Rassegna stampa 8 gennaio

 

Erba: in carcere i vicini di casa, hanno un alibi "fragile"

 

Agi, 8 gennaio 2006

 

Un alibi molto fragile quello dei coniugi Romano posti in stato di fermo nel tardo pomeriggio e rinchiusi nel carcere del Bassone in attesa che nelle prossime 48 ore il Giudice dell’indagine preliminare convalidi la decisione dei magistrati che stanno indagando sulla strage di Erba. Secondo alcune indiscrezioni Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi, vicini di casa di Raffaella castagna, avrebbero insistito per tutto il pomeriggio sulla loro estraneità all’eccidio sostenendo di essere stati quella sera in una pizzeria. Per dimostrarlo avrebbero anche mostrato una ricevuta fiscale, o uno scontrino, ma ci sarebbe un ‘bucò di tre ore che non sarebbero stati in grado di riempire. Tra queste la macchia di sangue femminile trovata su alcuni abiti dell’uomo.

Prove anche dal Dna sui capelli trovati nel bilocale, l’impronta digitale e quella di calzatura trovata su un cuscino calpestato. L’ipotesi di reato contestata al netturbino è quella già indicata nell’informazione di garanzia firmato nel fine settimana: omicidio volontario plurimo e pluriaggravato. Nei confronti della donna non è chiara l’accusa ma si pensa che sia quantomeno di favoreggiamento per aver tentato di fornire un alibi al marito anche se non viene escluso che abbia avuto un ruolo più concreto nell’eccidio. Contro di loro ci sarebbero diverse prove raccolte dagli investigatori.

Roma: Cento (Verdi); troppi bambini in carcere con le madri

 

Ansa, 8 gennaio 2006

 

Anche il giorno della Befana tradizionalmente di festa per i bambini, è invece un giorno di grande tristezza per i bimbi detenuti con le loro mamme. Anche nella sezione femminile del carcere di Rebibbia sono 16 i bimbi con meno di 3 anni e alcuni anche di pochi mesi, che sono detenuti insieme alle loro mamme e che vivono una condizione di ristrettezza sia di spazi che di agibilità". Lo afferma il deputato dei Verdi Paolo Cento, sottosegretario al ministero dell’Economia, che si è recato in visita al carcere femminile di Rebibbia a Roma per denunciare la permanenza nel penitenziario di bambini con le mamme detenute e sollecitare una rapida approvazione della legge che consente di evitare il carcere alle mamme detenute.

"Nonostante il lodevole impegno del personale della polizia penitenziaria e degli assistenti - sottolinea Cento - rimane la vergogna di una situazione che vede ancora troppi bimbi in carcere insieme alle mamme detenute. C’è bisogna di una accelerazione nell’iter delle leggi in discussione in Parlamento che affrontano il problema della mamme detenute prevedendo la sospensione della pena, il differimento della stessa o la possibilità di scontare la pena detentiva in luoghi di accoglienza con i propri bimbi e non nel carcere. Ci vuole una grande mobilitazione civile e politica per risolvere questa emergenza non più tollerabile per un paese civile dove le mamme detenute e i loro bimbi con meno di 3 anni continuano a scontare in carcere una sanzione detentiva che può essere scontata con misure alternative".

Violenze domestiche: uomini vittime tacciono per vergogna

 

Panorama, 8 gennaio 2006

 

Dalla Spagna alla Gran Bretagna, dall’Egitto all’America emerge una sorpresa: i mariti picchiati che tacciono per paura del ridicolo. Perché se vai al commissariato e dici che la tua signora ti ha riempito di botte...

"Chiamo le persone decenti a vincere la violenza machista. Abbiamo le leggi più avanzate, però continua la violenza criminale degli uomini contro le donne, con già 62 vittime quest’anno" ha tuonato lo scorso 28 novembre, al senato spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, 46 anni. Il premier socialista (iper-femminista) si è però dimenticato di denunciare che pure il gentil sesso picchia duro e arriva a uccidere consorti e compagni.

