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Speciale Carcere (Il Resto del Carlino, 7 febbraio 2006)
Dietro le sbarre un’Italia in ginocchio Mai tanti detenuti in cella: 20mila in più del previsto. I dati di un sistema al collasso. Sovraffollamento, morti sospette, polemiche sull’ex Cirielli e sull’amnistia. Il ministro Castelli chiede risorse e Giovanni Tinebra, capo del D.A.P., ammette la crisi. Ma in alcuni istituti di pena qualcosa sta cambiando. In meglio
di Marcella Cocchi
Le celle straripano. La questione è antica ma il problema è tutt’altro che risolto. Già l’anno scorso si parlava di sistema al collasso con 56.00o detenuti: ora sono 60.586 per circa 40mila posti. Un picco, fa sapere il sindacato autonomo di polizia penitenziari, mai raggiunto nella storia della Repubblica: fino a 6 o 7 persone per ambiente, letti a castello che rasentano il soffitto, il 18 per cento delle celle senza bagno e un educatore ogni 107 condannati. Nel braccio femminile di Rebibbia a fronte di 270 posti sono recluse 401 donne, con 16 bambini. A Bologna la capienza per gli uomini è di 450; in realtà ci sono 964 persone. A Padova invece di 100, i detenuti sono 285. In questi giorni di lutti dietro le sbarre (a Viterbo, Pozzuoli, Regina Coeli), non arrivano buone nuove, a cominciare dal caso Sofri. Si va dalle parole del ministro Roberto Castelli (“se nella Finanziaria non mi daranno le risorse che ho chiesto, qualcuno se ne assumerà la responsabilità”), al commento di alcuni esponenti politici dei Verdi in visita nei giorni scorsi a 30 case circondariali (“gironi infernali”), alla richiesta di spiegazioni da parte dell’associazione Antigone sulle morti dietro le sbarre. Domanda a cui il Guardasigilli risponde ricordando come nel 2004 i suicidi si siano ridotti dello 0,9 per cento. Inoltre, alle difficoltà di espellere i clandestini (nonostante la Bossi-Fini), si va sommando un altro problema: la carenza di personale socio-sanitario. Ma un aspetto positivo c’è. Secondo il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziario, il 24,7 per cento dei carcerati lavora. Il livello è lo stesso degli ultimi anni, ma la novità è che aumentano i lavoranti che non dipendono direttamente dall’Amministrazione penitenziaria. “Cresce – segnala il direttore del nuovo complesso romano di Rebibbia, Carmelo Cantone – l’offerta di lavoro che viene da interlocutori esterni, cooperative, consorzi, Srl”. Ma chi è il detenuto tipo italiano? I dati del Dap dicono che tra i 35 e i 45 anni (anche se è alta la percentuale di under 30) e la maggioranza è dentro per reati contro il patrimonio (30,8 per cento). Solo il 4,8 per cento del popolo delle celle è donna. Il 62 per cento è stato condannato a una pena che va dai 3 ai 6 anni e il 61 per cento ha ancora almeno 3 anni da scontare. Mediamente 30 detenuti su 100 sono extracomunitari. Eccola la fetta d’Italia che vive dietro le sbarre. Quella per cui Marco Pannella rilancia la questione dell’amnistia, quella che risentirà degli affetti dell’ex-Cirielli (nella parte in cui inasprisce le pene per i recidivi), quella che usufruisce di iniziative per la rieducazione, quella che però, nel frattempo, continua a moltiplicasi.
