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Giustizia: per una nuova cultura giuridica di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)
Associazione Antigone, 11 ottobre 2006
Il dibattito politico-culturale successivo all’approvazione dell’indulto è stato un dibattito povero, immiserito da molte falsità. C’è stata la rincorsa dei media a scovare storie di indultati eccellenti, pericolosi, truci, recidivi, violenti, irrecuperabili. Il grande rischio è che quel dibattito vada a condizionare tutte le successive politiche sulla giustizia e sull’esecuzione penale, rendendo oltremodo timorose le forze politiche dell’Unione, in quanto sensibili all’ondata di reazioni negative successive al provvedimento di clemenza. Per questo è una buona notizia leggere che lo scorso 2 ottobre l’intero gruppo di Rifondazione Comunista ha presentato una proposta di legge per l’abolizione dell’ergastolo. Una proposta che ricalca quella del 1998 che aveva superato lo scoglio dell’approvazione in Senato, senza mai, però, essere discussa alla Camera. L’abolizione dell’ergastolo è un segno di civiltà giuridica. Giovani democrazie come quella spagnola e portoghese l’hanno abolito con previsione costituzionale. La pena perpetua si scontra palesemente con la finalità rieducativa che la nostra Costituzione, all’articolo 27, assegna alla pena detentiva. Con un illogico sofisma la Corte Costituzionale ha sostenuto che l’ergastolo è legittimo proprio in quanto nella pratica non viene effettivamente scontato. Si tratta di un ragionamento contraddittorio che è confutabile dal punto di vista teoretico e dal punto di vista empirico. In primo luogo non può mai essere una valutazione di fatto a far decidere circa la costituzionalità di una norma. Il sistema giuridico deve reggersi su architravi di principio, altrimenti basterebbe una maggiore durezza dei giudici di sorveglianza nel concedere i benefici a far venir meno quell’obiezione. Da un punto di vista più strettamente empirico va ricordato che attualmente gli ergastolani sono ben 1262, di cui 29 donne. Grazie all’indulto alcuni di loro potranno, forse, accedere più rapidamente alle misure alternative. I numeri alti non sembrano confermare la tesi secondo cui l’ergastolo nella pratica penitenziaria non esiste. Giuliano Pisapia è stato incaricato di presiedere la commissione ministeriale di riforma del codice penale. La revisione del sistema sanzionatorio deve essere il primo obiettivo da perseguire. L’abolizione dell’ergastolo potrebbe avere un virtuoso effetto a cascata determinando la riduzione di tutti i massimi edittali. La permanenza della pena dell’ergastolo nel nostro ordinamento giuridico risponde a una esigenza di rassicurazione sociale. Il superamento del codice Rocco, che ha oltre tre quarti di secolo di vita, deve essere un obiettivo politico in cui credere tenacemente. Il tema è oggi ripreso da Rifondazione che senza troppi indugi decide di lanciare, a partire da l’Aquila e con il suo segretario Franco Giordano in prima fila, una campagna per l’abolizione della pena dell’ergastolo. Se di questi temi si riuscisse a parlare senza alzare troppo la voce, evitando cadute demagogiche, confrontandosi su questioni alte di portata giuridico-filosofica, ascoltando le ragioni degli abolizionisti senza gridare al lupo, probabilmente la contrarietà dell’opinione pubblica si assottiglierebbe e si riuscirebbe a decidere senza troppe angosce para-elettorali. Se invece a dominare la scena mediatica resterà, come è accaduto in queste settimane a proposito dell’indulto, il solo Travaglio con i suoi facili discorsi giustizialisti, probabilmente la partita socio-giuridico-culturale potrà dirsi definitivamente perduta. Giustizia: diritto alla sicurezza, sicurezza del diritto di I. Barbarossa e G. Santoro (Rifondazione Comunista)
Aprile on-line, 11 ottobre 2006
Da L’Aquila è partita la campagna per l’abolizione dell’ergastolo con il segretario del PRC Franco Giordano. Una battaglia di civiltà, già iniziata in più legislature, ma mai portata a termine. Il pdl presentato dall’intero gruppo del PRC il 2 ottobre scorso alla Camera è infatti la riproposizione del testo che nel 1998 fu licenziato dal Senato della Repubblica, arenatosi poi alla Camera dei Deputati. Non bisogna dimenticare, d’altronde, che già nei lavori dell’Assemblea costituente, soprattutto da parte di coloro che avevano sofferto lunghissimi anni di detenzione durante il fascismo, furono espresse molte riserve sul carcere a vita; tuttavia, al problema non fu dato un diretto sbocco a livello costituzionale, ritenendo che lo stesso dovesse essere affrontato, e risolto, dal legislatore ordinario nell’ambito di una revisione generale del sistema delle pene. Oggi, la Commissione Pisapia per la riforma del codice penale, e indipendentemente da questa il dibattito parlamentare, hanno l’occasione di proporre una generale