"Violenza domestica: quello che non si racconta. Il 44 per cento delle vittime sono uomini" scrive il settimanale conservatore Epoca.

Dati dell’Annuario statistico della polizia alla mano, il news magazine madrileno mette a nudo una realtà che non appare quasi mai nei Tg e sui giornali. I maschi rappresentano il 22 per cento dei morti ammazzati all’interno delle mura domestiche e il 44 per cento del totale della violenza tra partner, sposati e non. Eppure, il ministro spagnolo del Lavoro e degli affari sociali, Jesús Caldera, afferma: "La violenza delle donne sugli uomini è minima". Invece il ministro della Giustizia, Juan Fernando López Aguilar, riconosce: "Non esiste, negli ospedali e nei commissariati, una casistica degli uomini maltrattati".

Anche se i media non ne parlano, la violenza delle donne su mariti, conviventi o amanti è un fenomeno che dilaga in tutto il mondo, dall’Europa all’Africa, dall’Asia alle Americhe. In Gran Bretagna funzionano tre ostelli per uomini maltrattati, che nel Regno Unito sono almeno 150 mila l’anno. Il primo l’ha aperto Mike Kenny, un businessman di 33 anni sfuggito alla moglie che lo picchiava e ha perfino cercato di accoltellarlo. Nel 2003 gli uomini freddati dalle donne britanniche sono stati 48.

In Germania, un’inchiesta commissionata nel 2004 dal ministero della Famiglia ha scoperto che il 25 per cento dei maschi ha subito violenza fisica all’interno delle mura domestiche, mentre tra il 10 e il 15 per cento è stato sottoposto anche a quella psicologica.

"I casi di mariti o conviventi vittime della furia delle loro compagne sono più diffusi di quanto si creda" assicura Yvon Dallaire, psicologo canadese autore di La violenza esercitata sugli uomini. Una complessa realtà tabù. "Un’inchiesta dell’Istituto nazionale del Québec del 1999 parlava di 62.700 donne e 39.500 uomini maltrattati" aggiunge lo studioso.

Sono cifre che vanno contro la storia politicamente corretta secondo cui il sesso forte sarebbe sistematicamente il boia e il sesso debole esclusivamente la vittima.

Negli Stati Uniti, nel 2004, la percentuale di grave violenza fisica tra partner è stata attribuita al 35 per cento ai maschi, ma al 30 per cento alle donne. Un fenomeno messo in sordina, che non conosce frontiere.

Nelle società islamiche, come quella egiziana, sono maltrattati quattro mariti su 10. E in Thailandia, secondo un rapporto del ministero della Sanità, il 5 per cento delle donne (contro il 6 per cento degli uomini), quando sono ubriache, malmenano il consorte.

Come mai, se il flagello delle femmine che malmenano i maschi è diffuso su scala planetaria, se ne parla così poco? "Gli uomini che vengono picchiati spesso sono creduti poco e messi alla berlina. Una donna maltrattata guadagna uno status e può trovare sostegno presso tanti gruppi di pressione o associazioni per uscire dall’inferno delle violenze coniugali" sostiene Sophie Torrent, ricercatrice svizzera che ha scritto L’uomo picchiato, un argomento inutilmente tabù.

"Invece un maschio malmenato prova un enorme senso di colpa e perde il suo status di uomo".

"Gli uomini non denunciano maltrattamenti perché non esistono luoghi, commissariati a parte, dove possono farlo, né esistono istituti pubblici come quello per la difesa della donna" puntualizza lo spagnolo Eloy Rodríguez, psicologo e sessuologo. "Il 92 per cento dei machos non denuncia i maltrattamenti perché pensa che così metterebbe in dubbio la propria mascolinità. È una questione culturale difficile da sradicare".

C’è poi chi punta l’indice contro il femminismo radicale. Dice Joaquín Leguina, ex presidente socialista della regione madrilena: "La diversità tra le statistiche ufficiali e quelle reali si deve al fatto che il femminismo ha percorso un cammino sbagliato. Ha alzato una muraglia tra i due sessi, sostenendo che la violenza è intrinseca al maschio". Una barriera, insomma, montata anche per nascondere la violenza della donna. Il caso spagnolo si è già trasformato in scandalo. "La strategia è sempre la stessa: si gonfiano le statistiche per giustificare leggi ad hoc" accusa Epoca.

