgenza di avviare i lavori per la ristrutturazione del secondo lotto della struttura, ovvero quella destinata alla detenzione femminile, che oggi gravita completamente su Trieste. Il carcere di Udine, ad oggi, ospita 143 detenuti, la maggior parte dei quali sta scontando una pena legata alla detenzione o allo spaccio di droga. Il 70 per cento non è di origine italiana.

Roma: Danilo Coppola è incompatibile con la detenzione

 

Ansa, 8 giugno 2007

 

Il regime carcerario è incompatibile con lo stato di salute di Danilo Coppola. L’esperto nominato dal tribunale sottolinea grave situazione neurofisica e il rischio di uno scompenso metabolico con possibili gravi conseguenze. Il giudice decide il 12.

Il perito nominato dal Tribunale della libertà di Roma Antonio Coppotelli - riferisce una nota dell’ufficio stampa dell’immobiliarista - ha depositato oggi la relazione peritale relativa a Danilo Coppola, affermando l’incompatibilità dell’attuale stato di salute con il regime carcerario. Il perito dopo aver ribadito la realtà delle condizioni di salute manifestate dall’indagato, ha sottolineato la grave situazione neurofisica di Coppola, mettendo in evidenza che l’attuale quadro clinico fa presagire un incipiente scompenso metabolico con possibili gravi conseguenze cardiovascolari o neurovascolari. Il perito ha anche evidenziato che le possibili cure praticabili in ambiente carcerario non possono influire positivamente sullo stato di salute del detenuto. In proposito i difensori di Danilo Coppola, professor Bruno Assumma e Antonio Fiorella all’udienza dinanzi al Tribunale del riesame avevano già evidenziato la gravità dello stato di salute del loro assistito, sostenendo che nel nostro ordinamento il diritto alla salute prevale su ogni esigenza di tipo processuale. "È prevedibile - conclude il comunicato - che questi argomenti saranno ribaditi alla prossima udienza del 12 giugno in cui il Tribunale deciderà se scarcerare o meno Danilo Coppola".

Droghe: Turco; "sì" ai Nas, "nì" ai kit, "no" alla repressione

 

Notiziario Aduc, 8 giugno 2007

 

"Sul tema della lotta alle droghe il programma dell’Unione è stato molto preciso e credo che lo dobbiamo attuare: al primo posto c’è la radicale modifica della legge Fini-Giovanardi, quindi il Governo deve presentare quanto prima la riforma di questa normativa". A lanciare l’invito è il ministro della Salute, Livia Turco, oggi ai microfoni di Radio Anch’io per un intervento sull’emergenza stupefacenti.

La responsabile della Sanità italiana ha tenuto a ribadire che la propria linea in materia "è stata coerente, non solo nelle intenzioni, ma anche nelle cose fatte". Per quanto riguarda il Governo, ha detto, "è ineludibile che vi sia una pluralità di accenti", ma gli impegni presi vanno tutti rispettati. Sulla presentazione di un ddl di riforma alla legge Fini-Giovanardi, però, Turco non è in grado di definire tempi precisi.

"Il ministro coordinatore non sono io, ma il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero. Posso dire che ci siamo visti e abbiamo parlato, e che per quanto riguarda me e lui abbiamo una fortissima sintonia. Tuttavia non sono in grado di annunciare scadenze". Secondo il ministro, inoltre, in Italia sul tema della droga serve in generale "un cambio di fase", verso "un dibattito aperto, serio e approfondito, senza semplificazioni e senza vuota retorica". In altre parole, la riflessione sull’argomento non deve ristagnare in una scelta di campo politico. Non si tratta di un problema di destra o di sinistra: occorre "mescolare le carte" per garantire la tutela dei cittadini. Il ministro della Salute ha quindi difeso la sua proposta di inviare Nas in borghese nelle scuole per controlli antidroga. "I Nas sono i carabinieri della Sanità e la loro collaborazione con il mondo della scuola esiste già. Per ora si tratta però di un fatto sporadico, che auspico venga generalizzato nell’interesse di genitori e ragazzi".

Un’intenzione che "forse l’opinione pubblica può non comprendere, ma che un politico, un ministro, non può non capire". Il piano di intervento "è pronto", ha assicurato Turco. Ma non si tratterà di fare ‘blitz’, perché "non è mio potere entrare coi Nas a scuola senza il benestare dei presidi". Quanto all’immagine di cani antidroga sguinzagliati negli istituti scolastici, il ministro ha sorriso: "Ma quali cani e cani? I Nas non hanno nemmeno un barboncino".

