Rassegna stampa 4 dicembre

 

Giustizia: Mastella; lavorare per rieducazione dei detenuti

 

Agr, 4 dicembre 2006

 

"Noi dobbiamo rieducare i detenuti, dobbiamo farlo già all’interno del carcere, formandoli professionalmente in attività specifiche per dare loro la possibilità, di non ricadere nell’illegalità una volta scontata la pena". Lo ha detto il ministro della Giustizia Clemente Mastella, ospite della settima puntata di "Altrove", il programma sulla vita dei detenuti e del personale penitenziario che andrà in onda domani.

Giustizia; Mellano (Rnp); utilizzare fondi Cassa delle Ammende

 

Ansa, 4 dicembre 2006

 

Il convegno intitolato Carcere e territorio: due realtà che collaborano, che si è tenuto a Cuneo, aveva lo scopo di far conoscere i dati e di diffondere i risultati sulle esperienze di lavoro e formazione in carcere. Con questo fine è stato anche presentato il 23esimo quaderno della collana edita dalla Provincia, che si occupa di quanto viene fatto sul territorio da servizi, agenzie, associazioni e dai Gol, i Gruppi operativi locali. A proposito del convegno, l’on. Bruno Mellano, deputato della Rosa nel Pugno, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni.

"L’iniziativa è ottima perché, oltre a svolgere un compito di doverosa informazione nei confronti dei cittadini sulle problematiche del carcere e della risocializzazione, troppo spesso rimosse, e su come si sono impiegate risorse allo scopo di risolverle, mette intorno a un tavolo rappresentanti istituzionali e operatori, che, a vari livelli, possono intervenire per realizzare progetti di reinserimento lavorativo dei detenuti. A questo proposito desidero ricordare che esiste una grande risorsa economica a disposizione per il finanziamento di questi progetti: la Cassa delle Ammende, il cui fondo patrimoniale, alla data 31 luglio 2006, era pari a 118.293.000 euro. Certamente la sinergia tra istituti di pena, istituzioni locali e nazionali e operatori del sociale può rappresentare quel requisito di concretezza e realizzabilità dei progetti, richiesta dal regolamento attuativo della Cassa delle Ammende.

In questi primi mesi di legislatura ho presentato alcune interrogazioni al ministro della Giustizia, chiedendo informazioni dettagliate sulle attività della Cassa, che opera ormai dal 2004. Ritengo infatti necessario disporre di una descrizione dettagliata dei singoli progetti approvati e non, per individuare i criteri secondo cui le richieste di finanziamento vengono accolte o rifiutate. È mia intenzione presentare una nuova interrogazione urgente al Ministro Mastella e estendere la richiesta di informazioni anche al nuovo Direttore del Dap, dott. Ettore Ferrara. Spero che il nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria vorrà dare inizio a una nuova gestione, dalla maggiore progettualità, per una politica penitenziaria più efficace e di completa trasparenza, al fine di un migliore assolvimento delle proprie finalità. Chiedo alla Provincia e ai Comuni cuneesi di darmi una mano nel dare finalmente piena e trasparente attuazione alla Cassa delle Ammende, nell’interesse della collettività e delle istituzioni".

Giustizia: convegno Seac; sull’indulto tanti equivoci e pregiudizi

 

Il Mattino, 4 dicembre 2006

 

La legge sull’indulto ha rimesso in libertà migliaia di detenuti. Crescente è il disappunto di molti, compresi politici della maggioranza che ha approvato la legge. La recrudescenza, o meglio la continuità, di crimini nel nostro territorio, a partire da Scampia e Secondigliano, ha indotto molti a vedere gravi responsabilità nella legge e con attenzione si è segnalato se i delitti fossero stati commessi da ex detenuti usciti per l’indulto.

Non è stato sottolineato che la percentuale di recidività di chi è stato arrestato fra i dimessi dalle carceri nella recente disposizione dell’indulto è di gran lunga minore di quanto presenta la statistica degli arrestati in generale. Questo dato è emerso a Roma sabato scorso all’assemblea del Coordinamento delle associazioni di Volontariato penitenziario (Seac), che ha riunito i rappresentati delle massime istituzioni pubbliche e i delegati delle realtà di volontariato di area cattolica che operano nelle carceri a mo’ di ponte fra carcere e società civile.

È stato significativo che quasi la totalità dei partecipanti al convegno abbia riconosciuto il valore dell’indulto pur segnalando l’inadeguata azione di preparazione e la mancanza di opportunità di reinserimento, soprattutto nel lavoro. Piuttosto è stata rilevata la grave leggerezza di aver fatto usufruire della disposizione di libertà i responsabili di crimini legati ad associazioni mafiose, all’estorsione, all’usura, al voto di scambio.

Da qualcuno è stato considerato un vero terremoto. Si è vista anche la necessità e l’urgenza della riforma del codice penale, nel ripensamento del rapporto fra reato e sanzione penale. Per i cittadini che hanno a cuore non solo la sicurezza ma anche la qualità di un vivere socialmente maturo e responsabile, è stata l’occasione per affermare che il problema penitenziario non è un mostro da rimuovere, ma una prioritaria responsabilità da assumere. Bene è stato che una commissione non operante da cinque e più anni sia stata ripristinata nel suo compito a livello ministeriale, quella che studia e attua nuovi rapporti del sistema carcerario con gli Enti locali e il volontariato, per quella indispensabile azione di raccordo che deve privilegiare il reinserimento e non solo una politica basata sulla sicurezza, per lo più auspicata come repressiva.

Vuol dire che a tutti deve stare a cuore il trattamento, a partire dagli operatori interni al sistema. Pochi sanno che insieme agli agenti, sono presenti nelle carceri operatori di area pedagogica, educatori, insegnanti, assistenti sociali, psicologi e altre figure responsabili di azione educativa e reinserimento. La carenza di organico rende inefficace una azione così importante. È inspiegabile che concorsi già ultimati e promozioni o riconoscimenti professionali già conseguiti, per dirigenti, per psicologi ed altri, non siano ancora stati messi in esecuzione.