rivisitazione di molti istituti del diritto penale, e un loro adeguamento alla realtà del paese, certamente diversa da quella del lontano 1930, data di nascita dell’attuale (sic!) codice penale. Una battaglia, quella per l’abolizione del "fine pena mai", fermata quindi dall’infervorato clima dell’emergenza, della tolleranza zero e delle campagne securitarie che hanno caratterizzato il belpaese nell’ultimo trentennio, dalla stagione terroristica al terrorismo statuale attuato contro i consumatori di sostanze stupefacenti, gli immigrati e i marginali. Un clima che non ha certo portato ad una maggiore sicurezza dei diritti di tutti, quanto piuttosto ad una ipertrofia della legislazione penale che ha inflazionato i nostri tribunali, impedendo che gli autori di delitti efferati fossero neutralizzati in tempi ragionevoli. In altre parole, le campagne elettorali securitarie, dalla DC di Forlani del ‘75 fino ai giorni nostri, hanno soltanto assicurato l’impunità per chi può pagare avvocati in voga, relegando nel ghetto del carcere i soggetti marginali e non abbienti, della società cosiddetta civile così come nell’organizzazione criminale di appartenenza. Per questo la battaglia contro l’ergastolo non è solo una campagna umanitaria per restituire il sistema delle pene al principio personalista proprio della nostra Costituzione; non è solo l’attuazione del principio costituzionale secondo cui le pene devono tendere al reinserimento sociale del reo (cosa evidentemente impossibile nella previsione del "fine pena: mai"); piuttosto è una battaglia culturale per smontare il mito della sicurezza, che tanto fa comodo ai politici di turno per accaparrarsi voti a buon mercato, e proporre un nuovo paradigma: dal diritto alla sicurezza, alla sicurezza dei diritti di tutti, da quelli liberali a quelli sociali che dovrebbero caratterizzare lo stato moderno di diritto. Un nuovo sistema delle pene che passi dalle attuali 5000 - 10000 fattispecie delittuose ad un numero più contenuto di reati che realmente offendono beni giuridici meritevoli di tutela, così da permettere una giustizia più efficace e rapida. Un sistema dell’esecuzione delle pene che releghi ad extrema ratio il ricorso al carcere, avendo in mente che il tasso di recidività è di quattro volte superiore per chi esce dal carcere rispetto a chi ha terminato una misura alternativa. Solo seguendo questa strada potrà aversi più giustizia e più sicurezza: i processi non dureranno più dieci anni, i rei (quelli veri!) verrebbero neutralizzati in tempi ragionevoli e chi è sottoposto ad una misura limitativa della libertà non vivrebbe in condizioni disumane ed avrebbe maggiori possibilità di tornare in società come persona responsabile e con la prospettiva di un futuro diverso. L’ergastolo e la pena carceraria rappresentano prevalentemente una interpretazione, per così dire, vendicativa delle parole giustizia e sicurezza. Solo un cambio di paradigma, solo una coscienza culturale diffusa attenta alla prevenzione dei reati piuttosto che alla tolleranza zero, ad un sistema giustizia più efficace ed equo piuttosto che al fine pena mai, possono darci libertà, sicurezza e giustizia. Giustizia: assistenti sociali; lettera aperta a ministro Mastella
Vita, 11 ottobre 2006
Egregio Ministro, a nome degli assistenti sociali della giustizia che si riconoscono nel coordinamento (Casg) Le esprimo il nostro apprezzamento per aver avviato la legislatura, attuando con tempestività e decisione provvedimenti che avevano la caratteristica dell’urgenza e che venivano da troppo tempo rinviati. In particolare il provvedimento d’indulto, condividiamo con Lei, che era assolutamente necessario, contrariamente a quanto sostengono coloro che hanno avuto ripensamenti successivi, pena l’implosione dell’intero sistema penitenziario da troppo tempo tenuto sotto pressione. Siamo però tutti consapevoli che l’indulto non basta e noi speriamo fermamente che si vada avanti nel processo riformatore con il cambiamento di tutte quelle leggi approvate nella scorsa legislatura che rischiano di riportare la situazione delle carceri in breve ai livelli pre-indulto (legge ex Cirielli, la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi) e si colga anche l’occasione per riformare finalmente il codice penale e il relativo sistema sanzionatorio. Sappiamo cha a tal fine è stata da Lei istituita, anch’essa con tempestività, una commissione per la Riforma del codice penale, presieduta dall’avvocato Pisapia e speriamo che questa volta l’impresa arrivi in porto, perché siamo convinti che sia importante rivedere le norme nel loro complesso per non cadere nuovamente in una ecccessiva frammentazione legislativa. Non si devono inoltre sottovalutare i limiti del nostro sistema giudiziario, anch’esso da rinnovare profondamente per le sue ricadute sulla domanda di giustizia e di tutela dei diritti. Abbiamo inoltre