(sommario)
Notizie: nasce la federazione dei giornali galeottiComunicare le storie e le problematiche legate alle carceri ha senso anche per noi che stiamo fuori. Lo dicono i volontari nelle redazioni in cella e l’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna
di Marcella Cocchi
Chiusi nelle celle, insieme ai detenuti, ci sono tanti sogni, storie e, sì, notizie interessanti. È paradossale ma vero: proprio dalle carceri si può generare un’informazione corretta. Esistono da anni e sono più di 50 in Italia. Alcuni, come Carte Bollate o Ristretti Orizzonti, vengono perfino distribuiti nelle librerie. Sono i giornali ideati e realizzati nei penitenziari dai detenuti, con il supporto di voontari e operatori sociali. Finora, però, ognuna di queste pubblicazioni ha fatto i conti con la propria, altalenante, sorte. Nei giorni scorsi, invece, in un convegno svoltosi a Bologna e promosso dall’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, è stata posta la prima pietra per la creazione di una federazione che coordini i singoli giornali dei galeotti. “E nei prossimi due mesi – aggiunge il direttore dell’Associazione società In-formazione, Sergio Segio – nascerà uno statuto comune basato su due principi guida: la non-appartenenza politica e la volontà di creare una struttura assolutamente non a scopo di lucro”. Ci spera davvero in questo progetto il fondatore dell’associazione terroristica Prima Linea, lui che, avendo scontato 22 anni di detenzione, delle carceri ne sa qualcosa. E dei detenuti italiani dice: “Ascoltateli, hanno necessità di avere rapporti con l’esterno. Le prigioni non sono un mondo a parte ma riflettono tutti i disagi sociali dell’attualità”. Ma che cosa si può trovare in una pubblicazione realizzata in carcere? Lo spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, l’organo di informazione della Casa di Reclusione di Padova e primo giornale ideato dietro le sbarre: “Storie personali, articoli su temi che riguardano la detenzione (dal lavoro all’affettività), perfino approfondimenti su questioni come la legittima difesa. È vero, si tratta di persone che non hanno mai scritto o quasi, ma se e quando decidono di farlo si assumono le loro responsabilità e mettono da parte il vittimismo. Soprattutto raccontano stralci di vita vera”. I nomi: Ragazze Fuori, Ristretti Orizzonti, Uomini liberi, Innocenti evasioni… Basta leggere le testate di queste 50 e più pubblicazioni per avere un’idea dello spirito con cui questi giornali vengono realizzati. “La possibilità di raccontarsi – testimonia Carla Chiappini, giornalista e volontaria nella redazione del carcere di Piacenza, Le Novate – restituisce dignità al detenuto”. Per alcuni il vantaggio è concreto: nell’ufficio stampa del comune di Empoli, per esempio, lavora Patrizia Tellini, una ex-detenuta e redattrice di Ragazze Fuori, il giornale del penitenziario cittadino. Ma il punto è un altro. Comunicare il carcere ha senso anche per noi che siamo fuori, “perché – spiega Chiappini – ci aiuta a leggere i problemi di oggi: immigrazione, povertà, consumismo sfrenato…”. E ancora, commenta il presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, Gerardo Bombonato, “strutture fatiscenti, condizioni igienico sanitarie precarie, 60mila detenuti a fronte di 40mila posti, il costo di una persona in carcere (65mila euro l’anno), l’ex Cirielli che favorirà il ritorno in cella dei ‘soliti noti’… Il problema è comunicarle queste cose, anche con l’aiuto di una neonata Federazione per i giornali delle carceri. Un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica su questioni troppo spesso passate sotto silenzio”. (sommario) “Una luce c’è: il lavoro dei carcerati” Giovanni Tinebra: “Sovraffollamento, immigrazione, droga, povertà I penitenziari riflettono i malesseri della società”. Il capo del D.A.P. invita però a non sottovalutare le iniziative riabilitative. E spera in nuove risorse di Marcella Cocchi
Il sovraffollamento, certo. Giovanni Tinebra non nasconde qual è la prima spina nel fianco di un sistema carcerario considerato dai più al collasso. E non tralascia neppure l’evidenza: “Questo è un momento difficile”, commenta il numero uno del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria italiana. Ma, nei giorni in cui alcuni lutti hanno riacceso le polemiche sull’assistenza sanitaria e sulle condizioni igieniche delle celle, Tinebra invita anche a vedere i progressi, perché “le iniziative riabilitative per i detenuti – puntualizza – aumentano e non sono più solo di natura assistenziale, ma offrono una possibilità che più di ogni altra va a braccetto con la libertà: imparare un lavoro”.
Quali sono, a oggi, i principali problemi delle carceri italiane?La questione più evidente e preoccupante è senz’altro il sovraffollamento. I 204 istituti penitenziari ospitano 60.586 detenuti, la cui composizione sociale rispecchia la realtà dei nostri giorni: immigrazione, droga, povertà sono le cifre dominanti delle esistenze che affollano i nostri istituti. Non dobbiamo mai dimenticare che il carcere non è un mondo a parte ma riflette le inquietudini, i malesseri e i bisogni della società civile. L’impegno dell’Amministrazione penitenziaria consiste nel garantire la legalità e il rispetto per le condizioni della popolazione detenuta, anche in momenti difficili come ora. E questo avviene grazie al personale (direttori, Polizia penitenziaria, operatori sociali e sanitari) e all’integrazione – che giudico soddisfacente – con le strutture del territorio e con il mondo del volontariato.
