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Erba: i vicini di casa hanno confessato, sono autori della strage
Repubblica, 11 gennaio 2006
La notizia shock arriva poche ore dopo la confessione dei coniugi Romano. "Credo proprio che Raffaella fosse incinta quando l’hanno massacrata", rivela il marito Azouz Marzouk. Una ipotesi che per l’uomo è "quasi una certezza", ma che al momento non sarebbe confermata dall’autopsia. "Quelli ora li uccido io", aveva detto a caldo di Marzouk, mentre più pacato era stato il commento di Carlo Castagna, il padre di Raffaella: "Li perdono e li affido al Signore. Bisogna perdonare in questi momenti. Bisogna finirla con l’odio". Ad incastrare Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi è stata una macchia di sangue sulla loro auto. E così i due hanno confessato di essere gli assassini della strage di Erba: "Siamo stati noi. Abbiamo usato una spranga e due coltelli". Anche il loro legale ha ammesso che "entrambi i miei clienti hanno dichiarato la loro compartecipazione. Ci sarà un processo e i giudici dovranno decidere". Omicidio plurimo premeditato è il reato loro contestato. E, secondo quanto emerso dagli interrogatori, sembra sia stata Angela Rosa ad uccidere il bambino di due anni. Marito e moglie, che per giorni avevano proclamato la loro innocenza, sono crollati di fronte a quella macchia di sangue di Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto alla mattanza, sfuggita al maldestro tentativo di cancellarla dalla tappezzeria della loro auto. Ma l’intero alibi fornito dai coniugi Romano non reggeva. "Eravamo in paninoteca quando li hanno uccisi", ma lo scontrino del McDonald’s sul lungolago di Como in cui i due hanno sostenuto di essere andati la sera dell’11 dicembre, fu rilasciato alle 21.30, un’ora e mezzo dopo la strage, un tempo sufficiente per permettere alla coppia di cancellare le tracce degli omicidi e raggiungere Como in macchina. E poi ad inchiodarli ci sono i tracciati del loro telefono cellulare, che all’ora della strage dimostra che erano in via Diaz; il racconto del sopravvissuto Frigerio, e le analisi dei reperti recuperati nella loro abitazione, nell’auto e nella casa del massacro. Finalmente la verità a trenta giorni esatti dalla strage. Il movente resta quello avanzato con stupore all’indomani della strage: Azouz e sua moglie facevano troppo rumore. Le interminabili liti, le ingiurie, la denuncia per minaccee la richiesta di denaro per ritirare la denuncia, l’imminente udienza davanti al giudice di Pace. Intanto per le famiglie delle vittime è pronto il nullaosta per i funerali. Valeria Cherubini, la vicina di casa di Raffaella e Azouz Marzouk verrà sepolta a Montorfano, un piccolo paese tra Erba e Como, mentre i funerali di Paola Galli, la madre di Raffaella, si terranno a Erba, verosimilmente sabato mattina. Le altre due vittime dell’eccidio di via Diaz, Raffaella Castagna e il piccolo Youssuf, saranno portate in Tunisia e laggiù sepolte con rito islamico, così come aveva fortemente voluto Azouz. Erba: Azouz; vorrei ucciderli, ora vivo solo per la vendetta
Ansa, 11 gennaio 2007
Davanti al telegiornale, a tutti i telegiornali che guarda quasi in modo ossessivo, Azouz Marzouk non si trattiene più. Sul grande schermo al plasma del salotto di casa va in onda l’ultima puntata della storia di Olindo Romano e sua moglie Rosa, irreprensibili brianzoli tutto casa e famiglia e liti condominiali, sommersi da una montagna di indizi a cui si aggiunge quel particolare della sera della strage, quella rivelazione a telecamere accese che ha incrinato l’alibi e fatto precipitare tutta questa storia. "Ho letto sul giornale che in carcere gli altri detenuti sono pronti a fargli la pelle... È giusto: chi ammazza deve essere ammazzato. Pannella sbaglia a fare lo sciopero della fame contro la pena di morte... Se fossi in quel carcere l’ammazzerei io. Da adesso vivo solo per la vendetta". Seduto sul divano chiaro di casa, una sigaretta dietro l’altra, l’acqua che