Se tali lacune dell’organizzazione amministrativa sono gravi per la ricaduta di un non adeguato servizio, rispondente al dettato costituzionale, è altrettanto deficitario che il legame con la società civile sia affidato solo al volontariato. Il rischio è che l’azione si limiti spesso alla già lodevole assistenza rivolta da associazioni, cooperative e istituzioni private ai detenuti e alle loro famiglie, senza alcuna garanzia di continuità di intervento. È certo che la società civile deve ampliare il suo respiro e allargare gli orizzonti di una visione veramente solidale, a partire dagli imprenditori e dal mondo economico e finanziario.

Giustizia: domani a Roma agenti in piazza contro la Finanziaria

 

Apcom, 4 dicembre 2006

 

Trecentoquindici autobus da varie province italiane e 3 treni speciali che giungeranno domattina alla stazione Termini. La stima è di circa 50 mila agenti delle forze dell’ordine in piazza. Sono queste alcune delle cifre della manifestazione di protesta indetta a Roma contro la Finanziaria dalla Consulta Sicurezza, l’organizzazione del Comparto formata dal Sindacato Autonomo di Polizia (Sap), dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) e dal Sindacato Autonomo Polizia Forestale ed Ambientale (Sapaf). In piazza, a Roma, da quanto riferisce la Consulta Sicurezza "sfileranno quattro Corpi dello Stato: Polizia di Stato, Polizia Penitenziaria, Corpo Forestale dello Stato e Vigili del Fuoco, rappresentati dal sindacato autonomo Conapo e la Fasst (Federazione Autonoma dei Sindacati dei Servizi Alte Professionalità della Funzione pubblica). Hanno aderito alla protesta organizzazioni di rappresentanza del personale in pensione della Polizia di Stato, della Polizia Penitenziaria e della Polizia Forestale; associazioni dei parenti delle vittime del terrorismo e della criminalità e altre organizzazioni di categoria.

"Contro il disarmo culturale e finanziario della Polizia di Stato e contro la Legge di Bilancio 2007": questo lo slogan principale della manifestazione che Sap, Sappe e Sapaf hanno promosso contro una manovra economica che "rischia di essere fortemente penalizzante per le Forze dell’Ordine, che sopprime Questure, Scuole di Polizia e Uffici di Specialità; che prevede aumenti per il personale pari al tasso di inflazione programma senza riconoscimento della specificità della professione (5 euro al mese per il 2006 e 20 lordi per l’anno prossimo); che licenzia 1.317 Agenti ausiliari di Polizia a partire dal primo gennaio 2007".

"Nella storia repubblicana - dice il Segretario Generale del Sap, Filippo Saltamartini - non si era mai vista una legge finanziaria che sopprime le Questure. La rabbia e il disagio delle Forze dell’Ordine è elevato, non solo per gli aumenti che fanno tornare indietro i poliziotti lasciandoli ai margini della società, ma anche e soprattutto per la chiusura degli uffici, dopo il contributo altissimo offerto in tutti questi anni per contrastare mafia e terrorismo. Una legge di bilancio vendicativa e contro la Polizia".

Con la Consulta Sicurezza saranno in piazza anche numerosi parenti e vittime della criminalità e del terrorismo, tra i quali Gabriella Vitali D’Andrea, vedova del Maresciallo di pubblica sicurezza Luigi D’Andrea, trucidato dalla banda della Comasina di Vallanzasca, e Lorenzo Conti, figlio del sindaco di Firenze Lando Conti, ucciso dalle brigate rosse. La nostra battaglia, infatti, è anche contro la presenza in Parlamento e nelle Istituzioni di condannati per reato di terrorismo, criminalità e mafia. Sarà presente anche Antonio Pappalardo, generale dei Carabinieri in quiescenza, presidente dell’Associazione Sicurezza dei cittadini, assieme a tanti ufficiali e sottufficiali dell’Arma in pensione.

I treni speciali proverranno da ogni parte d’Italia. I poliziotti di Reggio Calabria hanno chiesto di poter lavorare con turni straordinari nelle giornate di domenica e lunedì per essere liberi dal servizio domani e partecipare alla manifestazione. Da Trieste affronteranno due giorni di viaggio per essere a Roma. Arrivi in nave e con traghetti di poliziotti dalla Sicilia e dalla Sardegna. La manifestazione partirà alle ore 10:45 da piazza del Viminale. I partecipanti sfileranno poi per via Cavour, via dei Fori Imperiali, piazza Venezia. Comizi finale in piazza S.S. Apostoli.

Indulto: Palermo; sono innocente, ma voglio essere condannato

 

Apcom, 4 dicembre 2006

 

Si dichiara innocente ma vuole una sentenza di condanna per poter beneficiare dell’indulto ed evitare l’obbligo quotidiano di firma che gli impedisce di andare all’estero a cercare lavoro. È la storia di Cateno Riccobene, 45 anni, di Sciara in provincia di Palermo. L’uomo, spostato e padre di due figli, è accusato di un furto di carciofi che sarebbe avvenuto 3 anni addietro.

Lui nega di averlo commesso ma questo carico pendente, sommato ad alcuni precedenti penali, gli è costato l’obbligo di firma alla caserma dei carabinieri. Da tempo l’uomo, che vive con un sussidio del comune e lavori in nero nei cantieri edili della zona, chiede al giudice che rinvia di 6 mesi in 6 mesi l’udienza - l’ultima, rinviata al 21 giugno, non si è tenuta lo scorso 9 ottobre - una sentenza di condanna per poter beneficiare dell’indulto. "Io - ha detto Riccobene ai microfoni del Gr Rai - voglio questa sentenza perché voglio andare all’estero per trovare lavoro e mantenere la mia famiglia".

Pisa: stagione di lauree alla Casa circondariale "Don Bosco"

 

Ansa, 4 dicembre 2006

 

Il bilancio di quest’anno accademico non lascia dubbi sul successo del Polo Universitario Penitenziario: tanti studenti sono alle prese con gli ultimi esami, e già nei prossimi mesi qualcuno di loro diventerà dottore. Anche lì, anche fra le mura di un carcere, succede che si possa studiare e arrivare alla laurea con una grande emozione. E quello in corso, per la casa circondariale Don Bosco, è un anno accademico fitto di successi.