apprezzato le sue recenti dichiarazioni fatte alla festa del corpo della Polizia penitenziaria dove ha dato la dovuta rilevanza all’area penale esterna e alla opportunità di rafforzarla e potenziarla, perché non tutti i reati debbono e possono essere puniti con il carcere, il quale deve essere considerato come "extrema ratio". Oggi è infatti indispensabile, come avviene nei paesi più avanzati del mondo occidentale, predisporre un sistema penitenziario articolato e complesso, in cui operano due sottosistemi, che pur integrati tra loro, sono diversi, rispondono ad esigenze diverse e hanno bisogno, per agire, di veder riconosciute pari dignità, pari opportunità strutturali e organizzative nonché un’adeguata autonomia concettuale ed operativa. Noi siamo convinti come Lei che l’area penale esterna vada rafforzata, anche se per effetto delle leggi sopra menzionate, se non si provvede con urgenza a modificarle, rischia di essere fortemente ridimensionata rispetto al passato. Vogliamo ricordare che l’area penale esterna è cresciuta negli ultimi trent’anni, passando da 3000 soggetti in misura alternativa del 1976/77 agli oltre 30.000 del 2006, con una spesa sicuramente irrisoria per le casse dello stato, rispetto ai costi del carcere, e con un "tasso di evasione" marginale, ma soprattutto con una recidiva nettamente inferiore a quella dei soggetti dimessi direttamente dal carcere. Questo, Signor Ministro, è avvenuto nonostante questa area sia stata affidata ad un numero esiguo di operatori-assistenti sociali, dotati di scarse risorse, e ciò va a dimostrazione della validità del sistema dell’esecuzione penale esterna, che, in stretta relazione con il territorio, privilegia gli interventi di carattere socio-educativo a quelli di mero controllo di polizia. Considerato, inoltre, che già esistono sul territorio diverse agenzie di controllo che effettuano efficacemente il loro lavoro e che con gli assistenti sociali collaborano ormai da tempo, ci chiediamo perché si senta il bisogno di duplicare tali controlli, con un aggravio enorme di spesa per le casse dello Stato, attraverso la costituzione di quelli che Lei ha chiamato "commissariati di polizia penitenziaria", che andranno necessariamente dotati di uomini e mezzi. L’indulto ha ulteriormente evidenziato che i bisogni dei soggetti scarcerati sono soprattutto di tipo sociale (casa, lavoro, cure sanitarie, programmi di recupero), ed è la risposta a questi bisogni da parte della comunità locale, delle forze attive del territorio, che intervengono con iniziative di solidarietà e di aiuto al reinserimento sociale, che crea quel clima di sicurezza da più parti invocato, non la moltiplicazione dei controlli di polizia. Le poche risorse a disposizione, quindi sarebbe più opportuno destinarle alla comunità locale, che va dotata di quei mezzi sufficienti ad attuare politiche di inclusione sociale atte a prevenire il disagio sociale. Certi che Ella affronterà con la dovuta attenzione il problema dell’esecuzione delle pene alternative e l’organizzazione degli uffici ad esse preposti, nel porgerLe i nostri più cordiali saluti Le offriamo la nostra collaborazione. Giustizia: sciopero penalisti, massiccia l'adesione a Roma
Agi, 11 ottobre 2006
Centinaia di udienze processuali, davanti al gup, al tribunale collegiale e a quello monocratico di Roma, rinviate ad altra data a causa del primo dei tre giorni di sciopero proclamato dai penalisti per protestare contro la sospensione delle norme dell’ordinamento giudiziario e contro la legge Bersani. All’astensione dalle udienze hanno aderito in modo massiccio le toghe di piazzale Clodio, sede della cittadella giudiziaria. Sono stati celebrati soltanto processi con imputati detenuti. Palermo: dieci "ragazzi a rischio" diventeranno marinai
Redattore Sociale, 11 ottobre 2006
Un primo gruppo di dieci minorenni, sotto la tutela dell’istituto di rieducazione penale Malaspina o di comunità alloggio, avrà la possibilità di seguire un corso di formazione per marinai, ricevendo un assegno di 800 euro mensili. Si tratta del progetto "Marinando", finanziato dall’assessorato provinciale alle Politiche Sociali d’intesa con la Capitaneria di Porto. L’accordo è stato firmato nei giorni scorsi, dal comandante della Capitaneria del Porto di Palermo, Ferdinando Lavaggi, dal direttore del centro della giustizia minorile per la Sicilia, Michele Di Martino e dall’assessore provinciale alle politiche sociali Giovanni Mammana. Dieci sarà soltanto il numero iniziale dei giovani che prenderanno parte ai primi corsi, terminati i quali, se ne faranno altri con la possibilità di accogliere fino a 100 richieste secondo quanto stabilito dal ministero della Giustizia. Il progetto prevede la formazione dei ragazzi suddivisa in quattro moduli. I giovani, individuati dal dipartimento della giustizia minorile di Palermo, tutti con piccoli precedenti penali, si