Come prova porta di nuovo le cifre dell’Annuario statistico della polizia spagnola: un’inchiesta segnalava 2 milioni di maltrattate, quando le denunce presentate nei commissariati sono state 49.237. "Non so di nessuna querela che sia stata archiviata" afferma la vice premier di Zapatero, l’iperfemminista María Teresa Fernández de la Vega. Peccato che i fatti la smentiscano. Nel 2006, puntualizza il settimanale, il 59 per cento delle querele per violenza domestica presentate dal gentil sesso è stato archiviato per mancanza di prove.

Milano: medicina nelle carceri, convegno dei medici cattolici

 

Vita, 8 gennaio 2006

 

"La medicina nelle carceri" è il titolo semplice e diretto scelto per il convegno promosso dall’Amci, l’associazione dei Medici Cattolici, sezinone di Milano per parlare di un argomento di grande attualità. Relatori sono Don Virgilio Balducchi, cappellano del Carcere di Bergamo, delegato regionale dei cappellani delle carceri di Lombardia e Rodolfo Casati, primario di Medicina carceraria all’Ospedale San Paolo, Milano; moderatore dell’incontro Marco Botturi, direttore della struttura di Radioterapia, A.O. Niguarda Cà Granda di Milano

Filo conduttore della serata sarà una riflessione a voce alta su un aspetto della medicina per ora poco conosciuto e approfondito. Delle carceri italiane si conoscono i problemi di sovraffollamento e mancanza di infrastrutture (si pensi al recente dibattito relativo alla legge sull’indulto), ma all’interno di quelle strutture non pochi sono i problemi per gli operatori carcerari che vi operano.

Alessandria: domani il carcere di "San Michele" in televisione

 

Comunicato stampa, 8 gennaio 2006

 

Martedì 9 gennaio ore 23.40 - Italia 1: le telecamere di Maurizio Costanzo sono entrate nell’Istituto di San Michele di Alessandria per documentare come nasce un giornale "ristretto".

Si chiama "Altrove, liberi di sperare" è il programma che il famoso giornalista ha dedicato alla realtà penitenziaria, che porta lo stesso nome del giornale redatto all’interno delle mura del San Michele, per documentare la vita nelle celle di alcune carceri Italiane.

Nel carcere alessandrino, la troupe inviata da Costanzo, ha documentato come si realizza un giornale in carcere e le difficoltà di fare informazione in un mondo votato, anche fisicamente, alla chiusura. La giornalista e i due operatori di Mediaset sono entrati all’interno dell’Istituto, il 18 e il 19 dicembre scorso, e in particolare nella redazione per intervistare, documentare e raccogliere le storie dei giornalisti "ristretti".

La redazione di "Altrove" è attualmente formata da sei redattori, un capo redattore, un direttore responsabile e un coordinatore. Questi ultimi, giornalisti professionisti esterni, insieme ad altri volontari, oltre ad ottimizzare il lavoro fungono da ponte tra l’interno e l’esterno, tra i liberi e i reclusi. Il giornale ha l’importante compito di fare informazione da e sul carcere, ma anche di creare delle figure professionali utili nel processo di reinserimento. Di questo e di altro si parlerà Martedì 9 Gennaio alle 23.40 su Italia 1.

 

Il Direttore, dott.ssa Rosalia Marino

Per informazioni: Ufficio Educatori tel. 013.361781

Viterbo: quando i detenuti salgono sul palcoscenico

 

Viterbo News, 8 gennaio 2006

 

Dopo aver vinto il premio "Annalisa Scafi" lo scorso luglio, sono pronti a sbarcare sul palcoscenico romano i detenuti della casa di reclusione di via Tarquinia. Dal 10 al 14 gennaio, infatti, saranno al Piccolo Eliseo Patroni Griffi della Capitale per presentare al pubblico "Via Tarquinia 20. Biografie di un sogno", l’opera da loro scritta insieme alla responsabile del progetto di scrittura e drammaturgia penitenziaria, Valentina Giacchetti.

