|
Le voci dal carcere da "L_inkre@dibile", periodico del Master in giornalismo dell'Università di Padova
Negli ultimi 13 anni solo promesse mancate. I penitenziari verso il collasso
Il disegno di legge sull’amnistia e sull’indulto è tramontato, respinto dalla Camera il 12 gennaio, a più di quattro anni dalla sua presentazione, con 206 voti su 397. Nessuna novità per i 59mila i detenuti italiani, 17mila in più di quanti le 207 carceri nazionali potrebbero ospitarne. Una situazione generalmente critica, con punte di emergenza in Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Lombardia, Toscana, Campania. E poi il Veneto, dove uno studio dell’Eurispes sulla base dei dati del Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria (aggiornati al 30 novembre 2005) ha delineato il superamento della soglia di tollerabilità fissata dallo stesso dipartimento: 2.858 i detenuti attualmente reclusi, a fronte di una capienza di 1.782, e di un limite di 2.728. Costante il peggioramento rispetto al 1993, anno in cui il Parlamento varò l’ultima amnistia. Da allora il numero dei detenuti è aumentato con una progressione continua: nel 1996 erano 47mila, nel 1999 erano arrivati a 51mila, 55mila due anni dopo, 57mila a febbraio di quest’anno. Una situazione che ha alzato i toni dello scontro, anche fuori dalla politica. Così Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione per i diritti dei carcerati, ha parlato di spettacolo "ignobile e prevedibile": "I contrari all’amnistia sappiano che dovranno gestire una situazione penitenziaria al collasso. I posti letto sono meno di 43mila, i 17mila detenuti in eccesso rendono la vita quotidiana nelle carceri al limite del trattamento degradante". I contrari, in verità, si sono trovati in entrambi gli schieramenti politici. Per Filippo Ascierto, deputato di Alleanza nazionale, "ogni provvedimento politico è escluso dalla agenda del partito". Sulle evidenti carenze strutturali delle carceri l’esponente di An propone invece "accordi bilaterali per rimpatriare i detenuti extracomunitari e fare scontare la pena all’estero", senza dimenticare che "spesso i reclusi trovano voce a scapito delle vittime". Diversi i toni nel centrosinistra, pur corresponsabile della bocciatura del testo di legge. Piero Ruzzante, deputato Ds padovano, respinge gli addebiti mossi anche dall’interno della coalizione: "L’unico motivo per cui ci siamo astenuti è di natura tecnica. Un’amnistia approvata dopo quattro anni dalla sua presentazione avrebbe al massimo svuotato qualche armadio, ma non le carceri". Al contrario, Ruzzante ripropone l’amnistia, o il più auspicato indulto - "preferibile anche nel rispetto delle vittime, perché revocabile in caso di recidiva" - per la prossima legislatura, lanciando un messaggio all’indispensabile partecipazione degli avversari: "Spero che il centrodestra manterrà l’impegno di fronte all’Italia". Tuttavia, aggiunge, "è necessaria una più ampia riforma dell’ordinamento penitenziario che restituisca alle carceri il ruolo riabilitativo e la possibilità di reinserire le persone nella società".
Fabio Amato
"Amnistia, che illusione". A Venezia c’erano detenute pronte a uscire
I dibattiti e le marce, i distinguo dei partiti e i cavilli, gli arroccamenti e i proclami. È in scena l’amnistia, che abbiamo imparato a conoscere dalle polemiche sui giornali. Ma vista questa volta da dietro le sbarre, attraverso gli occhi dei detenuti per i quali il provvedimento di clemenza diventa una partita giocata sul proprio destino. "Non ci siamo mai illusi, sapevamo fin dall’inizio che non ci avrebbero dato niente" commenta sorridendo Graziano Scialpi, uno dei reclusi più "anziani" della redazione di "Ristretti orizzonti". I detenuti-giornalisti erano fermamente convinti dell’insuccesso: "Siamo passati perfino per quelli che non la volevano - raccontano - e adesso siamo diventati per tutti una sorta di oracolo". Ma ci sono anche le storie di chi, nelle sezioni, durante le scorse settimane alla promessa di liberazione ci aveva creduto davvero, come racconta Elton Kalica, un giovane detenuto albanese che studia Scienze politiche. "Soprattutto - spiega - chi ha poca esperienza di carcere alle spalle, come chi è stato appena arrestato o appena condannato. Poi c’è una fascia di detenuti che sono qui da tanti anni: hanno visto già molte volte queste scene e sono diventati praticamente impermeabili". Se la redazione non ha creduto nemmeno per un momento all’approvazione di un provvedimento di clemenza ("avevo detto - commenta Ornella Favero, volontaria e direttore della rivista - che se fosse passata l’amnistia sarei stata pronta a fare tre anni di carcere..."), ci sono le storie di chi, al Due Palazzi, aveva già preparato le valigie, pronto ad uscire. Nel carcere femminile della Giudecca, addirittura, molte detenute avevano regalato alle amiche i vestiti, tanto erano certe di lasciare le celle di lì a poco. "Realisticamente, siccome lavoriamo nel campo dell’informazione - racconta Favero - quando è saltata fuori la questione dell’amnistia ci siamo informati con alcuni parlamentari interessati al tema e con i quali siamo in contatto, ma ci siamo sempre sentiti dire che non c’era nessuna possbilità". L’unica strada, secondo i detenuti di "Ristretti", è il cambiamento del quorum per l’approvazione alle Camere, proposto da un disegno di legge del verde Marco Boato. Al moltiplicarsi delle illusioni ha contribuito poi anche il modo difficle e distorto in cui filtrano le notizie. "La marcia di Natale - raccontano - qui si è trasformata nella voce "a Natale c’è l’amnistia". Qualche malumore verso i radicali, storici paladini della causa carceraria, trapela da dietro le sbarre. "Pannella - protesta Scialpi - non poteva non sapere che non c’erano le condizioni e non poteva non sapere che aspettative si sarebbero venute a creare in carcere". "Perché dentro - conclude Marino Occhipinti - uno vuole illudersi. È la speranza che ci tiene su".