trovano in comunità alloggio nel capoluogo siciliano. Gli obiettivi del progetto sono contribuire allo sviluppo di opportunità educative e concorrere ad un concreto reinserimento sociale dei minori dell’area penale, promuovere e coordinare la collaborazione con le realtà territoriali, aiutare i minori a relazionarsi con la nuova realtà attraverso i corsi di addestramento di base con l’aiuto di personale specializzato. Gli operatori impegnati sono docenti del Centro Internazionale di formazione accreditati dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Direzione generale della Navigazione Marittima ed acque Interne). Alla fine dei corsi che partiranno a metà ottobre per la durata di un mese, ci sarà la possibilità per i ragazzi di essere assunti dalle più note compagnie di navigazione come la Siremar, la Tirrenia e la Federpesca e quindi di intraprendere il mestiere di marinaio. Il periodo di formazione prevede il corso di "basic training", propedeutico all’imbarco. I ragazzi impareranno le tecniche di antincendio, sopravvivenza, salvataggio e di primo soccorso. Al termine del corso, i giovani abilitati e in possesso del libretto di navigazione rilasciato dalla capitaneria di porto potranno imbarcarsi per circa tre mesi come mozzo, addetto alle macchine e "piccolo di cucina" su navi passeggeri, individuate da Confitarma e Federlinea con partenza dai porti di Palermo, Trapani e Mazzara del Vallo. La retribuzione per l’imbarco ammonta a circa 800 euro e, come i corsi, è a carico della Provincia di Palermo. "Con questo progetto le politiche sociali si sposano con il mare per favorire l’integrazione di soggetti con un passato da dimenticare. Potranno intraprendere percorsi di autonomia e di apprendimento con l’opportunità di perfezionarsi in un’attività con ampi risvolti formativi, fino al vero e proprio reinserimento lavorativo", ha detto l’assessore alle politiche sociali Giovanni Mammana. Per il futuro è prevista, anche, l’estensione del progetto ad altre regioni come la Campania e la Puglia previa intesa, rispettivamente, con le Capitanerie di Porto e con i Dipartimenti di Giustizia Minorile dei rispettivi territori. Napoli: minori; seminario finale del Progetto Europeo Gijjs
www.giustizia.it, 11 ottobre 2006
Nelle giornate del 12 e 13 ottobre, presso il Centro Europeo di Studi di Nisida, si svolge il Seminario finale del Progetto Europeo di Ricerca GiJJS - Gender in the Juvenile Justice System, finanziato dal programma Agis, sul tema della devianza di genere. Apre i lavori il sottosegretario alla Giustizia Daniela Melchiorre, alla presenza dei partners europei (Romania, Francia, Spagna, Germania). Il progetto, promosso dalla Direzione Generale per l’Attuazione dei Provvedimenti Giudiziari del Dipartimento Giustizia Minorile, s’inserisce nell’ambito di un programma europeo di prevenzione del crimine giovanile al femminile e mira ad analizzare ed esplorare, in termini qualitativi e quantitativi, l’entità del fenomeno e a predisporre strumenti adeguati di azione, migliorando la conoscenza e l’idoneità delle prassi attualmente in uso e sviluppando strategie e linee guida per la prevenzione, il recupero e il reinserimento delle minorenni devianti in un’ottica di genere. La ricerca scaturisce dal lavoro di collaborazione fra Dipartimento Giustizia Minorile, Associazione di ricerche sociali Cras onlus e i partner europei, ciascuno dei quali è chiamato ad illustrare gli esiti della ricerca nel proprio paese. Destinatari privilegiati della ricerca sono gli operatori dei servizi minorili del territorio (istituti penali per i minorenni, comunità educative, uffici di servizio sociale, centri di prima accoglienza) ai quali il progetto vuole fornire strumenti di azione adeguati ad un’ottica di genere, attraverso il miglioramento di conoscenze e competenze professionali. L’iniziativa si rivolge altresì a tutti i soggetti coinvolti nel campo della devianza: autorità giudiziarie, operatori del settore - pubblico e privato - professionisti di ambito giuridico e criminologico, organismi, associazioni, Ong ed enti locali. Il progetto GiJJS ha visto coinvolti contesti europei estremamente differenti tra loro: i paesi partner dell’iniziativa, Italia (Dipartimento Giustizia Minorile, capofila del progetto, Cras Onlus e Istituto Don Calabria), Francia (Ministero della Giustizia), Romania (Istituto Nazionale di Criminologia), Germania (Eutin - CJD) e Spagna (Fundacion ÒBelen), hanno lavorato in sintonia alla costruzione e realizzazione delle varie fasi del progetto, fornendo ciascuno il proprio contributo al tema della devianza di genere ed arricchendo ogni step con il valore dello scambio transnazionale di esperienze e di buone pratiche significative. La fase preliminare era finalizzata a condividere gli obiettivi e le metodologie del progetto e a costruire l’impianto della ricerca, per fotografare il fenomeno