Rassegna stampa 18 gennaio

 

Gioia Tauro (RC): detenuto muore per edema polmonare

 

Quotidiano di Calabria, 18 gennaio 2006

 

Dalle cellule brigatiste anni ‘80 alla morgue dell’Ospedale di Gioia Tauro. La parabola di Lionello Arnaldo Sartoris, ex-terrorista legato ad ambienti Brigate rosse ancora attivi dopo la fine degli anni di piombo, si è conclusa lunedì notte al pronto soccorso del "Papa Giovanni XXIII", dove gli operatori del 118 l’avevano trasportato dal carcere di Palmi per cercare di prestargli le cure necessarie.

Per l’uomo però, non c’è stato niente da fare: a fulminarlo è stato un edema polmonare acuto. Nativo di Bergantino, in provincia di Rovigo, 54 anni di cui gli ultimi 15 passati dentro e fuori le carceri, Lionello Sartoris era stato trasferito nel 2002 a Palmi dove stava scontando una condanna per vari reati che sarebbe spirata nel 2012. Nella sua fedina penale sequestri di persona e traffico internazionale di droga: il contatto con cellule brigatiste risale però al periodo trascorso nel Viterbese, dove l’uomo risulta aver frequentato militanti del terrorismo rosso.

In Calabria, Sartoris c’era arrivato 4 anni fa, dopo aver scontato una parte di pena nel carcere di Milano Opera. Proprio lì, nell’istituto di detenzione lombardo, il brigatista si era reso protagonista del tentato sequestro di un agente di polizia penitenziaria, a seguito del quale era stato disposto il suo trasferimento a Palmi.

Dietro le sbarre della casa circondariale palmese, per Sartoris era iniziata una fase di abbandono e di isolamento dal mondo che probabilmente l’ha condotto alla morte. Secondo quanto riferito infatti dalla stessa amministrazione penitenziaria, l’uomo, negli ultimi anni non ha mai ricevuto telefonate né visite di alcuno: le lunghe ore trascorse in celle, per il detenuto di origine veneta, era cadenzate da abbondanti pasti e da una quasi totale immobilità. Tutto questo fino a lunedì, quando un improvviso attacco di edema polmonare l’ha colpito portandolo quasi al soffocamento. E a nulla è valso l’immediato trasporto verso l’ospedale di Gioia Tauro, dove Sartoris è spirato alle 3 di mattina. La salma dovrebbe essere condotta al suo paese di origine, subito dopo le risultanze dell’autopsia che dovrebbe essere effettuata oggi.

Giustizia: Ristretti Orizzonti; nel 2006 almeno 46 detenuti suicidi

 

Ansa, 18 gennaio 2006

 

Sono stati complessivamente 70 i detenuti morti nelle carceri italiane nel 2006. La principale causa di decesso sono stati i suicidi (46), seguiti dalle malattie (11), dalle overdose (4) e dagli incidenti (2). In 7 casi, invece le cause della morte non sono state ancora accertate. I dati sono stati diffusi oggi con il dossier "Morire in carcere", redatto dallo staff di "Ristretti Orizzonti", il giornale della casa di reclusione di Padova e dell’istituto femminile della Giudecca, in collaborazione con altri penitenziari italiani.

Secondo il dossier, nelle carceri del Lazio, nel 2006, si sono verificati complessivamente 8 suicidi, 5 dei quali a Roma-Rebibbia ed uno ciascuno a Civitavecchia, Viterbo e Frosinone. Inoltre, a Roma, un uomo si è ucciso agli arresti domiciliari, mentre a Latina, un detenuto si è tolto la vita subito dopo la scarcerazione. "I casi da noi raccolti e documentati - spiega un collaboratore di Ristretti Orizzonti - non rappresentano la totalità delle morti che avvengono nei penitenziari italiani, ma sono quelli che siamo riusciti a catalogare in base alle notizie dei giornali, delle agenzie di stampa, dei siti internet, dei bollettini dalle associazioni che svolgono attività di volontariato. Purtroppo aggiunge - molte morti passano ancora sotto silenzio".

