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Opg: dove l’indulto non è arrivato di Dario Stefano dall’Aquila (Associazione Antigone Napoli)
Il Manifesto, 6 gennaio 2006
Nell’ospedale psichiatrico di Aversa, l’ex manicomio criminale, il costo della follia: per ogni internato un euro e cinquanta al giorno, molto meno di un normale penitenziario. E con soli 12 minuti a settimana di assistenza psichiatrica. I letti di contenzione, le celle e detenuti che non usciranno mai anche se hanno commesso piccoli reati. Basta la pericolosità sociale per finire vittima di un "ergastolo bianco". Storie da un carcere molto particolare. Di ingressi così, nonostante quasi dieci anni di visite in carcere, non se ne ricordano. Non è stato un attimo, ma questione di pochi minuti. Il contrasto tra l’ampio spazio verde, con animale e uccelli rari, e l’area del passeggio della sezione cosiddetta Staccata dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è netto. Il tempo di un portone, due scalini, poi un cancello dai vetri levigati e dalle sbarre di ferro. In un attimo, delle circa cinquanta persone che passeggiano, una trentina ci circonda, in modo frenetico, mani tese, frasi smozzicate, altre più rabbiose, curiosità, richieste di favori, piccole domande. Siamo separati da questo fiume di storie. Per contrasto all’interesse di molti, una discreta parte degli ospiti di questo cortile largo e irregolare, con l’aria di una stazione di aspetto dimessa, ci ignora, immobile, prigioniera di piccoli e ripetuti gesti. Qualcuno ripercorre freneticamente il cortile di corsa, un internato è poggiato al muro e apre e chiude, ripetutamente, una fontana, altri rimangono immobili, appoggiati ai muri. Si affollano curiosi, ripetitivi, alcuni con le domande classiche del detenuto, una carta processuale sempre in tasca, ma i più con domande insolite, una richiesta di dialogo o una storia raccontata a metà. "Come lei sa io sono un amministratore politico", spiega un ragazzo, quando apprende che c’è un parlamentare nella delegazione, Francesco Caruso del Prc. Gli internati si avvicinano a turno, "chiedono siete voi l’onorevole", e la risposta negativa non serve a scoraggiarli. Sono sporchi, maleodoranti, panni dimessi, cappotti su pigiami, pullover che ricordano altre mode, colpisce quanti di loro siano colpiti da dermatiti, alcune appaiono devastanti, uno ha la pelle del viso squamata, un altro ha come delle stimmate sul dorso della mano. La Staccata è una sezione figlia di una storia orribile. È quella dei letti di contenzione, degli elettroshock, dei pazzi pericolosi e irrecuperabili, delle leggende, delle botte, degli esperimenti psichiatrici. "Oggi è diverso", ci dicono. Sicuramente vero, ma in questo posto non è mai soffiato il vento di riforma che ha permesso di chiudere i manicomi. Qui ogni cosa appare sospesa, il tempo, la dignità, i diritti. La calca di persone dura forse un’ora, forse meno, ma il tempo sembra rallentare. Alcuni ritornano, più volte a ripetere le stesse cose, stesse richieste e domande. Molti bisogni, ma quello del dialogo sembra prevalere. Si presentano, cognome e nome. Quando chiediamo gli anni di permanenza, e ogni giorno in una condizione del genere sarebbe eccessivo, è un brivido. Quattro, sei, dieci anni. Francesco M. digrigna i denti, ogni volta che termina la frase, un rumore di gesso contro la lavagna, come a sottolineare l’importanza di ogni frase. "Si sta male, hai capito, si sta male, si sta male" e tac, un rumore di denti contro denti. Denti così neri che ti chiedi come stiano in piedi. Un internato, privo di un braccio, trotterella da un gruppo all’altro, mentre Francesco M. ripete che c’è violenza, che si sta male e digrigna i denti, con rumore sordo. A placare gli internati le sigarette, gli agenti le distribuiscono come calmante, sembrano funzionare di più degli psicofarmaci. Basta tirare fuori un pacchetto e a gruppetti si affollano, per poi disperdersi ognuno con la sua sigaretta da fumare subito e da difendere dagli altri. Qui il mondo è un cortile e l’orizzonte una grata. Gli Opg un tempo si chiamavano manicomi giudiziari. Oggi