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Giustizia: sindacati penitenziari; Castelli eviti il crac delle carceri
Ansa, 18 ottobre 2005
"Se il ministro Castelli vuole realmente evitare il crac del sistema penitenziario" allora "si impegni concretamente a sostenere le esigenze del carcere e dei suoi dipendenti in consiglio dei ministri". Lo affermano cinque sindacati di polizia penitenziaria (Cgil, Cisl, Uil, Sag-Unsa e Osapp) che, in una nota congiunta, sollecitano il Guardasigilli a chiedere più uomini e più fondi in Finanziaria per le carceri italiane. I sindacati ritengono che le parole di Castelli di qualche giorno fa, in Commissione Giustizia al Senato, sulla necessità di trovare risorse aggiuntive "altrimenti il sistema a metà 2007 salterà", sono la dimostrazione che "finalmente" "anche il Ministro ha dovuto riconoscere la legittimità delle rivendicazioni avanzate dal Cgil, Cisl, Uil, Sag-Unsa, Osapp, invece che osteggiarne i contenuti". Le cinque sigle sottolineano il cambiamento di opinione del Guardasigilli sull’emergenza sovraffollamento delle carceri "dopo aver speso anni a tentare di convincere l’opinione pubblica, le istituzioni, le organizzazioni sindacali e i suoi dipendenti, dell’esatto contrario". I sindacati chiedono quindi un impegno preciso di Castelli affinchè in consiglio dei ministri venga approvato un emendamento che recepisca le "indicazioni responsabilmente offerte" dalla polizia penitenziaria. Droghe: a Palermo governo ascolti le perplessità delle associazioni
Redattore Sociale, 18 ottobre 2005
"Cosa possono discutere le società scientifiche con la politica se la politica ha già deciso?". Una domanda non retorica quella della Società Italiana Tossicodipendenze che per voce del presidente Pier Paolo Pani, commenta: "Abbiamo appreso con sconcerto e viva preoccupazione l’annunciata azione legislativa (il cosiddetto "Decreto Giovanardi") di modifica dell’attuale assetto normativo. Le tematiche affrontate dal decreto in questione sembrano riferirsi alla revisione dei limiti di tempo per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, ai rapporti fra pubblico e privato e alle norme che regolano la distinzione fra consumo e spaccio. Si tratta di argomenti con rilevanti ricadute sul piano giudiziario, sociale e sanitario-assistenziale; argomenti suscettibili di valutazioni e approfondimenti sul piano scientifico e su quello clinico". Il ddl che riforma il Testo unico 309/90 è attualmente in discussione al Senato. "La Conferenza Nazionale rappresenta il contesto più appropriato per raccogliere il contributo delle Società scientifiche su questi temi. - aggiunge Pani - La formulazione di soluzioni legislative indipendenti dal merito tecnico appare svuotare la Conferenza medesima dell’aspetto per noi più rilevante". Per l’associazione "poco opportuna e poco attenta al ruolo, anche sociale, delle Società scientifiche" la scelta di far coincidere la conferenza con la presentazione e la discussione del decreto. "Auspichiamo – conclude Pani - che il Governo voglia considerare le perplessità nostre e delle altre realtà scientifiche e professionali e restituire alla Conferenza il valore di momento di discussione ed elaborazione finalizzata all’azione legislativa. Nel caso tali perplessità non determinassero il Governo a posticipare i ragionamenti sulle possibili variazioni al vigente TU 309/90 a dopo lo svolgimento della Conferenza ci riserviamo di valutare l’opportunità della partecipazione della nostra Società ai lavori della Conferenza stessa". Genova: il suono della libertà, "Pakidharma" in concerto a Marassi
Secolo XIX, 18 ottobre 2005