Giustizia: Erba insegna; i cattivi sono gli "altri"

di Andrea Boraschi, Luigi Manconi

 

L’Unità, 18 gennaio 2006

 

La rappresentazione pubblica del Male, da sempre, assolve a una funzione risarcitoria e soddisfa bisogni ancestrali e profondi della psiche umana. La rappresentazione pubblica del Male funziona meglio se le pulsioni più cupe e mostruose possono essere associate a un volto, a un nome; se possono trovare un’identità. Questo esercizio "esorcistico" coincide spesso con la costruzione di un "altro da noi" che non è un semplice estraneo; è, piuttosto un nemico assoluto, portatore di un tratto irriducibile di "inumanità", dunque, appunto, di "mostruosità".

La rappresentazione giornalistica della strage di Erba può essere letta attraverso queste chiavi interpretative: poiché è certamente un fatto di sangue di eccezionale efferatezza, per il quale appare arduo rinvenire alcuna spiegazione razionale, ancorché terribile. L’assurdità della ferocia che anima la crudeltà di quel gesto omicida è elemento essenziale nella vicenda: poiché ciò che appare assurdo è anche ciò che più si avvicina al carattere disumano che si vuole rinvenire nel Male, come a dimostrare che la malvagità è nel mondo ma non è del mondo umano.

E gli ingredienti, affinché ci si specchi in un orrore muto e assoluto, in questo caso ci sono tutti. Su di essi si innesta quel meccanismo di personalizzazione della colpa che trova banale traduzione mediatica nella "caccia al colpevole". Così, in un primo tempo, sembra che il mostro sia tanto un nemico quanto un estraneo: Azouz Marzouk è altro da noi perché, in quanto autore designato di quel crimine, irredimibilmente malvagio; e la sua radicale alterità trova sintesi, banale ed efficace, nella sua condizione di straniero.

La xenofobia si innerva in un meccanismo complesso (fatto di rimozione della morte e di emancipazione dal "peccato" attraverso lo specchiarsi in una colpa ultima e inesorabile) e ne diviene ingranaggio, fattore causale e precipitante. Quell’uomo, poi, è uscito da poco dal carcere grazie all’indulto; dunque il principio della colpa era già stato rinvenuto nella sua vita e nella sua condotta, ma non era stato sanzionato efficacemente. Si è lasciato che quel principio trovasse massimo compimento in un crimine abnorme: quasi che le vittime di Erba siano state vittime sacrificali di un rito collettivo iniziato dall’imperfezione della giustizia umana.

Ora sappiamo che Azouz non era il mostro che il pubblico di questa vicenda cercava. E sembra che i colpevoli siano dei vicini di casa qualunque: tanto più terribili e spaventevoli quanto più irriconoscibili (perché troppo simili ad ogni nostro possibile dirimpettaio) nella loro inumanità. Lo spargimento di sangue fatto, cronaca onnipervasiva dal circuito mediale, dunque, è lo spettacolo cui si assiste; e lo sgomento che esso suscita cerca immediato conforto nell’identificazione dell’autore (o degli autori) di tanto orrore. Guardare in faccia il male aiuta ad averne meno paura: la morte è altrove e i colpevoli appartengono a un mondo privo di qualsivoglia barlume di pietas, un mondo che non può essere assimilato al nostro.

Il male è fuori di noi; ed è tanto assoluto e orrendo da essere incomparabile a qualsivoglia nostra colpa. È facile rinvenirlo nello straniero, di già marchiato come "criminale"; più spaventevole scoprirlo nella medietà dimessa e domestica di un uomo e una donna che sembrano uguali a tanti altri. Ma più quel terrore è forte (meno esso si presta a spiegazioni, meno può divenire strumento di comprensione del reale), tanto più esso è catartico.

Olindo Romano e Rosa Bazzi hanno confessato il loro crimine; abbiamo dunque motivo di credere che siano stati loro. Ma sono divenuti colpevoli ben prima di ogni confessione o di ogni giudizio, come già accaduto ad Azouz. Ecco, allora, il vero sacrificio che monda le coscienze del pubblico morboso di questo spettacolo ributtante: non quello del sangue versato, dinanzi al quale si resta attoniti e inermi; piuttosto quello dei colpevoli giudicati dai media, anziché dai tribunali.

Che quei coniugi siano effettivamente gli autori di quella strage - non ci si fraintenda - in questo senso conta ben poco: sono stati schiacciati dalla sanzione della morale pubblica molto prima che fosse vagliata ogni prova a loro carico, molto prima che vi fosse alcun buon motivo per avanzare un sospetto o emettere un verdetto.