e predisporre la griglia per rilevare dati e informazioni. Questo scopo è stato raggiunto, nella fase della desk-research (soprattutto dati statistico/quantitativi), attraverso il primo meeting dei partner presso il CJD ad Eutin in Germania, dove è stata anche elaborata la griglia per la raccolta dei dati e delle esperienze in uso. Dopo la stesura del report intermedio, nel quale ciascun paese ha evidenziato le ricerche esistenti, la bibliografia e i dati statistici sul tema della devianza di genere, si è passati alla field-research ed alla stesura del report definitivo. In questa fase il progetto ha privilegiato modalità di ascolto attivo, coinvolgendo direttamente sia gli operatori dei servizi minorili, tramite lo strumento dei focus- group, sia le stesse ragazze all’interno delle strutture (istituti penali per i minorenni e comunità), con interviste narrative, per lasciare emergere i vissuti e le storie personali che hanno condotto ciascuna di loro a commettere il reato. Roma: il Garante; trasferire detenuti laziali in carceri Regione
Comunicato stampa, 11 ottobre 2006
Consentire a tutti i detenuti residenti nel Lazio e attualmente rinchiusi negli Istituti di pena delle altre Regioni che hanno presentato istanza di trasferimento o avvicinamento alla famiglia, di essere assegnati definitivamente nel Lazio scontando così la propria pena nelle carceri di questa regione. È quanto ha chiesto il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni in una lettera inviata al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) Giovanni Tinebra, al vice capo del Dipartimento Emilio Di Somma e al Direttore Generale dei detenuti e del trattamento Sebastiano Ardita. Il Garante dei Detenuti Angiolo Marroni ha motivato la sua richiesta partendo dalla considerazione che, in questi ultimi mesi, l’applicazione della legge 241/2006 che ha approvato l’Indulto "ha, di fatto, ridisegnato la mappa della presenza dei detenuti reclusi nelle carceri d’Italia e della Regione Lazio". Secondo i dati del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria e del Provveditorato Regionale del Lazio aggiornati al 20 settembre, nei 13 istituti di reclusione del Lazio, con l’indulto, sono uscite 2.201 persone (176 donne e 2.025 uomini). A queste ne vanno aggiunte altre 1.816 che erano soggette a misure alternative alla detenzione. In totale nel Lazio i detenuti che hanno usufruito dell’indulto sono stati 4.017. Prima dell’indulto nella Regione erano recluse oltre 6.000 persone e altre 4.000 erano soggette a misure alternative alla detenzione. Il 26 settembre, dopo le scarcerazioni per effetto dell’indulto, negli istituti di pena regionali erano presenti 3.767 detenuti (di cui 3.448 uomini e 319 donne). "Alla luce di questa nuova situazione e del numero ridotto dei detenuti attualmente ristretti - ha detto Marroni - e con lo spirito di collaborazione che esiste tra DAP e Garante dei Detenuti, ho chiesto al presidente Giovanni Tenebra di riaffermare con forza la centralità del principio della territorialità della pena prevista nell’Ordinamento Penitenziario, per poter esercitare al meglio le attività di sostegno e trattamento del detenuto che passano anche attraverso la possibilità di avere relazioni stabili e assidue con i propri famigliari, e con i servizi territoriali della regione di residenza". Informazione: parte "Altrove", il reality - show sul carcere
Il Messaggero, 11 ottobre 2006
Altrove, il programma di Maurizio Costanzo che porterà le telecamere all’interno delle carceri, partirà il 27 ottobre prossimo su Italia 1. Ad annunciarlo è un comunicato congiunto del ministro della Giustizia Clemente Mastella e di Maurizio Costanzo. "È la prima volta che si potrà viaggiare all’interno di un carcere. Il nostro lavoro sarà scrupoloso, attento e assolutamente rispettoso", dice il conduttore. "Dopo una serie di lunghi e approfonditi incontri del Responsabile della trasmissione Altrove, Maurizio Costanzo, con i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ha ritenuto di consentire l’attuazione di questo programma televisivo", si legge nel comunicato. Maurizio Costanzo, nel dirsi "molto lieto" per quanto deciso, ha aggiunto: "È la prima volta che si potrà viaggiare all’interno di un carcere per cogliere pensieri, riflessioni, speranze di chi vi trascorre anni della propria esistenza. Il nostro lavoro sarà scrupoloso, attento e assolutamente rispettoso delle persone che vi parteciperanno. Un particolare ringraziamento va all’amministrazione penitenziaria, per l’impegno straordinario degli uomini e delle donne del Corpo". Palermo: ex detenuti salgono sui tetti per chiedere lavoro
Apcom, 11 ottobre 2006