La musica, così come i libri, sa concedere istanti di libertà. Per questo Leonardo Paradiso ha organizzato un concerto nel carcere di Marassi: "Per donare un pò di libertà a chi questa condizione non la vive da tempo". Un tema caro a Paradiso che ha fondato con altri soci il Miglio Verde, una cooperativa sociale che si occupa del reinserimento nel mondo del lavoro di persone deboli: soggetti in detenzione, semi-libertà, persone con problemi giudiziari. "Abbiamo sentito il dovere di contribuire per dare un piccolo piacere ai detenuti - sottolinea Paradiso -. I ragazzi che suoneranno oggi faranno loro un grande dono: un’ora di svago. Saranno un ponte verso l’esterno, porteranno dentro le mura del carcere l’odore della vita che sta al di là di quelle mura". A Marassi entreranno quattro ragazzi di Savona, hanno 20 anni, studiano all’università e fanno concerti gratis. "È una nostra scelta, che si allinea con quella di suonare nelle carceri", precisa Alberto. I Pakidharma - così si chiama il loro gruppo - hanno suonato anche al Sant’Agostino, il carcere di Savona. "È stata un’esperienza forte - confessa Alberto -. Nessuno di noi, prima di allora, era mai entrato in un carcere. Mi ricordo l’angoscia che ho provato nel vedere i detenuti camminare avanti e indietro per tutto il tempo in cui abbiamo montato gli strumenti". Continua Matteo: "Durante il concerto, i loro occhi ci ringraziavano. Solo per il fatto che eravamo lì, con degli strumenti a suonare per loro. La nostra musica non è orecchiabile, soprattutto per chi l’ascolta per la prima volta. Ma loro battevano le mani, il loro entusiasmo era gioioso e sincero". Le loro canzoni hanno come filo conduttore un evento storico: hanno parlato della guerra civile in Congo, del G8 a Genova, dell’attentato terroristico in Spagna: "Cerchiamo di far chiarezza su eventi importanti: le guerre dimenticate, le vittime del delirio di onnipotenza dell’uomo contemporaneo - confessa Federico, il cantante - . Per questo non vogliamo dare un taglio politico alle nostre canzoni". Educare, redimere, reinserire si legge sui muri del carcere. Ieri, a Marassi, anche un torneo di calcio a conclusione di un corso di formazione di arbitri. E oggi, per i detenuti di Marassi, non sarà una giornata scandita soltanto dal rumore di porte che si aprono e chiudono. Ci saranno quattro ragazzi che suoneranno per loro una musica diversa. Giustizia: don Ciotti; disegno legge su confisca beni è una trappola
Ansa, 18 ottobre 2005
"Il disegno di legge sulla confisca dei beni ai boss mafiosi, che oggi sarà discussa alla Camera dei deputati, è una trappola in nome di un malinteso garantismo". Lo sostiene don Luigi Ciotti, secondo il quale "con questo testo nessun provvedimento di confisca sarà mai definitivo". Sulla questione l’associazione Libera, di cui don Ciotti è presidente, e decine di familiari delle vittime delle mafie hanno lanciato oggi un appello con il quale chiedono "un serio e approfondito ripensamento, in sede di dibattito parlamentare", del disegno di legge delega sulla confisca dei beni ai boss. Libera e i familiari delle vittime chiedono di intervenire soprattutto per quanto riguarda la possibilità di revisione dei provvedimenti definitivi di confisca, e per questo auspicano che "deputati e senatori di tutte le forze politiche sappiano trovare la giusta misura, il corretto equilibrio tra la tutela dei diritti di chi subisce i provvedimenti di confisca dei beni e la necessità di sottrarre alle organizzazioni mafiose gli immensi patrimoni che accumulano ogni anno, nell’illegalità e nel sangue". L’appello raccoglie le adesioni, tra gli altri, di don Luigi Ciotti, Rita Borsellino, Giovanni Impastato, Claudia Loi, Daniela Marcone, Viviana Matrangola, Debora Cartisano, Margherita Asta, Maddalena Rostagno, Monica Rostagno e Elisabetta Roveri. "La legge Rognoni-La Torre, che consente da oltre vent’anni di aggredire le ricchezze accumulate dalle mafie nel nostro Paese - si legge nell’appello diffuso da Libera - è in pericolo. Rischia di essere approvato dal Parlamento, infatti, un disegno di legge che tra i molti aspetti discutibili prevede la possibilità di revisione, senza limiti di tempo e su richiesta di chiunque sia titolare di un "interesse giuridicamente riconosciuto", dei provvedimenti definitivi di confisca". "Se dovesse essere approvato - sostiene l’associazione presieduta da Don Ciotti - tutti i beni confiscati (dai terreni coltivati da coraggiose cooperative di giovani agli immobili trasformati in sedi di servizi sociali o in caserme delle forze dell’ordine, solo per fare alcuni esempi) finirebbero in un limbo di assoluta incertezza. Esattamente il contrario di quanto sarebbe necessario oggi". Il senatore Gianpaolo Zancan ha osservato che il vero scontro sarà mercoledì in Commissione Antimafia: "Questo - ha detto - dimostra quale degrado ci sia. È come se si cominciasse a bestemmiare in Chiesa". Lodi: detenuto tiene in scacco l’ospedale maggiore per 5 ore