Il Romano e la Bazzi, in questo, sono simili al Marzouk: sono i "mostri" di cui questo spettacolo osceno ha bisogno per essere messo in scena nella sua compiutezza. Gli uni colpevoli, l’altro innocente: ma tutti vilipesi da un’informazione che non conosce garanzie e regole, che antepone alla ricerca della verità (e al rispetto della giustizia) la soddisfazione immediata degli umori più cupi del suo pubblico. Un’informazione che piega a notizia anche l’istinto di vendetta e il senso del perdono: senza pudore, senza pudore alcuno. E che non impara mai dai propri errori.

Giustizia: Unabomber e la "prova" manomessa dal perito

 

Il Corriere della Sera, 18 gennaio 2006

 

I reperti che dovevano incastrare l’ingegner Elvo Zornitta sono stati manomessi. E ad alterarli sarebbe stato Ezio Zernar, il poliziotto che dirige il laboratorio di indagini criminali della procura di Venezia e che da anni è impegnato nelle indagini per individuare Unabomber. Con le forbici sequestrate nel marzo scorso a casa del professionista, avrebbe tagliato il lamierino che componeva l’ordigno inesploso trovato nel 2004 nella chiesa di Portogruaro per dimostrare la compatibilità tra i due oggetti.

È questa la clamorosa scoperta fatta dalla difesa che, come hanno riconosciuto i magistrati, "rischia di far ripartire da zero l’inchiesta" sul bombarolo che da anni terrorizza il Nordest. Zernar è stato iscritto nel registro degli indagati e interrogato. La sua casa e il suo ufficio sono stati perquisiti, i suoi computer e le apparecchiature sigillati. Adesso bisognerà stabilire se la manipolazione sia stata accidentale o se invece il consulente abbia consapevolmente falsato gli esiti degli esami per risolvere il caso.

Le foto. Sono state le fotografie dei reperti a dimostrare che il lamierino sottoposto a perizia era più corto di quello trovato nella chiesa. I consulenti di Zornitta hanno comparato le istantanee scattate al momento del ritrovamento dell’ordigno inesploso con l’oggetto di metallo catalogato e messo a disposizione per le analisi. E si sono accorti della differenza. Ora i magistrati dovranno scoprire come mai i carabinieri del Ris e i poliziotti della Scientifica che hanno effettuato gli stessi accertamenti, non abbiano rilevato l’anomalia. Per questo stanno ricostruendo le fasi della vicenda, partendo dalla scoperta della micro-bomba di Portogruaro.

La comparazione. È il 2 aprile 2004. Nella chiesa di Sant’Agnese viene rinvenuto un congegno esplosivo rimasto integro. I carabinieri del Ris lo analizzano e non hanno dubbi: l’ha fabbricato Unabomber. Catalogano ogni componente e trasmettono la relazione alla magistratura. In cima alla lista dei sospetti finisce intanto Elvo Zornitta, che ha la passione del "fai da te". Nella mansarda e in un altro locale che usa per coltivare il suo hobby, gli investigatori sequestrano alcuni oggetti che appaiono identici a quelli utilizzati dal terrorista. Contenitori delle sorprese degli ovetti Kinder, pennarelli svuotati, minuscole bottigliette di lievito. Il 26 marzo 2006 gli portano via coltelli e forbici. È Zernar ad effettuare la prima comparazione tra gli arnesi e il lamierino. Usa la tecnica del "toolmark " che consente di analizzare le tracce e le "striature" lasciate sui reperti. E il verdetto che consegna è positivo: le forbici di Zornitta sono quelle giuste, hanno tagliato il pezzo di metallo.

La svolta. Per non avere dubbi i magistrati dispongono altre due perizie. La prima è affidata al Ris che conferma "l’identità tra i due reperti". La seconda alla Scientifica che arriva allo stesso risultato e nelle conclusioni riconosce la "elevata compatibilità". Zornitta appare ormai incastrato, ma continua a proclamarsi innocente. Sa che il lavoro dei suoi consulenti può smontare l’accusa.

I magistrati assicurano invece di avere "prove formidabili", circola la voce che l’ingegnere potrebbe essere arrestato. Due giorni fa i suoi avvocati Maurizio Paniz e Paolo Dell’Agnolo depositano la loro relazione. E lo scenario improvvisamente cambia. Perché i consulenti della difesa hanno scoperto che il lamierino è più corto di quello trovato a Portogruaro e dimostrano che la manipolazione è avvenuta nel corso della prima perizia, dunque durante gli esami effettuati nel laboratorio diretto da Zernar. Sostengono che anche le forbici sono state "compromesse" perché "smontate e poi avvitate nuovamente". Il poliziotto nega qualsiasi manomissione, assicura ai magistrati di poter dimostrare che nulla è stato alterato. Ma sono gli stessi pubblici ministeri a dover ammettere che l’inchiesta "potrebbe essere definitivamente compromessa".

