Rassegna stampa 20 febbraio

 

Salerno: spara e uccide ladro; arrestato, non è legittima difesa...

 

Il Gazzettino, 20 febbraio 2006

 

A tentare il colpo durante la notte erano in tre, nel salernitano: pensavano che rivendere quelle cickas ornamentali avrebbe fruttato parecchi soldi, forse qualche centinaia di euro. L’epilogo, però, è drammatico: il proprietario delle piante e del bar-tabacchi, sulla strada, si affaccia all’uscio, e spara tre colpi di fucile, uccidendo un giovane di 28 anni, Gerardo Coralluzzo, di Montecorvino Rovella. Omicidio volontario è l’accusa per l’uomo, che finisce subito in manette, arrestato dai carabinieri di Battipaglia: la nuova legge sulla legittima difesa non prevede alcun caso simile a questo, spiegano gli inquirenti, e Domenico Sabatino, 25 anni, di Eboli, finisce nel carcere di Salerno. Il giovane, poi rimasto ucciso, era giunto a bordo di una Fiat Panda, assieme ad altri due coetanei, nei pressi della litoranea al confine tra i comuni di Eboli e Battipaglia, e si accingeva ad asportare dalle aiuole antistanti l’ingresso del Bar-tabacchi di proprietà di Domenico Sabatino tre piantine cickas.

Pur essendo notte inoltrata, il proprietario era ancora all’interno del locale: dove sono in corso dei lavori di ristrutturazione, in vista della inaugurazione prevista tra qualche giorno. Quando si è accorto che i tre giovani stavano espiantando le palme nane, Sabatino non ha esitato a imbracciare il fucile calibro 12, caricato a pallettoni e regolarmente detenuto, e a fare fuoco. Tre colpi, che hanno raggiunto il 28enne al torace uccidendolo. Soccorso da uno dei compagni - l’altro era già fuggito - Coralluzzo è stato trasportato a casa, a Montecorvino Rovella, in auto. I genitori, entrambi pensionati, hanno immediatamente segnalato l’omicidio al 112. La ricostruzione delle ultime ore della vittima ha fatto emergere che, dopo una serata trascorsa con gli amici, la combriccola aveva deciso di rubare quelle piante ornamentali. Individuati, i complici dell’ucciso hanno collaborato a ricostruire la tragica notte: i due giovani, entrambi di Montecorvino Rovella, saranno denunciati per tentato furto.

Carabiniere ucciso: Ass. Papa Giovanni XXIII; puntare al recupero...

 

Ansa, 20 febbraio 2006

 

L’Associazione Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi interviene con una nota di Mauro Cavicchioli, responsabile servizio carcere, sulle polemiche scaturite dall’omicidio del carabiniere compiuto dal detenuto in permesso premio Antonio Dorio, ucciso a sua volte nella sparatoria, per difendere la legge che coniuga giustizia a misericordia e punta alla rieducazione dei condannati. "Giuliano, Antonio, Franco, Mustaphà... tanti, tantissimi sono quelli che valendosi della legge e grazie alla presa di responsabilità di un giudice - scrive Cavicchioli - hanno usufruito della possibilità che desse loro opportunità di recuperare gli sbagli commessi inserendosi proficuamente nella società. Il sì detto dal giudice è un si che si avvale del parere di assistenti sociali, della polizia penitenziaria, degli educatori del carcere, del direttore del carcere. È un sì condiviso che, sicuramente senza annullarli, riduce di molto i rischi di sbagliare. Eppure, ogni scelta ed ogni responsabilità prevede anche dal migliore uno sbaglio. Tanti medici, bravissimi, professionisti, pensando di ben operare, si sono trovati a sbagliare". "Sono rimasto colpito dall’intervento di Antonio, un ex detenuto da noi accolto dopo 16 anni di carcere e che durante un’assemblea disse amareggiato: "Perché tanto si parla di Angelo Izzo (uno degli autori dello stupro e del massacro del Circeo, ndr), ma nessuno parla di me, del miracolo della mia vita, dei passi che ho fatto e del calore di tanti che mi stanno vicino. Perché non si parla degli oltre 50.000 che usufruiscono di misure alternative?".

