Rassegna stampa 17 dicembre

 

Giustizia: Caruso (Prc); pdl per chiudere le "Case di lavoro"

 

Apcom, 17 dicembre 2006

 

"Sono profondamente scioccato e allibito per la visita di oggi alla casa-lavoro di Sulmona". È quanto dichiara in una nota il deputato del Prc Francesco Caruso, spiegando che "la maggior parte delle persone non sanno che esista ancora in Italia la Casa di lavoro e qualcuno che per caso ne ha sentito parlare, non riesce ad immaginarsi di cosa si tratta".

"Le case di lavoro - prosegue - furono ideate da Mussolini e vi metteva dentro gli antifascisti dell’epoca, poi le hanno usate per tutti quelli che erano imputati per prostituzione e maltrattamenti in famiglia ed ora piuttosto che eliminarle, si sono inventati nuove categorie da rinchiudervi. La casa di lavoro è una misura di sicurezza detentiva, qualche volta viene data in sentenza come pena accessoria ma il più delle volte è un aggravamento della libertà vigilata, la danno per abitualità, professionalità o per tendenza".

"Si condanna quindi - sostiene Caruso - in via preventiva, non sulla base di fatti. Ti possono condannare a rimanere internato, se sei ritenuto delinquente per tendenza, a una pena minima di 4 anni. Si parla di durata minima perché non c’è una fine certa. Quando scade il periodo della durata minima fanno una camera di consiglio per valutare se hai dato dei segni di reinserimento, se ritengono che ciò non è avvenuto l’aumentano e quando termini l’aumento fanno di nuovo la camera di consiglio e si va sempre avanti. Solitamente - dice ancora l’esponente di Rifondazione - si continua di questo passo per moltissimi anni e per questo motivo viene definita ergastolo bianco".

"In Italia ci sono ancora quattro case di lavoro: Castelfranco Emilia (Mo) circa 30 internati; Saliceta San Giuliano (Mo) circa 25 internati; Sulmona (Aq) circa 50 internati e Favigliana (Tp) meno di 10 internati. Gli internati in Italia sono quindi circa 130 e di questi sono una piccolissima parte che riescono a venirne fuori perché solitamente si va in casa di lavoro dopo avere scontato una vita di carcere e durante tutti gli anni trascorsi in carcere quasi tutti hanno perso i contatti con la famiglia: chi si è lasciato con la moglie e i figli si sono fatti grandi e vivono una loro vita, chi ha perso i genitori perché con il passare degli anni si sono fatti anziani e molti sono deceduti e così via. Oltretutto la popolazione internata è formata per circa il 50% da persone che in passato avevano o hanno ancora problemi di alcolismo o di tossicodipendenza".

"La casa-lavoro - accusa Caruso - non ha niente di diverso dal carcere. Inoltre lavorano meno della metà degli internati, gli altri non fanno altro che la detenzione normale, malgrado abbiano finito di scontare la pena!".

"Porterò al più presto alla Camera - annuncia il parlamentare del Prc - una proposta di legge per la chiusura immediata di questo residuato anacronistico del fascismo che vige ancora in Italia, nascosta e celata dalle spesse e alte mura delle carceri. Oltre a far quadrare i conti dello stato, credo sia opportuno - per una questione minima di civiltà - che i parlamentari si impegnino per chiudere questi buchi neri della democrazia ancora presenti nel nostro paese", conclude.

Giustizia: mamme-dolore; pene senza sconti per delitti in famiglia

 

L’Arena di Verona, 17 dicembre 2006

 

"Indulto, diritto alla libertà ai criminali, dimenticando la dignità delle vittime": è la frase-simbolo che campeggiava a caratteri cubitali nella sala congressi dell’hotel Antares, dove si è tenuto l’incontro organizzato dall’associazione "Vittime della violenza", diretta da Loretta Micheloni, avvocato, e coordinata dalla vicepresidente Paola Caio.

È stata lei, dopo aver perso la figlia Monica Da Boit, uccisa lo scorso anno a Valeggio dal convivente, a fondare l’associazione. All’incontro hanno partecipato una quarantina di familiari di vittime di atroci delitti, commessi da conviventi o mariti violenti, provenienti dal nord e dal centro Italia e riunitisi per chiedere sia fatta giustizia attraverso il pieno rispetto delle pene, senza sconti.