Quali, invece, gli ostacoli che sono stati rimossi rispetto al passato e le situazioni problematiche in via di risoluzione? Il miglioramento del sistema penitenziario non può prescindere dalla realizzazione di strutture adeguatamente attrezzate. Sono convinto che talvolta l’ostacolo sia di carattere, diciamo, culturale, di chi si ostina a non capire che un carcere efficiente, in grado di offrire nuove opportunità di vita ai detenuti, contribuisce a innalzare il livello di sicurezza perché riduce il rischio di recidiva. È importante, ad esempio, la legge Smuraglia, che agevola l’ingresso delle aziende pubbliche e private in carcere per la formazione professionale e per offrire lavoro ai detenuti.
In che misura gli istituti penitenziari nostrani rispondono correttamente alle funzioni penale e riabilitativa? Per raggiungere questi due obiettivi serve organizzazione e ancora organizzazione. Ecco perché, negli ultimi anni, abbiamo favorito interventi di ristrutturazione degli istituti, ad esempio dotando anche le vecchie strutture di laboratori e spazi per lo svolgimento di attività trattamentali. Abbiamo inaugurato strutture di eccellenza e sperimentato sistemi di automazione diretti a ottimizzare l’impiego di risorse umane nel controllo. E molti altri progetti sono in dirittura d’arrivo.
Considerando sempre i due aspetti, punitivo e rieducativo, vuole citare alcuni esempi significativi? “Parlerei della sicurezza e della rieducazione come due facce della stessa medaglia. Garantire la sicurezza significa assicurare il rispetto della legalità, condizione imprescindibile per attuare la rieducazione. La punizione, infatti, è un aspetto della pena che non esiste come fine a se stesso, perché la nostra Costituzione, con l’articolo 27, ha indicato la direzione giusta cui deve tendere la pena, ossia alla rieducazione del condannato. Gli esempi ci sono dati dalle tante realtà positive che non sempre sono adeguatamente messe in luce, perché si preferisce attirare l’attenzione sui problemi del sistema. Perché non parlare, ad esempio, dei poli universitari che consentono a tanti detenuti di conseguire il diploma di laurea e attivati in molti istituti, del recupero ambientale (pulizie dei parchi naturali, delle strade, raccolta differenziata di rifiuti), delle molteplici attività teatrali, delle sartorie di alta moda, che lavorano anche per importanti teatri, come quelle attivate a San Vittore o a Venezia. Gli esempi, insomma, sono tanti e meritano di essere approfonditi, anche per dare fiducia a quelle persone detenute che si impegnano per ricostruire, in positivo, la propria esistenza.
Il fatto è che, recentemente, ci sono stati casi di morte tra le sbarre e lo stesse ministro Castelli ha ribadito la “difficile situazione delle carceri”, lamentando che servono risorse in Finanziaria. Ammesso che lei concordi con questa impostazione, a quali settori andrebbero destinati i fondi? Condivido totalmente la preoccupazione del Guardasigilli e il senso di responsabilità delle sue dichiarazioni. Maggiori risorse finanziarie sono indispensabili per continuare l’adeguamento delle strutture edilizie, per incentivare le attività trattamentali, per adeguare l’organico del personale di Polizia penitenziaria alle reali esigenze.
Pannella e la manifestazione dei detenuti. Cosa ne pensa? Torna fuori ancora una volta la questione dell’amnistia… Il problema dell’amnistia va affrontato in sede politica e richiede una larga convergenza delle parti.
Proprio perché il sovraffollamento è l’annoso problema degli istituti penitenziari nostrani, cosa risponde a chi dice che l’ex Cirielli (nella parte in cui inasprisce le pene nei confronti dei recidivi) provocherebbe un ulteriore aumento della popolazione detenuta e un accanimento sui “soliti noti”? Al momento non credo che si possano fare previsioni certe. Aspettiamo gli sviluppi della questione per poterci pronunciare.