beve a canna dalla bottiglia per mandare via la sete e forse anche l’amarezza, Azouz Marzouk si nutre di odio e di amore. Di odio per quella coppia di vicini che non si stanca di vedere e rivedere in televisione. Di amore per sua moglie Raffaella, sgozzata secondo i carabinieri per una banale lite di condominio. E di amore per suo figlio Youssef: "Aveva due anni, tre mesi e due giorni. Io sono stato in carcere quattordici mesi. Quanto tempo mi ha lasciato quello lì per stare con il mio bambino? Se non c’era la Raffa che ricordava a Youssef di suo papà...". La memoria alimenta la tenerezza del ricordo. Il telefonino che Azouz Marzouk tortura con le mani è un aiuto in più. Sul display ci sono le ultime foto di suo figlio e di sua moglie. E poi gli sms che lei gli mandava pochi giorni prima di morire: "Amore mio ti aspettiamo". "Guarda alla vita con un sorriso". E invece adesso c’è solo rabbia sul viso di Azouz. Nemmeno i grandi occhiali da sole che indossa tutte le volte che si trova davanti a una telecamera riuscirebbero a nascondere tutto quello che ha dentro e che adesso trattiene a fatica, quasi saltando dal divano alla sedia ancora più vicina al televisore. Per casa gira la cugina, suo marito, il loro bambino più piccolo, tutto riccioli e sorrisi. Come sarebbe diventato Youssef se gli avessero permesso di diventare appena più grande. Deve essere anche per questo che le cautele solo di qualche giorno fa, Azouz le ha quasi dimenticate: "Aspetto solo di avere giustizia. So cosa vuole dire essere accusati ingiustamente. La sera che sono sceso dall’aereo e i carabinieri mi hanno portato in caserma e mi sono trovato davanti quel magistrato di Como, glielo ho anche detto: "Come si è permesso lei di dire che il colpevole ero sicuramente io, che ero scappato, che era solo questione di ore?" Bastava chiedere a mio suocero, lo sapevano tutti che ero in Tunisia. Sospettavano di me perché sono un extracomunitario? Invece guarda come sta andando a finire. Guardalo lì il brianzolo...". Le immagini di Olindo Romano e di sua moglie Rosa passano e ripassano al telegiornale. "Io non ce l’ho con gli italiani, so benissimo che non siete tutti uguali... Ma con loro la vita era diventata impossibile... Hanno picchiato la Raffa che era ancora incinta... Un paio di volte abbiamo dovuto chiamare anche i carabinieri per difenderci". Agli atti nella stazione dei carabinieri di Erba ci sono almeno tre denunce e contro denunce, un paio di volte il maresciallo Luciano Gallorini aveva convocato le due famiglie e non era servito a niente. Gli altri vicini quelle liti se le ricordano bene. A Giada Cantoni che abita dall’altra parte del cortile è venuta in mente una frase detta da Olindo Romano la sera della strage che adesso può avere molti significati: "Quando ci siamo visti quella sera, Olindo mi aveva detto: "Meno male che io e la Rosa eravamo in pizzeria, se no con la storia delle denunce erano capaci di dare la colpa a noi...".
Gli altri vicini
Ma nel cortile di questa cascina di via Diaz mezzo chiuso dai sigilli dei magistrati, c’erano anche altri vicini che Azouz Marzouk ricorda invece con affetto. A partire da Valeria Cherubini ammazzata perché poteva riconoscere gli assassini: "Una donna per bene, quando mi sono sposato con Raffaella è stata l’unica farci gli auguri". E a suo marito Mario Frigerio, il solo sopravvissuto, forse il teste chiave di tutta questa storia: "Un uomo gentile". Gente per bene che Azouz Marzouk giura di avere incontrato anche adesso: "Ci sono italiani che mi hanno scritto per starmi vicino, qualcuno mi ha anche mandato dei soldi per aiutarmi nelle spese dei funerali. È vero che nessuno degli amici di Raffaella mi ha fatto le condoglianze. È vero che c’è certa gente che pensa che siano stati ancora gli extracomunitari solo perché io sono stato in carcere. Ma l’assassino non sono io. Io comunque ce l’ho solo con chi ha fatto del male a me e alla mia famiglia". Lettere: Alessandria; scrivono i detenuti della sezione E.I.V.