ve ne sono 6 in tutta Italia, due solo in Campania. Sono a tutti gli effetti carceri e dipendono dal Ministero della Giustizia. Vi sono persone, in linea di massima, che hanno compiuto un reato, ma che non sono in grado di intendere e di volere. Sono quindi condannate non a una pena determinata, ma a una misura di sicurezza che può essere, a seconda del reato, di due, cinque o dieci anni. Proprio perché sottoposti a misura di sicurezza e non a una pena si definiscono internati invece che detenuti. Se al termine della misura il magistrato di sorveglianza ritiene che sussiste la pericolosità sociale, la misura viene prorogata. Non c’è indulto che tenga. Capita così che una persona che commette un furto per il quale sconterebbe meno di un anno, se viene dichiarata non sana di mente finisce per scontare una pena che dura anche tutta una vita. Si chiamano ergastoli bianchi. Metà degli internati di Aversa è dentro per reati contro il patrimonio. Ci sono poi detenuti comuni che perdono il "lume della ragione" e la cui pena viene sospesa e vengono mandati in Opg. Se rinsaviscono tornano in carcere. Usciamo dal cortile per visitare la sezione accompagnati dalle ultime frasi, "dottore hai capito, è tentato omicidio, non omicidio, dillo all’onorevole, e, si sta male, si sta male, si sta male". Tac. Si chiude il cancello. Basterebbe così ma si prosegue. Le celle sono vuote, con l’eccezione di qualche internato che rinuncia al passeggio. Da una spunta un fantasma, si chiama Costantino, è sostenuto da un altro internato e sembra un bambino di tre anni che saluta. Si regge a fatica in piedi. Ha un sorriso sdentato e incosciente. Sta qui da circa 30 anni, ne ha 55, ne dimostra venti in più. Le celle sono vuote, appena un letto, un lenzuolo bianco grigio e una coperta marrone con una striscia bianca. La stanza numero sei ha una scritta su un cartoncino rosa che è di per sé un manifesto psichiatrico: Stanza Coerciti. Dentro tre letti, piccoli, fissati al suolo, con un buco al centro per i bisogni e un secchio sotto a raccogliere. Sono vuoti ma, come apprenderemo dal registro che di lì a poco andremo a vedere, sino a qualche giorno fa ancora occupati. Due strisce di cuoio, una per lato, e il resto non si fa fatica a immaginarlo. Francesco, la cui bonarietà sembra sorprendere tutti, ci precede in infermeria. Dal registro risulta che un internato, Marco O., è stato legato per 11 giorni. Il personale medico di un Opg è convenzionato. Non ci sono psichiatri assunti ma consulenti con un monte ore mensile. Sono attualmente sette. Se dividiamo il monte ore di consulenza per il numero di pazienti, fanno 12 minuti di assistenza psichiatrica settimanale a testa. Anche larga parte del personale paramedico è a contratto. Il direttore Adolfo Ferraro spiega che la spesa per il vitto prevista dalle tabelle ministeriali è di 1,50 centesimo di euro a internato. La struttura costa 4 milioni di euro l’anno, molto meno di quanto si spenderebbe per un carcere, ancora molto di meno di quanto si spenderebbe se queste persone fossero ospitate in strutture residenziali. La visita prosegue: altre due sezioni, storie di disperazione, di povertà, assenza di avvocati e famiglie. Chiudiamo dopo quattro ore con Mario, internato semi-muto che con suoni disarticolati ci chiede di avvisare la sorella, di dire alla loro madre di farsi trovare a casa, perché il numero che compone suona a vuoto. È il primo impegno che manteniamo, una volta fuori. Il secondo è questo racconto, perché a tutti abbiamo promesso che non ci sarà più silenzio sulle loro vite, che non c’è codice penale, norma amministrativa, disciplina psichiatrica che giustifichi questo dolore. Meno morti nelle carceri, questo è il risultato dell’indulto di Vittorio Feltri (Direttore del quotidiano "Libero")
Libero, 6 gennaio 2007