Il Cittadino, 18 ottobre 2005
Per cinque ore ha tenuto sotto scacco l’ospedale di Lodi. Il "fachiro" egiziano che lunedì mattina in tribunale aveva inscenato un tentativo di suicidio ingoiando una lametta da barba ci ha riprovato ieri dalla sua stanza di ospedale, ma questa volta in modo molto più spettacolare. Ahmed Elmitwalli Al Mansour, 31 anni di cui nove vissuti in Italia e una lunga striscia di condanne alle spalle che gli è costata anche l’annullamento del permesso di soggiorno, alle 8 di ieri mattina è sfuggito al controllo delle due guardie carcerarie che lo piantonavano, si chiuso nel bagno della sua stanza d’ospedale e si è seduto sul davanzale della finestra rimanendo seminudo e con le gambe penzoloni per quasi cinque ore, minacciando ripetutamente di buttarsi dal quarto piano. Quattro ore e 42 minuti di trattative serrate, condotte prima dal questore Giuseppe Poma, poi dal numero due dell’ufficio immigrazione della questura, il sostituto commissario Francesco Vitolo e infine chiuse dall’arrivo del giudice del tribunale di Lodi Stefania Letizia, che una settimana fa aveva condannato l’egiziano a otto mesi di carcere per essersi reintrodotto in Italia dopo essere già stato espulso più volte. Dopo ore di colloqui con momenti di alta drammaticità - i vigili del fuoco hanno sistemato sul piazzale dell’ospedale Maggiore il telone che avrebbe salvato la vita ad Al Mansour se avesse deciso di lanciarsi -, l’egiziano è rientrato in camera. Protagonista della folle mattinata lodigiana è il 31enne Ahmed Elmitwalli Al Mansour. L’uomo vive in Italia da nove anni, è sposato e padre di quattro figli, di cui uno con gravi problemi di salute. Al Mansour era regolare e lavorava come operaio a Casale e Castiglione. Una vita normale finché, negli ultimi due anni, non comincia ad avere gravi problemi con la giustizia. Prima partecipa a un sequestro di persona e viene condannato a due anni di carcere, poi una rapina con violenza carnale gli costa quattro anni e mezzo. Il questore non gli rinnova il permesso di soggiorno ed è espulso. A maggio lo mettono su un aereo per l’Egitto, ma i carabinieri di Casale lo arrestano a inizio ottobre. Al processo la giudice Stefania Letizia lo condanna a otto mesi. Per protesta cerca (o finge) di suicidarsi inghiottendo una lametta).n Appeso a un cornicione. Da giovedì l’egiziano è in ospedale a Lodi, in una stanza nel reparto di chirurgia II al quarto piano. In camera è piantonato 24 ore su 24 da due guardie della polizia penitenziaria. Rifiuta regolarmente cure e controlli medici e la possibilità di farsi operare all’addome per estrarre eventuali corpi estranei ingeriti. "Però è sempre stato tranquillo", afferma la caposala. Alle 8 precise, il colpo di scena. L’egiziano dice alla guardia di voler andare in bagno, separato rispetto alla stanza da una porta comunicante. Improvvisamente dà uno spintone all’agente e si chiude a chiave all’interno. Poi spalanca la finestra e si siede sul cornicione, sospeso nel vuoto, con le gambe penzoloni a quasi venti metri d’altezza. Indossa scarpe da ginnastica, pantaloni rossi da tuta e una maglia bianca annodata intorno al collo come una sciarpa. Fa freddo, lui è praticamente a torso nudo. Minaccia di buttarsi di sotto, il piazzale si popola di curiosi. L’agente del posto di polizia dell’ospedale cerca di convincerlo a rientrare. Non riuscendovi, fa scattare l’allarme. In pochi minuti arrivano la