Maria Itri
Uno sportello amico per i familiari Consigli pratici, sostegno morale e aiuto per cercare un lavoro
Problemi non ce ne sono solo per chi è dentro, ma anche per chi rimane fuori. I familiari dei detenuti spesso si trovano per la prima volta ad avere a che fare con l’amministrazione penitenziaria e non sanno da che parte cominciare. A Padova, in via Franzela 3/c, poco lontano dal carcere, il sabato mattina c’è uno sportello per loro. Il responsabile è Nicola Sansonna.
Come aiutate le famiglie? "Diamo consigli concreti, su come avviare una pratica, richiedere i colloqui e le telefonate. Ma le difficoltà maggiori riguardano l’impatto con la nuova situazione. Intorno alla famiglia del detenuto si crea il vuoto. Da una parte c’è la condanna sociale. Le persone che ti frequentavano prima non ti trattano più allo stesso modo, i figli a scuola vengono ghettizzati dai compagni. Ma, ancora più forte, è l’autoesclusione. Il padre di un ragazzo in carcere mi raccontava che lui le sigarette in paese non le compra più. Ogni volta prende la macchina e si fa quindici chilometri. E tutto per non affrontare i vecchi amici che non lo guardano più in faccia, gli imbarazzi, le allusioni".
Problemi di ordine psicologico? "Non solo. Molte volte chi viene arrestato era l’unica fonte di reddito che, legale o illegale, comunque rappresentava il sostentamento per l’intera famiglia. Le donne allora si fanno carico di tutto. Devono pagare l’affitto, mandare avanti la casa e i figli. Hanno bisogno immediato di un lavoro".
E voi potete fare qualcosa per loro? "Spieghiamo a chi è in particolare stato di bisogno quali sono i suoi diritti, perché spesso non sa nemmeno di avere dei diritti. Si può chiedere ai servizi sociali del comune, ma occorre segnalare la situazione. Alle donne che cercano lavoro poi forniamo gli indirizzi di alcune cooperative sociali".
Arrivano altre richieste? "Una delle più frequenti è la ricerca di un lavoro esterno per i detenuti che possono accedere alle misure alternative. Senza lavoro il detenuto non esce. E ci sono anche da saldare i debiti che derivano dalle pene connesse al reato e dai risarcimenti. Anche in questo caso per il lavoro ci sono le cooperative sociali e i cosiddetti progetti di inserimento lavorativo per le persone svantaggiate".
Lei è anche responsabile della sede padovana degli Avvocati di Strada. C’è un collegamento diretto fra le due realtà? "Purtroppo carcere e strada sono vasi comunicanti. Accanto a famiglie che non vedono l’ora che i loro cari tornino a vivere con loro, ce ne sono altre che, una volta terminata la pena detentiva, non vogliono riprendersi in casa il figlio, il padre, il marito. E questo nonostante non abbiano mai interrotto del tutto i rapporti. Succede più di frequente con i casi di tossicodipendenza o di disagio mentale."