Solo poche settimane fa era arrivato all’ambita meta Enzo, con una tesi in scienze dei beni culturali, e ora sembra che sulle sue orme si stiano movendo altri detenuti, impegnati negli ultimi esami al Polo Universitario Penitenziario. Il Polo è nato ufficialmente nel 2003, dopo la firma di un protocollo d’intesa che ha messo d’accordo l’Università di Pisa, l’Amministrazione penitenziaria e la Regione Toscana, tutti impegnati per portare avanti il progetto.

Oggi funziona a pieno ritmo, con un reparto apposito che somiglia a un campus, con tanto di ambienti comuni dove gli studenti possono riunirsi per studiare, una biblioteca e postazioni informatiche. Arrivati alla laurea poi, alcuni detenuti discutono la tesi all’interno del Polo stesso, mentre altri possono farlo direttamente nella Facoltà interessata.

Attualmente gli studenti detenuti al Don Bosco sono circa una ventina, iscritti a varie facoltà, alcuni matricole, altri sulla via del traguardo. Tra loro, il prossimo a diventare dottore dovrebbe essere Fabio, iscritto alla facoltà di Storia e in odore di laurea con una tesi in antropologia culturale.

Napoli: sul convegno "Il padre di mio figlio… che sarei io"

di Dolorosa Franzese (Direttore Uepe di Napoli)

 

Ristretti Orizzonti, 4 dicembre 2006

 

Il giorno 15 novembre 2006, a Napoli, presso l’Auditorium della Regione Campania, si è tenuto un Convegno sulla dimensione familiare e sul ruolo genitoriale di persone con problematiche di giustizia, organizzato dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna del Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria e dal Comitato Unicef Campania. Con l’occasione è stato presentato il libro "Il padre di mio figlio….che sarei io", frutto di riflessioni di detenuti e di soggetti in esecuzione penale esterna sul proprio vissuto emozionale ed affettivo nella relazione parentale.

L’iniziativa ha interessato tutti gli Istituti Penitenziari e gli U.L.E.P.E. della Campania. Il testo è stato curato dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna del PRAP Campania e pubblicato con il contributo della Regione Campania. In apertura del convegno è stato proiettato il cortometraggio "Le ali tarpate", della Golden Officina, girato in un comune della provincia di Napoli, avente come tema lo sfruttamento minorile e la negazione dei diritti dei più deboli.

I lavori sono stati introdotti da Tommaso Contestabile, Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria Campania, Margherita Dini Ciacci Galli, Presidente regionale dell’ nicef, Dolorosa Franzese, Direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria.

Il Provveditore ha affermato che la raccolta di scritti presentata durante il convegno assume una grande valenza comunicativa per la drammaticità della condizione che sta vivendo il territorio campano. Una comunicazione che sa di presa d’atto di una situazione di grave sofferenza sociale e di una criminalità padrona; una comunicazione che è una voce diversa, nel dibattito in corso in questi ultimi giorni ed un suggerimento sul da farsi. A suo avviso, tutti coloro che sono impegnati sul fronte del diritto e della lotta alla criminalità hanno bisogno, infatti, di avere fiducia nelle proprie possibilità, per continuare ad operare con determinazione nelle istituzioni, a progettare percorsi riabilitativi e a vivere in luoghi spesso degradati e violenti, ma anche ricchi di iniziative e di impegno umanitario.

La Dott.ssa Dini Ciacci Galli, ha sottolineato l’impegno dell’Unicef nella formazione delle nuove generazioni e la necessità, in proposito, di stringere alleanze con Istituzioni e Privato Sociale. È in questa logica che, a parere della Dini Ciacci, si colloca il "Patto di Solidarietà" siglato tra l’Amministrazione Penitenziaria e il Comitato Italiano per l’ Unicef che, già dal giorno successivo alla firma, si è tradotto in iniziative comuni, concrete e non ritualistiche.

Per la Dott.ssa Franzese, la manifestazione ha rappresentato un momento celebrativo all’interno di un percorso comune Prap/Unicef Campania, che ha dato vita a diverse iniziative centrate sulla valorizzazione del ruolo genitoriale e sull’importanza che la dimensione familiare riveste nella sfera emotiva delle persone con problemi di giustizia. Essa, inoltre, ha voluto porre all’attenzione della società libera una realtà diversa, complessa e variegata, spesso oggetto di pregiudizi negativi o di eccessivi pietismi che si ridimensionano quando si stabilisce un contatto nel quale è possibile lo scambio e la condivisione. Gli spaccati di vita contenuti nel libro aiutano a conoscere e a riflettere più che a etichettare una realtà come quella detentiva, impossibile da "liquidare" secondo schemi preconfezionati. Nel corso della manifestazione l’attore Rai de "la Squadra", Mario Porfito, ha letto alcuni brani tratti dal libro.

Negli scritti gli autori hanno parlato di loro stessi, hanno espresso riflessioni ed analisi intime, sogni e strategie che pensano di adottare per il futuro. Dai racconti sono emersi frammenti di vita individuali, storie di gruppi familiari e sociali, di un modo di essere o di una condizione della realtà in cui queste persone vivono. Quasi tutti i racconti hanno in comune il momento in cui comincia il precipizio, la discesa inarrestabile verso strade pericolose; poi i ricordi, i rimpianti, la disperazione, l’alienazione del carcere, la consapevolezza di una vita sospesa. In quasi tutti si coglie il bilancio di una vita che, però, anche se amaro, fa balenare la speranza di un cambiamento positivo.

"Penso molto a quando venni al mondo, ero nudo ma mi auguro di andarmene vestito…". "Sono nato da madre casalinga e padre barbiere dipendente…". Carmine è napoletano e con un bagaglio alle spalle che non esita a definire "un disastro". Il papà? "Un alcolista sfortunato"; la madre? "Molto indifferente verso i propri figli ma sconvolta dal problema di mio padre e dalla povertà". L’adolescenza? L’inizio di una catastrofe. "Vivendo senza una guida familiare mi sono trovato a tredici anni con la droga tra le mani". L’oggi? "…sono molto rammaricato di non aver avuto la possibilità di studiare, ma faccio del mio meglio per arricchire la mia identità." La vecchiaia? "…vorrei trascorrerla come un vecchio saggio".