Lo scorso luglio, presso i giardini della Filarmonica romana, i detenuti della Casa di reclusione Severini, Miraglia, Immobile, Villarubiu, Raia e Ruggero sono stati premiati per aver presentato un’interessante storia, oggi trasportata anche in teatro, e diretta da Emanuela Giordano. Il premio nato dalla collaborazione tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Comune di Roma, la Rai - segretariato sociale ed il Teatro 91, ha coinvolto 118 istituti i cui lavori sono stati selezionati da una prestigiosa giuria composta, tra gli altri dalla scrittrice Dacia Maraini, la regista Emanuela Giordano e l’attrice Franca Valeri.

Ospitando una simile opera, il Piccolo Eliseo di Roma ha aderito al progetto di sostegno interministeriale per il reinserimento sociale e la formazione professionale dei detenuti nell’ambito dei mestieri dello spettacolo del Ministero della Giustizia e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Sul filo dell’ironia, ìVia Tarquinia 20. Biografie di un sogno" racconta, attraverso otto voci tra lingue e dialetti diversi, una serie di avventure in luoghi esotici e lontani: in barca fino al Brasile alla ricerca di donne, a caccia di tesori nella tomba del faraone Tutankhamon o su un’isola misteriosa dove vive un leone bianco e un canarino magico, capace di esaudire i desideri, compreso anche quello di tornare a casa.

L’eutanasia, o delle parole pesanti

di Andrea Boraschi e Luigi Manconi

 

L’Unità, 8 gennaio 2006

 

Perché non cominciare a chiamare le cose con il loro nome? In tanta confusione, non guasterebbe di certo: perché, sì, è comprensibile che le questioni "di vita e di morte" finiscano col polarizzare le posizioni in campo; ed è, di conseguenza, altrettanto comprensibile (e non per questo giustificabile) che le parole sfuggano di bocca e di penna, che si smarrisca - per dirla difficile - ogni rapporto tra "significante" e "significato". Ma, negli ultimi tempi quella sequenza di consonanti e vocali, che dà forma e suono al termine "eutanasia", è quanto mai abusata e impiegata a sproposito. Innanzitutto: esistono pratiche mediche di accelerazione del decesso (di un decesso che si prevede come risultato inevitabile di una prognosi infausta e a breve termine) che non sono eutanasia.

Valga, a titolo d’esempio, la questione della "sedazione terminale", laddove l’accompagnare "dolcemente" il malato verso una morte, comunque inevitabile, non ha nulla a che fare con l’interrompere una vita: e risponde, piuttosto, a un mero dovere deontologico del medico, nonché a un gesto di umanissima pietas. Altrettanti fraintendimenti si addensano sull’impiego della formula "eutanasia passiva", con la quale in molti accostano la pratica della sospensione delle cure a un "dare la morte", ancorché indirettamente.

Forse è proprio sull’onda di questa interpretazione che una deriva, ambigua e perversa, porta a considerare la vicenda e la morte di Piergiorgio Welby come una questione eutanasica. Ma quella persona tutto ha chiesto fuorché di essere ucciso. Egli voleva, piuttosto, essere lasciato morire; voleva che alla sua malattia (dalla quale non poteva attendersi alcuna possibilità di guarigione e che s’era fatta dolore cieco), fosse lasciato corso naturale. Dunque, Welby intendeva sottrarsi a una condizione di vita assolutamente "artificiale", del tutto "non naturale", in cui le funzioni fisiologiche primarie sono assolte da macchine; una condizione nella quale trattamenti sanitari invasivi, vissuti come lesivi della dignità, supplivano a uno stato biologico "morente", altrimenti già morto da tempo.