squadra mobile, le volanti, i carabinieri, i vigili del fuoco e la polizia locale. L’uomo sente di aver subìto un’ingiustizia, vuole che la condanna gli venga cancellata, altrimenti si lancerà nel vuoto. Chiede di parlare con un cugino che sta a Casale. Non lo trovano, lui non ci crede e finge di lasciarsi cadere. Poi chiede di parlare con il questore. Giuseppe Poma arriva intorno alle 9 e comunica con l’egiziano dalla finestra accanto. Al Mansour vuole restare in Italia. Vuole anche Francesco Vitolo. Lo conosce perché è il suo riferimento all’ufficio stranieri. Il sostituto commissario arriva e insieme al questore conduce le trattative. Nel frattempo i pompieri sistemano il telone, arrivato appositamente da Milano, nel piazzale del pronto soccorso, in modo che Al Mansour non possa vederlo. Sono passate le 10 e da oltre due ore l’egiziano è sospeso nel vuoto. Il questore e Vitolo gli passano un permesso di soggiorno (ovviamente fasullo) per convincerlo a rientrare. L’uomo sembra non crederci, poi lo prende e lo legge più volte. Gli passano anche un cellulare. Al telefono c’è il cugino, il quale arriva di persona all’ospedale intorno alle 11. Dalla finestra cercherà più volte, senza risultato, di convincere il parente a desistere. All’egiziano però il permesso di soggiorno non basta. Vuole che la condanna sia annullata. Poma fa allontanare tutti gli uomini in divisa e si allontana pure lui. Mentre Vitolo distrae Al Mansour i vigili del fuoco riescono a sistemare il telone sotto la finestra. Quando Al Mansour se ne accorge dà in escandescenze e minaccia di buttarsi, ma a questo punto rischierebbe al massimo qualche frattura. Allora si porta una mano alla bocca e ingerisce qualcosa, qualcuno dice una lametta. Nel frattempo nella polizia c’è chi pensa a un’azione di forza. A quattro agenti vengono fatti indossare camici bianchi e badge. L’obiettivo è irrompere nella stanza fingendosi medici e immobilizzare l’aspirante suicida, ma si opta per la via diplomatica. Viene rintracciato il giudice Stefania Letizia che, affacciandosi dalla finestra, comincia a parlare fittamente con Al Mansour. Lei e Vitolo gli assicurano che potrà ricorrere contro la condanna, ma sono disposti a discutere soltanto se abbandonerà i suoi propositi suicidi. L’uomo, vinto dal freddo (avrà poi un malore) e dalla stanchezza, solleva le gambe e rientra in camera. Sono le 12.42: l’incubo è finito. Pescara: progetto per favorire il reinserimento di detenuti
Prima Da Noi, 18 ottobre 2005
È stato presentato questa mattina in Provincia il progetto "Salis - Servizi per l’autonomia, il lavoro e l’inclusione sociale" finanziato dall’Ue nell’ambito della seconda fase dell’iniziativa comunitaria "Equal". L’Amministrazione provinciale è il capofila dell’iniziativa e assume il coordinamento del programma assicurando il reinserimento e l’accesso al mercato del lavoro di detenuti e condannati in esecuzione penale esterna e di ex-detenuti. Un piano d’azione sociale che si colloca tra il carcere e il territorio strutturando e accompagnando i percorsi, necessariamente personalizzati, flessibili e articolati, dal penitenziario verso il reintegro socio-professionale attraverso una integrazione e attivazione di opportunità, risorse e servizi offerti dai diversi soggetti che compongono la partnership:oltre alla Provincia, l’Enfap Abruzzo, la CNA, la Confesercenti, il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria Abruzzo e Molise, l’agenzia di pubblicità Sinergia Advertising. I beneficiari sono alcuni detenuti del carcere di "San Donato" di Pescara, uomini e donne, che hanno la possibilità di effettuare lavoro fuori dal penitenziario, soggetti in esecuzione penale esterna seguiti dal centro di servizio sociale per adulti di Pescara, ed ex reclusi che entrano autonomamente in contatto con il progetto. Gli interventi favoriscono il reinserimento socio-lavorativo offrendo uno stage retribuito in azienda e favoriscono il lavoro autonomo dopo un percorso di apprendimento specifico, sotto la