L’indulto andava fatto, lo dimostrano i dati sui decessi dietro le sbarre. Però la cronaca dimostra che servono programmi d’assistenza e più controlli. Come ho sempre sostenuto l’indulto, non questo indulto, era necessario. Le carceri nell’immediato dovevano essere svuotate, non è possibile far vivere degli esseri umani, anche se hanno commesso dei crimini, in condizioni inumane. E se non vogliamo vedere la faccenda solo dal punto di vista prettamente umanitario, o cristiano, basta solo citare "dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria. In ogni caso 68 morti in meno nelle carceri (confronto 2005-2006) da soli bastano a far capire l’urgenza di tale provvedimento. Certamente coloro che hanno usufruito dello sconto sulla pena, avrebbero dovuto essere inseriti in dei programmi di rieducazione alternativi al carcere, o almeno avrebbero dovuto essere soggetti a degli obblighi e/o a dei controlli extracarcerari. Quindi per dare un senso all’attuale indulto, si deve intervenire sin da subito in modo tale da non ritrovarsi nella medesima situazione nel giro di pochi anni, e proprio i più accaniti oppositori in parlamento, invece di rinfacciare in continuazione - solo per scopi di bassa politica - una legge approvata dalla stragrande maggioranza dei parlamentari, dovrebbero vigilare e pungolare il governo su questo seconda fondamentale parte del processo. Roma: un "manuale di sopravvivenza" scritto dalle detenute
Il Manifesto, 6 gennaio 2006
"Prendi mezzo chilo di riso; metà cipolla e mezzo peperone; olive nere, uva passa, olio e sale. Taglia la cipolla e il peperone in piccole strisce e friggi il tutto. Aggiungi il riso e continua a far cuocere (mescolando sempre) fino a che il riso non assuma un colore dorato. Versa infine due bicchieri di acqua, l’olio, l’uva passa e le olive snocciolate e tagliate a rotelle. Eccoti servito il riso alla colombiana!". Sembrerebbe una ricetta dettata da una nonna sud americana o una meno sofisticata versione di una prelibatezza erotica del ricettario amoroso di Isabel Allende, invece è uno dei tanti consigli "Per il gusto" che le detenute della casa circondariale femminile di Rebibbia hanno raccolto insieme alle operatrici dell’associazione "Ora d’aria" nello spazio settimanale del Giornalino, creando un manuale pronto all’uso per ogni evenienza carceraria. Uno spazio di comunicazione tra "dentro" e "fuori", quello del Giornalino, un non luogo di frontiera dove raccontandosi e scrivendo "ci si sente meno sole e dimenticate e, perché no, anche un pochino utili". "Siamo un gruppo di donne detenute che partecipano al corso del giornalino e di comune accordo abbiamo deciso di farvi conoscere come si vive dentro il carcere, cosa facciamo per alleggerire le nostre giornate e per sopravvivere meglio. Vogliamo iniziare dandovi delle istruzioni per le diverse ricette di estetica, di cucina e, per che no, di arredamento". Così si legge nell’introduzione di questo prezioso manuale fai-da-te, che vuole parlare a chi sta "fuori" e aiutare chi sta "dentro" a superare meglio l’impatto con la struttura totalizzante del carcere, pensata inizialmente per soli uomini, e che mal si adatta alle esigenze delle donne che vi sono rinchiuse. Si tratta di un manuale ricco di odori, sapori e immagini, che serve per resistere e sopravvivere "al femminile", sia fisicamente che psicologicamente, alla logica internate dell’istituzione penitenziaria "Le donne, infatti - ci racconta Silvia, operatrice di Ora d’aria - hanno una modalità di adattamento al carcere completamente diversa dal mondo maschile. A prescindere dalla durata della pena, instaurano un rapporto affettivo con lo spazio e le persone proprio dell’emozionalità femminile. Ne è dimostrazione la cura che applicano nella personalizzazione delle celle in cui vivono". Il carcere spezza rapporti e abitudini e rende quello che per molte di noi è scontato difficilmente "reperibile". Si instaurano equilibri diversi, si solidarizza e si entra in contatto con persone di altri posti e culture che prima di essere rinchiuse non si conoscevano neppure. Ne escono fuori strani miscugli fatti di creme per il corpo naturali, rimedi per il mal d’udito usati in sud america, maschere per pelli grasse o rimedi per il cattivo odore, perché, come dice Plaza, "Coccolarti, farti delle maschere, serve a far salire l’autostima che quando si entra è bassa per la difficoltà di accettare la situazione".