Con un preciso obiettivo: presentare una petizione popolare per sensibilizzare il Parlamento sull’abbandono in cui versano le famiglie delle vittime. Alla conferenza sono intervenute anche Carolina Lussana, deputato parlamentare e responsabile Giustizia della Lega Nord, e Francesca Martini, responsabile federale per le politiche sulla famiglia, sempre della Lega.

"Con questo provvedimento", sottolinea Carolina Lussana, "non si sono solo liberate le celle, ma si sta anche perdendo la certezza delle pene. Per sensibilizzare il Parlamento bisogna andare a manifestare a Roma". D’accordo con lei Paola Caio: "Con questa iniziativa vogliamo dire no all’indulto, una legge vergognosa. Il danno ormai è fatto, ma ci auguriamo che la legge possa essere modificata".

"Un problema che si deve risolvere anche alla base, con le questure", aggiunge Francesca Martini, "che dovrebbero organizzare subito, prima che sia troppo tardi, progetti per le donne vittime di violenze". Strazianti i racconti delle madri delle vittime. Maria Teresa D’Abdon tre anni fa ha perso la figlia Monica Ravizza, 29 anni. Il fidanzato della ragazza, dopo aver infierito sul corpo della giovane con sei coltellate, le ha dato fuoco.

"Da quel giorno", racconta con voce strozzata, "una parte di me se n’è andata. Ho una ferita che non si rimargina. Lo Stato, approvando l’indulto, ha dimostrato di non aver alcun rispetto delle vittime e dei loro familiari, a cui non ha dato alcuna assistenza, economica e psicologica".

Gigliola Bono grida con rabbia il suo dolore e chiede giustizia per l’uccisione della figlia Monia Dal Pero, 19 anni, strangolata e nascosta in un sacco per l’immondizia dal fidanzato, nel 1989 a Manerbio (Brescia). "Nonostante fosse omicidio volontario gli è stata comminata una pena di 10 anni e 8 mesi, scontati solo per metà. Cinque anni di carcere per un delitto simile non è accettabile".

Non trova parole per descrivere il suo dolore Annamaria Giannone che ha perso la figlia Jennifer Zacconi, uccisa, al nono mese di gravidanza, a Olmo di Martellago (Venezia) il 29 aprile di quest’anno, dall’uomo che amava e che, dopo aver infierito sulla ragazza con calci e pugni l’ha sepolta viva. "L’assassino doveva essere condannato per duplice omicidio. Con l’applicazione di questa legge", spiega, "la politica fa morire i nostri cari due volte.

Noi non rivedremo più le nostre figlie, ma rischiamo di incontrare per strada i delinquenti che le hanno uccise. E i politici finora sono rimasti sordi a ogni nostro appello per una giustizia equa". Un omicidio, quello di Jennifer Zacconi, che per poco non provocava un’altra morte. Suo nonno Giuseppe Giannone, saputa la notizia, ha fatto un infarto e ora vive con tre by-pass coronarici.

Senza dimenticare il dramma dei familiari di Federica Corsi, uccisa a Caiò di Cancello e di Chiara Clivio, freddata a colpi di pistola sul lungadige Catena, sempre a Verona "La nostra associazione", conclude Loredana Micheloni, "ha raccolto più di tremila firme per la petizione popolare, per far sì che questi reati abbiano pene più gravi, ricordando che gli omicidi in famiglia stanno aumentando in modo preoccupante".

Giustizia: la Rai condannata per lettere "minacciose" di sollecito

 

Ansa, 17 dicembre 2006

 

L’invio, da parte della Rai, di ripetuti bollettini di pagamento del canone è illegittimo. Lo ha deciso il giudice di pace di Varese Cinzia Biondi al quale si è rivolto un cittadino di Tradate vessato dalla tv di Stato e non in possesso di alcun apparecchio: era stato questo stesso - spiega l’avvocato Diego Mazza di Busto Arsizio che l’ha difeso - "a comunicare per raccomandata alla Rai i motivi per i quali non era tenuto al pagamento del canone".