guida di un imprenditore-artigiano. Il presidente Giuseppe De Dominicis ha sottolineato come la Provincia Solidale non possa non occuparsi del "reinserimento nella società di chi ha pagato con il carcere un errore fatto nella vita". L’assessore al lavoro Antonio Castricone ha ricordato i risultati del progetto Re.La.I.S., di cui "Salis è la logica necessaria evoluzione". "Con il progetto Relais, - ha sottolineato la dirigente del settore Nicoletta Bucco - su 58 utenti, sono state impiegate 16 persone con borse lavoro, mentre 21 hanno svolto la formazione in azienda e 45 hanno seguito la formazione in aula". Il segretario provinciale della CNA, Carmine Salce, ha specificato che il progetto Salis riguarderà 40-50 beneficiari, e che la differenza con il precedente progetto di inserimento mirerà a dare tutti gli strumenti utili per creare microimprese, quindi lavoro autonomo. Anna Sposito, referente del Provveditorato Regione Abruzzo e Molise, dell’amministrazione penitenziaria, ha precisato che per l’attuazione del Salis verrà utilizzata la rete creata sul territorio con il progetto Relais per contattare non solo i detenuti che vorranno partecipare all’iniziativa, ma anche agli ex detenuti. Giustizia: sulle politiche carcerarie, torniamo a Beccaria
Cafè Babel, 18 ottobre 2005
Le prigioni europee diventano stracolme. I fermi più frequenti e duraturi. La rieducazione e la dignità umana si perdono per strada. Ci sono alternative alla gattabuia? La finalità dei primi penitenziari inglesi e olandesi si basava non più sulla vendetta ma sull’idea che il prigioniero dovesse progredire grazie al lavoro. L’italiano Cesare Beccaria, specialista in diritto penale, ebbe a riflettere già nel 1764 sul senso delle pene. Per Beccaria, non bisognava guardare alla vendetta o all’intimidazione, ma piuttosto al risultato d’impedire al prigioniero di recar nuovamente danno ai suoi concittadini. Se oggi persista ancora una reale finalità dietro l’inflizione di una pena, resta un po’ in dubbio. Perché dagli orientamenti dei sistemi penali dei vari paesi europei, non emerge chiaramente se s’intenda punire il fatto o il colpevole. Da un lato la rieducazione dei detenuti è un interesse superiore, spesso perfino riportato come principio costituzionale. Dall’altro, le pene detentive diventano sempre più lunghe e più dure.
Cosa significa rieducazione oggi?
L’idea base legata alla rieducazione è la preparazione al ritorno alla vita libera in un quadro di responsabilizzazione sociale. L’obiettivo non è solo il rispetto della dignità umana del prigioniero: vi è anche il compito per lo stato di proteggere i suoi cittadini extra ed intra muros e, nello stesso tempo, quello di far progredire il delinquente. In Europa però il crescente sovraffollamento delle prigioni rende i programmi di rieducazione quasi impossibili, perché il personale a disposizione è troppo scarso, aumenta l’aggressività dei prigionieri a causa di un contesto spesso irrazionale, ed il lavoro così si complica. Da ciò deriva l’allungamento del giudizio definitivo e l’attesa del processo a fronte di rapidi e crescenti ordini di carcerazione, perché in fondo anche i tribunali pretendono troppo da questa logica. Tuttavia una rieducazione è possibile soltanto attraverso il confronto del reo con il fatto commesso e con la pena inflittagli. Per esempio, il progetto del ministro degli interni francese Sarkozy di mettere automaticamente sotto chiave i recidivi, non migliorerà la situazione (da Le Monde del 26.02.2004). Ugualmente dicesi per l’iniziativa austriaca, di incarcerare i detenuti rumeni in apposite prigioni rumene, nell’illusione di risparmiare sulle spese e di tener testa al sovraffollamento cronico (articolo apparso su lalibre.be). Altrettanto poco aiuta la detenzione per periodi di tempo così lunghi. Delle ricerche hanno mostrato che ciò introduce una prospettiva di rassegnazione nel prigioniero, che non riesce più a capire il senso della sua punizione, dopo un certo numero di anni dietro le sbarre.