Soffritti ed erbe aromatiche
Sajta di pollo e rotoli di carne ripiena, empanadas ed insalate in cui alle classiche cipolle si aggiungono esotiche avichuela e misteriose tazze di avejas sono le ricette che si preparano e si scambiano tra le mura silenziose delle celle, che si riempiono all’ora dei pasti di odore di soffritti e spezie aromatiche. In stanza è impossibile portare lamette o depilatori e spesso non si hanno i soldi per comprarsi la crema depilatoria, soprattutto se si è straniere e senza una famiglia vicino, per questo le detenute, nella sezione "Per il corpo", ci danno la formula per una ceretta a basso costo, fatta con zucchero e limone, insieme ai consigli per la "salute" contro i dolori mestruali e alle supposte di sapone per "andar di corpo", visto che anche alle medicine, nel carcere, a volte è detto "lasciate ogni speranza o voi che entrate", E se ti bruci cucinando o preparando qualche rimedio contro stipsi e mal di testa, non ti preoccupare, "mettici sopra un po’ d’olio nuovo e del sale e subito ti passa il bruciore e non ti fa venire le vesciche". Se non hai olio a portata di mano, non temere, puoi sempre usare del dentifricio e in mancanza anche di questo, della colla stick... e va via il dolore. E quanto sarebbero utili alle nostre adolescenti e alle mamme, affaticate dall’euro e dalle bollette salate, i consigli per pelle secca e brufoli delle sagge carcerate o i quelli per indurire le unghie e far brillare i capelli utilizzando quello che si ha in casa. Ma adattarsi al carcere non è solo cucinare, che pur ricrea ambienti familiari consueti e ne inventa di nuovi, ma è anche inventarsi uno spazio tutto proprio e personale in un luogo che per sua natura priva di individualità e omologa appiattendo tutto nel grigiore delle sue pareti.
Ottimizzare lo spazio
"Il problema delle celle è quello dello spazio, ottimizzare ciò che abbiamo a disposizione è quello che sta dietro a tutte le nostre creazioni di architetture. Quando entri in una cella non fatta, entri in uno spazio asettico, senti il freddo del carcere. Quando entri in un ambiente già occupato da altri, ti senti di stare in un appartamento piccolino", ci svela Susan. E nella sezione dei "Rimedi" c’è anche quello alla mancanza di mobilio, a cui si sopperisce con pacchetti di sigarette vuoti e un po’ di fantasia, e se ti manca la colla per qualche creazione, beh, basta un po’ d’acqua e farina e tutto si risolve. Si scopre così che i barattoli di pomodori sono buoni, oltre che per far posaceneri, anche come piedi dei cassetti, e che per togliere la ruggine dai vestiti il miglior smacchiante è il succo di limone con sopra un po’ di sale, che alla mancanza di bidet si ovvia con una bottiglia d’acqua e che se, anche non si hanno i soldi e la possibilità, non è detto si debba rinunciare a pentole lucide e tavolette copri water. Anche se l’ingegnosità non manca alle donne di Rebibbia, la tristezza e la paura della solitudine coglie sempre alla sera, quando le celle si richiudono alle venti e gli ultimi passi delle secondine si disperdono nel silenzio, "si ascoltano chiavistelli, porte che si chiudono e il pianto soffocato di qualche cuore... che duole fino a far ardere gli occhi". A questo serve la scrittura, la poesia "Per la mente" che si legge nelle ultime pagine del libro, quando "arriva un altro giorno ed è ancora tutto uguale" e si sa che "non c’è silenzio più grande della solitudine dell’anima". Non manca l’ironia però, ad accarezzare furtiva ogni tristezza, e le ragazze del Giornalino ci avvertono, a noi che stiamo "fuori" e da cui non vogliono essere dimenticate, "di stare attente, qualora si volessero sperimentare alcune di queste ricette sul proprio corpo, e ricordarsi che tutte le persone non ristrette possono trovare tranquillamente tutti i prodotti qui descritti già preparati e confezionati sul mercato". Libertà compresa. Perché dentro, entrano anche persone da fuori, "per darci conforto e per alleggerire le nostre pene, che ti danno anche i panni, perché nel carcere ci sono tante straniere che non hanno nessuno e così loro gli portano i vestiti", ma tutto e sempre "nel limite della regola". Una regola che è dato conoscere solo con l’esperienza e che le nostre autrici-ristrette, in uno slancio di generosità, ci regalano in un unico manualetto, frutto dell’esperienza e della passione per la vita di chi vuol continuare a comunicare con l’esterno anche dal carcere e, dopotutto, nonostante il carcere. Roma: teatro, i "colori della notte" raccontati dai detenuti