Bruno, invece, che dietro le sbarre si dice con convinzione "di sicuro, quando uscirò, qui non ci tornerò mai più", è dentro per alcuni reati e da diverso tempo fa sempre lo stesso sogno ad occhi aperti. A poco meno di cinquant’anni, è convinto che la vita può ricominciare. "Sto disteso sulla mia branda cigolante, non ho voglia né di parlare né di alzarmi: voglio stare qua, da solo, a fissare il soffitto. Devo pensare un po’ a me, a quando uscirò da questo baratro…

Le mura che mi circondano non hanno mai avuto la capacità di annientare i miei pensieri e i miei sogni, non hanno mai saputo disperdere la mia energia: mente e sentimenti sono più vigili e presenti che mai, sono dentro di me e nessuno può rubarmeli". Ma a cosa pensa? "…. al il mio futuro, il futuro che desidero, che aspetto, che sogno". Il futuro è un lavoro, la sua famiglia, una poltrona, un gatto ed un televisore.

C’è chi, infine, in un gioco di gruppo, declina il proprio alfabeto, spesso segnato da esperienze negative: ogni lettera ha un significato, custodisce un racconto di vita, un’emozione. "A come alcol, aiuto, agenti… C come carcere, cocaina, complicità… D come detenuti, doveri, droghe… M come morte, magistrati, manette… O come omicidio, ozio… P come pena, paura, polizia… S come sbarre, sessualità, suicidio… Z come zero (ricominciare da zero)".

Parma: attestati per il progetto "Un’opportunità: l’ambiente"

 

Lungo Parma, 4 dicembre 2006

 

Un’opportunità di reinserimento sociale, nel solco di una tradizione che a Parma ha radici da decenni, e nello stesso tempo anche un modo "per far sì che il carcere, i carcerati e gli ex carcerati siano guardati con minore ostilità da tutti coloro che non sono carcerati". Così il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi sul progetto "Un’opportunità: l’ambiente", iniziativa promossa da Provincia e direzione degli Istituti penitenziari di Parma per il recupero del patrimonio ambientale da parte dei detenuti. Ieri, a conclusione della seconda fase del progetto, Manconi è arrivato in Provincia per consegnare gli attestati di partecipazione ai dieci detenuti coinvolti, otto dei quali al lavoro nel Parco del Taro e due con Legambiente.

"Offrire opportunità di reinserimento di questo genere fa parte della nostra tradizione - ha detto il presidente della Provincia Vincenzo Bernazzoli - i primi esperimenti in Italia sono avvenuti proprio qui, con un assessore provinciale che si chiamava Mario Tommasini. Noi non vogliamo perdere questo tratto caratteristico, come dimostra l’impegno costante dell’Amministrazione provinciale in questa direzione".

Un ricordo di Mario Tommasini anche dall’assessore ai Servizi sociali Tiziana Mozzoni, che ha citato anche altre iniziative in materia che coinvolgono l’ente di piazzale della Pace: "Abbiamo tre persone che lavorano nei nostri uffici usufruendo di misure alternative alla detenzione, e partecipiamo al progetto di inserimento con borse lavoro per persone che abbiano usufruito dell’indulto". Il progetto nasce come naturale prosecuzione dell’iniziativa che ha avuto luogo lo scorso 13 maggio nell’area del Po di Polesine Parmense: venti detenuti si erano impegnati in una giornata di recupero ambientale dell’area attrezzata, ripulendola dai rifiuti, tagliando l’erba e posizionando pannelli informativi su flora e fauna autoctone. Nella seconda fase, l’obiettivo del lavoro dei detenuti è stato il ripristino di un’area del Parco del Taro distrutta lo scorso anno da un incendio doloso. I detenuti, coadiuvati dal personale del Parco, hanno lavorato alla realizzazione di zattere per la nidificazione di una particolare specie di uccello e, lungo il tratto del fiume, hanno eseguito opere di tagli, raccolto ed accatastato tronchi di alberi caduti o precedentemente abbattuti.

Il progetto ha visto coinvolti non solo Provincia e Istituti penitenziari di Parma ma anche Consorzio di solidarietà sociale, Centro di formazione professionale Forma Futuro, Legambiente e Parco del Taro: enti pubblici, volontariato, cooperazione sociale, imprese private e istituzioni si sono quindi ritrovati con l’obiettivo di costruire percorsi di reinserimento, in primo luogo lavorativo, da offrire a quei detenuti che, in base alla legislazione vigente, possono usufruirne. In questo modo si offre una possibilità di rifarsi una vita a chi ha sbagliato, prevenendo il pericolo di reiterazione del reato.

Soddisfazione per il progetto anche da parte del direttore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Nello Cesari: "Gli enti locali del territorio sono sempre stati molto sensibili verso queste tematiche, sulle quali c’è una lunga tradizione che continua. Tutto questo è la riprova che quando si investe in questo settore i risultati arrivano", ha detto Cesari, mentre il direttore degli Istituti penitenziari di Parma Silvio Di Gregorio ha ribadito come il carcere sia "una risorsa per la collettività": "La rete che si è creata nel nostro territorio – ha osservato - va in questo senso".

Il sottosegretario Manconi ha inserito le riflessioni specifiche sul progetto in un discorso più generale sull’indulto, e sulla "ostilità" che questo ha determinato in parte dell’opinione pubblica in particolare per il rischio di recidiva. "Il punto è: cosa offriamo come alternativa alla coazione a ripetere il reato? - ha detto Manconi -.

Questo progetto è una piccola goccia, ma è importante proprio in questa chiave: ad ogni ex detenuto al quale diamo un’opportunità stiamo offrendo un’occasione straordinaria. In questo modo stiamo contribuendo a far sì che il carcere, i carcerati e gli ex carcerati siano guardati con minore ostilità da coloro che non sono carcerati. Spero che il progetto possa servire anche come modello, e che iniziative così si moltiplichino in tutta Italia".

Alla consegna degli attestati hanno partecipato anche Hassan Bassi del Consorzio di solidarietà sociale, la direttrice dell’Uepe Nadia Furlotti, il direttore del Consorzio Forma Futuro Raffaele Leoni, il presidente del Parco del Taro Mauro Conti, il presidente di Legambiente Fabio Faccini.