www.informacarcere.it, 11 gennaio 2006
I detenuti sottoposti a regime E.I.V. nel carcere di S. Michele, constatato che si vive una situazione vessatoria e arbitraria che rompe quel clima di solidarietà tra i carcerati. Da quando è istituita questa sezione, circa due anni, le condizioni dopo le varie lotte sono quelle di isolamento totale. Non abbiamo nessuna possibilità di effettuare attività sportive, ricreative, culturali, non ci è permesso di frequentare la scuola, la biblioteca e i corsi di attività ricreativi, non esiste educativa e i benefici penitenziari, le declassificazioni sono lettera morta. Le ore d’aria di giorno sono quattro in un passeggio-cubicolo 5 X 5, anticostituzionale per legge, e fanno di tutto per privarci della nostra dignità personale, cosa che non possono riuscire mai a fare, perché noi lottiamo con tutte le nostre forze per fare valere quelli che sono i diritti umani, che qui sono stati violati ogni giorno da questa direzione. Qui siamo in sei persone in questa sezione di isolamento. In più un compagno è sottoposto all’isolamento diurno dopo che è uscito dal 41 bis. Qui è privato di ogni diritto. Ad un altro compagno di nome Morabido, con una invalidità dell’ottanta per cento, gli viene negata l’assistenza di un piantone anche avendo avuto l’autorizzazione dal medico di codesto carcere. Questa è una tortura e un’ingiustizia da parte di questa direzione, perché siamo sottoposti da sempre a quella volontà di annullamento dell’individuo e quindi l’oppressione del sopruso è palese. Le responsabilità vanno ricercate senza ombra di dubbio nel volere della direzione del carcere. Qui sono arrivati due nuovi compagni dal 41 bis. Dopo una lunga detenzione nel 41 bis, in cui hanno visto i loro figli diventare uomini da dietro un vetro divisore, dicono che come è formato questo reparto sezione E.I.V. è peggio del 41 bis. Un esempio banale: ci impongono persino la giornata in cui dobbiamo fare i colloqui, cioè solo il lunedì, e tutto è a discrezione della direttrice. Per le telefonate decide solo lei se possiamo telefonare, come se possiamo parlare con il magistrato di sorveglianza, che qui è inesistente, come l’educatore e l’assistenza medica. Quindi qui alla sezione E.I.V. non vengono applicate le leggi dell’ordinamento penitenziario. La conclusione è che in questa sezione non c’è perfettamente niente. Di fatto piccole "vittorie", come avere libero accesso a tutte le attività sportive e culturali ricreative, di certo non cambieranno questo posto che resta sempre di tortura psicologica e punitiva per chi purtroppo si trova in questo lager, ma il nostro quotidiano vivere subirà significativamente un cambiamento in positivo, niente di più niente di meno, perché la sola libertà è uscire da queste mura. Con questa lettera vorremmo rompere l’isolamento che ci circonda, per questo facciamo affidamento su di voi e su tutti quelli che considerano il carcere l’espressione più disumana e vigliacca di questa società. Auspichiamo che le nostre condizioni se vi è possibile vengano rese pubbliche con la speranza che ci sia informazione e sostegno, secondo le modalità che ognuno ritiene più opportune. Queste nostre rivendicazioni possono apparire palesemente riformiste ma è sicuro che per noi hanno un valore molto importante, perché per noi il carcere non è da riformare o da rendere più umano, ma solo da abbattere.