Roma One, 6 gennaio 2006
La notte, con le sue suggestioni, paure, attese, speranze per un’alba e una luce diverse: è il tema di "Tutti i colori della notte", lo spettacolo teatrale di questa stagione dei detenuti del carcere di Rebibbia. La rappresentazione, a ingresso libero, rientra negli eventi organizzati in occasione della Settimana della solidarietà Aics. Va in scena stasera (ore 21) al teatro Espace in via Mantova 38. I 15 detenuti protagonisti si esibiranno in una ballata popolare con poesie di Viviani e Di Giacomo, Ferlinghetti e Neruda, Hesse e Pasolini, racconti di Buzzati, canzoni delle tradizioni napoletana, romana e salentina, standard di jazz, brani delle culture africana e araba. Gli attori fanno parte della Compagnia Stabile Assai, la più antica compagnia teatrale penitenziaria e il cui esordio risale al 5 luglio 1982 al Festival di Spoleto. Dirige lo spettacolo il regista televisivo Antonio Lauritano, i testi sono di Gaetano Campo, Marco Valeri e Augusto Guerrieri, tutti detenuti che gestiscono il gruppo teatrale. L’educatore Antonio Turco si è occupato delle musiche. Hanno inoltre collaborato alla stesura del testo il direttore del carcere Stefano Ricca e la psicologa Sandra Vitolo Nel pomeriggio (dalle 14,30) sempre presso l’Espace si terrà anche il convegno "Esperienze minorili in un sistema di welfare" con Antonio Pappalardo, direttore del centro di Giustizia minorile, e Elena Lombardi Vallauri, direttore del Ferrante Aporti. Verbania: otto detenuti al lavoro per manutenzione strade
La Stampa, 6 gennaio 2006
In cinque comuni della provincia saranno presto al lavoro otto detenuti. Come già in passato, quando hanno ripulito il parco Valgrande e la spiaggia delle Rocchette di Arona o quando hanno dipinto le case di Legro d’Orta. Nei prossimi dodici mesi, dunque, due detenuti si occuperanno della manutenzione stradale di Cannobio, altri due del verde pubblico verbanese e uno della linea Cadorna di Ornavasso. Una persona, poi, lavorerà al restauro dei lavatoi comunali di Gravellona e altre due saranno impiegate al teatro "La Fabbrica" di Villadossola. Un progetto impegnativo, finanziato dalla Regione con oltre 77 mila euro e curato dal Gruppo operativo locale, che si occupa anche di "elaborare politiche per il reinserimento sociale e lavorativo degli ex detenuti", come dice l’assessore alle Politiche sociali Paolo Caruso. A questo proposito prenderà il via a breve anche il progetto provinciale "Posti... in libertà", che coinvolge Asl, Gruppo Abele, Comune di Verbania, Ufficio esecuzione penale esterna del ministero di Giustizia di Novara, Consorzi dei servizi sociali, associazione "Camminare insieme" e centro di formazione professionale "Casa di carità". L’obiettivo è quello di aiutare le 15 persone che quest’anno beneficeranno dell’indulto a trovare casa e lavoro, prevenendo emarginazione e ritorno alla criminalità. "Gli operatori degli enti - spiega Mario Brignone, responsabile del progetto - lavoreranno congiuntamente per comprendere bisogni e problemi di carattere sociale, psichico ed economico dei soggetti a rischio al fine di formulare programmi di reinserimento personalizzati". Gli ex detenuti potranno ricevere buoni pasto, borse-lavoro, sussidi e consulenze legali, saranno accompagnati nelle strutture sanitarie e seguiti da vicino durante eventuali programmi di cura per superare la dipendenza da alcol o droghe. Il progetto partirà dopo l’approvazione del ministero di Giustizia ma già si preannuncia innovativo: "Con questa ed altre iniziative - conclude l’assessore Caruso - il Vco si conferma la provincia piemontese più attenta al recupero dei carcerati". Venezia: il Patriarca Scola; sarò portavoce delle mamme detenute
Asca, 6 gennaio 2006