Immigrazione: facciamo degli immigrati dei "nuovi" italiani

Intervista a Mirta da Pra Pocchiesa (Gruppo Abele)

 

Sette Magazine, 4 dicembre 2006

 

Sette Magazine ha deciso di dedicare ampio spazio e attenzione costante al tema dell’immigrazione. Per approfondirne l’analisi, questa settimana abbiamo incontrato una vera "addetta ai lavori". Si tratta di Mirta da Pra Pocchiesa, responsabile dell’Ufficio Comunicazione del Gruppo Abele, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti, da decenni in prima linea nel sostegno alle persone in difficoltà, categoria alla quale spesso gli immigrati (specialmente se irregolari) appartengono. L’attività del Gruppo, peraltro, va ben oltre la pura e semplice (ma fondamentale) opera di prima accoglienza; al contrario, l’obiettivo è quello di favorire l’integrazione a 360 gradi, con un occhio di riguardo agli aspetti (in senso lato) culturali e connessi all’inserimento professionale. Per questo, chi lavora per il Gruppo può fornire una visione "dal di dentro" delle problematiche connesse all’immigrazione.

 

Dottoressa da Pra, com’è cambiata l’immigrazione in Italia negli ultimi anni?

È diventata un fenomeno sempre più eterogeneo e, quindi, sempre più complesso da analizzare a da governare. Che la nostra stia diventando sempre più una società multirazziale e multiculturale è sotto gli occhi di tutti. E che ciò renda sempre più difficile il compito di chi si occupa di accoglienza e di integrazione è altrettanto evidente. Specialmente di chi, come il Gruppo Abele, rifiuta di "fare di tutta l’erba un fascio" ed, al contrario, è consapevole che dietro ogni nome ed ogni volto c’è una storia di vita diversa e non sovrapponibile a nessun’altra.

 

Quali sono le principali problematiche che vi trovate ad affrontare?

La nuova immigrazione pone problematiche in parte uguali ma perlopiù diverse e più gravi rispetto all’immigrazione "interna", dal Sud al Nord, che ha caratterizzato gli anni ‘60 e ‘70. Basti pensare al problema delle differenze linguistiche e religiose. D’altra parte, oggi molti immigrati stentano persino a soddisfare i loro bisogni primari, come, ad esempio, avere un tetto sulla testa e di che sfamarsi. In questi giorni, con l’inverno alle porte, molti si rivolgono a noi perché li aiutiamo a difendersi dal freddo; spesso si tratta di Africani, poco abituati al nostro clima. A parte questo, ciò che accomuna molti immigrati è, soprattutto, la paura.

 

Paura? Di cosa? Si spieghi meglio.

Spesso sono gli Italiani ad avere paura degli immigrati. E spesso motivatamente. Ciò non toglie che spesso anche gli immigrati hanno paura. Temono, soprattutto, di essere espulsi e rimandati nel loro Paese, cosa che per loro comporta un fallimento, la delusione dei famigliari che in patria attendono aiuti economici concreti, la perdita delle (spesso non trascurabili) risorse finanziarie investite per pagarsi il viaggio verso il nostro Paese. Ciò spinge molti immigrati a rendersi invisibili, a chiudersi, a temere, anziché cercare, l’integrazione.

 

Quali sono le principali iniziative assunte dal Gruppo Abele per assistere gli immigrati?

In prima battuta, il Gruppo si propone di assicurare una prima accoglienza di tutte le persone in difficoltà; molte sono straniere, anche se non mancano (anzi, sono sempre di più) gli Italiani che si rivolgono a noi come alle altre strutture presenti sul territorio. Attraverso i nostri centri di "Drop-in", cerchiamo, quindi, di offrire un aiuto concreto a tutti coloro che vivono ai margini della società e non sono in grado di rispondere da soli ai più immediati bisogni di vita. Noi li definiamo "servizi a bassa soglia", perché non propongono impraticabili stili di vita e non obbligano a siglare patti in tal senso, ma si inseriscono più semplicemente nell’organizzazione quotidiana delle persone, colmando lacune ed offrendo diverse opportunità volte a migliorare la qualità della vita ed a modificare gradualmente le modalità più dannose e distruttive di molti comportamenti. Un posto dove mangiare, fare la doccia, cambiarsi, parlare: un luogo intermedio tra i servizi socio-assistenziali e sanitari, da una parte, e la strada, dall’altra, vissuta, per scelta o (più spesso) per necessità, come l’unico luogo di vita. È solo il primo passo, ma è necessario a risolvere le emergenze più gravi ed a creare quel clima di fiducia reciproca che consente, poi, di avviare percorsi più ambiziosi e completi di (re)inserimento. Solo una volta superata questa fase di prima accoglienza e conoscenza, infatti, possiamo pensare di avviare i nostri programmi di informazione, formazione e orientamento al lavoro.

 

Quasi il 32 per cento dei detenuti nelle carceri italiane sono stranieri. Si tratta di una percentuale quasi 9 volte superiore al rapporto stranieri/popolazione totale. È la conseguenza di politiche di integrazione fallimentari?

Certamente in gran parte sì, ma la questione è complessa e non riguarda solo la legislazione sull’immigrazione in senso stretto. Occorre, ad esempio, considerare che agli immigrati è pressoché precluso l’accesso a tutte quelle misure alternative al carcere che, invece, consentono ai detenuti italiani di uscire già prima di aver scontato l’intera pena. Si tratta di un problema che concerne soprattutto il diritto penale e che tira in ballo il tema, assai più ampio, della funzione rieducativa della pena. Allo stesso tempo, è vero che molti stranieri finiscono dentro loro malgrado, perché magari perdono il lavoro e, quindi, il permesso di soggiorno, diventano irregolari e sono in certa misura "costretti" a violare la legge. Anche le norme sull’immigrazione, quindi, vanno, almeno in parte, riviste.

 

In questa prospettiva, quali politiche di integrazione vi sentite di suggerire ai politici?

Non abbiamo una risposta univoca e sintetica a questa domanda. Le strategie politiche di governo dell’immigrazione non possono essere liquidate in poche battute. C’è, però, una cosa che mi sento di chiedere ai politici: coinvolgete di più le Associazioni come la nostra nell’elaborazione della legislazione sull’immigrazione. Crediamo, infatti, di poter fornire un contributo decisivo alla stesura di regole che siano, ad un tempo, giuste ed efficaci. Le faccio un esempio concreto: l’art. 18 del testo unico sull’immigrazione (che prevede il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale al fine di consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti delle organizzazioni criminali e di partecipare a programmi di assistenza ed integrazione sociale; N.d.R.) rappresenta uno degli strumenti di contrasto della criminalità extracomunitaria più efficaci e moderni, anche in un confronto internazionale. Ed è il frutto di una sistematica collaborazione fra il legislatore e il c.d. terzo settore.