Fonte: ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informatico del Dap
La Costituzione dice che…
Art. 25 Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
Art. 27 La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra. (sommario) Le faticose vie per recuperare una vita: Bollate, l’istituto modello Studio, sport, attività ricreative e manuali. Perfino regole più umane nei colloqui Qui, più della metà dei novecento reclusi fa un percorso che si avvicina molto al principio costituzionale della rieducazione
di Roberta Rampini
Aperto nel dicembre 2000 dopo quindici anni di attesa, indicato dagli addetti ai lavori come un istituto di pena “pilota” o “sperimentale” per il tipo di trattamento verso il detenuto, il carcere di Bollate, alle porte di Milano, in questi anni ha dovuto fare i conti con il problema dello sfollamento della Casa circondariale di San Vittore, ma non ha mai perso di vista la sua mission: favorire il recupero e il reinserimento del detenuto nella società. “La sperimentazione in corso a Bollate non è altro che il doveroso tentativo di attuare l’articolo 27 della Costituzione, che prevede la rieducazione del condannato. Nonostante le difficoltà – spiega la direttrice Lucia Castellano, 40 anni – credo sia un esempio da seguire. Questo carcere à nato con l’obiettivo istituzionale di aiutare i detenuti che hanno scelto di fare un percorso di recupero e reinserimento socio-educativo. In corso d’opera questo fine si e andato modificando. È chiaro che noi non potevamo ‘fare il salotto’ mentre l’altro penitenziario cittadino straripava di reclusi. Per questo abbiamo dovuto dedicare due reparti da 200 posti l’uno agli sfollati di San Vittore e con loro i progetti di reinserimento non si possono realizzare”. Le sezioni nel carcere bollatese sono cinque, per una capienza di 970 posti: tre con detenuti a custodia attenuata, dove le porte sono quasi tutte aperte, nella seconda e quarta sezione ci sono gli sfollati di San Vittore. Complessivamente ci sono 900 detenuti: 400 sono quelli che arrivano dalla Casa circondariale di San Vittore e sono detenuti a fine pena, che devono restare dietro le sbarre per un periodo che va da un giorno a un anno, gli altri 500 sono quelli sui quali viene sperimentato il progetto Bollate, quello che più si avvicina al principio costituzionale di rieducazione. “Nonostante le difficoltà a Bollate l’aspetto del recupero del condannato prevale su quello punitivo. Qui facciamo tante attività lavorative, i detenuti rispondono molto bene – aggiunge – il lavoro piace a tutti: noi ci crediamo e il progetto Bollate sta andando avanti anche se il numero di reclusi coinvolti è inferiore rispetto al previsto”. La Casa di reclusione di Bollate è la prima in Italia ad ospitare una ‘Cisco Networking Academy’ per la formazione professionale dei detenuti nel settore delle nuove tecnologie. È stata la prima ad ospitare uno sportello delle Poste italiane. Lavoro, studio, sport, attività ricreative e teatrali fanno parte della giornata tipo dei detenuti. Laboratori di formazione professionale, una biblioteca con l5mila volumi, la falegnameria e le serre, la sala giochi, fanno da cornice alle celle. Tra gli aspetti nuovi su cui Bollate ha avviato una riflessione c’é il tema dell’affettività, dei sentimenti, del rapporto con la famiglia che resta fuori dal carcere, perché se è vero che il carcere divide le persone é altrettanto vero che può creare le condizioni per mantenere gli affetti. “Per esempio – continua la direttrice – abbiamo un monolocale dove i detenuti possono stare una mezza giornata, sfruttando la norma sui colloqui che dice che il direttore in eccezionali circostanze può concedere più colloqui. E i condannati, insieme ai familiari, possono cucinare, giocare con i loro bambini e simulare un ambiente domestico. Ci sono delle telecamere, certo, perché la vigilanza é obbligatoria, però non sono visibili all’occhio dei bambini”. C’é anche una ludoteca allestita dal Comitato per il Telefono Azzurro, aperta 6 giorni alla settimana: consente ai detenuti di incontrare i figli e trascorrere qualche ora con loro, lontano dalle celle e dal freddo ambiente del carcere. E così, tra luci e ombre, Bollate si pone nel panorama dei penitenziari italiani come un esempio da seguire, come un tentativo concreto per favorire il recupero di persone che hanno commesso reati ma alle quali è riconosciuto il diritto a essere rieducati. “Anche le altre case di pena dovrebbero essere gestite come il nostro – conclude Castellano – cioè basandosi su un rapporto di fiducia tra detenuto e personale. Forse un regime di detenzione più aperto può aiutare i reclusi, ma è anche evidente che è difficile applicare questo principio ai detenuti di San Vittore che sono in attesa di essere giudicati e vivono in condizioni molto diverse, senza progettualità”. Ecco i numeri del ‘carcere nuovo’: oggi ci sono 4 cooperative sociali costituite dai detenuti che prendono commesse di lavoro dalle aziende della zona, 50 che tutti i giorni escono per andare al lavoro e rientrano la sera. I condannati che complessivamente lavorano sono circa 500. (sommario)