Maria Cristina Bottegal
Giornalisti dietro le sbarre La rivista dei detenuti fatta senza telefono né Internet
Una decina di computer, uno scanner, una stampante, la rassegna stampa sul tavolo, alcuni secchi per la raccolta dell’acqua che entra dal soffitto. Se non fosse per le grosse sbarre rosse alle finestre che tagliano l’orizzonte e la rigida scansione del tempo affidata agli agenti ("Si chiude!"), quasi non sembrerebbe di essere in carcere. È la redazione di "Ristretti Orizzonti", periodico di informazione sul carcere, interamente confezionato all’interno della casa circondariale Due Palazzi di Padova da una ventina di detenuti italiani e stranieri, senza telefono né connessione ad Internet, con la collaborazione della redazione delle donne dell’istituto penale della Giudecca. Le attività si svolgono ogni giorno, dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15, quando gli uomini lasciano le rispettive sezioni e si recano nel locale a piano terra per indossare i panni di giornalisti e lavorare insieme. Spesso senza agenti o volontari, la cui presenza è invece obbligatoria in tutte le altre attività. Una libertà che si sono conquistati con impegno: sette anni di lavoro che ha fornito una certa immagine del carcere e che è diventato un esempio di cosa si può fare "dentro", dando a quello di Padova la qualifica di carcere sperimentale. "Non c’è nessuna lettura preventiva, il giornale esce da qui già confezionato e finisce direttamente in tipografia, così come il sito ristretti.it, pubblicato da Francesco, un ex-detenuto, nella sede esterna", spiega il direttore responsabile, Ornella Favero. I temi da trattare sono decisi durante le riunioni di redazione, prendendo spunto dalla rassegna stampa o da recenti avvenimenti nelle sezioni. Non si tratta di denunce di singoli casi, ma di riflessioni generali su situazioni esemplari, che coinvolgono tutti, con un occhio di riguardo al lettore non detenuto. "Non ha senso fare del vittimismo - spiegano con chiarezza - la società risponde sempre allo stesso modo "Se sei dentro, te la sei voluta". Vogliamo fare informazione, raccontare il carcere correttamente, sfatando il mito che ne ha l’opinione pubblica, anche a causa della scorretta comunicazione dei media". Per questo, durante i numerosi incontri con scolaresche ed altri esterni, preferiscono non parlare subito del loro reato, per non farsi catalogare in base ad esso:"Ci presentiamo come uomini presenti, tralasciandol passato e futuro; la morbosità del dettaglio fa scattare nelle persone un pericoloso meccanismo". I redattori si occupano di tutto: selezione delle notizie, interviste, scrittura, grafica, impaginazione, spedizioni, cd rom a tema, sito web. "Ristretti", che nel linguaggio burocratico carcerario significa detenuti, è una rivista di approfondimento su affetti e famiglia, salute, condizioni di detenzione e giustizia destinata al mondo esterno (una tiratura di 1200 copie, 700 gli abbonamenti) ma è poco letta dagli altri detenuti. Per loro, la redazione prepara un foglio più piccolo, "Passepartout", dove si affrontano i piccoli problemi quotidiani, come la spesa, le domandine, i servizi a cui accedere e come farlo. I redattori trovano difficile coinvolgere nella loro attività i compagni, le cui reazioni vanno da un distacco lievemente astioso di chi si sente escluso, al totale disinteresse di chi passa la giornata in branda. "Il criterio di selezione di nuovi giornalisti è quello della raccomandazione, qui come fuori", scherzano tra loro. "Dentro" è essenziale conoscere bene un detenuto prima di accoglierlo nella comunità multietnica di "Ristretti"; l’aspetto disciplinare è importante quanto la motivazione proprio perché i redattori sono soli e anche un semplice litigio porterebbe alla chiusura dell’attività. "L’approfondimento quotidiano su temi sociali favorisce l’introspezione e il distacco dal passato" spiegano. Inoltre, trattare problemi legati al mondo esterno aiuta ad affrontare la mancanza di libertà. Tuttavia sono molte le ragioni che spingono un carcerato a chiedere di entrare in redazione: l’avere un impegno quotidiano, il potersi dedicare per la prima volta allo studio, la missione di raccontare il carcere a quella società che si reincontrerà a fine pena, ma anche poter vedere più esterni e godere di eventuali privilegi avendo già dimostrato la propria responsabilità.
Nicla Panciera
Elton, una laurea conquistata in cella
Elton Kalica ha 30 anni, quasi un terzo dei quali passati in carcere. A "Ristretti" si occupa di quasi tutto, dalla grafica all’impaginazione alla scrittura. É arrivato in Italia nel 1995, aveva appena finito il liceo a Tirana ma non era riuscito ad iscriversi all’università. La sua è una famiglia "regolare", nessun rapporto con il mondo della detenzione. Per due anni Elton è a Milano : "Ho lavorato come custode nella polisportiva di un oratorio - racconta -. Avevo una stanzetta dove poter dormire ma mi pagavano molto poco". Dopo la scadenza del visto turistico Elton diventa un clandestino. Nel 1997 è in carcere, prima a Milano e poi a Padova, per sequestro di persona, un reato classificato tra quelli del 4 bis dell’ordinamento penitenziario, circostanza che rende più difficile l’accesso ai benefici di legge. Oggi Elton studia Scienze politiche, grazie anche alla caparbietà di un’educatrice che ha convinto il Senato accademico a superare problemi burocratici che gli avevano impedito per due anni l’iscrizione. Il suo fine pena è nel 2013, "ma non so mai quanti anni mancano, qui non facciamo il conto alla rovescia". Elton vorrebbe tornare in Albania a scontare gli altri anni. "Lì, anche se le condizioni di vita sono peggiori, potrei avere dei colloqui con la mia famiglia tutte le settimane - spiega - I miei genitori sono anziani, in questi anni mio padre è venuto in Italia tre volte, m una di queste non lo hanno lasciato entrare perché non aveva il certificato di famiglia ed è dovuto tornare in Albania senza potermi incontrare. Per ogni ingresso in Italia poi è necessaria una lunga trafila, bisogna avere un visto turistico e trovare un cittadino italiano come garante". Gli accordi tra Italia e Albania dovrebbero già essere operativi da anni, ma in realtà l’istanza di Elton è ancora bloccata.