"La Papa Giovanni XXIII ha attualmente circa 250 detenuti che svolgono percorsi educativi - scrive ancora Cavicchioli - Ci chiediamo di alcuni di loro che cosa sarebbe stato se fossero stati lasciati in carcere. Siamo profondamente addolorati per la morte innocente del carabiniere che svolgendo il suo lavoro onestamente è rimasto vittima. Penso a sua madre e ai suoi famigliari che piangono per il loro caro. Penso ai tanti di loro che tutti i giorni rischiano la vita per mettere ordine e sicurezza sulle nostre strade. Penso anche alla madre del detenuto morto. Penso però anche al giudice di sorveglianza Luca Ghedini che ha dichiarato di assumersi la responsabilità. Penso a tutti coloro che si sforzano per il recupero integrale dei detenuti. In questi terribili momenti non dobbiamo degenerare puntando inutilmente il dito: è il momento del silenzio, della preghiera e soprattutto e sempre più della collaborazione. Tutte le forze in campo, pubbliche e private devono sinergicamente collaborare affinchè sempre più possa emergere misericordia e giustizia".

Libri: una "domandina" scomoda, sul carcere e su chi ci vive...

 

Avvenire, 20 febbraio 2006

 

Daniela de Robert, giornalista e volontaria dietro le sbarre, narra di detenuti che, per sopravvivere "dentro", si escludono dal mondo. Tecnicamente si chiama "Modulario G.G.-A.P.-120-mod. 393 Amm. Penit." ma è detto "domandina". È il modulo che il carcerato deve compilare, qualunque cosa desideri: telefonare, incontrare un volontario o il cappellano, far uscire un orsacchiotto di peluche per il figlio, parlare con un magistrato, ottenere il certificato di tossicodipendenza, comperare un francobollo. La "domandina" è un elemento centrale nella vita del carcere, e per questo torna più volte nella narrazione che ne fa Daniela de Robert nel suo libro "Sembrano proprio come noi" (Bollati Boringhieri, euro 15).

È la metafora della condizione di solitudine, di insicurezza, di sospensione dalla vita in cui è immerso chi sta dietro le sbarre. Tutto dipende dalla "domandina", che una volta compilata seguirà un suo percorso a tappe lungo il quale, come in un gioco dell’oca, potrà bloccarsi definitivamente, tornare indietro, stare ferma un giro. E intanto, magari la madre malata che si voleva andare a trovare è morta, il figlio ha compiuto gli anni senza regalo, il lavoro grazie al quale si voleva chiedere la semilibertà non c’è più. La "domandina" è anche la metafora della deresponsabilizzazione cui ogni detenuto è soggetto in carcere: trattato come un bambino che può solo chiedere e aspettare la decisione di qualcun altro, sperando che sia positiva. Il che, tra l’altro, è assai poco in linea con l’idea della pena come percorso di riabilitazione: "Dove si chiede alle persone di cambiare, di scoprire nuovi valori comuni, come il rispetto e la solidarietà, nessuno spazio è riservato alla responsabilità personale e all’autogestione dei detenuti".

Daniela de Robert è una giornalista, e il suo libro è un’inchiesta intelligente sulle carceri italiane, sovraffollate tanto che d’estate è impossibile aprire le finestre perché i letti a castello lo impediscono; sovraccaricate di burocrazia e di regole incomprensibili; povere di personale, soprattutto di quegli educatori e psicologi che tanto potrebbero fare per impostare reali percorsi di recupero.

Ma de Robert è anche, da vent’anni, una volontaria dentro il carcere, e in questa inchiesta mette una conoscenza delle persone e delle loro storie che la trasforma in una specie di biografia interiore di un’istituzione impenetrabile per i più. Quei "più" convinti che in carcere si sta come in un albergo, come in vacanza.

Per adattarsi al carcere, paradossalmente, molti, hanno perso la capacità di affrontare il mondo: l’autrice racconta di crisi di panico al primo permesso premio, di gente che ha chiesto di rientrare, del tasso di suicidi che si innalza tra chi sta per uscire, delle esperienze di profonda emarginazione che vive chi esce e si scontra non solo con la difficoltà di trovare una casa e un lavoro, ma anche e soprattutto di convivere con lo stigma di condannato.