Il giudice ha accolto la domanda, condannando la Rai al rimborso delle spese legali e al pagamento di un importo simbolico di 50 euro. Davanti al giudice - precisa Mazza - "ho sostenuto che il testo delle lettere inviate dalla Rai era minaccioso e che la reiterazione dell’invio costituiva un ingiusto disturbo e una perdita di tempo per il destinatario". Disturbo - rimarca l’avvocato - "causato da una cattiva gestione dell’azienda Rai che non ha tenuto in alcun conto le risposte inviatele".

Stufo di essere "vessato dalle continue richieste della Rai di pagamento del canone", il cittadino si è rivolto alla giustizia dopo aver risposto alla tv di Stato, "negando l’utilizzazione dell’apparecchio televisivo" e chiedendo il risarcimento dei danni.

A metà del 2002 il malcapitato si lamentò di aver ricevuto una diffida dalla Rai in quanto non risultante incluso negli elenchi degli abbonati della televisione: nonostante avesse risposto con raccomandata di non possedere alcun televisore, all’inizio del 2003 la Rai gli indirizzò un’ulteriore diffida con minaccia di controlli da parte della Finanza. L’aspetto assolutamente innovativo di questa sentenza è il fatto che, "nonostante le eccezioni preliminari formulate dalla difesa della Rai, il giudice di pace si è ritenuto competente a giudicare sulla questione"

Di fatto, dunque, è stato il giudice di pace e non quello ordinario a occuparsi della vicenda. Un secondo aspetto riguarda le conseguenze che la sentenza avrà: la Rai, infatti, "potrebbe subire diverse cause da parte dei destinatari delle lettere di diffida".

Con questa sentenza, dunque, si apre un nuovo capitolo per quanti sono vessati dalla Rai che, per far pagare il canone, ricorre anche a pressioni ingiustificate, specie quando il cittadino non possiede il televisore. Secondo il giudice Biondi "non è consentito minacciare una conseguenza ponendola sotto la condizione di un pagamento". Per questo la Rai è stata condanna a pagare il costo delle due raccomandate nonché il disagio e la perdita di tempo subiti dal cittadino di Tradate.

Si chiude, dunque, un capitolo: da oggi la Rai non potrà più minacciare i cittadini che non sono in possesso del televisore. Solo, infatti, chi detiene uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione dei programmi televisivi deve per legge - come annota la stessa Rai - "pagare il canone di abbonamento tv.

Trattandosi di un’imposta sul possesso o sulla detenzione dell’apparecchio, il canone deve essere pagato indipendentemente dall’uso del televisore o dalla scelta delle emittenti televisive". Nel caso dell’abbonamento per uso privato, il canone - annota la Rai - è unico e copre tutti gli apparecchi posseduti o detenuti dal titolare nella propria residenza o in abitazioni secondarie, o da altri membri del nucleo familiare risultante dallo stato di famiglia.

Non esistono, infatti, più i canoni per le seconde case, così come per le autoradio e per le imbarcazioni da diporto. È possibile, inoltre, la disdetta dell’abbonamento che si verifica allorquando l’abbonato cede tutti gli apparecchi in suo possesso dando comunicazione delle generalità e indirizzo del nuovo possessore, oppure quando l’abbonato comunica di non essere più in possesso di alcun apparecchio fornendone comunicazione. Nel caso in cui gli abbonati intendano rinunciare all’abbonamento senza cedere ad altri i loro apparecchi, devono presentare disdetta entro il 31 dicembre, chiedendo il suggellamento degli apparecchi.

Erba: Mastella; quando ho saputo della strage sono stato male

 

La Provincia di Como, 17 dicembre 2006

 

Quando ha saputo della strage di Erba e dell’ipotesi che si era fatta strada in un primo momento, secondo cui l’autore poteva essere un magrebino uscito con l’indulto, il ministro Mastella si è sentito male. "Sono stato male tutta la notte, in bagno, per un attacco di dissenteria.