Maria Itri
Dado, quando dal carcere si evade con l’ironia
Graziano Scialpi è in carcere da nove anni, a contatto con un mondo che, da "regolare", aveva già conosciuto come cronista di nera e giudiziaria. Aveva esordito ai tempi dell’università, mentre studiava filosofia, come giornalista sportivo; nel 1992 è praticante, due anni dopo professionista. Inizia a lavorare in una televisione friulana, passa poi ad un settimanale e infine al quotidiano, fino all’arresto. "Ed essere giornalista - racconta - non mi ha certo aiutato, sono stato massacrato dai colleghi, soprattutto della concorrenza, che mi conoscevano". Fine pena 2026. "Quindi non chiedermi quali sono i miei progetti per il futuro" scherza. La realtà del carcere che è costretto a vivere oggi "è forse meno peggio - spiega - dell’immagine che ne avevo, anche se non è possibile descrivere la limitazione della libertà, lo stillicidio quotidiano della vita che trascorre in niente". In redazione il giornalista è diventato vignettista e quattro anni fa è nato Dado, il detenuto "ristretto" che racconta con ironica amarezza la sua vita quotidiana. Gli spunti arrivano dalle discussioni in redazione, da servizi di giornali o telegiornali, ma soprattutto dall’osservazione del carcere, dove "una persona "normale" potrebbe chiedersi perché mai sia possibile acquistare una pentola di quattordici centimetri di diametro, ma il coperchio solo di dodici centimetri. Il carcerato non si pone tali problemi metafisici. Accetta la realtà per quello che è: un mistero insondabile". Le vignette sono state raccolte un anno fa in un libro, "Non aprite quel barattolo", con la prefazione di Sergio Staino. "Qualcuno ha sostenuto che l’ironia è il punto di vista di chi si è affacciato sull’abisso e poi si è tirato indietro" scrive Scialpi . "Checchè se ne possa pensare, in carcere si incontra anche tanta ironia...ciascuno ne tragga le conseguenze che preferisce".
Maria Itri
Tanti, soli e per strada. A Padova i senzatetto sono almeno 300
Non esiste la figura romantica del clochard, quello che la vita di strada l’ha scelta. Perché non c’è nulla di romantico nell’essere un clochard o, se preferite, senzatetto. Per strada valgono soprattutto tre regole: senza documenti non sei nessuno; se sei italiano è più facile che ti aiutino; è una guerra di tutti contro tutti, per un letto o un pasto. Questa è l’unica lettura comune della galassia sfaccettata e contraddittoria dei "senza fissa dimora" a Padova. Perlomeno, mette d’accordo chi lavora nel settore: operatori di associazioni, di cooperative, volontari e non, persino le istituzioni. "Se sei un senzatetto, la prima cosa che ti devi augurare è di avere ancora i documenti", spiegano all’associazione "Noi famiglie padovane contro l’emarginazione". Senza, non hai diritti: nessuna assistenza sanitaria, nessuna tutela legale. È la situazione di quasi tutti e specialmente degli stranieri, che sono sprovvisti del permesso di soggiorno. Una difficoltà in più per essere aiutati. Ma quanti sono i senzatetto a Padova? La ricerca "Presenze nascoste" commissionata dalla Regione Veneto ne conta 300. Un numero che gli operatori sociali giudicano però sottostimato, anche se riconoscono che contarli uno a uno è difficile o addirittura impossibile. Il percorso per ricevere una mano è vario. Agli italiani la Caritas diocesana mette a disposizione 12 posti letto gratis nella "Casa Elisabetta d’Ungheria", il dormitorio in via Rudena: si accede con un colloquio. Lo stesso fanno la parrocchia della Santissima Trinità (8-10 posti, anche per gli stranieri) e l’asilo notturno in via del Torresino, gestito dal Comune: 82 letti (70 per italiani, 12 per stranieri). Per entrare, bisogna avere un documento di identità e presentarsi allo sportello del segretariato sociale, in via del Carmine. "Adesso, con l’emergenza freddo - specificano i responsabili - a seconda della gravità dei casi possono essere ospitati per un paio di notti anche quelli che non hanno sostenuto il colloquio. Glielo facciamo fare in un secondo momento". È il freddo, ora, che fa più paura. Per l’inverno il Comune gestisce un coordinamento cittadino con le altre cooperative e associazioni impegnate nel portare aiuti. Ma le funzioni sono soltanto consultive e ognuno alla fine opera in proprio. In via Trieste sono stati ricavati altri dieci letti, dopo che Trenitalia ha negato il permesso per le brandine in stazione, che invece c’erano l’anno scorso. A "La casetta" in via Eremitano "Noi" gestisce un servizio pomeridiano di docce e uno di accoglienza serale per chi si vuol riposare un paio d’ore. Dieci persone a notte dormivano un anno fa nei due container messi a disposizione da l’associazione "Razzismo stop" nella sua sede di via Gradenigo: per quest’anno il "Progetto Siberia", come l’hanno chiamato, è in fase di avviamento. Se hai fame, tra le varie opportunità ci sono le cucine popolari di via Tommaseo. Con un buono che ritiri o alla Caritas o all’opera "Pane dei poveri" hai un pasto ed è qui che vedi realtà diversissime, spesso in conflitto tra loro: alcolisti e tossicodipendenti, cattolici e musulmani, e anche malati psichiatrici, ex detenuti. Si può mangiare poi al centro giornaliero "La Bussola" in via Tiziano Minio, attivo dall’aprile di quest’anno. Varie parrocchie offrono pasti gratuiti e il martedì e il giovedì alle 21 nel piazzale della stazione ferroviaria ci sono i ragazzi della comunità di Sant’Egidio che distribuiscono panini e bevande. Per l’assistenza sanitaria, invece, operano medici volontari: alcuni all’ambulatorio della Caritas in via Dupré, altri alle cucine popolari. In orario di visite c’è sempre la fila.