Il ministro ha poi ribadito la totale assenza di contraddizioni nel proprio operato: "Bisogna solo mettersi d’accordo sul concetto di prevenzione, che secondo me non significa tolleranza, bensì dare educazione e regole, combattere lo spaccio in tutte le sue forme e garantire ambienti sani e sicuri ai nostri ragazzi". Detto questo, il messaggio del decreto Turco sul quantitativo massimo di cannabis che è possibile detenere per uso personale senza rischiare sanzioni penali, "voleva essere un no al carcere per gli spinelli. E non sì agli spinelli, come invece è stato detto". Il ministro resta infatti "convinta che l’uso personale di droga debba rimanere fuori dal circuito penale", e "che anche le sanzioni amministrative come il ritiro patente siano da ripensare". Infine, in base ai dati scientifici disponibili, Turco ritiene che la cannabis non sia da inserire nella lista delle droghe più pericolose. Per questo, "una campagna di dissuasione allo spinello sarebbe forse utile, ma insieme a una campagna sui rischi di cocaina, fumo, alcol e ogni stupefacente", ha concluso.

 

Commenti

 

"Il ministro Livia Turco continua a dare segni di confusione in tema di droga". Questo il commento della coordinatrice nazionale dei giovani di Forza Italia, Beatrice Lorenzin. "Ma siamo davvero sicuri - si chiede Lorenzin - che il ministro che ha parlato stamattina a Radio 24, continuando a fare un distinguo tra l’uso di cannabinoidi e droghe pesanti ed insinuando comunque il dubbio che fare uso di sostanze cosiddette leggere non sia grave, è lo stesso ministro che pochi giorni fa chiedeva blitz dei Nas dentro le scuole italiane?".

Ci sembra, dice la giovane azzurra, "che il ministro Turco viva uno sdoppiamento di personalità politica". Da un lato, "sulla spinta emotiva del tragico fatto di Milano, ricerca il consenso delle famiglie invocando azioni da stato di polizia", dall’altro, aggiunge Lorenzin, "vuole ottenere anche il consenso dei giovani che oggi fanno uso di droga e chissà domani potrebbero anche votarla". Così fa un cattivo servizio ai giovani e a chi ogni giorno, conclude Lorenzin, "si impegna sul campo difficile della lotta agli stupefacenti".

Droghe: Ministro Turco, lascia perdere il kit della Moratti

di Franco Corleone (Forum Droghe)

 

Il Riformista, 8 giugno 2007

 

Livia Turco, come si sa, è tenace e testarda. Difficilmente riconosce di avere commesso un errore e si sforza di spiegare le sue ragioni con caparbietà piemontese. Così sul Riformista del 4 giugno scorso cerca di mettere d’accordo il diavolo con l’acqua santa. Difende la scelta di far entrare i carabinieri nelle scuole e contesta l’approccio proibizionistico che non funzionerebbe con i giovani.

Questo testacoda concettuale può rivelarsi l’occasione per fare finalmente chiarezza sulla politica delle droghe da parte della sinistra e del governo dell’Unione. Punto primo. Non si dovrebbe mai parlare di droga al singolare e tanto meno di emergenza droga, se non si vuole cadere nella rete della costruzione ideologica del proibizionismo che ha edificato una sorta di pensiero unico basato sulla war on drugs, sulla lotta del Bene contro il Male, una guerra preventiva il cui obiettivo salvifico prevede la persecuzione dei consumatori delle sostanze vietate aprioristicamente e arbitrariamente.

Punto secondo. Livia Turco si bea dei risultati di sondaggi che premierebbero la sua proposta di inviare i carabinieri nelle scuole senza rendersi conto di peccare di berlusconismo, affidando la politica ai sondaggi e soprattutto di affidare una questione delicata dal punto di vista culturale e politico nel tritacarne securitario.

Livia Turco avrebbe invece il dovere dettato dall’onestà intellettuale di spiegare perché i governi di centrosinistra dal 1996 al 2001 trascurarono le indicazioni delle due Conferenze nazionali sulle tossicodipendenze, di Napoli e di Genova, che fornivano scelte puntuali a favore della depenalizzazione del consumo, delle alternative al carcere e della politica di riduzione del danno.

Dopo un anno di governo dell’Unione che nel programma in maniera chiara e non equivoca prevedeva l’abrogazione della legge Fini-Giovanardi e la revisione della legge Jervolino-Vassalli voluta da Bettino Craxi, invece di acchiappare farfalle, si dovrebbe rendere conto del nulla che è stato fatto. Abbiamo fissato una data limite, il 26 giugno, per conoscere le intenzioni del governo che rinvia la presentazione di un disegno di legge e di fatto impedisce la discussione in Parlamento della proposta Boato firmata da oltre settanta deputati.

Appare grottesco che di fronte a una campagna mediatica di criminalizzazione della canapa che vede in prima fila Corriere della Sera, Repubblica e La Stampa e che si risolve in un sostegno della repressione e della denuncia e degli arresti di migliaia di giovani ci si trastulli con la proposta del kit antidroga avanzata da Letizia Moratti, sindaco di Milano.

È un’idea copiata dall’America di Bush: demagogica, costosa e fallimentare, come abbiamo documentato pervicacemente da tre anni con articoli su Fuoriluogo e con un volume che raccoglie gli scritti di Rodney Skager, illustre pedagogista statunitense, intitolato, per l’appunto, Oltre la tolleranza zero. Come è un’idea reaganiana, per la precisione di Nancy Reagan, quella del consumo zero (il Just say no è il messaggio dell’astinenza e dell’eliminazione del consumo a cui i liberal contrappongono il Just say know, un messaggio di dialogo che si propone di offrire ai giovani le conoscenze indispensabili per evitare i rischi).