Ho talmente somatizzato...". La "confessione" il Guardasigilli è andata in onda durante la registrazione della puntata di "Otto e mezzo", su La7. Mastella conferma la sua posizione sull’indulto e respinge le critiche che sono state mosse nei suoi confronti sul provvedimento di clemenza approvato l’estate scorsa dai due terzi del Parlamento.

"Sono rimasto convinto di quello che ho fatto - afferma - la mia scelta è legata all'immagine di Giovanni Paolo II. La cosa singolare è l’atteggiamento di quanti hanno votato l’indulto e ora fanno finta di non averlo fatto". Ma il caso della terribile strage di Erba ha anche offerto lo spunto su riflessione su cosa è diventata l’informazione italiana. Alla luce di come è stata affrontata la vicenda di Erba, ma anche dello spazio concesso ai problemi e alla quotidianità di realtà come l’Africa e gli altri sud del mondo.

La questione è stata affrontata in occasione dell’incontro con la stampa e i responsabili dell’informazione "Diamo voce all’Africa", organizzato in vista del Forum sociale mondiale di Nairobi. "Mi aspetto che nell’Ordine dei giornalisti si apra una discussione severa su cosa è diventata la nostra informazione", ha detto Carmine Fotia, vice direttore del Tg La7.

"La riflessione che invito a fare - ha aggiunto - è che questo è possibile perché ormai il giornalismo è fatto in gran parte di luoghi comuni". "Abbiamo un’informazione che confonde e si confonde perché il colore delle pelle è diverso", ha osservato il vice direttore del Tg1 David Sassoli, facendo riferimento alla strage di Erba.

"Per capire quanto è anacronistica l’inesistenza dell’Africa sui media, basta vedere Al Jazeera International, che prova a raccontare tutto un altro mondo", ha fatto notare Corradino Mineo, neodirettore di Rainews24, illustrando l’impegno della sua rete in questo contesto: "I servizi migliori della settimana del Forum - ha spiegato - li metteremo in inglese sul nostro sito Internet. Inoltre ci siamo anche candidati a raccogliere l’eredità di RaiMed e del suo servizio in arabo".

Erba: l’unico sopravvissuto dice "l’assassino parla bene l'italiano"

 

Il Giornale, 17 dicembre 2006

 

Una persona sola, con una una mannaia in una mano e un coltellino svizzero nell’altra. Una persona sola, di razza bianca, forse italiano e forse di casa proprio a Erba. Ecco chi potrebbe essere il killer spietato, ancora senza nome, di Raffaella Castagna, del figlio Youssuf di due anni, della nonna e di una vicina di casa.

Nelle indagini sul massacro di Erba, il volto dell’assassino cambia da un giorno all’altro. Lunedì sera il dito del procuratore capo della Repubblica di Como Alessandro Lodolini era puntato su Azouz Marzouk, il marito tunisino di Raffaella da poco uscito dal carcere. Il giorno dopo si parlava di un clan organizzato, di pista calabrese, di trafficanti di droga ai quali Azouz doveva aver fatto qualche sgarro mentre era in prigione. Poi il quadro è cambiato di nuovo. In base a quello che avrebbe detto Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto alla strage, sarebbe stata solo una persona a compiere la carneficina di via Diaz.

Qualcuno di conosciuto da quella donna nata per aiutare gli altri, un amico, forse addirittura un famigliare, qualcuno al quale lei avrebbe aperto la porta senza preoccuparsi. È vero che Raffaella era abituata a gente che gli altri lasciano ai margini della vita, tossicomani che vivono in comunità di recupero, extracomunitari con permessi di soggiorno inesistenti e fedine penali non proprio limpide. Ma il marito della vicina di casa uccisa nel massacro ha raccontato che l’uomo che ha tentato di sgozzarlo sarebbe un italiano, anche se con la carnagione olivastra. Gli hanno mostrato le foto di Azouz e dei suoi fratelli. Il supertestimone (sopravvissuto solo perché ha una malformazione alla carotide per cui l’assassino l’ha colpito ma non gli ha centrato l’arteria) si rivela prezioso.

Ieri i carabinieri sono tornati sul luogo del massacro. Ancora una volta hanno setacciato la casa centimetro per centimetro raccogliendo altri reperti. Il segreto è rinchiuso in quella abitazione alla quale non si accede se non si hanno le chiavi di tre porte. Quella del cancello, quella dell’ingresso comune e quella della casa di Raffaella e Azouz.