Una settantina di ex detenuti che da oltre 20 giorni occupano gli uffici del Comune di Palermo nei pressi dello Stadio "Renzo Barbera" sono saliti questa mattina sul tetto della struttura a forma di pallone adibita a sala stampa in occasione dei mondiali di calcio di Italia 90’. Gli ex detenuti chiedono un incontro con il Comune di Palermo e la Regione per ottenere la stabilizzazione e un posto di lavoro. Nella zona sono presenti le forze dell’ordine. Umbria: approvata legge per garante regionale dei detenuti
Il Messaggero, 11 ottobre 2006
Dopo un mese di dibattito, il garante dei detenuti diventa oggetto di una legge regionale. Il provvedimento è passato con i 16 voti favorevoli della maggioranza di centro sinistra a Palazzo Cesaroni (10 i voti contrari dell’opposizione). Una votazione resa possibile per il "passo indietro" della Cdl che ha rinunciato ad intervenire in massa sull’approvazione di ogni articolo, sfruttando i tempi concessi dal regolamento. Dai banchi del centro destra non si è rinunciato tuttavia a polemizzare con l’assessore Damiano Stufara (invitato ad occuparsi delle "reali emergenze sociali dell’Umbria") e la maggioranza, ribadendo la propria contrarietà all’istituzione di una figura considerata "inutile e dispendiosa". Il provvedimento è passato con tre novità rispetto al testo approdato in aula: riduzione del 40% delle spese previste per l’istituzione del garante, il cui incarico sarà meno esclusivo, durerà 5 anni e non sarà rinnovabile, e la cui elezione avverrà con la maggioranza dei due terzi. Su tale aspetto, Pietro Laffranco (An) ha annunciato "battaglia", "se i nomi proposti non saranno ineccepibili o inappuntabili". Da Franco Zaffini (An), un invito a "riflette sull’opportunità che in futuro l’esame dei provvedimenti sia approfondito in commissione". Ha difeso le scelte del centrosinistra, Stefano Vinti (Prc), per il quale la discussione maturata in aula ha "segnato uno spartiacque sull’idea di società di cui Unione e Cdl sono portatrici". Vinti ha parlato di "proposta di civiltà, innovativa" e di provvedimento che istituisce "una nuova scala mobile dei diritti". Per la maggioranza dichiarazioni di voto dagli altri capigruppo, Masci, Bracco, Dottorini e Girolamini; per l’opposizione, Sebastiani e Modena. È invece passato all’unanimità il disegno di legge della Giunta regionale che concede un contributo di 100 mila euro per il 2006 all’Accademia delle Belle arti "Pietro Vannucci" che, in ottica futura, sarà statalizzata. Su tale versante, la Giunta è stata impegnata a coinvolgere anche Governo, enti locali e fondazioni bancarie. "Solo in due regioni, Umbria e Liguria, operano accademie non riconosciute - ha spiegato l’assessore alla Cultura, Silvano Rometti - per questo è stato aperto un confronto con il Governo che dovrà portare al riconoscimento fin qui negato". Il provvedimento è stato illustrato in aula da Enrico Sebastiani (Udc) per il quale "il contributo va incontro ad un’esigenza sentita dal mondo artistico e culturale della regione". Colmato, in parte, il gap finanziario creato dal venir meno del contributo statale di 400mila euro per coprire le spese correnti. "Ma la Giunta deve impegnarsi - sostiene Sebastiani - affinché l’Accademia sia riconosciuta come vera e propria istituzione universitaria". Lucera: "Piovono libri", un progetto di lettura in carcere
Lucera Web, 11 ottobre 2006
Il Comune di Lucera ha aderito al progetto "Piovono libri" proposto dal Ministero dei Beni culturali con l’iniziativa "Il libro: un fedele amico" da svolgersi all’interno della casa circondariale cittadina. Dal 9 al 14 ottobre, i detenuti hanno la possibilità di leggere alcune opere (narrativa, saggistica, romanzi) messe a disposizione dalla Biblioteca comunale. Inoltre sarà data loro la possibilità di usufruire dei libri in possesso della biblioteca attraverso il prestito domiciliare. L’iniziativa è stata presentata lunedì mattina all’interno del carcere dagli organi proponenti rappresentati da Domenica Franchino, dirigente dell’ufficio Pubblica istruzione e cultura del comune di Lucera e Michele Conte, responsabile della Biblioteca comunale. Per l’istituto detentivo erano presenti il comandante Antonio Villani e l’educatrice del carcere Maria Leonarda D’Aloia. Erano presenti alcuni detenuti. Il progetto ha l’obiettivo di rendere meno difficile la vita dei carcerati e ben si sposa con le attività sociali e culturali che già da anni si svolgono all’interno della casa circondariale di Lucera. Usa: su internet le ultime parole dei condannati a morte
La Mescolanza, 11 ottobre 2006