Matteo Mohorovicich
Notte di S. Lucia: in 40 per 10 posti Alla "Casetta" tra uomini e donne che lottano per sopravvivere
Il termometro segna quattro gradi, ma sono solo le otto di sera e scenderà ancora. È la notte di Santa Lucia e la fuliggine delle marmitte cala dalle auto che passano sopra il cavalcavia depositandosi sulle giacche, sui rari guanti delle persone in fila. La maggior parte di quelle persone proviene dall’Europa dell’Est. Occhi grigi, sguardo veloce, diffidenza. Altri sono africani, soprattutto marocchini. Hanno facce stanche e rugose, labbra rotte, occhiaie profonde. I pochi italiani si riconoscono immediatamente, si muovono con maggior sicurezza, parlano con gli operatori, riescono perfino a ridere. Alla Casetta (centro di prima accoglienza in via Eremitano), dalle 20 alle 22, l’associazione "Noi" offre ai senzatetto un tè caldo e qualche brioche, poltrone su cui riposare cullati dall’altoparlante della stazione, proprio dietro il fabbricato. Ma offre soprattutto la possibilità di dormire sotto un tetto. Monica, la responsabile, registra tutte le richieste. Stasera ne sono arrivati otto nuovi, due non hanno voluto lasciare il loro nome, sono senza documenti e la paura di esporsi è più forte di una notte all’addiaccio. La precedenza andrà sicuramente a quella nuova famiglia con due bambini, gli altri aspetteranno, forse domani sarà il loro turno. Perché i posti gestiti dall’associazione sono una decina, le richieste trenta, quaranta a sera. Pozzanghere d’acqua sul pavimento interno, come se la strada volesse invadere anche quel rifugio. Scarpe da ginnastica si muovono in fretta, escono, rientrano, si fermano davanti al tavolo di fronte alle scarpe di Monica. "C’è posto? Io dorme fuori anche stasera?". Alessandro, un altro operatore guarda in basso, "la prima cosa che si impara in questo lavoro è dire di no". Un no che però appare ingiustificato a quegli occhi che chiedono aiuto. "Io aspettare, tu dire me finito posto? E io stasera dove dormire?" - la voce si rompe in singhiozzi - "Io prendo metadone, io smettere droga, ma se stasera fuori io mi drogo per non sentire freddo. Se stasera io drogo è colpa tua, Monica, è colpa tua". Inutile provare a spiegare che i posti sono quelli, che devono necessariamente ruotare, che ogni volta qualcuno rimane fuori. Quegli occhi intanto sono usciti, si sono seduti sullo scalino e hanno pianto, ma hanno anche continuato a non capire, ad inveire. Si sono aperti una birra, per rappresaglia. Ma alla fine sono riusciti a passar la notte, e il giorno dopo hanno camminato fino alla mensa popolare di suor Lia, gonfi, strafatti, accalcati insieme a quelli di altre trecento persone che quotidianamente si presentano per un piatto caldo. Là trovi anche molte donne, in genere poco frequenti alla Casetta, anziani, badanti. Monica continua a scrivere, è scossa, ma non può mostrarlo. Il telefono squilla, le chiamate si susseguono. Bisogna trovare altri posti d’emergenza. Nel frattempo vengono distribuite alcune coperte. Anche quelle sono razionate. Il Comune ne dà 10 ogni 15 giorni e gli operatori devono gestire anche quel piccolo tesoro con parsimonia, segnare su un foglio chi ne ha già presa una, rimproverare chi la perde o dice di essere stato vittima di un furto. "La coperta è bene prezioso - spiega Ibrahim - tu no freddo con tanti cartoni e coperta". Ibrahim è arrivato in Italia nel 1989, appena ventiduenne. Franchi francesi in tasca e in bocca una bugia: "Sono un turista". Era già venuto qua nel pomeriggio perché alla Casetta, dalle tre alle cinque, chi vuole può avere sapone, asciugamani e farsi una doccia calda. Ma lui voleva solo riposare al caldo, su una poltrona. Si è dovuto accontentare di una panca di legno. Ha appoggiato le stampelle e ha steso il braccio fasciato. Ibrahim è stato investito e l’automobilista è fuggito. Nessuna denuncia, perché anche lui è senza documenti. Possibile? In Italia da quasi diciassette anni e ancora clandestino. Racconta la sua vita, ma la realtà si confonde con la fantasia, la storia si plasma e diventa quello che avrebbe dovuto essere e non quello che è stato. Qui tutti raccontano storie, ma spesso non si tratta di bugie, piuttosto tentativi