I detenuti della sezione E.I.V. del carcere S. Michele (AL) Sanremo: la senatrice Giuliani in visita al "Sant’Agostino"
Secolo XIX, 11 gennaio 2006
Nuovo sopralluogo ieri mattina da parte di una delegazione di Rifondazione Comunista all’interno del vecchio carcere Sant’Agostino. Della delegazione facevano parte la senatrice Haidi Giuliani, il segretario provinciale Marco Ravera e il responsabile provinciale per le politiche sociali Giorgio Barisone. "La struttura - hanno sottolineato al termine della visita Marco Ravera e Giorgio Barisone - continua ad essere in condizioni di estrema fatiscenza, mentre abbiamo preso atto con piacere dell’ottimo rapporto che si è instaurato tra i detenuti e il personale di vigilanza". Attualmente al Sant’Agostino sono rinchiusi 37 detenuti su una capacità di 40. "La situazione di migliore vivibilità - osservano ancora Ravera e Barisone - è largamente dovuta agli effetti dell’indulto. È interessante notare come tra i venti fruitori di tale provvedimento si sono registrati solo due casi di recidiva con rientro nella struttura carceraria". Cremona: progetto di una città che incontra i suoi detenuti
Provincia di Cremona, 11 gennaio 2006
La società civile cremonese incontra i detenuti del carcere di Cremona. Il progetto "La città dentro le mura", promosso dall’Arci Cremona e patrocinato dalla Provincia e dalla Regione Lombarda, ha una duplice valenza, ovvero quella di avvicinare l’attenzione della cittadinanza sulle condizioni di vita del carcere da un lato, e quello di creare momenti di socializzazione tra i detenuti del carcere di Cremona dall’altro. Il primo risultato del progetto è stato il recupero di un auditorium, dove si svolgeranno le diverse iniziative culturali. Queste prevedono animazione di giocoleria comica, un ciclo di film sui temi della legalità, delle immigrazioni, della strada e del carcere. Sono previste, inoltre, performance teatrali dal vivo e concerti di musica che trasversalmente attraverseranno diversi generi musicali, da quelli etnici di origine araba e balcanica, ai classici stili blues e rock interpretati dai gruppi giovanili cremonesi. L’auditorium sarà anche il luogo dove si incontreranno le persone che vivono fuori dalle mura e quelle che sono costrette a starci dentro. Il progetto, infatti, prevede che rappresentanti di collettivi studenteschi, associazioni culturali e sindacali, potranno partecipare agli eventi culturali, che avranno cadenza settimanale. "Abbiamo iniziato con un’analisi sulla popolazione carceraria, sulla base della loro nazionalità, età, e condizione sociale" dice Mara Parmigiani che coordina il progetto, "e anche se non abbiamo avuto i mezzi per fare una analisi accurata sui reali bisogni dei detenuti, questo progetto segna un inizio e l’approccio può essere rivisto". Sì, perché lavorare dentro un carcere, anche per le ovvie misure di sicurezza, non è facile. In passato la stessa Arci di Cremona ha avviato un progetto che prevedesse un corso di chitarra per i detenuti che ha avuto un certo successo, solo che, dopo questa esperienza, si erano chiusi i rapporti con le autorità carcerarie. Adesso le condizioni sembrano cambiate, il progetto ha avuto un approccio collaborativo con le autorità della casa circondariale che, come dice la stessa Mara, "ci hanno dato carta bianca per operare dentro le strutture carcerarie, il progetto risponde anche ad un’esigenza della direzione del carcere". Tuttavia le criticità dentro questo mondo chiuso rimangono. L’Arci è impegnata con la provincia del capoluogo lombardo e gli enti locali, ad avviare percorsi di recupero post indulto per gli ex detenuti. Non siamo di fronte ad un’emergenza come in altre aree dell’Italia, ma i soldi della Regione per finanziare tali percorsi sono scarsi. Infatti, sono state messe a disposizione solo 5 borse lavoro per ex detenuti; veri e propri stipendi per lavori svolti dentro cooperative sociali. La conclusione del progetto prevederà una performance multimediale "La città dentro le mura", una produzione dei collettivi espressivi di Arci Cremona. A detta dei volontari e degli operatori del progetto sarà una festa di arrivederci. Minori: "@urora", formazione on-line per giovani detenuti
Vita, 11 gennaio 2006