 

Mi pare di capire che non sempre la politica vi considera come meritate...

Talvolta c’è ancora la tendenza a considerare le Associazioni come una sorta di intransigente "sindacato" degli immigrati, una controparte scomoda con cui "trattare", piuttosto che un soggetto con cui collaborare fianco a fianco. Noi non ci schieriamo sempre ed acriticamente dalla parte degli immigrati, anzi, siamo i primi a chiedere loro ferme assunzioni di responsabilità. E quindi, pur senza rivendicare un improprio ruolo da "co-decisori", chiediamo di essere almeno consultati preventivamente.

 

Qual è la vostra posizione in merito a questioni quali l’estensione del voto agli extra-comunitari e la revisione delle norme sull’acquisto della cittadinanza italiana?

Così come non ci possono essere diritti senza doveri, allo stesso modo non ci possono essere doveri senza diritti. Questo vale pere qualsiasi essere umano, indipendentemente dalla nazionalità e dal colore della pelle. Se è giusto, come è giusto, pretendere che gli immigrati si integrino e rispettino le regole della nostra società, occorre, quindi, riconoscere loro gli stessi diritti che spettano ai cittadini italiani. Prendendo spunto dal titolo di un recente libro del Ministro Livia Turco (Turco-Tavella, I nuovi italiani. L’immigrazione, i pregiudizi, la convivenza", Mondadori, 2006; N.d.R.) direi che occorre fare degli immigrati, a tutti gli effetti, dei "nuovi" Italiani.

 

In sintesi, quindi, porte aperte e voto a tutti?

Ovviamente no, non si può concedere tutto, subito ed a tutti. Occorre procedere con gradualità e ponderazione. Ritengo, però, che, sui temi del voto e della cittadinanza, aprire una discussione ampia, seria e non ideologizzata sia doveroso.

 

Un’ultima domanda, in parte fuori contesto, ma comunque molto attuale. Come vi collocate rispetto alla polemica sull’uso del velo?

Credo che ci sia molta demagogia in merito. La scelta di velarsi o meno è una scelta esclusivamente individuale. Ovviamente senza trascurare le evidenti esigenze di riconoscibilità per motivi connessi alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblici. D’altra parte, l’uso del velo è tutt’altro che estraneo alla nostra cultura. Il vero problema è la tutela delle donne dalle violenze, fisiche e psicologiche, cui troppo spesso sono ancora sottoposte. Ed è un problema che, purtroppo, non riguarda solo gli immigrati. Nella mia esperienza, comunque, non mi è mai capitato di conoscere una donna maltrattata per non aver voluto indossare il velo.

Immigrazione: l’etnopsichiatria comincia a radicarsi anche in Italia

 

Redattore Sociale, 4 dicembre 2006

 

Gli organizzatori parlano di "successo quasi inaspettato, sia a livello di partecipazione sia per i risultati raggiunti". Stiamo parlando del convegno "I servizi di salute mentale di fronte alla sfida multietnica e multiculturale", promosso dall’Istituto di Psichiatria dell’Università Cattolica Sacro Cuore - Policlinico "Agostino Gemelli" - di Roma e realizzato in collaborazione con il D.S.M. (Dipartimento di Salute Mentale) dell’Azienda ASL Rm H, il Centro Studi Veliterno e la Cooperativa "Alkè" tenutosi lo scorso 1 dicembre nella sala Paolini Angelucci del Museo Diocesano di Velletri.

Inaspettato, ma sicuramente di successo si può parlare. "Innanzitutto perché a tre anni dall’inizio dell’impegno degli organizzatori e alla seconda edizione del convegno si è notato un aumento esponenziale dell’interesse nel settore psichiatrico e medico in generale, e soprattutto perché si stanno raccogliendo i primi frutti di questo lavoro", affermano i promotori. A cominciare dalla proposta lanciata dal professor Pietro Bria, docente presso l’Università Cattolica Sacro Cuore di Roma e direttore del servizio consultazione psichiatrica del Policlinico A. Gemelli, che ha aperto i lavori: "Vogliamo coinvolgere tutto il territorio nazionale - ha detto Bria - per realizzare un coordinamento che abbia il centro a Velletri e sia collegato all’Università e alla Asl. Questo in vista di un Master universitario che si occupi di queste tematiche da tenere proprio qui a Velletri".

A fare eco a Bria è stato ovviamente il sindaco veliterno Bruno Cesaroni, che ha caldeggiato la proposta auspicandone l’immediata realizzazione. Per questo il primo cittadino si è detto disponibile a lavorare da subito per il Master universitario a Velletri. Tra l’altro, da farmacista, Cesaroni ha chiesto di realizzare un incontro con la propria categoria, che spesso si trova ad essere il primo interlocutore di immigrati in difficoltà senza avere tutte le competenze necessarie.

Si è detto soddisfatto della proposta e ha confermato la propria disponibilità anche il responsabile del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Rm H Mario Pinto.

Non è potuta intervenire, nonostante le assicurazioni della vigilia, il sottosegretario al Ministero della Solidarietà Sociale Cristina De Luca, che ha tuttavia inviato un messaggio. "Sono veramente dispiaciuta di non avervi raggiunto - si legge nella comunicazione del sottosegretario agli organizzatori -, il campo nel quale lavorate riveste una notevole importanza: ritengo che sia segno di grande sensibilità culturale e scientifica il vostro voler confrontare senza pregiudizi sistemi differenti di approccio con la malattia mentale, portando così una accanto all’altra culture diverse, senza doverle valutare in ordine d’importanza. Immagino che già dal vostro lavoro siano emerse delle interessanti linee di confronto e di studio che, sono certa, saranno d’aiuto alle azioni del Governo. Oggi si tratta di trovare soluzioni efficaci alle sfide più urgenti: l’immigrazione, la povertà, le malattie ed il disagio. Vi sono debitrice di un incontro che mi auguro possa avvenire al più presto, magari ragionando insieme su quello che è emerso dal vostro lavoro e che sarà per me un’utile occasione di confronto".