Forse nessuno dei vicini ha visto niente perché non c’era niente da vedere. Nessuna faccia strana, nessun uomo in fuga. Solo qualcuno di conosciuto che è entrato, forse ha iniziato a litigare con Raffaella, per questione di soldi o per quel matrimonio con Azouz che i genitori della ragazza avevano finito per digerire ma i fratelli no. "Lei voleva trasferirsi in Tunisia con suo marito – ha raccontato Carlo Castagna, il fondatore di quell’impero di arredamenti di lusso che è Cast & Cast -. Stavano costruendo un progetto di vita insieme, lei aveva abbracciato la conversione islamica e aveva deciso di ricominciare la sua vita laggiù". Chissa se sta in questo la chiave del massacro. Anche se tutte le altre ipotesi sulle quali stavano lavorando i magistrati restano in piedi. Azouz non sa più a cosa pensare. "Per me è successo tutto sulle scale e sono state più persone".

Ha sempre gli occhiali neri e ora anche un collarino di quelli che si mettono per i colpi di frusta. È la conseguenza della testata che ha dato contro un muro l’altra notte,

dopo aver perso la calma in caserma perché il magistrato non arrivava ad interrogarlo ed era ormai notte fonda. "Chi ha fatto tutto ciò - ripete - è un animale. Anzi sono degli animali perché non era uno solo. Conosco Raffa, sa difendersi, si difende come un leone, soprattutto con un bambino come nostro figlio di mezzo. Volevano inchiodarmi, mettermi di mezzo. Forse sono stato io, senza volerlo, a fare tutto questo disastro". Dunque lui per primo lascia aperta l’ipotesi di uno sgarro. Ma quale non lo dice.

Erba: dagli, dagli all’arabo! ma probabilmente il killer è italiano

 

Notitia Criminis, 17 dicembre 2006

 

Ormai, dalla strage di Novi Ligure in poi, è un copione che si ripete. Davanti a crimini spaventosi, la certezza, prima ancora che gli inquirenti abbiano potuto formulare l’ombra di un sospetto, è che siano stati gli altri, i diversi, quelli che vengono da lontano, gli stranieri.

Un leit motiv che si ripete negli articoli sui giornali, nei servizi televisivi sempre pieni di sospetti e di ipotesi gratuite, nelle notizie che volano di bocca in bocca. E così, fra una discussione al bar e una chiacchierata in piazza, l’Italia inorridisce e trema, però si sente anche vagamente rassicurata dal fatto che in fondo, quello che è capitato è "roba da stranieri" .

Sì, roba nata in casa d’altri e chi è stato ucciso, pace all’anima sua, dopo tutto "se l’è cercata" , come ha avuto il pessimo gusto di ricordare agli italiani una signora di Erba, intervistata dopo che ormai Arzouz Marzouk era già stato scagionato, alludendo al fatto che la povera Raffaella Castagna si era impegolata con un tunisino per di più pregiudicato.

Dagli all’arabo, al nero, all’albanese... salvo poi scoprire, qualche ora dopo, che in realtà i colpevoli hanno la pelle bianca, parlano italiano o dialetto, sono nati e cresciuti nel Bel Paese e magari vivevano porta a porta con le loro vittime.

La tragedia di Erba in cui hanno perso la vita quattro persone fra cui un bambino molto piccolo mentre una quinta è in fin di vita rispecchia perfettamente la realtà malata del razzismo e della xenofobia di casa nostra. Mario Frigerio, il vicino di appartamento di Raffaella Castagna scampato per un soffio alla strage ha cominciato dare la propria testimonianza dall’ospedale Sant’Anna di Como dove è ancora ricoverato in prognosi riservata con un quadro clinico molto grave.Stando al poco che è riuscito a dire, sarebbe stato un italiano a compiere la strage. Una persona sola, probabilmente ben conosciuta anche da lui, oltre che da Raffaella che l’avrebbe fatta entrare. Parole pronunciate a fatica, a causa delle quali adesso Mario Frigerio sarebbe in grave pericolo di vita tanto è vero che è stata disposta dal magistrato una sorveglianza a vista davanti alla sua camera in ospedale.