Il patriarca di Venezia Angelo Scola ha celebrato la festa dell’Epifania nel penitenziario femminile della Giudecca a Venezia. Dopo la messa, accompagnata da un coro di volontari e detenute, ha avuto un incontro con le carcerate che gli hanno esposto i loro problemi. In particolare sono intervenute numerose mamme con bambini molto piccoli che gli hanno chiesto di intercedere presso la magistratura di sorveglianza per poter usufruire dei permessi o delle scarcerazioni anticipate. "Dite quello che si può chiedere - si è rivolto loro il porporato - fate presente i problemi ed io personalmente e la chiesa veneziana si farà portavoce presso le autorità di competenza". Alle detenute che non hanno potuto usufruire del recente indulto, il cardinale Scola ha detto di non coltivare illusioni sul futuro, ma di mettersi nelle condizioni di cambiare già oggi, "da voi stesse". "L’uomo come la donna carcerati devono imparare da tutto ma in particolare dai loro errori". La messa del cardinale Scola si è conclusa con una preghiera di Caterina Miroslava che ha letto un brano di Padre Pio. "Impone il silenzio ai miei desideri, ai miei capricci, ai miei sogni di evasione, alla violenza delle passioni", ha pregato Miroslava. Alla messa col patriarca hanno partecipato anche alcune musulmane. Sassi cavalcavia: indulto non c’entra, ma chi ha ucciso è libero
Corriere Adriatico, 6 gennaio 2006
Forse "l’indulto non c’entra" con il dramma della famiglia di Maria Letizia Berdini, la trentunenne che dieci anni fa venne uccisa da un sasso lanciato da alcuni ragazzi da un cavalcavia sull’A21 a Tortona, ma è certo che "questi delinquenti hanno già goduto: arresti domiciliari, riti abbreviati eccetera". È la replica di Vincenzo Berdini, padre della giovane donna uccisa morta mentre andava in viaggio di nozze, al ministro della Giustizia, Clemente Mastella, al quale aveva inviato, all’inizio di dicembre, un video del matrimonio della figlia come segno di protesta contro l’indulto. Precisando di "non avere avuto da nessuno un euro come risarcimento per il gravissimo danno che mi è stato arrecato", papà Berdini ringrazia il Guardasigilli "per l’immediata risposta". Mastella aveva in effetti risposto a stretto giro di posta, spiegando che l’indulto "non c’entra" con il dramma della famiglia Berdini, "che sconvolse tanti italiani": "La giustizia ha fatto il suo corso - aveva spiegato il ministro - e i quattro ragazzi sono stati definitivamente condannati e nonostante lo sconto di pena rimarranno in carcere per i prossimi anni". La replica di Vincenzo Berdini è del 27 dicembre scorso - ma il testo della lettera è stato reso noto solo ieri - nel giorno del decimo anniversario della morte di Letizia: il padre accetta inoltre l’ invito avanzato da Mastella per un incontro. La sua "indignazione" - spiega - vale anche per i "704 parlamentari" che votarono a favore del provvedimento. Quanto al presidente Romano Prodi, "a tutt’oggi non è pervenuto alcun riscontro alla mia lettera", dimostrando perciò "di non aver avuto la stessa sensibilità di un ministro". Genova: dal carcere di Marassi arrivano le "ricette della libertà"
La Stampa, 6 gennaio 2006
Una tovaglia stampata e ripiegata come un libro con ricette di cucina tra le sbarre e pensieri in libertà. L’ultima creazione della terza sezione a custodia attenuata della casa circondariale di Marassi è stata presentata ieri dal direttore, Salvatore Mazzeo e dalla responsabile Commissione carceri del consiglio provinciale di Genova Milò Bertolotto, con alcuni operatori. "La pubblicazione "Sapore di libertà è un ricettario" - ha detto Mazzeo - e gli ingredienti sono libertà, nostalgia e amore. Nostalgia come il cous-cous rievocato da un detenuto del Marocco, oppure libertà come il profumo dei frutti di mare". L’iniziativa è di una trentina di detenuti della terza sezione a custodia attenuata, ora per la gran parte in libertà grazie all’indulto. La sezione raccoglie persone con problemi di tossicodipendenza e alcoldipendenza con pene definitive che vivono in 400 metri quadri e partecipano a percorsi psico-educativi che includono corsi di scrittura e di cucina, in collaborazione con la Cooperativa sociale Il Biscione e il Ser.T.. Sulla tovaglia i detenuti hanno raccontato alcuni piatti che cucinano da sé, come pasta alla carbonara, pollo al rosmarino, lasagne al forno o una pita greca. La tovaglia-libro è stata stampata da Frilli editore di Genova. Guantanamo: compie 5 anni la prigione più discussa al mondo