Giustizia: Unabomber, siamo tutti come l’ingegner Zornitta

 

Affari Italiani, 18 gennaio 2006

 

Gli sviluppi dell’inchiesta su Unabomber sollevano inquietanti interrogativi: chiunque può diventare, dall’oggi al domani, un mostro da sbattere in prima pagina?

L’impressione è che l’Italia faccia il tifo per lui, che tutti auspichino che Elvo Zornitta - l’ingegnere accusato di essere il bombarolo che per anni ha imperversato nel nord-est - venga scagionato dalla pesantissima accusa.

In questo clima di "solidarietà nazionale giudiziaria", per certi aspetti eccezionale, hanno certamente avuto un peso non trascurabile le recenti apparizioni televisive dell’Ingegnere, la cui immagine è apparsa distante un anno luce da quella che nel tempo la cronaca e la semplice immaginazione avevano contribuito ad affermare.

E proprio oggi è saltata fuori la notizia del probabile coinvolgimento nell’inchiesta del Perito incaricato dai PM che sembrerebbe aver manomesso le forbici oggetto di perizia al fine di favorirne la riconducibilità a Zornitta.

Ma al di là dell’esito della vicenda dell’Ingegnere - e che pure meriterà un approfondimento, viste gravi carenze cui l’impianto accusatorio presta il fianco - ci pare che da quanto accaduto si possa trarre un insegnamento, se non addirittura un monito.

Zornitta altro non è che un indagato, vale a dire un innocente. Ma non perché tale sembra - ascoltandolo o semplicemente osservandolo - ma perché tale è per la legge, per la legge suprema che è la Costituzione.

Quello stesso clima di "solidarietà nazionale giudiziaria" di cui s’è detto, quindi, non dovrebbe costituire l’eccezione ma la regola del modo in cui atteggiarsi da parte di stampa ed opinione pubblica, dinanzi ad un giudizio in corso.

In quella specie di Bibbia Laica che è la Costituzione, la Presunzione d’Innocenza è un credo dal quale non è possibile deflettere: e speriamo che Zornitta non debba essere l’ennesimo martire della Giustizia sacrificato dai pagani del Giustizialismo.

Giustizia: dai cappellani carcerari decalogo sulle "emergenze"

 

Il Cittadino, 18 gennaio 2006

 

Lunedì 15 gennaio il Vescovo di Lodi Giuseppe Merisi ha partecipato all’incontro dei cappellani delle carceri della regione Lombardia, in qualità di delegato dei vescovi per la pastorale penitenziaria. Dopo la testimonianza dei cappellani del carcere di Opera, il più grande d’Italia, ha ascoltato i vari interventi fra i quali il più accorato è stato quello del cappellano di Como dove sono rinchiusi gli autori del drammatico episodio di Erba.

Il vescovo ha fatto notare che gli ultimi fatti tra i più violenti riguardano la nostra terra lombarda. Che cosa tiene insieme la normalità e la ferocia, quale mostro si nasconde dentro la "normalità" della vita? I giudici di pace conoscono bene le "liti da ringhiera", gli alterchi condominiali, le doglianze sui panni che sgocciolano, i vasi di fiori innaffiati dal balcone di sopra, la spazzatura lasciata in cortile, il cane che abbaia di notte, i rumori e gli schiamazzi che non fanno dormire, e via. Piccole cose? Ma seguono i rancori, gli asti, le male parole, le mani addosso.

L’ostilità diviene permanente, ogni gesto è vissuto come dispetto o provocazione, la vicinanza si fa inimicizia ossessiva,fino a convincesi, con Sarte, che "l’inferno sono gli altri". Chi scrive ha espresso il disagio per le interviste rilasciate dagli abitanti di Erba che sembrano non voler aprire gli occhi su questa "normalità". Due sono le risposte più comuni: "Ma noi siamo tutta gente che lavora"; "Ma quei due sono pazzi".