Ad avvalorare la testimonianza di Frigerio ci sarebbero anche gli esiti dell’autopsia secondo cui il massacro sarebbe avvenuto in due tempi: prima Raffaella Castagna, poi la sua mamma Paola Galli, il piccolo Youssuf e la vicina Valeria Cherubini, colpite violentemente con un pesante corpo contundente che avrebbe fracassato loro la testa.

Un oggetto non molto affilato come una vecchia accetta mezza arrugginita. Successivamente le vittime sarebbero state prese a coltellate e, infine, sgozzate. Solo il piccolo Youssuf è stato risparmiato dal pestaggio. L’ultima vittima sarebbe stata Mario Frigerio, anche lui picchiato con inaudita violenza e ripetutamente accoltellato. Nel caso di Frigerio, lo sgozzamento finale non è riuscito solo per la particolare conformazione del collo che gli ha protetto la carotide e la giugulare.

A lasciare perplessi gli inquirenti, a prescindere dalla testimonianza di Frigerio che non si trova ancora in condizioni di perfetta lucidità, è il fatto che una persona sola abbia potuto commettere una mattanza di simili proporzioni. Forse, nell’appartamento degli orrori c’era anche qualcun altro che non è stato visto dal testimone oculare.

A ogni modo, è difficile credere che il quadruplice omicidio sia opera di professionisti o di qualcuno in preda a una lucida, ragionata follia omicida. Specialisti nel settore del delitto si sarebbero quantomeno portati appresso armi più efficienti e meno difficili da manovrare nonché del liquido infiammabile per appiccare l’incendio.

Adesso, stando a quanto dicono i medici, Mario Frigerio rischia anche di perdere la memoria dell’accaduto. Lo ha comunicato l’avvocato Manuel Gabrielli, incaricato dai due figli. "Secondo i sanitari che lo hanno in cura," ha detto il legale, "c’è il pericolo che il mio assistito, per una forma di auto protezione, si chiuda in se stesso, finendo per cancellare" il ricordo dei tragici fatti a cui ha assistito".

Ora, mentre a Erba ci si sta ancora interrogando su cosa sia veramente successo nell’appartamento in via Diaz, il papà di Raffaella ha doto prova di una straordinaria umanità e di una dignità senza uguali. Invece di chiudersi in un guscio di disperazione, ha accolto a braccia aperte i familiari di Marzouk unendo il proprio dolore al loro. "So che Raffaella vorrebbe così", dice a chi glielo chiede. E tanto deve bastare a tutti, anche a coloro che si ostinano a vedere nel tunisino l’elemento estraneo che ha fatto scattare la furia omicida.

Reggio Calabria: calciatori in carcere, per sport e letteratura

 

Quotidiano di Calabria

 

L’artista reggino Giacomo Battaglia, ha portato ieri mattina dentro la casa circondariale "Racconti in amaranto", questo il titolo del divertente libro d’impronta autobiografica scritto dal noto cabarettista, tante risate, ed una ventata d’allegria, nell’occasione di una cerimonia dedicata ai detenuti, che si è svolta nel teatro delle carceri, e lo ha visto protagonista insieme ad alcuni calciatori e dirigenti della Reggina.

La manifestazione è stata organizzata dall’amministrazione comunale, nell’ambito delle iniziative finalizzate a creare un filo conduttore ed occasioni di contatti e comunicazione, tra le persone detenute e la società esterna.

Numerosi i presenti all’iniziativa, che è stata condotta dall’educatore Emilio Campolo, tra questi: la direttrice del penitenziario, Maria Carmela Longo; la vice direttrice; il garante dei detenuti, il giudice Tuccio; l’assessore allo sport Giuseppe Agliano; il presidente del consiglio comunale, Aurelio Chizzoniti, che particolarmente si interessa delle politiche penitenziarie e che recentemente è stato promotore dell’importante figura, oggi realtà nelle carceri reggine, del garante dei detenuti; il magistrato Marcello Scordo, presidente del tribunale di Sorveglianza, ed il magistrato di sorveglianza Minauro.