Naturalmente de Robert ci dice anche che non tutte le carceri sono uguali, che ce ne sono alcune in cui il tempo delle persone rinchiuse esce dal vuoto angoscioso e si riempie di lavoro, studio, attività espressive. Che ci sono volontari sensibili, educatori motivati, psicologi seri, direttori lungimiranti. Ma ci sono anche istituti in cui nessun volontario ha il permesso per entrare, o magari ce n’è uno solo per tutto l’istituto. E che c’è, dentro come fuori, gente buona e gente cattiva, ma soprattutto gente talmente ferita dalla vita che non conosce modo di rapportarsi con le persone. Eppure, a guardarli bene, "sembrano proprio come noi".

Mostre: Davide Ferrario ha fotografato le celle di San Vittore…

 

Corriere della Sera, 20 febbraio 2006

 

Durante l’estate del 2002 la direzione del carcere di San Vittore decide di ristrutturare il quarto e quinto raggio. Per questo vengono trasferiti gli 800 detenuti che li occupano. Le celle restano vuote e abbandonate. Davide Ferrario vi entra nel mese di settembre con il permesso della direzione. Da tempo frequenta San Vittore; vi ha tenuto un corso di montaggio e ripresa televisiva, conosce le persone e gli spazi. Ha deciso di fotografare le tracce lasciate dagli ex abitanti. Inquadra le pareti, i muri, su cui sono incollate immagini, biglietti, vignette, vecchi pacchetti di sigarette. Gli interessa conservare una testimonianza, salvare le tracce: graffiti, scritte, messaggi, disegni. Il suo è una sorta di palinsesto del carcere, l’immagine di un grande manoscritto dilavato e scrostato su cui, in tempi successivi, sono stati tracciati molteplici segni che si sovrappongono gli uni sugli altri, in modo caotico, confuso, ma pur sempre intelligibile. Centoventi anni prima un criminologo, Cesare Lombroso, positivista e scienziato, aveva registrato in un proprio studio la frenetica e ossessiva attività scrittoria dei carcerati. "Le muraglie, dicono i proverbi, sono le carte dei pazzi: i graffiti di Pompei sono i veri tatuaggi delle muraglie", scriveva nella presentazione del libro di un autore francese pubblicato nel 1881 e dedicato ai tatuaggi.

Per Lombroso tatuare il proprio corpo e tracciare graffiti sui muri sono due attività simili, pratiche comuni, sostiene, agli esordi stessi della civiltà che riaffioravano, per effetto dell’atavismo, nei criminali e nei pazzi. I carcerati scrivono incessantemente. Sono date, saluti, imprecazioni, bestemmie, lodi, lamentele, implorazioni, poesie, idee politiche, autobiografie, ricordi, memorie, parole crociate, rebus, sciarade, ma anche disegni, mappe, scarabocchi. Usano tutti gli strumenti a disposizione, dalla matita al chiodo, dal carbone al fiammifero.

Nelle fotografie scattate da Ferrario, diventate un libro e insieme una mostra (Foto da galera), i carcerati utilizzano carta e colla; lasciano sulle superfici verticali delle loro celle memorie di sé mediante collages e décollages, alla maniera di Mimmo Rotella: strappi, sovrapposizioni, mescolanze; si tratta di una sorta di segno informe - abietto, avrebbe scritto Bataille - con cui rappresentano la loro condizione detentiva, l’infame realtà del carcere. Rispetto all’epoca di Lombroso le pareti del carcere di Foto da galera parlano non solo attraverso il segno calligrafico, spesso incerto e infantile, ma anche mediante il gran mondo delle immagini: fotografie ritagliate dai giornali illustrati, poster, contenitori di cibi e vivande, lettere ciclostilate e fotocopiate. L’universo tipografico e il villaggio globale dei mass media hanno invaso anche la morta gora della prigione divorandone l’immaginario visivo. Ma cosa sono esattamente le fotografie scattate da Ferrario? Non documenti, anche se descrivono una realtà "altra"; non assomigliano ai reperti raccolti da Lombroso, destinati alle bacheche del suo museo criminale. E neppure si tratta di un racconto, seppur visivo, della raccolta di testimonianze di vita, nonostante i micro-racconti che l’autore ha unito alle foto, quasi percepisse che da sole non bastassero. L’occhio di Ferrario è ben allenato; è l’occhio di un regista che quando inquadra e scatta ha già in mente molte immagini fotografiche, cinematografiche, artistiche. Le fotografie esposte al museo della fotografia di Cinisello Balsamo sono degli oggetti estetici.