Ultimo venne il silicio della Rete a tumulare per sempre i corpi. A celebrarli nel bianco e nel nero della vita conclusa. A tramandarci la loro storia che i reticolati elettrici della pena capitale e il cemento di Ellis Unit - il braccio della Morte del carcere di massima sicurezza del Texas - hanno reso invisibile ben oltre il giorno finale, quello dell’esecuzione con il potassio della legge. E ben oltre la sepoltura nei prati del cimitero federale, con lapide alfabetica. Stavolta tutti dissepolti. Per un istante almeno, nell’ovunque planetario della Rete. In compagnia di una doppia foto, di fronte e di profilo, a raccontarci i loro occhi talvolta crudeli, talvolta spaventati. E in compagnia delle loro ultimissime parole, il "last statement", che viene registrato nella camera della morte, davanti al vetro dei testimoni e dei familiari delle vittime, prima che la siringa scenda per uccidere, in quei minuti d’aria finale in cui i dead men walking fronteggiano la paura di morire, bilanciandola con quella di sopravvivere. Qualche volta l’addio è affidato al silenzio, come un’alzata di spalle. Qualche volta è carico di insulti: "Siate maledetti". O rabbia: "Ridatemi i miei diritti, ridatemi la mia vita. Non ho paura di quello che mi state facendo: la mia verità resterà per sempre mia". Oppure: "Voglio solo dirvi che il giudice e che Bell Scott sono due figli di puttana. Per il resto vi amo tutti". Oppure disincanto: "Ci vedremo tutti di nuovo. Ma ora voltatevi dall’altra parte". Oppure rassegnazione: "Sono innocente, ma sono nero". E ancora: "Come ho detto dal primo giorno non ero là e non l’ho ucciso, ma non sono migliore di quello che lo ha fatto". Ma d’abitudine il distacco è più dolce della vita alle spalle. "Perdonatemi": detto ai parenti della vittima. E ai propri familiari: "Siate forti". Oppure: "Grazie di essermi stati accanto". "Tranquilli, sto andando in un posto migliore". Oppure: "Ehi, mamma, mi raccomando non piangere". O ancora: congedandosi da tutto tranne che dalla propria verità: "Sono innocente. Sono innocente. Sono innocente". E dalla propria fede: "Sono peccatore di tutti i peccati. Colpevole di tutte le colpe. Allah è grande". Oppure: "Solo il cielo e l’erba sono eterni e oggi è un buon giorno per morire. Gesù, mio Signore, sto tornando a casa". Ora i 376 detenuti speciali, transitati da vivi lungo i corridoi di linoleum azzurro del carcere di Huntsville, nutriti di solitudine, luce al neon e cattivi pensieri, tornano da morti dentro a un punto remoto della Rete, Executed Offenders, colpevoli giustiziati, con la loro geografia di facce memorabili: i capelli, gli zigomi, la razza; l’età congelata nel giorno dell’arresto e in quello dell’esecuzione. E poi con la loro storia: quanta scuola, quanti precedenti penali, quale lavoro fatto in vita e quanto sangue versato prima che il boia versasse il veleno nel loro. Tornano come un calendario di diavoli e un monito. Come il riverbero d’altre vittime. Come l’eco di un sacrificio sociale e singole apocalissi. A ri-morire in video e nell’inchiostro: dal primo assassino assassinato, Charlie Brooks Jr, nero, ("Non ho niente da dire, addio") giudicato colpevole di avere sequestrato e ucciso un meccanico per rubargli l’auto, giustiziato dopo 6 anni di carcere il 7 dicembre del 1982. Fino all’ultimo dell’elenco, Farely Matchett, anche lui nero, ucciso dopo 13 anni di processi, lo scorso 12 settembre, colpevole di essere entrato di notte nella casa di un pensionato a caccia di soldi per il crak, averlo legato, interrogato, picchiato, ferito a martellate e poi ucciso con un coltello: "Vi chiedo perdono. E chiedo ai familiari della vittima di trovare pace con la mia morte e di andare avanti". Storie così dense, così nere da contenere sempre la vertigine e il suo abisso, come certi ponti che dondolano nel vuoto degli incubi. Tutte incastrate nella trappola degli errori senza rimedio e poi delle morti a catena. L’inizio sempre allagato dall’adrenalina dell’assalto e della rapina, dalla velocità della fuga, dai boati della sparatoria, dal sudore della cattura. Fino alla morte finale: pulita, silenziosa, legalizzata: "Chi ha tolto una vita, pagherà con la vita", dice la legge. Semplice come lo è la vendetta. Lineare come i riassunti compilati dall’Amministrazione penitenziaria: i luoghi del sangue, le circostanze, la condanna. L’intera vita del detenuto ridotta al necessario che è servito a togliergliela. E che solo quelle ultimissime parole, il last statement, trasforma in un racconto concluso e talvolta in un apologo. Prendete Charles Francis Rumbaugh, bianco, nato nel 1957, arrestato nel 1976, giustiziato nel 1985 per avere ucciso Michael Fiorillo, 58 anni, durante la rapina alla sua gioielleria. Un anno prima è evaso dal penitenziario della Contea di Potter annodando lenzuola. Durante un controllo casuale disarma due poliziotti. Fugge in New Mexico. Rapina e uccide. Al processo che lo condanna a morte, assalta il giudice Bailiff con una scheggia di metallo che ha affilato nella cella dei transiti. Durante il processo di appello aggredisce l’agente con un coltello rudimentale. Immobilizzato e disarmato tenta ancora di reagire. Lotta. E lottando grida allo sceriffo: "Sparami!". Nove anni più tardi, durante i preparativi dell’esecuzione, lui disteso sul lettino che ha la forma della croce, mentre le guardie fissano le cinque cinghie alle caviglie, ai polsi