L’incontro è stato organizzato secondo tre macroaree con un avvio squisitamente teorico nel quale hanno preso la parola esponenti di spicco della psichiatria e dell’antropologia come Bruno Callieri e Sergio Mellina. Successivamente si è passati ad analizzare la situazione pratica lasciando la parola a professionisti alle prese con problematiche psichiatriche transculturali o multiculturali in tutto il territorio italiano. A conclusione dei lavori invece ci si è occupati della dimensione artistica, con la visione del film Il Miracolo e il successivo dibattito sul ruolo del sacro nella quotidianità con il regista Edoardo Winspeare, la sceneggiatrice Giorgia Cecere e la scrittrice Giovanna Bandini.

I risultati maggiori sono stati ovviamente raggiunti sul lato pratico. "Se infatti l’approfondimento teorico non è mai completo e necessita sempre di attenzioni, il piano di intervento sul campo è quello che in questo momento è maggiormente in difficoltà - affermano ancora i promotori del convegno -. I servizi di salute mentale nel nostro Paese si trovano infatti a confrontarsi con psicopatologie non sempre riconducibili al sistema di pensiero occidentale, troppo spesso ritenuto il culmine di una scala gerarchica piuttosto che il centro di una rete che è naturalmente transculturale. Per questo, per rendere più e meglio operative le strutture di assistenza pubblica il convegno organizzato in particolare dal professor Pietro Bria e dal veliterno Emanuele Caroppo (Medico chirurgo, Psichiatra, professore di Psichiatria all’Università Sacro Cuore di Roma e dirigente Medico Psichiatra dell’az. Asl Rm H) ha portato avanti due obiettivi che si stanno concretizzando. Il primo è la ricognizione dei Dipartimenti di Salute Mentale (Dsm) che in Italia si stanno occupando seriamente di etnopsichiatria, il secondo è quello di creare un coordinamento tra queste strutture inserendolo a pieno titolo nell’alveo universitario, con la creazione di un Master gestito dall’Università Sacro Cuore, per quanto riguarda la parte teorica mentre a livello operativo rinsaldando la già stretta collaborazione con l’azienda Asl Rm H che fin dall’inizio ha accolto con convinzione l’idea di Caroppo e Bria".

"Alla seconda edizione del convegno - fanno sapere gli stessi organizzatori - possiamo dire che è a buon punto la mappatura delle strutture che in Italia si occupano di etnopsichiatria, di salute mentale in senso multiculturale e multietnico. Dai lavori tenuti sta quindi partendo la realizzazione di quel coordinamento che riteniamo fondamentale per un miglioramento dei servizi ai migranti. Un raccordo tra istituzioni e una serie di figure professionali, non esclusivamente del mondo psichiatrico ma anche dell’antropologia e delle realtà del volontariato, che sappia intervenire di più e meglio in favore delle popolazioni non nazionali".

Il tutto senza tralasciare la necessità della sensibilizzazione verso le tematiche multiculturale e quella di creare una sorta di Osservatorio Nazionale di queste tematiche che sono quanto mai attuali. "La situazione dei migranti nel nostro paese ma nell’Europa tutta in effetti va assolutamente tenuta in massima considerazione. Le possibilità di non integrazione sono tante e sono solo una parte delle cause di problematiche psicologiche nelle popolazioni migranti che possono poi trasformarsi in atteggiamenti di chiusura o aggressivi e in un disadattamento assolutamente pericoloso per queste comunità e per la società tutta".

Norvegia: nel carcere di Bastoey lavoro, villetta e aria aperta

 

La Repubblica, 4 dicembre 2006

 

Alle 10 esatte del mattino, sotto una luce livida e sopra un mare color della pece, Dahl, il marinaio, fa entrare nel traghetto il camioncino per le riparazioni della linea elettrica, poi quello che porta le taniche di carburante, poi l’ospite. "Vuole del caffè?". Il thermos è pronto. Piacere, dice, io sono un detenuto. Ha i capelli con le punte pitturate di biondo, occhi azzurri che gli occhiali fanno sembrare grandissimi, la cerata arancione che gocciola pioggia, fuma Lucky Strike. Ha 41 anni, è sposato (ride: "sì, sposato diverse volte") ha un figlio di 14 anni, faceva il giornalista e poi è diventato assassino. "È stata una lite... mi hanno dato sette anni. Sono in prigione dal 2001, uscirò nel 2008".

Dall’estate è qui, a Bastoey Island, nella prigione senza sbarre, senza agenti di custodia, senza niente di niente che somigli a un carcere. La prigione che ha un sogno: quello di trasformare ogni detenuto in un cittadino.

Siamo a un’ora da Oslo, in uno dei fiordi più belli della Norvegia. Horton, si chiama il paesino. Casette di legno, qualche negozio, il porticciolo. Da qui, ogni mattina alle dieci, parte il traghetto. Un quarto d’ora di mare ed ecco l’isola. Ci vivono 115 detenuti e, ma soltanto di giorno, 69 dipendenti dell’amministrazione penitenziaria norvegese.

Sono due chilometri e mezzo di territorio protetto, due spiagge, una foresta, ventuno casette di legno del ‘900 a ricordo di quando Bastoey era ancora una fattoria in mezzo al mare. Adesso sono le case dei prigionieri: mobili di legno chiaro, cucine moderne, bagni nuovissimi. I detenuti vivono in quatto o cinque per ogni casa, ognuno ha la sua stanza personale e di quella la chiave. Alle 7.15 sveglia per tutti; alle 8 inizia il lavoro; alle 15 il dovere è finito, c’è la cena nella sala comune e poi il tempo libero. Calcio e bicicletta d’estate, sci d’inverno; ma c’è anche una biblioteca con migliaia di libri, ci sono i computer, e ci sono ancora le cabine telefoniche, le ultime cabine di legno rosso, quelle scomparse dal resto del Paese, sparse per l’isola.

Alle 15 Foldinferga, il traghetto, riporta a Horton chi non ha conti in sospeso con la giustizia. A Bastoey restano i prigionieri e cinque agenti che la sera alle 11 controllano che in ogni stanza la luce sia spenta.