Le alternative
Una possibilità, laddove non rappresenti un’effettiva alternativa, verrebbe dall’introduzione di un numero chiuso: la reclusione individuale dev’esser garantita, ma non dev’esser permesso un sovraffollamento maggiore del 103%. Se non resta alcun posto libero, il condannato deve restare su una lista d’attesa e vivere in regime di semilibertà. Questo sistema è stato abolito nel 2002 in Olanda. E non è stato introdotto né in Francia né in Germania. Le reali controproposte sono ad esempio i lavori di pubblica utilità o l’introduzione degli arresti domiciliari dietro sorveglianza elettronica. Cominciando dai lavori di pubblica utilità, si tratta di una buona alternativa per un gran numero di reati, perché può aiutare il delinquente a interiorizzazione il delitto compiuto e la pena inflitta, e contemporaneamente può creare un ponte tra i delinquenti e la società. Il problema qui è che diventa sempre più difficile trovare partner (associazioni od organizzazioni) disponibili alla messa in atto di questi giudizi. Gli arresti domiciliari dietro sorveglianza elettronica, eliminati in Canada solo due anni fa per le ingenti spese e per motivazioni di carattere etico, trovano tuttavia sempre più sostenitori in Europa. Se in Germania la proposta viaggia ancora come progetto pilota in alcuni Länder, in Francia essa dovrebbe invece trovare un’estensione generale dopo una fase sperimentale di due anni. Da una parte, questa alternativa sembra avere effetti positivi, poiché le persone colpite da questo provvedimento possono restare nel loro ambiente ed in questo modo è possibile evitare l’impiego di guardie a vista. Certo, per molti si tratta anche di un allargamento del controllo sociale dello stato, che riguarda anche i parenti e gli amici del reo. Inoltre le ditte private spingono per l’uso di queste tecniche per finalità di lucro. E che questo concordi col senso della punizione è tutto da dimostrare. La punizione ha senso se è sensata. Una politica carceraria inasprita, anche se tranquillizza gli animi dei cittadini e dei politici su scala nazionale ed internazionale, avrà, se vista in prospettiva, un effetto boomerang che ricadrà con tutte le sue nefaste conseguenze tanto nella lotta al terrorismo, tanto sul piano della lotta al crimine e della sicurezza interna. Giustizia: i diritti delle libertà in cambio della sicurezza
Cafè Babel, 18 ottobre 2005
Intervista a Tony Bunyan, membro di Statewatch, la ong londinese che effettua un monitoraggio delle libertà civili all’interno della Ue. Quali gli effetti del terrorismo sui diritti dei cittadini? Fino a che punto è accettabile erodere le libertà civili in nome della prevenzione al terrorismo? È certamente legittimo adottare misure di sorveglianza per sospetti terroristi, per l’estradizione e per aumentare il livello di sicurezza delle compagnie aeree, ma molte misure prese dall’11 settembre in poi, sono fondate sulla strategia del terrore. Le statistiche di Statewatch per quel che riguarda le proposte dell’Unione Europea fatte successivamente agli attentati di Madrid dell’11 marzo, hanno evidenziato che su un totale di 57, 27 non hanno niente, o poco, a che fare con la prevenzione del terrorismo. Ad esempio, le misure per mettere sotto sorveglianza tutte le telecomunicazioni della gente nella Ue e il monitoraggio degli spostamenti verso e fuori dall’unione. A ciò si aggiungano i piani per l’accumulazione di dati personali attraverso la realizzazione dei passaporti biometrici. È stato il commissario per l’informazione britannico, Richard Thomas, ad affermare che "Stiamo andando verso una società del controllo come dei sonnambuli, senza accorgecene". Ma non si può difendere la democrazia minandone le sue regole e valori fondamentali.