Interrompere le cure, qualora il paziente lo richieda, è cosa assai distinta e ben distante dal ricorso all’eutanasia. Interrompere le cure quando esse costituiscono solo una forma di accanimento terapeutico, poi, è doppiamente doveroso e ragionevole: tanto che lo stesso codice deontologico dei medici condanna espressamente qualsivoglia pratica di accanimento. Insomma, ci sono almeno due questioni sul piatto. La prima riguarda il diritto del malato (formulato nel dettato costituzionale e riconosciuto da più convenzioni internazionali, sottoscritte dall’Italia) a rifiutare qualunque intervento medico egli ritenga superfluo o dannoso o svilente della sua persona.

Il paziente, in tal senso, è riconosciuto come unico e assoluto titolare del corpo che si vorrebbe curare; e, in quanto tale, capace di richiedere l’astensione da qualsiasi terapia. La seconda questione, invece, ha a che fare con la natura stessa della pratica medica: con il fatto, cioè, che si deve individuare un limite al suo raggio d’azione. Un limite che, essendo funzione dei tempi, delle scoperte scientifiche, delle conoscenze teoriche e pratiche, deve coincidere con un confine ragionevole tra vita e sopravvivenza.

Ne consegue che le polemiche addensatesi sul "caso Welby" non possono essere ridotte alla contrapposizione tra opzioni di ordine politico o ideologico. Discutere della vita e della morte di quella persona alla luce delle fratture "classiche", che percorrono la società italiana, si rivela inutile. Le opinioni di chi interviene sulla sua vicenda non possono essere scomposte nel confronto tra virtuosi estimatori del valore e della sacralità della vita e accaniti necrofili, cinici utilitaristi in vena di provocazioni. Altresì, quel confronto non coincide (neppure un po’) con i confini tracciati dalla distinzione laici/cattolici.

Basti leggere quanto segue: "Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, poiché vi è grande differenza etica tra procurare la morte e permettere la morte: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa" (così la Pontificia Accademia per la vita nel dicembre 2000).

La partita vera si gioca tra chi ha voluto prendere sul serio la sofferenza di Welby e chi, con atteggiamento non scevro da paternalismo, ha ritenuto di potersi sostituire alla sua volontà per "salvarlo", per incatenarlo a una vita "lucida", ma insopportabile. Giorgio Israel si chiedeva, sul Foglio del 12 dicembre: "Immaginiamo di incontrare una persona che sta per lanciarsi da un ponte. Lo fermiamo e gli chiediamo il perché del suo gesto e lui ci racconta i tragici eventi che gli hanno tolto ogni ragione di vivere. Sono motivi talmente gravi che ci convinciamo che egli non possa fare altrimenti: lo aiutiamo a scavalcare l’alto parapetto e gli diamo una buona spinta per facilitare il suo gesto. Chi giudicherebbe ragionevole un simile comportamento

Di più: quale persona degna di questo nome si comporterebbe così? Eppure si chiede di fare questo nel caso di un dolore fisico: non aiutare, accompagnare, assistere, e alleviare con tutti i mezzi un inevitabile declino, ma sopprimere". E invece, diciamo noi, qui si trattava proprio di accompagnare, assistere e alleviare senza sopprimere. Il suicida di Israel può essere salvato: ma può tentare il suo gesto mille altre volte e infine portarlo a compimento.

Welby no, non poteva neppure questo. Ed è stato costretto alla vita oltre la propria volontà non da qualche benintenzionato salvatore, ma da macchine che l’avevano reso l’ombra dolente dell’uomo che era. E infine, a ben vedere, quel "parapetto" di cui parla Israel, Welby lo aveva scavalcato da tempo, e giaceva al suolo morente. Si doveva prolungare la sua agonia, che lo avrebbe condotto comunque a morte certa, tra mille dolori, o aiutarlo a spegnersi senza che fosse sopraffatto da una sofferenza inutile? Che, poi, al suicida di Israel la Chiesa riconosca un funerale religioso e a Welby no, ebbene, questa è cosa altra; da far pensare alle parole di Gesù, poco prima della sua morte: "beati quelli che piangono".

Immigrazione: Carrara (Fi); mille rumeni saranno scarcerati?