Così sembrano proteggersi dai potenti e irrispettosi riflettori mediatici. Il secondo punto all’ordine del giorno riguardava l’indicazione di alcune linee da consegnare all’Ispettore Generale dei cappellani, monsignor Giorgio Cagnato, su richiesta del ministro Mastella intervenuto all’ultimo consiglio pastorale nazionale in vista del nuovo codice penale allo studio.

La situazione delle persone in carcere non può essere scollegata da fenomeni sociali che producono e alimentano emarginazione sociale (immigrazione, tossicodipendenza, malattia mentale) quindi è innanzitutto importante che le leggi affrontino e non facciano permanere in carcere a lungo il disagio sociale.

Fatta questa premessa ci sembra importante che il nuovo codice penale diventi realtà a partire dalla ricerca di meno carcere possibile e dalla proposta di pene alternative. Dalle notizie che ci giungono, ci pare che la stesura del nuovo codice vada in questo senso, riteniamo però importante sottolineare che non si parla di mediazione penale per gli adulti come uno degli strumenti giuridici per comporre conflitti. A partire dal rendere giustizia alle vittime si può costruire una responsabilità attiva del reo.

Nell’oggi del carcere segnaliamo che già è possibile un minor utilizzo della pena carcere sviluppando il lavoro all’esterno con l’articolo 21 e rendendo più veloci le alternative alla detenzione, soprattutto quando si tratta di programmi terapeutici.

All’interno delle nostre carceri si nota la necessità di favorire dei programmi di scuola e di lavoro sempre più ampi rendendone possibile a tutti la fruizione. La cura della salute necessita di una sanità più attrezzata o di una possibilità di accesso alle cure sul territorio più veloce.

La diversificazione dei circuiti carcerari soprattutto per i giovani adulti e per tipologia di reato potrebbe aiutare il trattamento personale. Tenuto conto dei problemi di sicurezza e di giustizia andrebbe maggiormente favorito l’esecuzione della pena presso il carcere più vicino ai propri affetti famigliari o prospettive di reinserimento sociale.

Segnaliamo a volte la difficoltà a comprendere il valore del volontariato e dare un maggior spazio operativo alle attività anche nelle ore post-pomeridiane, questo anche le azioni di espressione della propria fede in odo comunitario.

Il lavoro degli agenti di polizia e degli altri operatori va ulteriormente promosso in qualità e formazione finalizzati ad una maggiore competenza ma pure ad una maggiore soddisfazione personale. È stato chiesto di integrare la riflessione sulla "bontà" e sul valore etico della carcerazione preventiva ad tutt’oggi troppo discrezionale nelle mani del giudice e quindi capace di ineguale trattamento.

In conclusione il vescovo ha pure chiesto che cosa succede a uno quando esce, non tanto per l’indulto ma dopo aver scontato la pena, a chi deve rivolgersi, chi si interessa concretamente, mostrandosi non poco sorpreso nell’apprendere che l’amministrazione penitenziaria non può prendersi cura tranne il caso dei tossicodipendenti noti al Ser.T. locale.

Giustizia: Sindacato Polizia "Sappe"; ministro Mastella latitante

 

Comunicato stampa, 18 gennaio 2006

 

"Crediamo sia arrivato davvero il momento di chiedersi cosa intende fare il Ministro della Giustizia Clemente Mastella per il sistema carcere e soprattutto per chi in esso lavora in prima linea, ovvero le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. L’unico provvedimento concreto è stato l’indulto - giudicato una priorità per il Ministro ma incomprensibile a decine di milioni di italiani - per effetto del quale sono più di 25mila i beneficiari. Per il resto, tante parole ma fatti zero".

Il duro atto d’accusa arriva da Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’Organizzazione più rappresentativa della Categoria.

"Per risolvere i problemi del carcere e dei poliziotti penitenziari l’indulto, da solo, non basta. Sarebbe stato necessario ‘ripensare’ il carcere, insomma, e adottare con urgenza rimedi di fondo al sistema penitenziario, come ha chiesto più volte anche il Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Ma nulla di tutto questo ci risulta abbia fatto il ministro Mastella, sempre presente nei mille impegni politici nel suo collegio elettorale ma che non trova il tempo per incontrare il primo Sindacato di Polizia Penitenziaria. Addirittura proprio al Ministero della Giustizia ha adottato provvedimenti arbitrari e contrari agli accordi sindacali. Le aperture di credito che il Sappe ha fatto al Guardasigilli sono quasi arrivate al capolinea: abbiamo sentito tante promesse e dichiarazioni d’intento, come nel discorso alla Festa del Corpo lo scorso 4 ottobre 2006, ma fatti zero. E se Mastella persiste nel non incontrarci, andremo noi sotto le finestre del suo ufficio in via Arenula a farci sentire!".