Associated Press, 6 gennaio 2006
Per l’amministrazione Bush è diventato il simbolo delle difficoltà a conciliare le esigenze della guerra al terrorismo con il diritto internazionale. Per buona parte del mondo arabo e musulmano, è semplicemente uno scandalo e un affronto. La prigione militare a Guantanamo compie cinque anni e assomiglia sempre più a una struttura permanente e a un limbo giudiziario che continuerà a far discutere. L’11 gennaio 2002, nella base della U.S. Navy a Guantanamo Bay a Cuba arrivarono i primi 20 detenuti incappucciati, con le mani legate e i piedi incatenati. Le immagini delle loro divise color arancione e delle gabbie in cui venivano rinchiusi fecero presto il giro del mondo. A quattro mesi dall’attacco all’ America dell’11 settembre 2001, dopo aver vinto la guerra in Afghanistan senza però catturare i leader di Al Qaida e taleban, Bush aveva bisogno di mandare un segnale forte nella lotta al terrorismo e Guantanamo sembrava il più adeguato. Da allora, poco meno di 800 prigionieri sono passati da Camp Delta e dagli altri centri di detenzione di Guantanamo. Per 380 di loro - di cui 114 nel corso del 2006 - c’é stata la possibilità del trasferimento ai paesi d’origine e in molti casi la scarcerazione. Meno di 400 detenuti restano invece in una condizione segnata da molte incertezze. Il Pentagono ha già stabilito che 85 di loro non costituiscono più un pericolo, ma non è riuscito al momento a trovare paesi disponibili ad accoglierli. Gli altri dovrebbero venir processati. Il condizionale è d’obbligo perché l’iter delle commissioni militari, i tribunali speciali che il presidente George W. Bush aveva creato dopo l’11 settembre, ha avuto una vita estremamente travagliata. La Corte Suprema degli Stati Uniti li ha bloccati due volte sul nascere, prima che potessero entrare in azione. L’amministrazione Bush ha reagito una prima volta dando vita a udienze per la revisione dei casi dei detenuti, poi ha deciso di far approvare nei mesi scorsi una legge dal Congresso. Adesso che la legge è stata varata, il Pentagono sta mettendo a punto le procedure per cominciare i processi, previsti a questo punto a partire da luglio. Entro la fine di gennaio potrebbero venir decise nuove incriminazioni. Ma varie iniziative legali si intrecciano negli Usa da parte di avvocati di detenuti e non è escluso che il destino di Guantanamo torni di nuovo all’attenzione della Corte Suprema. Al momento, solo 10 detenuti sono stati formalmente rinviati a giudizio. Bush ha ripetuto più volte nei mesi scorsi, soprattutto ai critici in Europa, di aver intenzione di chiudere Guantanamo, ma ha anche avvertito di non poter compiere passi del genere prima che venga stabilito cosa fare con quelli che l’America ritiene terroristi e combattenti nemici. Lo scorso agosto, con una mossa a sorpresa, il presidente ha fatto trasferire a Guantanamo anche i 14 detenuti di Al Qaida di maggior spessore custoditi dagli Usa, che si trovavano nelle prigioni segrete della Cia. Tra loro ci sono anche la mente e il braccio dell’attacco all’America, Khalid Sheikh Mohammed e Ramzi Binalshibh, e per loro potrebbero aprirsi corsie preferenziali per i processi. La base navale intanto si è abituata a essere un carcere tropicale. Le strutture sono ormai assai diverse da quelle, provvisorie, di cinque anni fa e sono ora non molto diverse da quelle di un qualunque carcere federale negli Usa. Una cittadella per i processi sta prendendo forma su un lato della baia mentre una nuova area di detenzione, Camp 6, è stata inaugurata di recente. Doveva essere una prigione di media sicurezza, ma tre suicidi e una rivolta nei mesi scorsi hanno spinto l’ammiraglio Harry Harris, comandante della base, a ordinare un nuovo giro di vite: a Guantanamo, ha spiegato, la media sicurezza non esiste.
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