Il progetto mira a insegnare ai minorenni del circuito penale le discipline dell’area informatica, incrementando le opportunità di reinserimento sociale. Oggi, presso la sede del consorzio interuniversitario per le applicazioni del supercalcolo per Università e ricerca è stato presentato il progetto "@urora" ai referenti locali del Ministero dell’Istruzione, del Dipartimento della Giustizia minorile, ai presidenti dei Tribunali per i minorenni, ai procuratori e ai magistrati di sorveglianza presso i Tribunali per i minorenni. Il progetto prevede la realizzazione di una piattaforma informatica che metterà in comunicazione i 18 Istituti penali per i minorenni e le 13 Comunità del Dipartimento Giustizia minorile per permettere ai giovani dell’area penale la formazione professionale con la metodologia dell’e-learning. Per il Dipartimento Giustizia minorile ha partecipato il direttore generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari e responsabile del progetto Serenella Pesarin. Il progetto vuole insegnare ai minorenni del circuito penale le discipline dell’area informatica e assicurare loro il diritto allo studio incrementando le opportunità di reinserimento sociale. Gli operatori dei servizi minorili della giustizia che parteciperanno al progetto come tutor saranno formati dall’Istituto centrale di formazione del Dipartimento Giustizia minorile presso le tre sedi delle scuole a Roma, Castiglione delle Stiviere e Messina. Roma: dalla Comunità di Sant’Egidio una "Guida per i poveri"
Vita, 11 gennaio 2006
Un libretto da tenere sempre in tasca. Una vera e propria bussola per i "poveri" di Roma con cui orientarsi per trovare pasti caldi, luoghi accoglienti per dormire e qualsiasi tipo di assistenza. È la XVII edizione della guida "Dove mangiare, dormire, lavarsi" presentata oggi dalla Comunità di Sant’Egidio. Al suo interno 840 indirizzi della solidarietà a Roma (dalle mense ai centri d’ascolto, dall’assistenza sanitaria alle sedi Inps), una nuova sezione "hospice" dedicata alle case di cura e una piantina con i luoghi più belli della città. La guida, stampata in 13 mila copie dalle Ferrovie dello Stato, sarà distribuita nei centri della Comunità di Sant’Egidio, in quelli del Comune e sarà consegnata ai detenuti che escono dal carcere. "È uno strumento preziosissimo perciò lo inseriamo anche nel kit delle 48 ore di chi torna in libertà - ha detto l’assessore alle Politiche sociali, Raffaela Milano - è necessaria una politica di contrasto per le povertà, un’azione che deve essere considerata come strategia di sviluppo del Paese. La povertà è fatta di reddito e relazioni sociali. Le politiche nazionali devono valorizzare ciò che di buono le realtà locali hanno cercato di fare come il registro per mediatori culturali e la sala operativa sociale del Campidoglio". Milano: arrestati perché "comprano" un rom disabile
Redattore Sociale, 11 gennaio 2006
"Comprato" per 2.500 euro. È questa la spesa che la banda che controllava il racket dell’elemosina in zona Niguarda ha pagato per comprare un giovane rumeno con delle menomazioni a una gamba. Una cifra spesa senza indugi, perché "con gli storpi si guadagnava il doppio". Ora il disabile, un suo fratello e gli zii, sono in una comunità protetta dopo essere stati "liberati" dalla polizia che ha arrestato i cinque aguzzini, tre uomini e due donne. Proprio gli zii del disabile, marito e moglie sulla quarantina, entrambi originari di Costanta, cittadina della Romania sulle coste del Mar Nero, sono stati il motore dell’inchiesta della squadra Mobile. Tutto è iniziato infatti i primi di gennaio, quando per caso una giornalista di una emittente privata ha incontrato nei pressi del consolato rumeno una donna che cercava aiuto. La vittima ha raccontato di essere stata malmenata insieme al marito qualche giorno prima da un gruppo di magrebini e che da allora non aveva più avuto notizie dell’uomo. Così la donna è stata convinta a chiamare il 113 e agli agenti della volante ha iniziato a raccontare quanto accaduto. Gli inquirenti sono poi risaliti al marito, ancora ricoverato in un ospedale, e hanno iniziato a raccogliere la loro denuncia. "Siamo arrivati da Costanta il 2 gennaio, ci avevano detto che c’era lavoro presso un autolavaggio, ma come siamo arrivati a Milano ci hanno spogliato dei vestiti, gettato i bagagli e ci hanno dato degli stracci costringendoci ad accattonare ai semafori di viale Zara e di Niguarda - hanno raccontato agli investigatori i due rumeni -. Di notte ci tenevano in un campo nomadi, segregati. Poi di giorno in tram ci portavano ai semafori e ci tenevano d’occhio fino a sera". Nella denuncia i due hanno anche verbalizzato diversi tentativi di violenza sessuale degli aguzzini nei confronti della donna da parte degli arrestati. Ma i due rumeni, sposati con una bimba ancora in Romania, hanno raccontato anche di pesanti vessazioni nei loro confronti e dell’acquisto da parte di uno degli