di autoconvincimento. "Come posto finito?", sono le uniche parole che riesce a farfugliare un altro ragazzo, visibilmente imbottito di droga, le mani sporche di sangue. Si siede, si arrabbia e ripropone quello che ormai sembra un ritornello: "Se stasera io drogo colpa tua". Dopo poco si affloscia sulla sedia, si risveglia in preda a singhiozzi, sembra che sputi sangue, non parla. Ormai ha perso conoscenza. "Se ti chiamiamo un’ambulanza vai con loro?", il ragazzo risponde solo dopo una decina di minuti, con un cenno del capo. Arrivano dopo poco e se lo portano via. Ma la fila di persone non si ferma per questo, rimane lì, in attesa. Nei bicchieri fuma il tè caldo, i gruppetti si sono formati a seconda delle etnie. La porta è un continuo aprirsi e chiudersi dei fumatori, di quelli scoraggiati che escono sbattendola, degli operatori che li seguono per parlare: "Dobbiamo far dormire tutti al caldo, ma servono i turni, cerca di essere forte". Verso le dieci arriva Padre Gianfranco, presidente della Caritas e porta buone notizie: dalla prossima settimana ci saranno trenta posti in più, messi a disposizione dalle poche parrocchie che hanno risposto al suo appello. Con lui arrivano anche dei sacchetti di cibarie, un altro tesoro da dividere, forse riuscirà a bastare fino a domani sera.
Beatrice Mani
"Aiutatemi, cerco un letto" Da una chiesa all’altra senza documenti né soldi
Senza una casa, senza un documento, senza sapere nulla della città in cui mi trovo. Mi metto sulla strada così, non indosso stracci né vestiti logori, ho solo un grande problema da risolvere: trovare un tetto sotto cui trascorrere la notte. Chi mi guarda vede un ragazzo di razza bianca, chi mi ascolta sente parlare italiano. Esistono assistenti sociali ed associazioni ma bussare alle porte delle chiese, in simili situazioni, è uno degli atteggiamenti più spontanei se non altro perché è risaputa la loro vocazione all’accoglienza. Sono le tre del pomeriggio di mercoledì 14 dicembre 2005, parto da via Facciolati, un posto qualunque. Ecco com’è andata. Entro nella chiesa di San Prosdocimo, in Piazzale Pontecorvo, i banchi sono deserti, una donna mi dice di suonare in canonica. Aspetto. Apre il parroco, è una persona anziana, rimango sulla porta, spiego il problema senza muovere un passo. Lui sospira, si appoggia allo stipite, guarda altrove e dice "Caro figliolo, ce ne sono decine di persone che ogni giorno vengono a suonare questo campanello". Faccio ben intendere che non cerco soldi, solo un posto dove trovare ricovero ma lui ripete la stessa frase alternandola a lunghi momenti di silenzio. Una signora suona dal cancello, mi lascia lì, corre ad indicare alla donna dove parcheggiare l’auto. Lo seguo, insisto: "Se lei non mi può aiutare, sa almeno dove possa andare?" Mi manda all’ostello della gioventù. Chiarisco nuovamente: non ho documenti né soldi sufficienti per pagarmi una letto. Silenzio. "Provi al dormitorio - dice - ma sarà pieno". Mentre seguo l’indicazione del parroco passo vicino alla basilica del Santo e decido di chiedere aiuto anche lì. Attraversando la navata, mi sento piccolo, fuori luogo. Chiedo all’usciere di parlare con il parroco, convinto che anche lì ce ne sia ancora uno solo. Indica la sagrestia. Entro. Un prete scende dalle scale, mi vede, rallenta, mi squadra senza dirmi nulla e s’infila nella sala davanti ai miei occhi. La porta è aperta, lo seguo e capisco che è lui la persona che sto cercando. Entro e mi fermo poco oltre a soglia. Lui mantiene la distanza. "Mi hanno rubato tutto, soldi, portafoglio, documenti, perdoni padre, cerco qualcuno che mi aiuti perché non so dove passare la notte" dico. Continua a squadrarmi. "Non so cosa dirle" risponde. Rimane a due passi da me; "Sono spiacente". Fa per girarsi, provo a ripetere: "Cerco solo qualcuno che mi aiuti, che mi dica cosa posso fare". "Guardi - risponde secco - questo non è il luogo per affrontare questi argomenti". La risposta mi lascia perplesso, "Se non qui dove?" ribatto. "Vada a chiedere in portineria". In portineria? Comincio a credere d’aver sbagliato tutto, forma, modo di pormi, faccia. Poi rifletto: fino a questo momento nessuno ha voluto conoscere tutta la mia storia. La