 

Apcom, 8 gennaio 2006

 

"Passeranno da clandestini a liberi cittadini dell’Unione scorrazzando per le nostre città. Se è vero che mille romeni rinchiusi nelle carceri italiane ne usciranno presto, di per sé è una minaccia di cui l’Unione Europea e il governo italiano devono tenere conto. Questa è gente che ha fatto furti, rapine, scippi e violenze di ogni genere". Lo afferma in una nota il senatore di Forza Italia Valerio Carrara, che lancia l’allarme sulla sicurezza nelle città italiane dopo la presunta scarcerazione di mille cittadini rumeni che, in base all’entrata del loro paese nell’Ue, non sarebbero più clandestini.

"Tanti rumeni sono gente per bene - sottolinea il senatore di Forza Italia - ma molti purtroppo sono gente che nel loro paese ha una fedina penale lunghissima e che sono riusciti ad entrare nel nostro paese tramite regioni come la Moldavia, all’interno di tir e pullman di linea con l’Italia. E sono persone che una volta arrivate in Italia hanno fatto di tutto e di più. Chiedo al ministro della Giustizia e al ministro dell’Interno di prendere reali provvedimenti contro questa ondata di delinquenti".

Immigrazione: Ferrero; superamento dei Cpt? fatto condiviso

 

Vita, 8 gennaio 2006

 

"Il superamento dei Cpt è fatto condiviso, anche se non c’è ancora condivisione sul come". Lo ha sottolineato il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, intervenuto oggi a Torino ad un incontro con istituzioni e associazioni per fare il punto sul fenomeno dell’immigrazione in Piemonte, dove secondo le ultime stime i permessi di soggiorno rilasciati sono oltre 200 mila, di cui quasi 127 mila in provincia di Torino. Secondo il ministro, "i Centri di permanenza temporanea non hanno ragione di esistere. È follia - ha spiegato - che persone che hanno commesso reati vadano nei Cpt perché non sono state identificate in carcere: chi va in galera deve essere identificato in galera. In secondo luogo, coloro che non hanno commesso reati non dovrebbero essere ospitate in tali strutture simili a carceri ma con minori tutele". Una riflessione condivisa dall’assessore al Welfare della Regione Piemonte, Angela Migliasso. "Occorre - ha detto - aprire una riflessione seria sui centri di accoglienza temporanea con l’obiettivo di accrescerne la trasparenza e garantire il rispetto dei diritti". Analoga proposta è venuta dal segretario dei Comunisti Italiani, Luca Robotti.

Concludendo l’incontro con istituzioni e associazioni, il ministro Ferrero ha poi ricordato che "l’immigrazione è un fatto strutturale con cui dobbiamo convivere: anche per effetto del calo demografico in Italia c’è sempre più bisogno di manodopera straniera e di lavoratori disposti a svolgere mestieri che gli italiani non fanno più". Secondo il ministro della Solidarietà sociale è quindi necessario per gestire il fenomeno dell’immigrazione "passare dall’emergenza alla normalità" cominciando ad affrontare alcune priorità, tra cui i problemi della casa, della lingua, dei servizi.

Droghe: in Francia tornano in auge l’eroina e la siringa

 

Redattore Sociale, 8 gennaio 2006

 

In Francia ritorna la siringa. Un rapporto dell’Osservatorio francese per le droghe e le tossicomanie, ripreso dall’edizione on-line del quotidiano Le monde. ha rivelato che i giovani sono tornati a bucarsi per iniettarsi ecstasy e cocaina. Torna in auge anche l’eroina, stavolta sotto forma di fumo, per compensare gli effetti delle altre sostanze: ne fa uso il 15% dei partecipanti alle feste di musica techno, uno dei teatri di osservazione del programma Trend-Tendenze recenti e nuove droghe, basato sul monitoraggio di campioni di popolazione che consumano sostanze in quantità maggiore rispetto alla generalità della popolazione.