Ed ancora, per il mondo dello sport, presenti i presidenti del Coni regionale e provinciale, Mimmo Praticò e Giovanni Filocamo, ed i calciatori amaranto Leon e Modesto.

Una manifestazione pienamente riuscita, che è voluta anche essere un momento di scambi augurali tra l’amministrazione penitenziaria tutta compreso il numeroso personale volontario, i cittadini della società esterna, la sfera istituzionale, ed i detenuti presso la casa circondariale.

Il presidente del consiglio comunale, nel suo intervento ha ricordato l’importanza della figura del garante delle persone limitate o private della libertà personale, ricordando anche che, Reggio, è la quinta città in Italia ad avvalersi di tale figura. "Un primato che mi rende e ci rende particolarmente orgogliosi e che conferisce onore alla nostra città", ha sottolineato la direttrice delle carceri.

"Una figura, quella del garante, che ha compiti di mediazione tra "dentro e fuori" le sbarre, come ha spiegato lo stesso giudice Tuccio, che si è detto onorato di ricoprire questo incarico di forte impronta di servizio sociale, dopo anni di attività magistratura, soffermandosi sui problemi più urgenti da affrontare per ottimizzare la vivibilità dei detenuti nelle carceri, in primis il sovraffollamento, che è stato riconosciuto maltrattamento, ed il lavoro, che è la forma più valida di recupero e di reinserimento. Riguardo l’ambito dello sport, il responsabile Coni, Praticò, ha detto che, è nei suoi progetti e nei programmi del Coni, portare lo sport che è valore altamente educativo ed aggregativo, in carcere. Particolare calore le persone detenute presenti alla manifestazione, hanno riservato ai calciatori della Reggina ed ai dirigenti della società, e vere dimostrazioni di affetto, hanno esternato a Giacomo Battaglia, che dal palco ha dato il meglio di sé, e che seppur bravissimo attore, è riuscito a stento a celare l’emozione di trovarsi davanti ad un pubblico davvero speciale, che ha bisogno due volte di occasioni per sorridere.

Nuoro: "Fuori dall’ombra", libro di fiabe scritto dai detenuti

 

L’Unione Sarda, 17 dicembre 2006

 

"Ma ce la farò a leggere senza farmi fregare dall’emozione?". Pasquale Stochino tormenta tra le mani il foglio sul quale aveva scritto i suoi versi, fa pochi passi, risponde con un sorriso largo al saluto di un agente e, per esorcizzare la timidezza, gli chiede: "Ma ce la farò?...". Ha cantato i suoi versi come un poeta alla gara, fino al lungo applauso. E adesso che ci hanno preso gusto, l’ex latitante ogliastrino e gli altri detenuti-poeti della sezione di Alta Sicurezza, cominceranno a scrivere le favole. Un progetto vero, promosso dal direttore Paolo Sanna, che ha chiesto la supervisione della scrittrice Bianca Pitzorno.

C’erano tutti, ieri mattina nella cappella di Badu ‘e carros, per la presentazione del libro "Fuori dall’ombra", raccolta di poesie di quaranta detenuti della sezione di massima sicurezza del carcere nuorese. I familiari dei reclusi, il vescovo di Nuoro, il sindaco, il presidente e il consigliere della commissione regionale Diritti civili Paolo Pisu e Maria Grazia Caligaris.

L’appuntamento, organizzato dalla direzione dell’istituto e dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Francesco Massidda (che hanno potuto contare sulla collaborazione degli operatori, dagli agenti agli educatori, e del cappellano don Giampaolo Muresu). "Un’iniziativa partita dai detenuti - spiega il direttore - e che, rientrando nel quadro di quelle che sono state svolte all’esterno, ci permette di continuare nel percorso di apertura del carcere". Il libro era già stato presentato nella Biblioteca Satta e a Orgosolo, e poco meno di un mese fa i reclusi hanno chiesto che l’iniziativa si ripetesse anche a Badu ‘e carros.

"Una richiesta che ho accolto subito", dice il provveditore Francesco Massidda che la raccolse direttamente dai reclusi un giorno in cui, in visita a Nuoro, passò a vedere le aule dove si stavano svolgendo le lezioni.