Oeyvind Alnaes è il direttore del carcere. Per quindici anni ha lavorato nei penitenziari "normali", quelli chiusi; poi ha chiesto e ottenuto di inventare Bastoey, un altro modo di espiare la pena. Ora, è diventato un modello. "La prigione - dice - non migliora la gente. Per questo abbiamo dovuto cercare altre strade. Se tratti male una persona, quello che la persona impara è a trattare male gli altri; se li vedi come pericolosi criminali continueranno ad essere pericolosi criminali; se rispetti, insegni a rispettare". Il massimo della pena, in Norvegia, è di 21 anni: "Perciò ogni detenuto, un giorno, tornerà ad essere il tuo vicino di casa. E se non gli insegni come comportarsi, allora sì che devi temere".

Piove a dirotto, ma in giro sono tutti al lavoro: nelle stalle dove si allevano mucche e cavalli; a pascolare le pecore; nei campi dove si coltivano soprattutto patate; oppure a restaurare gli edifici che ne hanno sempre bisogno; in mare a pescare; nelle cucine; nella lavanderia. A turno devono pulire la casa e se non è tutto in ordine hanno due ore di tempo per rimediare. Se arrivano tardi al lavoro per quattro volte di seguito devono lasciare Bastoey; così se i quotidiani controlli di urina - fatti a caso, a campione - dicono che hanno usato stupefacenti.

"La nostra filosofia - spiega Alaneas - è il principio di responsabilità. L’umanità e l’ecologia sono i nostri principi di base, qui insegniamo che quello che fai oggi ha conseguenze sul domani. Il nostro lavoro consiste nell’offrire a tutti le migliori opportunità per immaginare e costruire un futuro". Dahl, a esempio, dice che dopo "quel fatto", pensava solo alla morte: "Avevo distrutto tutto quello che avevo, non vedevo un futuro. Qui ho imparato a immaginarne uno. È come se ti capitasse di perdere la vista: devi sviluppare meglio l’udito, il tatto...".

Haavald ha 57 anni, era un funzionario delle Nazioni Unite, ha una laurea in ingegneria e tre master, è stato condannato a 5 anni e mezzo per corruzione. "Ero in prigione, mi hanno detto che a Bastoey c’erano i cavalli. Nella mia vita di prima lavoravo 36 ore al giorno, viaggiavo sempre, avevo la mia famiglia, il mio cavallo, ma ero perennemente stressato. Qui ho ritrovato me stesso: di giorno lavoro con i cavalli e quando mia figlia viene a trovarmi ci andiamo a fare una cavalcata insieme; la notte faccio il giornale dell’isola. Questa, se la sai usare, è una buona occasione".

Con Nuraulf, 35 anni, è vietato parlare del suo passato: è stato condannato per pedofilia, ha abusato dei suoi quattro figli, tutti al di sotto dei dieci anni. Dice: "Non serve chiudere la gente dentro le celle. Qui si impara ad amare il lavoro, ci si sente utili, si sente che si fa qualcosa di buono e così si migliora anche se stessi". Martin, 27 anni, è qui dal 2005, il suo compito è guidare il trattore: "Facevo il meccanico, ero drogato e ho provocato un casino di un incidente stradale. Tra un anno tornerò fuori e tornerò al mio lavoro di prima".

L’80 per cento dei detenuti arriva qui dopo un periodo trascorso in un carcere tradizionale per scontare gli ultimi anni. Qui ci sono condannati per ogni tipo di reato. È la direzione a valutare le loro motivazioni e a decidere se accoglierli o no: "Noi non vogliamo sapere che cosa hanno fatto nel passato. Quello che ci importa è sapere cosa vogliono fare da ora in poi". Quello che ha ucciso una donna e ne ha fatto a pezzi il corpo e quello che ha spacciato hashish.

"L’uomo, e anche l’assassino - ancora Aelnes - non è sempre e solo crudele. Noi diamo loro fiducia, li aiutiamo a pianificare il futuro. Non li trattiamo da schiavi, da esclusi: lavoriamo con loro e ognuno deve fare fino in fondo la sua parte". Gruppi di alcolisti anonimi, psicologi che lavorano con chi ha violentato, operatori che si occupano del recupero dei tossicomani, tengono i loro corsi; ma il destino è nelle mani di ogni singolo che è libero di fare quello che vuole.

Nella giovane storia di Bastoey, cominciata sei anni fa, c’è stata solo una fuga. Da qui scappare è facile, non ci sono porte chiuse, c’è Dahl che va su e giù col traghetto. Ma che gusto c’è, a scappare, se poi il destino è una prigione peggiore?

Gran Bretagna: a Nottingham cellulari in dotazione ai detenuti

 

Punto Informatico, 4 dicembre 2006

 

Non è solo la leggenda di Robin Hood a rendere famosa la città inglese di Nottingham. Lowdham Grange, il penitenziario locale, che ospita anche persone che hanno rubato ai ricchi, ha infatti dato un annuncio destinato a suscitare clamore, in quanto singolare e sorprendente: i detenuti potranno usare il telefono cellulare. Il direttore del carcere, una struttura privata di categoria B (in cui si scontano in prevalenza condanne per furto e spaccio di sostanze stupefacenti), ritiene che dare agli ospiti della struttura un’opportunità di comunicare con i propri parenti ed amici possa stimolarli a voler uscire e a mantenere una buona condotta al fine di guadagnare uno sconto di pena.

Lowdham Grange, recentemente, si sta distinguendo per una conduzione che viene definita "progressista", avendo introdotto "innovazioni" nelle condizioni di detenzione, dotando le celle di TV satellitare e docce. Il nuovo progetto "telefonico" prevede la fornitura di telefonini in tutte le 500 celle della struttura, con il conseguente vantaggio, per i detenuti, di non dover attendere le lunghe code ai telefoni pubblici già presenti.

L’iniziativa ha suscitato opinioni contrastanti: a fronte dei pareri favorevoli delle associazioni di difesa dei diritti dei detenuti (che ben accolgono ogni condizione che possa rendere più agevole non solo lo scontare della pena, ma anche la riabilitazione), non mancano le critiche di chi vede la prigione come un posto in cui la gente non deve certo sentirsi a proprio agio, né voler tornare volentieri.

 

 

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