Il loro autore si è soffermato sui dettagli, ha creato dei piccoli tableau, assai simili a quelli prodotti dagli artisti visivi all’inizio del XX secolo. Dada in carcere? Probabilmente sì. In Per fare un poema dadaista Tristan Tzara indicava ai suoi lettori la ricetta: "Prendere un giornale / Prendere un paio di forbici / Scegliere nel giornale un articolo della stessa lunghezza che contate di dare alla vostra poesia…". Il testo, dedicato a Duchamp, fornisce le istruzioni per produrre, con l’aiuto del caso e dei ritagli, una poesia; ma la formula può servire anche per fabbricare un’opera visiva, alla maniera di Picabia, grande cerimoniere dell’arte dadaista, l’unico, o quasi, che in quel movimento "senza opere" ne ha prodotte diverse, tutte geniali e innovative. Mentre Ferrario mostrava le sue immagini cariche di dolore e sofferenza, ma non per questo meno "belle" (anzi probabilmente diventate tali attraverso il suo occhio di vetro), al Centre Pompidou di Parigi si inaugurava la più interessante mostra d’arte del 2005, Dada, a cura di Laurent Le Bon. All’ultimo piano del Beaubourg, in un allestimento intelligente e inventivo, erano esposti i manifesti, i foglietti, le lettere, i proclami, le fotografie, i collage, e anche i rari quadri di questo movimento moderno, il primo che ha avuto il coraggio di farla finita con la tradizione, interrompendo, come ha sottolineato di recente Gillo Dorfles, il rapporto col passato, ancora decisivo per il futurismo. Il Dada è il movimento più sovversivo, e proprio per questo più caduco, dell’intera storia dell’arte mondiale. Tutto quello che è venuto dopo, nolente o volente, non si può che guardare attraverso di lui. In una conversazione radiofonica Ferrario ha raccontato di aver portato il suo libro in carcere e di averlo mostrato agli ex abitanti del quarto e quinto raggio. Dopo averlo sfogliato con attenzione, un detenuto ha osservato: "È come se vedessi quei muri per la prima volta". Questo è esattamente l’effetto che il dadaismo voleva provocare negli attoniti spettatori delle sue serate, nei visitatori delle provocatorie esposizioni degli Anni Dieci e Venti.

Scrivendo nel 1926 di Man Ray, il padre, insieme a Duchamp, della fotografia rivoluzionaria del XX secolo, Tzara afferma: "Quando tutto ciò che si chiama arte fu coperto di reumatismi, il fotografo accese le migliaia di candele della sua lampada, e la carta sensibile assorbì gradualmente il nero ritagliato da qualche oggetto usuale". Il dadaismo, come ci spiega Valerio Magrelli in un brillante saggio, Profilo del dadaismo, ha mutato il nostro sguardo sul mondo con un doppio movimento: da un lato ha detronizzato l’arte dal suo piedistallo, mettendo i baffi alla Gioconda ed esponendo un orinatoio in galleria, e dall’altro - ed è l’effetto più duraturo e dirompente -ha estetizzato la realtà, tutta la realtà quotidiana. Il gusto per il decrepito o per l’informe, per l’ignobile o per il consueto, ci spinge a guardare in modo differente il muro scrostato di un carcere o di una vecchia strada del centro, i soprammobili di plastica o il taglio in una tela. Dopo il Dada gli oggetti si caricano di valenze estetiche indipendentemente dalla volontà di chi li ha prodotti, e finiscono per parlare la lingua dell’arte. Tuttavia l’occhio estetico di Ferrario, la sua capacità di guardare, non è neutrale. Egli ha deliberatamente scelto un luogo di pena e di dolore per raccontare con i mezzi della sua arte (è regista e fotografo, ma anche scrittore e saggista) una questione che gli preme, anche politicamente. Il problema espulso dalla porta rientra dalla finestra: la lettura storica si affianca necessariamente alla lettura estetica, come sottolinea Silvana Turzio in un volume collettivo dedicato a Lombroso e la fotografia. Possiamo verificarlo in un’altra mostra, chiusa da poco, ma di cui resta il bellissimo catalogo: Il volto della follia. Cent’anni di immagini del dolore. Sandro Parmiggiani ha raccolto a Reggio Emilia, a Palazzo Magnani, le fotografie dedicate ai manicomi, agli ospedali psichiatrici. Nella città emiliana è esistito, sino a qualche decennio fa, uno dei più antichi asili italiani per folli e dementi, il San Lazzaro, dove è custodito un archivio fotografico oltre che di carta. Partendo dai ritratti di Emilio Poli, ex guardarobiere del reclusorio, alla fine dell’Ottocento, si arriva alle fotografie a colori di Adam Broomberg e Oliver Chanarin scattate di recente nell’ospedale psichiatrico dell’Avana. Si tratta di una mostra unica nel suo genere, che ripercorre le vicende di una questione culminata, alla fine degli Anni Sessanta, nel tentativo di Franco Basaglia di far affrontare alla società dei "normali" il problema della follia: "La follia - scriveva - è una condizione umana"; e subito aggiungeva: "In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia". Le foto esposte sono struggenti e bellissime. Bruno Cattani ci rende con il buio l’immagine dei corridoi del manicomio come di un pozzo profondo, tutto in orizzontale, mentre Chien-Chi Chang, un fotografo cinese, ci mostra in poche istantanee di uomini incatenati il senso di un ordine che si frantuma anche in Oriente.