Garante dei detenuti: oggi il sì in commissione alla Camera

 

Vita, 18 gennaio 2006

 

Via libera, oggi pomeriggio in commissione Affari costituzionali alla Camera, al nuovo testo sul garante dei detenuti. Il garante sarà una sezione specializzata della futura Commissione nazionale per la promozione e la tutela dei diritti umani. Un aggiornamento radicale del testo originario - alla base dello stop in aula a dicembre (con ritorno in referente) - sollecitato dal ministero degli Esteri, per dare credibilità alla candidatura dell’Italia a membro del Consiglio Onu per i diritti umani.

Un cambio in corsa, in effetti, assecondato dalla Affari costituzionali che in poche sedute ha partorito il nuovo testo. Ma, per strategie diplomatiche inevitabile, se è vero che la commissione per la Tutela dei diritti umani - requisito indispensabile per aspirare a un posto nel Consiglio - dovrà essere legge entro maggio. Obiettivo che, almeno stando al ‘timing’ imposto alla Camera, potrebbe anche essere centrato: la pdl che istituisce Commissione e garante sarà, infatti, in aula martedì prossimo, con voto finale in settimana. Sorprese - a quanto assicura la relatrice, Graziella Mascia (Prc) - non ce ne dovrebbero essere, sempre che An e Lega non traducano la loro contrarietà in violento ostruzionismo.

Lettere: da Firenze; la sezione dei transessuali a Sollicciano

 

www.informacarcere.it, 18 gennaio 2006

 

È un anno e tre mesi che la sezione dei transessuali è stata trasferita dalla sezione D del maschile di Sollicciano (dove adesso c’è il polo universitario) al femminile. Qui adesso stiamo meglio, gli agenti e gli operatori sono più disponibili. Ho girato diversi carceri: S. Vittore a Milano è il peggiore, mi hanno messa in una cella di 6 persone (tre brande una sopra l’altra per lato di una piccola cella sudicia), in una sezione protetta (insieme ad infami e detenuti per reati sessuali), gli agenti non sono disponibili. A Roma - Rebibbia, stavamo abbastanza bene, è grande, nuovo e ci sono diverse attività come il teatro, ma non c’è il lavoro e anche qui sei lasciato un po’ all’abbandono, sarà per la grandezza del carcere.

A Sollicciano, qui al femminile, ci seguono meglio e c’è più possibilità di lavoro. Su sette detenute transessuali due fanno le scopine in tutto il carcere, di cui una anche la portavitto nella nostra sezione, e tre lavoriamo fuori la sezione e precisamente al bar (spaccio), giardinaggio e io all’azienda agricola.

Nel lavoro all’azienda agricola sono impiegati cinque detenuti (io e 4 uomini), il rapporto con loro è buono, così come con le ragazze al femminile, lo stipendio è di circa 500-600 € al mese (pagati dalla cooperativa che ci da lavoro). Per quanto riguarda la scuola, la mattina ci sono le elementari e le medie insieme agli uomini (una di noi va alle medie), mentre nel pomeriggio ci sono le superiori (io vado al primo anno ed una compagna al secondo), sempre insieme agli uomini.

Padova: la nuova Casa Circondariale non convince la Cgil

 

Redattore Sociale, 18 gennaio 2006

 

Celle di 20 metri quadrati, compreso il bagno attiguo, per 9 detenuti: tre file di tre letti a castello. Il sindacato scrive alle istituzioni: "I detenuti in queste condizioni possono stare solo a letto".

La Cgil prende virtualmente carta e penna e scrive al ministro della Giustizia Clemente Mastella, al sottosegretario, al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al questore, al procuratore generale di Padova, al sindaco Zanonato, agli amministratori provinciali e regionali e a molti altri soggetti della città. Molti i destinatari della missiva che ha come oggetto lo stato della casa circondariale Due Palazzi di Padova, che vede proprio in questi giorni l’apertura della nuova struttura e la dismissione dell’attuale.

A seguito di una visita fatta la scorsa settimana nel penitenziario, il segretario generale Ilario Simonaggio ha voluto fare emergere alcune preoccupazioni: "La conoscenza della situazione attuale ci fa applaudire la possibilità della chiusura definitiva della struttura - scrive -. Una casa circondariale costruita da molti decenni, con una concezione arcaica dei diritti dei detenuti in attesa di giudizio, è quanto di più lontano si possa immaginare come biglietto da visita di una società attenta ai diritti delle persone".