La minaccia del terrorismo può essere combattuta a livello europeo piuttosto che nazionale? Alla minaccia del terrorismo si deve rispondere su entrambi i livelli. È necessaria una cooperazione a livello europeo, ma i veri provvedimenti devono esser presi a livello nazionale. Dopo l’11 settembre, il Regno Unito, ha preso provvedimenti, senza precedenti storici, affinché stranieri sospettati di voler commettere atti terroristici, fossero detenuti senza denuncia. Anche se questo sistema è stato dichiarato illegale a dicembre, il governo britannico è intenzionato a procedere con i control orders, gli ordini di sorveglianza, e gli house arrests, gli arresti domiciliari.
Quante preoccupazioni suscitano in Statewatch questi sviluppi? Ciò a cui ora stiamo assistendo è la presentazione da parte del governo britannico di un’altra proposta di legge per la prevenzione del terrorismo (Prevention of Terrorism Act). Ce ne fu una negli anni ‘70, che riguardava soprattutto il conflitto nell’Irlanda del Nord. Per ciò che concerne gli ordini di sorveglianza, ho i seguenti timori: prima di tutto che il potere di imporre un ordine di sorveglianza sarà di prerogativa ministeriale, il che significherebbe che la magistratura avrà poteri di revisione limitati. In secondo luogo, l’ordine sarà condotto in base ad un "sospetto ragionevole", il che lascerebbe un onere di prova alquanto ambiguo. L’Home Secretary, il ministro degli interni, potrà fondare la sua decisione in base a suggerimenti dei servizi segreti, che potrebbero anche includere informazioni raccolte in seguito all’uso di torture perpetrate in altri paesi. Inoltre, non tutte le prove raccolte contro la persona sospetta dovrebbero per forza esser rese note, ma solo quelle sufficienti per sostenere l’accusa. Ma ciò che allarma maggiormente è che le prove incriminanti non saranno rese note al sospettato. Tanto l’imputato, quanto i suoi avvocati, non potranno vedere le "prove". Gli unici a vederle saranno il magistrato e un "avvocato ad hoc", nominato dall’Attorney General, (procuratore generale, membro della Camera dei Comuni, appartenente al partito di maggioranza). Si tratta di una prassi che viola tutte le normative a tutela di un giusto processo. La persona non verrà a conoscenza dei capi d’accusa, non vedrà le prove e sarà quindi incapace di ribatterle, e non potrà scegliersi un avvocato difensore che ne rappresenti i suoi interessi in tribunale. Misure del genere sono inaccettabili in una società democratica.
Nel rapporto di giugno, Human Rights Watch ha duramente criticato lo stato delle libertà civili nella Ue. Gli eventi dell’11 settembre hanno contribuito direttamente a questo deterioramento o è un indice del malessere dello stato dei diritti umani in Europa? C’è stata un’ondata di cambiamenti dall’11 settembre. Il pericolo che si corre oggi è che le democrazie parlamentari comincino a legiferare emanando leggi straordinarie in nome della politica del terrore. Il che, relega il ruolo della magistratura a un nuovo ambito, dovendo questa decidere non tanto in base alla legge stessa, ma piuttosto sul fatto che questa sia stata applicata in modo corretto o no. Sicché, nel Regno Unito, si è vista una sentenza dichiarare che la detenzione di persone nella prigione di Belmarsh senza un processo fosse illegale, ma allo stesso tempo ci sono state altre decisioni che hanno stabilito che l’uso di prove in tribunale, ottenute con l’uso di torture e l’archiviazione di campioni di DNA di individui non ancora accusati di alcun crimine, fossero accettabili. Nella "guerra al terrorismo" stiamo assistendo, ormai quasi quotidianamente, ad una prevaricazione dei diritti e delle libertà a favore di un senso di sicurezza. A meno che l’Europa non riscopra i suoi principi e valori democratici, un incombente autoritarismo, che al momento coesiste con la democrazia parlamentare, finirà per dominare il nostro modo di vivere.
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