Andres Petersen, grande fotografo svedese, ci fornisce un’immagine scomposta, inquieta perché sfumata e mossa, quasi onirica, della follia, rovesciando la chiave documentaria e realista di due grandi fotografi italiani, Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, che con i loro scatti nel 1969 scrissero una definitiva critica del sistema manicomiale italiano. O ancora, John Darwell ci mostra il disfacimento dello spazio del reclusorio con tocco poetico. Guardando queste foto non si può fare a meno di pensare che sono belle, che si tratta di "oggetti artistici" che parlano, come nel caso delle immagini di Ferrario, la doppia lingua dell’arte e della storia dolorosa degli uomini. Dividere questi due aspetti è davvero difficile. Dopo il Dada il nostro sguardo non può che essere scisso. È faticoso, ma certamente più ricco.

Vicenza: una rete di servizi per combattere l’esclusione sociale

 

Redattore sociale, 20 febbraio 2006

 

Nasce nel vicentino una rete provinciale per favorire l’inclusione sociale di persone in situazione di povertà estrema. La Caritas diocesana e cinque comuni in collaborazione con l’amministrazione provinciale, forniranno una serie di servizi "mirato a favorire percorsi di reinserimento sociale di persone che hanno rotto tutti i legami con una normale vita sociale, persone prive delle risorse per soddisfare anche esigenze basilari come l’alimentazione, la casa, l’igiene personale, il lavoro". L’impegno finanziario maggiore (oltre 3 milioni e mezzo di euro) è sostenuto dalla Fondazione Cariverona, e, insieme ad una minoritaria partecipazione economica dei comuni coinvolti, permetterà la costruzione o la ristrutturazione, nei cinque comuni di Vicenza, Arzignano, Schio, Bassano e Valdagno, di edifici dove sarà possibile offrire servizi essenziali come mense, ricoveri notturni, segretariato sociale, laboratori occupazionali a bassa soglia, docce e lavanderie. L’intervento della Fondazione permetterà inoltre di avviare questi servizi e di sostenerne, assieme ai comuni interessati, i costi di gestione per i primi due anni di attività.