affiliati del loro nipote, menomato a una gamba, che insieme a un secondo nipote, erano arrivati insieme a loro da Costanta e costretti a mendicare. "Lo ha pagato 2.500 euro perché lui guadagnava più di noi, per garantirselo - hanno raccontato nella denuncia -. Noi guadagnavamo dai 40 agli 80 euro con l’elemosina o lavando i vetri delle auto, ma loro si prendevano tutto". Poi i due coniugi rumeni hanno spiegato anche il motivo del pestaggio: "Eravamo a fine serata, a un semaforo, sono arrivati dei magrebini e ci hanno aggredito perché dicevano che quella era zona loro. Con noi c’era il nostro padrone che ci stava tenendo d’occhio, ma quando ha visto i magrebini è scappato". Ad avere la peggio del pestaggio avvenuto a fine anno, è stato l’uomo che ha perso conoscenza ed è stato ricoverato in ospedale, mentre la donna è riuscita a fuggire. Per lei è però iniziato un lungo peregrinare in cerca del marito, concluso poi con la richiesta d’aiuto alla giornalista mentre si stava recando al consolato rumeno. In 48 ore gli agenti della Mobile hanno intercettato la banda e ricostruito i loro movimenti. La gang composta da rumeni di etnia rom, aveva come base operativa un noto campo nomadi cittadino e qui gli agenti li hanno arrestati con provvedimento di fermo. In manette sono così finiti tre uomini, Iuzeil Ibram, 28enne, Iassar Dragomir, 32enne e Chirez Asan, 38enne, e due donne, Emini Sali, 26enne e Amet Bahara, 32enne. Per loro l’accusa è di riduzione in schiavitù, ossia l’articolo 600 del Codice Penale ed è punita da otto a vent’anni di carcere. Per due di loro, Ibram e Asan, anche l’accusa di tentata violenza sessuale. Amnesty: chiudete immediatamente il carcere di Guantanamo
Ansa, 11 gennaio 2006
A cinque anni esatti dall’apertura del carcere Usa di Guantanamo, a Cuba, sono 400 i prigionieri tuttora detenuti nel penitenziario, ma nessuna delle persone transitate nel carcere e bollate come il "peggio del peggio" dall’amministrazione Usa è stato processata. Soltanto 10 prigionieri sono stati formalmente incriminati mentre altre centinaia di loro sono stati rimpatriati e rilasciati. Nel frattempo, tre detenuti si sono suicidati, almeno altri 40 hanno tentato di uccidersi e cresce la preoccupazione per la salute mentale di quanti sono ancora rinchiusi a Guantanamo. Diverse le manifestazioni previste oggi in tutto il mondo. A Roma, Amnesty International ha indetto una spettacolare protesta con l’allestimento di una cella-gabbia ospitante prigionieri in tuta arancione a Piazza di Pietra. Significative anche le proteste in Gran Bretagna dove i familiari dei detenuti britannici ancora a Guantanamo e le organizzazioni umanitarie manifesteranno davanti a Downing Street per chiedere la chiusura del campo di detenzione e un intervento a favore dei cittadini britannici. Centinaia di manifestanti, vestiti con la nota tuta arancione dei detenuti di Guantanamo, terranno un’altra manifestazione davanti all’Ambasciata Usa. Altre di sono previste a Washington, Tokyo, Tunisi, Tel Aviv, Madrid, Asuncion. Il Guardian britannico ha pubblicato nei giorni scorsi un intervento dell’avvocato americano che difende due degli otto cittadini britannici detenuti a Guantanamo, Jamil el-Benna e Bisher al-Rawi. George Brent Mickum scrive che "dopo cinque anni di torture, Bisher sta lentamente diventando pazzo", che "le autorità britanniche sono al corrente del trattamento ricevuto da Bisher, ma, per quanto ne sappia, non hanno fatto nulla per intercedere in suo favore". L’avvocato americano ricorda che "quasi un centinaio di prigionieri, per quanto ne sappiamo, sono morti sotto custodia Usa; 33 di questi decessi sono stati formalmente classificati come omicidi compiuti dai militari". Duro il giudizio del legale: "È dalla Seconda Guerra Mondiale, da quando gli Stati Uniti imprigionavano cittadini americani di origine giapponese, che questo paese non toccava un punto così basso nel rispetto delle tutele costituzionali". Lo scorso giugno, la Corte Suprema americana ha giudicato incostituzionale il ricorso dell’amministrazione del presidente George W. Bush ai tribunali militari, per il giudizio dei prigionieri, e ha riconosciuto a ogni detenuto il diritto di portare il proprio caso davanti a un tribunale. Tre mesi dopo Bush ha ottenuto dal Congresso il via libera a una nuova legge che elude la sentenza della Corte suprema, concede l’autorizzazione a procedere con i tribunali militari e rifiuta ai prigionieri il diritto di essere messi al corrente delle prove raccolte contro di loro.
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