La lettura delle poesie è andata avanti per quasi tre ore. Ma la presentazione del volume di versi è diventata anche l’occasione per riflettere sul senso della detenzione, sui diritti (e naturalmente anche i doveri) dei detenuti. Il presidente della Commissione regionale Diritti civili ha ribadito l’impegno sul versante della continuità affettiva per i reclusi. "Chiediamo che tutti i detenuti sardi possano scontare la pena in Sardegna e che - sottolinea Paolo Pisu - quelli che arrivano dalla penisola vengano riavvicinati alle proprie famiglie". Dalla riflessione ai progetti.

L’idea di un libro di favole scritte dai reclusi della sezione di massima sicurezza, è subito piaciuta a Bianca Pitzorno che ha accettato al volo di fare da editor. "Credo che per i detenuti sarà un’esperienza bella e utile, più di una seduta di psicanalisi. Parlare ai bambini significa sempre tornare alla propria infanzia, mentre - sottolinea la scrittrice - l’aspetto magico del racconto porta a far riemergere cose e situazioni che più spesso censuriamo". Bianca Pitzorno, grande autrice di libri per bimbi e ragazzi, è arrivata a Badu ‘e carros con un’enorme borsa piena di romanzi da regalare ai figli dei detenuti. "I figli di chi sconta una pena in carcere sono i più sfortunati perché il loro papà è lontano. Ma sono anche i bambini più amati".

Lecco: meglio il carcere che le continue liti con i familiari

 

La Provincia di Lecco, 17 dicembre 2006

 

Meglio il carcere che le continue liti con i familiari. A molti, questa particolare interpretazione del famoso detto "parenti serpenti " non potrà apparire delle più appropriate, ma così evidentemente non l’ha pensata un giovane marocchino che, pur di lasciare i parenti con i quali non faceva altro che litigare, e presso l’abitazione dei quali si trovava agli arresti domiciliari, prima ha avvisato i carabinieri della sua intenzione di ritornare in cella, e quindi, si è fatto beccare dai militari, in strada, a pochi passi dalla casa dei congiunti, in flagrante evasione.

Al giovane, di 27 anni, indagato per una brutta vicenda relativa ad una violenza sessuale, erano stati concessi gli arresti domiciliari. L’uomo, aveva così trovato accoglienza nell’abitazione d’alcuni parenti, residenti nell’Oggionese. Sulle prime, tra il giovane ed i parenti tutto sembrava filare liscio come l’olio. Insomma, piuttosto che una fredda ed umida cella di un carcere, cosa meglio della casa dei parenti? "Nulla" deve avere pensato il Nostro.

Ma come è noto, è la routine a logorare i rapporti, e così tra il giovane ai domiciliari e il parentado, i rapporti si sono fatti via via sempre più tesi. Insomma, tra una discussione e l’altra, tra una lite ed un animato scambio di opinioni, la situazione per il giovane è diventata insostenibile. Alla fine, ormai al colmo della sopportazione il giovane, giovedì sera ha deciso che piuttosto che continuare a vivere in quel modo, con i parenti sempre alle costole, era meglio il silenzio e la tranquillità di un carcere.

Senza indugio l’uomo ha afferrato il telefono, ha comunicato ai carabinieri la sua decisone di ritornare in carcere, ha preso le sue cose, ed uscito di casa, probabilmente senza salutare nessuno. I carabinieri, lo hanno trovato in strada, a pochi passi dall’abitazione dei parenti, in flagrante evasione, e come vuole la legge, lo hanno arrestato per evasione. Ieri l’uomo è comparso davanti al giudice per affrontare il processo per direttissima, difeso dall’avvocato Laura Rota.

Il difensore ha chiesto ed ottenuto i termini a difesa, e il processo è stato aggiornato ad altra data. Ora l’immigrato si sta "godendo" il carcere, al riparo ormai dai litigiosi parenti. Poco tempo fa, in un centro della nostra provincia, un altro detenuto agli arresti domiciliari aveva preferito la cella alla moglie. "Quando beve diventa violenta e mi picchia" aveva raccontato agli agenti.

 

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