Rete, territorio, inclusione, sociale e volontariato, le parole guida del progetto. "La rete ha preso la forma del tavolo di lavoro fra tutti i protagonisti, col fine di ottimizzare le risorse, impedire sovrapposizioni o la settorializzazione delle risposte. Una rete che significa coordinamento sia su base provinciale, ma anche locale. - spiegano i promotori - Infatti i cinque comuni capofila sono chiamati localmente ad aggregare attorno a loro tutti i comuni della zona e i servizi Ulss di attinenza territoriale. Il territorio è il punto di osservazione per monitorare i bisogni, verificarne l’evoluzione, tentare delle risposte ed è previsto in tal senso anche l’avvio di un osservatorio provinciale sulle povertà estreme con la fattiva titolarità o partecipazione dell’Amministrazione Provinciale. L’inclusione è invece il percorso che permette alle persone escluse di riacquisire diritti, di vedersi restituita una cittadinanza negata attraverso percorsi di inclusione per loro sostenibili. Basti pensare alle persone senza dimora, fra cui molti immigrati che con la perdita del lavoro entrano immediatamente in una situazione di grave precarietà, o a ex carcerati che pur avendo scontato la pena si ritrovano, usciti dal carcere, privi di riferimenti parentali e abitativi.

O, ancora, basti pensare ad un tossicodipendente che magari interrompendo un percorso terapeutico troverà un luogo che lo aiuta a rimotivarsi per riprendere l’itinerario riabilitativo. Il sociale in questo contesto significa recupero del vivere civile e reinserimento nella rete di relazioni, oltreché garantire due effetti indotti nell’ambito della sicurezza e della sanità pubblica. Tutto ciò non offrendo un assistenzialismo fine a se stesso, ma impegnano le singole persone in percorsi di un sostenibile reinserimento. Il volontariato, in quest’ottica, diventa titolare di partecipazione e non mero "fornitore" di servizi a basso costo ai comuni, titolari della gestione dei cinque poli. È prevista infatti la presenza del volontariato Caritas, previa la stipula con i singoli enti locali di un preciso protocollo di intesa".

"L’idea di un coordinamento provinciale sul sociale era stata lanciata ancora nel 2003 dalla Caritas diocesana – spiega il suo direttore, don Giovanni Sandonà – ed era stata raccolta dalla Provincia all’interno del progetto "Vicenza per il Terzo Millennio". A questo proposito l’Assessorato Provinciale ai Servizi Sociali aveva promosso il tavolo provinciale sui bisogni sociali, invitando le Ulss, i presidenti delle Conferenze dei Sindaci, la Caritas vicentina e alcuni comuni. Primo argomento affrontato da quel tavolo furono proprio le emergenze sociali. Grazie alla indispensabile collaborazione della Provincia si è passati così dall’analisi del bisogno al progetto e, quando questo ha preso forma, la Caritas diocesana su richiesta esplicita della Fondazione Cariverona se ne è fatta carico, assumendo il ruolo impegnativo di promotore e garante della qualità del servizio, nonché quello di formatore e coordinatore dei volontari che saranno attivi nei cinque poli con il coinvolgimento dei rispettivi Vicariati".

Gli interventi che saranno realizzati nei prossimi due anni riguardano l’ampliamento dell’albergo cittadino a Vicenza, la ristrutturazione e l’allargamento dell’asilo notturno acquisito dai frati minori cappuccini a Bassano, l’ampliamento della struttura già esistente a Valdagno, il potenziamento dei servizi a Schio che comporta la ristrutturazione di un immobile della parrocchia di San Pietro e la realizzazione di un nuovo centro presso la Casa Dalli Cani ad Arzignano. Attorno a questi tutti i comuni del vicentino, in sinergia con i servizi sociali delle Ulss, si impegneranno a rendere sempre più capillare ed efficace la rete di inclusione sociale. Per questo la Fondazione nei primi due anni garantirà perlopiù anche le spese di gestione: complessivamente si passerà da 75 a 109 posti letto di prima emergenza e da 16 a 160 posti mensa, oltre ai servizi docce, lavanderia, laboratori occupazionali e segretariato sociale.

Svizzera: carceri affollate, per la prima volta oltre 6.000 detenuti

 

Ticino on-line, 20 febbraio 2006

 

I risultati dell’indagine: 3.771 carcerati in esecuzione di pene (esecuzione anticipata compresa), 1.877 in detenzione preventiva, 368 in attesa di espulsione, respingimento o estradizione e 95 detenuti per altri motivi (arresti di polizia, privazione della libertà a titolo preventivo). Stabile nel corso degli ultimi cinque anni la percentuale delle donne incarcerate, che rappresentano il 5 per cento della popolazione carceraria. Il 71 per cento dei detenuti è di nazionalità straniera; se non si conteggiano i prevenuti in attesa di estradizione o di espulsione la percentuale si abbassa al 65 per cento. In questi ultimi anni, la suddivisione delle persone incarcerate tra le diverse forme di detenzione è rimasta pressoché invariata.