In assenza di una politica coerente, assistiamo a un’orgia di messaggi sotto il segno del law and order, dall’antidoping di Amato alla richiesta di punire i consumatori (purché ricchi e borghesi) da parte di Chiamparino, per non parlare delle iniziative della magistratura (democratica) di Bologna con la riedizione di teoremi fondati sul pregiudizio contro centri sociali da chiudere perché luoghi di diffusione delle droghe.

Proprio a Bologna il primo risultato dell’azione dei Nas sfiora il patetico: un’azione condotta con cani antidroga ha portato al sequestro in un grammo di marijuana. Quanto costa quel grammo di sostanza innocua?

Questa campagna terroristica che mette in campo psichiatri da strapazzo, scienziati all’amatriciana e opinionisti alle vongole ha la stessa matrice della contestazione dell’indulto, una misura giusta per limitare l’illegalità in cui vivevano le carceri violando leggi e regolamenti. L’odio per il diverso è la giustificazione degli imprenditori della paura. Da questo governo ci si aspetterebbe ben altro, ma forse anche questa occasione è stata irrimediabilmente perduta. Aveva ragione Sciascia a indicare lucidamente un destino tragico per l’Italia: un paese irredimibile.

Droghe: i ministri dovrebbero evitare di parlarsi addosso

di Vincenzo Donvito, (Associazione Utenti e Consumatori)

 

Notiziario Aduc, 8 giugno 2007

 

Oggi è la giornata del ministro della Salute, Livia Turco, che sulla droga ne ha dette diverse. Rivedere le sanzioni amministrative; riformare la legge Fini-Giovanardi; rifare il decreto sulla dose minima della cannabis; Nas a scuola; etc. Il nostro ministro ha tirato fuori tutto il suo armamentario sulla materia, come ministro e come mamma (che è un contesto che talvolta la Turco usa per meglio spiegare il proprio pensiero e la propria angoscia), finendo per comunicare con gli usuali bizantinismi che siamo abituati ad ascoltare in materia: sulla cannabis, "non si dice che è consentito, si dice che non è punito". Cioè parole per non affrontare di petto la situazione (legalizzare tutto o proibire tutto).

E ancora il nostro ministro: "... il programma dell’Unione è stato molto preciso e credo che lo dobbiamo attuare: al primo posto c’è la radicale modifica della legge Fini-Giovanardi, quindi il Governo deve presentare quanto prima la riforma di questa normativa"; la linea del Governo in materia "è stata coerente, non solo nelle intenzioni, ma anche nelle cose fatte". Boh! Forse ci siamo persi qualcosa, perché è da un anno che il ministro degli Affari Sociali, Paolo Ferrero, dice che sta per presentare il disegno di legge del Governo, e non lo fa. Con il solo risultato che per l’unica proposta di legge non proibizionista depositata (a prima firma dell’on. Marco Boato) non si fa partire la discussione. Non solo. Ma l’attuale Governo sta di fatto attuando la legge Fini-Giovanardi, anche perché la sta gestendo da più tempo rispetto a quanto era stata gestita dal Governo della passata legislatura in cui era stata approvata.

Secondo noi il ministro Turco si parla addosso. E crediamo che i ministri dovrebbero evitare di farlo. Meglio tacere. I ministri dovrebbero agire in termini esecutivi per ciò che dovrebbe decidere il Parlamento. Ma in Italia, non solo in questo ambito, non è così: il potere legislativo è quasi sempre espropriato dal potere esecutivo. E i risultati sono questi: nel nostro caso il blocco dell’iter legislativo della proposta Boato perché bisogna attendere il Governo... che oltre a dire e, per l’appunto, parlarsi addosso, non fa nulla.

Un’ultima nota. In tutto questo inutile parlare, la cosa più importante viene dimenticata o taciuta. È evidente che in Italia non potranno mai essere approvate leggi legalizzatrici in materia finché vigono i trattati internazionali da noi firmati. L’unica possibilità è il divieto assoluto o la riduzione del danno (tipo Olanda, Spagna, Germania, Gran Bretagna), che mette solo un tampone alla drammaticità della situazione. Il nostro Paese, intende affrontare questo scoglio dei trattati internazionali, cioè è interessato a legalizzare le droghe facendosi alfiere presso l’Onu di una modifica o di un ridimensionamento di questi trattati, con un impegno, per esempio, come quello che pare stia utilizzando per la moratoria contro la pena di morte? Il nodo è lì! Il nostro ministro degli Affari Esteri, Massimo D’Alema, che dice di essere non proibizionista, si è posto il problema o preferisce solo mandare avanti le inconcludenze del suo collega Paolo Ferrero e il parlarsi addosso di Livia Turco?

 

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