portineria è una grande cancellata in ferro che chiude un passaggio in fondo al quale c’é un ufficio. Suono il campanello. Dietro la vetrata appare un uomo, mi guarda dietro i venti metri che ci separano. Rifaccio la richiesta. "Vada alla Caritas dell’Orto Botanico - mi risponde - ma domani mattina, adesso è chiusa". Domani? Riformulo la domanda. "Mi dispiace, non so cosa dirle, mi dispiace". La voce pare seriamente dispiaciuta. Smetto di insistere, sospiro e cerco almeno un consiglio. "Provi alla Curia Vescovile - mi dice - vada al Duomo". E Duomo sia. Quando varco il portone sono la quattro passate. Banchi deserti, una coppia di ragazzi aspetta il prete fuori dal confessionale. Incrocio una suora. "Mi scusi - dico - ho bisogno di aiuto, mi hanno rubato tutto, soldi, documenti, mi hanno detto di andare alla curia Vescovile, al Duomo, non so cosa fare". "Vada alla Caritas, è qui dietro, qui non possiamo fare nulla". Mi indica la strada e taglia l’angolo. Entro nel portone di Palazzo Pio X. C’è un po’ di tepore, mi affaccio all’oblò della portineria: "Cerco la Caritas" dico. Il signore dall’altra parte del vetro mi risponde secco: "È chiusa, oggi pomeriggio è chiusa". Come chiusa? Adesso che faccio? Comincio ad essere preso dallo sconforto. "Provi a chiedere a quella suora" consiglia. Mi indica una figura ferma davanti a una porta chiusa a chiave. È giovane, avrà poco più di una trentina d’anni. Ascolta la mia storia guardandomi due o tre volte dalla testa ai piedi. "Perché non provi a prendere un treno così, senza pagare?" mi propone. "L’idea è plausibile - rispondo - ma senza documenti né biglietto rischio che mi facciano scendere ben prima di Trento (il luogo dove dico di essere diretto), magari in piena campagna. Meglio chiedere aiuto qui e aspettare domani". La mia giustificazione zoppica ma la accetta. "Non so che fare - risponde - provi dai Padri Comboniani, forse loro possono aiutarla". Mi faccio spiegare dove sono, mi gratto la testa. Ringrazio. "Buona fortuna" mi augura. Quando arrivo davanti alla missione comincia ad esse buio. Mi sento scombussolato e confuso. In portineria dicono che il responsabile è impegnato, si libererà dopo mezz’ora. Mi consigliano di tornare perché forse possono fare qualcosa. La frase apre un barlume di speranza. Mi faccio dare un recapito telefonico ed esco. Continuo a camminare. Entro nella chiesa degli Eremitani: vuota. Suono in canonica: silenzio. Torno verso la missione. Arrivato in piazza Petrarca entro nella Basilica del Carmine e fermo un prete che esce dal confessionale. Gli spiego la situazione. Guarda altrove, mi ripete frasi già sentite. "Non posso fare nulla - aggiunge - a Padova ci sono pochi punti di accoglienza. Vada al dormitorio, è qui, a venti minuti, lei è giovane, camminando ci mette poco". Possibile che nessuno sappia che lì non si entra senza l’autorizzazione del Comune? Mi offre dei soldi. Rifiuto. Insiste. Lascia cadere nella mia mano un euro e mezzo e mi dà due indicazioni di massima per raggiungere via Torresino. Ringrazio. Infilo le monete nella cassetta delle offerte ed me ne vado. È buio. Alle sette meno un quarto il portone dei Padri Comboniani scatta. Il portinaio mi fa accomodare in una stanza e va a chiamare il responsabile. Entra un uomo, sembra un laico. Ascolta la mia storia e per la prima volta vedo un po’ d’interesse. "Bella sfortuna - replica - ma non ti preoccupare, siamo organizzati". Esce. Lo sento parlare al telefono. "Sono io.. c’è qui un ragazzo in difficoltà.. si.. si, alle otto.. va bene, grazie". Torna in due minuti. Ha parlato con l’assistente sociale, basta che mi presenti vicino alla stazione alle otto ed avrò un posto letto in via Trieste, prenotato. Mi porge due euro, "Hai fame? - chiede - questo basta per pagarti il pasto alle cucine popolari". Rifiuto, mi preoccupa altro: non ho documenti. "Non c’è problema" risponde. Mi dà un foglietto con le indicazioni ed il recapito telefonico dell’operatrice e mi augura buona fortuna. "Grazie, grazie davvero" rispondo. Alle otto mi presento all’appuntamento, mi accoglie un operatore, il posto letto c’è, ringrazio ancora e lo disdico perché qualcuno, questa notte, può averne veramente bisogno.