Dal 2002 i carceri svizzeri registrano un forte aumento dei detenuti, raggiungendo al 7 settembre 2005 in media il 93 per cento della loro capienza massima. Dall’inizio del decennio, il peso relativo delle diverse forme di detenzione è rimasto stabile. Il giorno della rilevazione, un terzo delle persone in detenzione preventiva e oltre la metà dei prevenuti non disponevano di un permesso di dimora sul territorio svizzero o avevano uno statuto di dimora precario. Nel periodo 2002-2004, il numero annuale di nuove incarcerazioni in attesa di estradizione o espulsione è rimasto stabile mentre la durata media di permanenza in stabilimenti penali tende ad aumentare.

Stando ai risultati di un’indagine realizzata dall’Ufficio federale di statistica (Ust) su 122 carceri di competenza dei dipartimenti cantonali di giustizia e polizia, è emerso che nel 2001 e nel 2002, le persone incarcerate erano quasi 5000. Da allora, si è assistito a un incremento importate, che, nelle indagini del 2004 e 2005, ha fatto raggiungere alla popolazione carceraria le circa 6000 unità. La progressione più consistente è stata osservata nel 2004 (+15%).

 

Carceri svizzere piene

 

Con una capacità di 6.540 posti per 6.111 persone incarcerate, il tasso di occupazione medio delle carceri svizzere il 7 settembre 2005 era del 93 per cento. Considerando i diversi tipi di detenzione, la percentuale era superiore alla media negli stabilimenti per l’esecuzione di misure, nelle carceri e negli stabilimenti chiusi, mentre risultava inferiore negli stabilimenti aperti e semiaperti, nelle case d’educazione al lavoro e nei centri per l’esecuzione di misure coercitive. In una quarantina di stabilimenti, il tasso di occupazione è stato raggiunto o superato; nove di essi erano sovraffollati del 20 per cento o più. Nel corso degli ultimi due anni, il tasso di persone incarcerate ogni 100.000 abitanti è aumentato del 12 per cento. Con 83 detenuti su 100.000 la Svizzera si situa al di sotto della media europea (97 su 100.000).

Gran Bretagna: carceri minorili, misure troppo violente sui detenuti

 

Ansa, 20 febbraio 2006

 

Nelle carceri minorili britanniche vengono spesso usati sistemi di contenimento che infliggono dolore ai detenuti più irrequieti: lo afferma un rapporto sul trattamento dei minori in carcere, redatto da una commissione guidata da Lord Carlile, per il quale si tratta di una pratica "inaccettabile" e quasi certamente illegale. L’indagine, commissionata dalla Howard League, che si batte per la riforma carceraria, è scattata dopo che un quindicenne, Gareth Myatt, è morto nel 2004 in una prigione a Rugby gestita da privati, mentre tre adulti lo immobilizzavano.

Era in carcere da quattro giorni. È stato accertato che nell’arco di 21 mesi metodi eccessivamente violenti sono stati usati contro i giovani detenuti in Inghilterra e Galles oltre 15.000 volte e che lesioni ai carcerati o al personale non sono insolite. Ci sono 2.800 tra bambini e ragazzi in prigione in questa parte del Regno. Lord Carlile, liberal-democratico, ha parlato di "shock" di fronte ad alcune delle pratiche di uso comune, affermando che alcune di queste, in altro contesto, costituirebbero un abuso contro minori. In molti casi, lo staff carcerario, "provocava" i ragazzi per poi poterli "contenere... per la sola gratificazione degli adulti", dice il rapporto, che riconosce tuttavia che molti ragazzi sono ‘difficili’ da gestire e vengono da retroterra assai problematici. In ogni caso, tecniche di contenimento che infliggono dolore vengono usate per "gestire il dissenso" in alcune carceri. Troppe volte si usano le manette e le perquisizioni totali, nelle quali il detenuto si deve spogliare, si aggiunge.

 

 

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