Simonaggio parla di "una struttura inqualificabile per un paese civile, dove erano ammassati stabilmente 250 detenuti in luogo della capienza stabilita di 92 posti e 6 di isolamento". Evidenzia inoltre la fatiscenza dei servizi e dei sottoservizi, la difficoltà di effettuare manutenzioni, le colonie di topi, i bagni nelle celle e altro ancora.

Ecco perché "la costruzione della nuova struttura, a fianco della vecchia, per la quale è prevista l’apertura nei prossimi giorni, è il risultato atteso da molti anni". Ma l’esito finale non sarà molto diverso se si considera che "la nuova struttura è decisamente piccola, molto più dell’attuale, e la situazione è difficile per il benessere delle persone detenute e per gli operatori di polizia penitenziaria". Simonaggio parla di celle standard di 20 metri quadrati, compreso lo spazio per il bagno attiguo, la cucina, la presenza di tre file di tre letti a castello per un totale di nove posti letto. "Nelle altre celle la situazione era lievemente migliore con 7 letti. Qualitativamente la struttura è meglio dell’attuale, ma i detenuti in queste condizioni possono stare solo a letto nei tempi di permanenza in cella. Tenere chiusa una persona per tutta la giornata in un luogo molto piccolo appare per quello che è: una soluzione poco civile". La nuova struttura, ricordano dal sindacato, ha una capienza regolamentare di 84 posti, ma all’atto dell’apertura sarà occupata dagli attuali detenuti della vecchia struttura (160 persone), e le brande installate nelle celle ammontano a 180. "Se a tale situazione si somma il tasso di criminalità presente nella provincia di Padova (uno dei più alti del Veneto) - riflette il segretario - ben si comprendono i rischi relativi a siffatta struttura".

La Cgil, concludendo, evidenzia il rischio di un difficile recupero delle persone costrette a vivere in tali condizioni. Ma non lancia solo critiche, fornendo invece anche una serie di proposte: "Il fondo nazionale per l’ammodernamento delle strutture carcerarie deve essere garantito nelle risorse indispensabili a un efficace piano di ristrutturazione degli istituti. Non ci convince l’equazione che a fronte della riduzione di 15.000 detenuti per l’indulto, sia possibile programmare analogo risparmio sui costi". E aggiunge: "La nuova struttura ha bisogno di almeno un passeggio in più (ne sono previsti 3 ma se n’è fatto 1 solo per carenza di fondi). Questo intervento è urgente per evitare una situazione di rivolta post apertura per le condizioni di detenzione. Altri interventi sono necessari per migliorare la sicurezza, con un muro di cinta e passo carraio, e la vivibilità". In conclusione, tra le altre cose, si chiede una quantità adeguata di personale.

Torino: Mellano (Radicali) incontra il Provveditore regionale

 

Agenzia Radicale, 18 gennaio 2006

 

L’On. Bruno Mellano, Deputato Radicale della Rosa nel Pugno, accompagnato da Jolanda Casigliani (membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani), ha incontrato il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Dott. Aldo Fabozzi.

Al termine dell’incontro Mellano ha dichiarato: "Abbiamo avuto con il Provveditore un lungo ed aperto colloquio nel corso del quale sono state trattate le problematiche relative all’attuale situazione delle carceri ed in particolare di quelle piemontesi. L’indulto ha portato le presenze negli istituti di pena piemontesi dai 5100 detenuti dei primi giorni di agosto 2006 agli attuali 2900.

In alcune situazioni come ad esempio a Fossano, il notevole sfollamento, attualmente sono presenti solo una decina di detenuti, ha creato le condizioni ideali per completare con celerità un’opera di radicale ristrutturazione dell’edificio storico, nell’ottica di renderlo adatto allo svolgimento delle numerose attività lavorative programmate, migliorando nel contempo le condizioni di sicurezza (l’istituto accoglierà ora detenuti con condanne fino a 5 anni, prima solo fino a 3). A Cuneo il Ministero di Giustizia ha invece deciso la costruzione e l’apertura di un nuovo padiglione per circa 200 detenuti, mentre il Provveditorato regionale piemontese ha previsto un nuovo reparto di cardiologia al servizio del circuito penare piemontese.