e al petto, non si ribella più, non lotta. Dice solo: "Sono pronto al viaggio". E poi si volta. C’è Cornelius Goss, ex tossico, nero, inchiodato a 26 anni dalle sue stesse impronte digitali trovate nell’appartamento del signor Leevy che ha ucciso a bastonate, per portargli via dieci dollari, un bracciale da donna, due anelli, un orologio Rolex, una macchina fotografica. Accanto al capitano che lo lega e al cappellano che lo accompagna, dice: "Mi piacerebbe chiedere perdono ai familiari della vittima. Ma no, non ce la faccio. Davvero. Non credo proprio di poter dire qualcosa che vi aiuti, ma spero che attraverso il vostro Dio, possiate perdonarmi. Non sono più quello che ero un tempo. Quando ero ammalato. Quando ero spaventato. Quando cercavo amore in tutti i modi sbagliati. Sì, spero possiate perdonarmi. A mia madre: ti voglio bene. Grazie". C’è il messicano Henry Porter che comincia a franare a 16 anni, prima condanna perché guida ubriaco. Che assalta case isolate e pompe di benzina. Che una mattina di novembre del 1975, a Fort Worth, uccide l’investigatore che lo sta interrogando a proposito di tre rapine accadute nei dintorni. Dieci anni dopo, legato, con le braccia spalancate, ringrazia padre Walsh per il "suo aiuto spirituale". Ma ha ancora un paio di cose terrene da dire: "Mi avete chiamato assassino a sangue freddo quando ho sparato a un uomo che mi ha sparato per primo. La sola ragione per cui io sono qui è che sono messicano e lui era un poliziotto. La gente pretende la mia vita e questa sera l’avrà. Ma la gente non chiede la vita del poliziotto che ha ucciso quel ragazzo di 13 anni che stava ammanettato nel retro della sua auto... Voi la chiamate giustizia. Ma questa è solo la vostra giustizia. La giustizia dell’America. Mi avete chiamato assassino a sangue freddo. Ma io non ho mai legato nessuno a un lettino come questo. Né ho mai pompato veleno nelle vene di qualcuno, guardandolo da dietro una porta blindata. Voi la chiamate giustizia. Io li chiamo omicidi a sangue freddo. Lo dico senza amarezza, senza rabbia. Spero che Dio perdoni i miei peccati. Adesso sono pronto". Pronto a cascare in questo catalogo della morte sbrigata per legge. Dopo l’ultima tuta pulita, l’ultimo pasto, l’ultima serratura chiusa alle spalle, mentre scende il sipario sulla più antica delle leggi che ancora va in scena nel più moderno, e più spaventato, dei Paesi d’Occidente. Come se ci fosse un senso a risarcire la morte con la morte, le lacrime con le lacrime, la colpa con la colpa. E nessuna altra via da intraprendere se non quelle immaginata da Robert Morrow, bianco, che rapì una donna e la uccise, buttando il corpo nel Trinty River e poi fu catturato, confessò chiese perdono, si convertì, e che nell’ultimo minuto dei suoi 47 anni, davanti ai testimoni, alle guardie e al boia dettò il finale, come fosse già sulla collina di Spoon River: "Rendimi libero, capitano".
Pino Corrias Usa: in alcune carceri consentito uso cani per terrorizzare
Swiss Info, 11 ottobre 2006
Cinque Stati degli Usa hanno autorizzato nelle loro carceri l’uso di cani per terrorizzare, e perfino mordere, detenuti che si rifiutino di uscire dalle loro celle. Lo ha detto in un rapporto Human Rights Watch (Hrw), che paragona queste tecniche di repressione agli abusi contro i prigionieri nel carcere di Abu Ghraib in Iraq. L’organizzazione umanitaria ha detto nel rapporto, diffuso ieri sera, di non essere a conoscenza di altri Stati dove siano consentite misure simili, ne ha denunciato il carattere di segretezza estrema e ha fatto il paragone con i soldati americani che terrorizzavano con cani i prigionieri iracheni. "Ad Abu Ghraib, non era previsto che mordessero i prigionieri. Qui, si usano i cani per terrorizzare. Se l’intimidazione con il cane non funziona, allora il cane viene aizzato e morde", ha detto Jamie Fellner, direttore dei programmi per gli Usa di Hrw. In Connecticut e Iowa e in misura minore in Delaware, South Dakota e Utah, se i prigionieri si rifiutano di uscire dalle loro celle, i secondini possono portare nella cella un cane "per terrorizzare il prigioniero finché non obbedisce", afferma il rapporto di 20 pagine. Se un detenuto continua a resistere, il cane può morderlo e mentre il prigioniero lotta per liberarsi dall’assalto della bestia, i secondini lo immobilizzano e lo portano fuori a forza, secondo il rapporto. Massachusetts e Arizona quest’anno hanno proibito questa pratica. Le autorità carcerarie del Connecticut hanno sostenuto che le loro 22 squadre con i cani sono essenziali per mantenere la sicurezza nelle carceri. Human Rights Watch ha esortato l’Associazione correzionale americana a mettere al bando questa pratica nei suoi regolamenti. Attualmente si stima che negli Usa ci siano 2,2 milioni di detenuti, un quarto dell’intera popolazione carceraria mondiale.
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