Federico De Wolanski
Gli avvocati di strada con sportelli a Padova, Verona e Mestre
L’assistenza legale gratuita ai senzatetto è l’obiettivo di un’iniziativa nata nel 2000 a Bologna dalla collaborazione dei legali Valerio Cerritelli e Antonio Mumolo con l’associazione Amici di Piazza Grande. Alberto Benchimol, direttore del progetto avvocati di strada : "I legali sono tutti volontari. Non si tratta solo di consulenze. Se necessario, si va in tribunale. Dopo le prime vittorie, altri centri hanno aderito, tra cui Padova , Verona e ora anche Mestre". Il Veneto è in prima linea. I dati sono confermati da Toti Naspri, direttore di "Capolinea", il giornale di strada scaligero distribuito dai senzatetto. "L’adesione di tre città nella stessa regione è un record". Nella città del Santo sono una trentina gli "avvocati di strada". Le prestazioni legali sono a tutto campo e gratuite. Il segretario dello sportello, Nicola Sansonna: "I senza dimora non possono accedere al gratuito patrocinio perché non hanno residenza. Nell’80% dei casi il problema viene risolto attraverso una consulenza. Non cerchiamo lo scontro, ma la collaborazione col comune e i vari enti. Certo che i senza fissa dimora aumentano di continuo".
Michele Campagnoli
Come si diventa un barbone a 34 anni Roberto: "Ho perso tutto per amore. Casa, famiglia e identità"
Pantaloni verdi in stile militare e giubbotto imbottito. I capelli sono corti ma curati, il viso appena rasato e la pelle leggermente abbronzata. Quando arriva alla Cassetta Roberto assomiglia più ad un operatore che ad un barbone. Infatti fino a tre anni fa la sua era una vita normale: a 34 anni aveva una casa, una moglie e due figli, un lavoro in polizia. Poi la strada. Questo è un uomo brillante, con il sorriso stampato sulle labbra, la battuta sempre pronta e una sfilza di ex: poliziotto, marito, padre, figlio, cittadino. La sua storia ha inizio in Friuli dove è nato e cresciuto, dove aveva costruito una vita scandita dall’orario di lavoro, dall’amore dei suoi cari. Poi un giorno l’incontro con una ragazza, la perdita di ogni controllo e la disfatta: "Pensavo solo a come trovare il denaro per portarla fuori - racconta - fare la bella vita. Ho iniziato a truffare chiunque, aziende, imprese, fin quando non sono stato scoperto e catapultato di nuovo nella realtà". Ma il mondo reale ha mostrato il suo vero volto: "Mia moglie non ha più voluto vedermi, mia figlia sedicenne dice ai suoi coetanei che sono morto, perfino mia madre mi ha ripudiato. Avevo mantenuto i rapporti solo con un caro amico, ma è scomparso poco tempo fa e con lui se n’è andata anche la mia fede". Al disagio personale, alla vergogna di fronte agli occhi dei concittadini si sono aggiunte le peripezie legali. "Dopo un’esistenza passata a far rispettare la legge mi sono trovato dall’altra parte. Il delinquente questa volta ero io e proprio perché sono un ex agente il trattamento che mi hanno riservato è stato ancora peggiore". Persi tutti i punti di riferimento Roberto ha iniziato a girovagare. Dal Friuli al Veneto, poi Milano, una corsa in treno da una regione all’altra, senza uno scopo se non quello di perdersi e dimenticare tutto. Dal Nord Italia a Roma, poi Napoli e ancora Treviso, infine Padova dove è arrivato due mesi fa. "È stato in questa città che ho trovato gli assistenti sociali e gli operatori dell’associazione "Noi" e ho deciso di cambiare. Perché è impossibile abituarsi a questo tipo di vita, è uno schifo. Non potevo più sopportare gli stenti, ma soprattutto gli sguardi della gente, la commiserazione ipocrita, le parole mai seguite dai fatti, il disprezzo mal nascosto". Pochi giorni fa Roberto si è iscritto all’anagrafe per cercare di riavere i documenti. Solo con una carta d’identità italiana in mano si può trovare un lavoro. Lavoro indispensabile perché Roberto ha anche gravi problemi cardiaci che lo costringono a spendere circa duecento euro ogni 15 giorni per acquistare le medicine necessarie. Nella borsa dove c’è tutto ciò che possiede, si trova anche un fascicolo di prescrizioni mediche. "Busso alle porte delle parrocchie e delle associazioni, è l’unica cosa che posso fare. Non ho mai chiesto l’elemosina ai passanti". Il giorno dopo Roberto entra nelle mensa popolare di via Tommaseo e tutti lo salutano, senzatetto e operatori. Chiede informazioni, scambia battute. Il suo rapporto con la strada non assomiglia a quello stereotipato, sembra non appartenere al mondo dei diseredati. Mentre parla si avvicina un giovane senzatetto, italiano. "Hai un telefonino da vendermi?" - gli chiede - Roberto si gira - "No" - risponde secco e prosegue il discorso, poi si volta verso il ragazzo e dice: "Ne riparliamo dopo".
Beatrice Mani
|