Il Rapporto, in particolare, sottolinea che, dopo anni di diminuzione dell’uso delle siringhe (nel 2000 ne faceva uso il 16% degli utenti delle strutture di assistenza note come le Spl-Strutture di prima linea e le Csst, nel 2004 il 9%), nel 2005 la percentuale è tornata a salire all’11%. "Questo fenomeno, riportato dagli osservatori sul campo, è percepibile sul piano quantitativo per i consumatori di cocaina, BHD (buprenorfina ad alto dosaggio; ndr) ed ecstasy, tra cui sempre più spesso popolazione molto giovane, che vivono in condizioni di grave precarietà e frequentano tanto gli Spl che le feste techno-alternative. In particolare, per quanto riguarda le sostanze sotto forma iniettabile, dal 2003 al 2006 l’eroina è passata dal 53 al 54%, la cocaina dal 46 al 54%, il BHD dal 47 al 58%, l’ecstasy dal 13 al 19%, le amfetamine dal 22 al 40%. "Diversamente dai tossicomani degli anni 80, per i quali la droga è stata sinonimo di contestazione sociale, queste nuove generazioni sono molto sradicate e in grande sofferenza", ha detto a Le monde Jean Michel Costes, direttore dell’Ofdt.

Questi giovani, quindi, si configurano come policonsumatori, che si iniettano cocaina ed ecstasy per ottenere un effetto più violento di quanto sniffano o ingeriscono la sostanza. Nuove modalità d’assunzione, che pongono importanti problemi sanitari: l’effetto ricercato è relativamente breve, per cui i consumatori tendono a ripetere la somministrazione della dose, arrivando anche ad un’iniezione ogni quarto d’ora. I rischi di contaminazione da Aids o epatite per scambio di siringa sono perciò moltiplicati.

Dal Rapporto risulta anche un lieve aumento nel consumo di eroina, in passato droga da iniettare, oggi preferita da sniffare o inalare.Il 15% dei partecipanti alle feste di musica techno l’ha già consumata, l’eroina è utilizzata in via secondaria come mezzo per placare gli effetti delle altre sostanze e di gestire la "fase calante" dopo l’assunzione di cocaina o ecstasy. Da parte sua, la cocaina si conferma regina delle sostanze stupefacenti anche in Francia: la sua disponibilità non ha fatto che aumentare negli ultimi cinque anni, diventando una droga di massa. Nel 2006 il 90% degli utenti degli Spl ha assunto cocaina o crack, il 39% nel corso del mese precedente l’intervista. Non solo: "La Francia è ancora lontana dalla saturazione del mercato potenziale - avverte Costes -: Spagna e Gran Bretagna registrano consumi da 3 a 5 volte superiori".

Salvador: ammutinamento in carcere, almeno 17 morti

 

Ansa, 8 gennaio 2006

 

Almeno 17 detenuti sono morti nel Salvador nel corso di un violento e feroce ammutinamento scoppiato ieri pomeriggio all’interno del carcere di massima sicurezza di Apanteos, a circa 70 chilometri dalla capitale San Salvador. Lo ha reso noto oggi il vice direttore della polizia, Douglas Garcia Funes.

Secondo fonti giornalistiche la rivolta è stata domata con l’intervento dei militari ed è già stato avviato il trasferimento di molti detenuti in altri penitenziari. "All’interno della prigione è avvenuto un terrificante massacro", ha sostenuto un alto funzionario che si occupa dei diritti umani, secondo il quale quando, questa mattina, gli agenti dell’Unità mantenimento dell’ordine (Umo) hanno fatto irruzione nel carcere, hanno trovato all’interno delle celle "teste e piedi mozzati".

L’ammutinamento è scoppiato ieri quando alcuni reclusi appartenenti al gruppo Mara 18, una violentissima organizzazione di giovani malviventi che da anni imperversa nel Salvador, ha aggredito una guardia. È stata la scintilla che ha innescato la rivolta, con centinaia di altri detenuti che si sono rifiutati di entrare nelle celle ed hanno cominciato a distruggere tutto quello che trovavano, nonché, e per tutta la notte, ad ingaggiare feroci risse contro bande rivali. Garcia Funes ha annunciato alla stampa che il penitenziario, in cui sono rinchiusi almeno 1.200 malviventi, permarrà in stato d’emergenza per le prossime due settimane.

 

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