Venezia: “Così sono utili per la città” Un orto, un laboratorio di cosmetica, addirittura una lavanderia che lavora per ristoranti e alberghi della Serenissima. Il carcere Giudecca è all’avanguardia nelle attività per le donne costrette in cella. Anche se, contestualizza la direttrice dei tre istituti penitenziari di Venezia, Gabriella Straffi, “sono più facili le iniziative in un braccio femminile, dove i problemi di sicurezza sono inferiori rispetto al settore maschile”. Resta il fatto che qui una decina di detenute in regime di semilibertà si adoperano nella pulizia della città o negli imbarcadero, mentre alcune decine delle altre lavorano dietro le sbarre. “La novità – spiega Straffi – è che queste condannate hanno usufruito di assunzioni dirette da parte di cooperative esterne e possono sperimentare, quindi, un rapporto di lavoro vero. Ed è proprio grazie a iniziative come queste che il problema del sovraffollamento diventa quasi sopportabile. Ma servono più risorse umane”. (sommario)
Reggio Emilia: Laureati con l’e-learning Detenuti con la corona d’alloro grazie alle nuove tecnologie. Accade a Reggio Emilia dove verrà data occasione ai carcerati di seguire le lezioni accademiche attraverso l’e-learning e, quindi, di conseguire la laurea. È questo l’obiettivo della convenzione firmata un mese fa tra l’università di Modena e Reggio Emilia e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Venti detenuti della casa circondariale di Reggio Emilia avranno così la possibilità di frequentare a distanza i corsi della triennale in Comunicazione e marketing. Oltre all’e-learning, la convenzione prevede interventi culturali a favore dei reclusi da parte di docenti e l’accoglimento all’interno del penitenziario di studenti e laureati tirocinanti. “Iniziative come queste – commenta il capo del Dap, Giovanni Tinebra – confermano l’idea di carcere come luogo di sperimentazione e speranza”. (sommario)
Volterra (PI): Il teatro delle contraddizioni Esiste dal 1988 ed è la prima compagnia teatrale stabile che si è formata all’interno di un carcere. Il penitenziario è quello di Volterra e gli attori, al momento 45 detenuti, sono i protagonisti della Compagnia della fortezza. Una realtà, quella del teatro dietro le sbarre, che da Volterra è stata esportata in tutta Italia fino a contare un centinaio di esperienze in diverse case circondariali. “La novità – precisa il regista della Compagnia della fortezza, Armando Punzo – è che da quest’anno i carcerati che usufruiscono di permessi o sono in regime di semilibertà hanno potuto uscire per recitare. Contiamo già 40 repliche, la più importante delle quali è lo spettacolo estivo nell’ambito di Volterra teatro”. Punzo, che da 18 anni addestra gli attori galeotti, ricorda il valore di quest’esperienza non solo per i detenuti ma per l’esterno: “Nelle celle si sommano tutte le contraddizioni di una società. Comunicarle vuol dire anche fare cultura”. (sommario)
Roma: Quelle ore trascorse in cucina Nel nuovo complesso di Rebibbia non mancano certo i problemi: da circa 6 anni si contano 1600 detenuti mentre la capienza ottimale sarebbe di 1080. Ma le iniziative per il lavoro dei galeotti non mancano. E ciò che più conta è che si stanno intensificando le offerte impiegatizie provenienti dall’esterno. “Nell’ultimo periodo – conferma il direttore del penitenziario, Carmelo Cantone – siamo passati da un solo datore di lavoro a 8 interlocutori, tra cooperative, consorzi, Srl, che assumono direttamente alcuni condannati per conto di committenti pubblici e privati”. Una formula molto più utile ai fini di un reale reinserimento del detenuto e che favorisce perfino il datore di lavoro, concedendogli sgravi fiscali. In più, aggiunge Cantone, “c’è l’aspetto della formazione professionale. Il nuovo complesso di Rebibbia è tra i 7 penitenziari italiani che hanno la cucina dei detenuti”. (sommario)
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