Anche per Alessandria si ragiona ad un progetto di ampliamento dell’istituto S. Michele, con conseguente dismissione della vecchia struttura della casa circondariale Don Soria, posta nel centro della città, adiacente all’Ospedale ed ormai fatiscente, la proposta di accorpamento delle due strutture potrebbe comportare un risparmio di energie economiche ed umane.

Si è poi parlato dell’opportunità e delle modalità pratiche per trovare, al più presto, soluzioni alternative al carcere per le detenute madri che scontano la pena con i loro bambini.

Infine abbiamo appreso con particolare soddisfazione che la Regione Piemonte ha confermato, per un altro anno, un impegno assunto nella scorsa legislatura su iniziativa dei consiglieri radicali, affiancando agli educatori dell’Amministrazione Penitenziaria, drammaticamente insufficienti, 22 educatori professionali pagati con stanziamento regionale".

Civitavecchia: apre mostra "Immagini oltre il muro del carcere"

 

Il Messaggero, 18 gennaio 2006

 

Il talento dei collaboratori di "Infocarcere" oltrepassa le barriere della prigione e diviene arte che si manifesta al pubblico e grida le passioni ed i sentimenti dei propri artefici. L’arte prescinde dalla legge degli uomini e non conosce ostacoli di mura, di sbarre o di cancelli, ma parla una lingua universale che ogni essere umano può capire, e giunge a toccare i cuori della società, di cui il carcere è parte integrante. Ecco dunque come prende vita la mostra artistica "Immagini oltre il muro", che verrà inaugurata nei locali della Rocca medievale martedì 23 gennaio per protrarsi fino a sabato 28. A realizzarla, per l’appunto i detenuti delle due strutture carcerarie cittadine che hanno deciso di collaborare con "Infocarcere", una associazione che da anni opera per una fruttuosa collaborazione tra i detenuti e la società, nell’assoluta convinzione che aiutare il reinserimento nel contesto sociale di quelle persone che, a causa di errori, ne sono state estromesse, contribuisce a prevenire la reiterazione dei reati e quindi a rendere la società più sicura, oltre che più giusta.

Dentro le mura del carcere c’è una vita che pulsa, accende gli animi di donne e uomini che vivono al suo interno, e suscita un vibrante desiderio di rinascita. Sentimenti che traspaiono in modo prepotente e coinvolgente dalle opere realizzate e che verranno esposte. La Mostra osserverà il seguente orario: dalle ore 10.00 alle ore 13.00 e dalle ore 16.00 alle ore 19.00.

Avellino: racconti e riflessioni dell’ex cappellano di Bellizzi

 

Il Mattino, 18 gennaio 2006

 

Il carcere come luogo di partenza di un viaggio spirituale tra le esperienze di chi è sempre pronto a tendere una mano al prossimo. Il "viaggiatore" è Frate Giovanni Crisci, lo spazio d’ispirazione il carcere di Bellizzi Irpino, dove il prelato è stato cappellano, prestando la propria opera a detenuti e dipendenti. Il libro "Imputato Gesù di Nazareth" è un insieme di considerazioni e racconti raccolti nei tanti anni in cui il frate cappuccino di Nola ha offerto il proprio sostegno ai bisognosi.

Dallo stile scorrevole si evince però la particolare partecipazione emotiva dell’autore, frutto certamente - com’è stato evidenziato da esperti - dell’animus francescano ovvero l’amore per Dio, per i fratelli e per il creato. Il lavoro è diviso in sette sezioni (Fratello Sole; Sorella Luna e le stelle; Sorella nostra madre terra; Sorella Acqua e Frate Fuoco; Frate Vento e onne Tempo; Perfetta Letizia; Frate Sole) precedute da testimonianze importanti come quella del vescovo Antonio Forte, della direttrice del carcere con il suo vice, Cristina Mallardo e Paolo Pastena, del magistrato Silverio Tafuro e di alcuni detenuti.

L’opera - come ha già spiegato lo stesso autore - non intende affrontare i numerosi e delicati problemi legati al pianeta carcere ma vuole solo essere una lettura amica che da conforto, aiuto morale e culturale a quelli "di dentro". Ma forte di questa esperienza, fra Giovanni desidera che questa testimonianza giovi anche a quelli "di fuori", specialmente ai giovani affinché non finiscano prigionieri nella rete e nell’inganno della violenza, droga, illegalità e camorra.

 

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