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Castelfranco Emilia: Castelli e la cura coatta, di Luigi Manconi
L’Unità, 20 marzo 2005
Domani si inaugura ufficialmente, in Italia, il mercato della cura coatta: si inaugura, cioè, la nuova struttura di Castelfranco Emilia per il recupero di detenuti tossicodipendenti "condannati a pene detentive che non permettono l’assegnazione alla comunità", secondo le parole del Guardasigilli, Roberto Castelli. Sarà una struttura "a custodia attenuata", gestita insieme (non si sa ancora con quale ripartizione di ruoli e competenze) dal pubblico e dal privato: nella fattispecie, dal ministero della Giustizia e da quella holding dell’assistenza che è San Patrignano: un modello di intervento e recupero che risulta in perfetta sintonia con le politiche del centrodestra in materia di tossicodipendenze. Sulla natura di questo centro, a oggi, non si sa molto di più di quanto appena riportato. Il progetto parte da lontano: nel 2001 fu Carlo Giovanardi, ministro dei rapporti con il Parlamento, a gettarne le basi, di concerto con Andrea Muccioli, figlio del fondatore di S. Patrignano e oggi, a sua volta, a capo della comunità più famosa d’Italia. Nel frattempo, il disegno comincia a realizzarsi (al costo di 8 milioni di euro), grazie alla ristrutturazione dell’ex casa lavoro di Forte Urbano (carcere per oppositori politici durante il fascismo) e nella prospettiva di un protocollo d’intesa tra ministero della Giustizia e regione Emilia Romagna. Da domani, questo centro di "reclusione e recupero" sarà (dovrebbe essere) un’azienda agricola di 23 ettari; e vi saranno (dovrebbero esservi) impiegati detenuti "selezionati" attraverso i tribunali di sorveglianza e con l’avallo delle direzioni delle carceri. Quanto all’aspetto riabilitativo e terapeutico, la legge stabilisce che le regole debbano essere quelle già valide per il sistema penitenziario: e che, quindi, il trattamento del tossicodipendente spetti ai Sert. Qui si addensano le maggiori ambiguità: perché il governo ha annunciato che si tratterà di "una nuova esperienza" e perché fu lo stesso Muccioli, nel 2001, a dichiarare: "Non accetteremo situazioni pasticciate, non avalleremo scelte in contrasto con i nostri principi. Tanto per intenderci, non si uscirà da Castelfranco per finire imbottiti di metadone in qualche, si fa per dire, struttura di recupero. Occorrerà, secondo noi, formare le guardie penitenziarie che avranno un ruolo di educazione e non solo di contenimento". Vediamo, dunque, di fare chiarezza. Il progetto del carcere per tossicodipendenti di Castelfranco non può essere inteso in tutto il suo significato, se non alla luce della strategia complessiva del governo Berlusconi in materia di tossicodipendenze: strategia della quale, questo centro, rappresenta una importante esemplificazione operativa e, insieme, una sperimentazione per il futuro. La logica che presiede all’avvio di una simile struttura è la stessa che penalizza ogni forma di consumo di stupefacenti. La stessa, cioè, che qualifica come "reato penale" l’assunzione di sostanze, senza distinzione alcuna tra quelle "leggere" e quelle "pesanti". A fronte della sanzione penale prevista per questo consumo, la legge promossa da Gianfranco Fini prevede la possibilità di sottrarsi alla detenzione, accettando, in alternativa al carcere, un percorso terapeutico di disintossicazione. A partire da qui, le contraddizioni di questo disegno di legge, dell’impianto giuridico che lo sorregge e della cultura che lo ispira, si fanno stridenti. Da quale tipo di "dipendenza" può mai essere curato, infatti, un (occasionale o non) consumatore di cannabis, se la sostanza che assume (nella stragrande maggioranza dei casi e delle situazioni) non ne causa alcuna? È possibile, in altre parole, che chi viene sorpreso a fumare una "canna" possa, per questo, finire (oltre che in carcere) a piantare patate in un’azienda-penitenziario in Emilia Romagna, al fine di una cura disintossicante? Si badi: qui non si intende affrontare il merito "politico" della questione. Su quello noi (e molti altri) ci siamo espressi, segnalando il grave arretramento degli standard di garantismo del nostro ordinamento, derivato dalla penalizzazione del semplice consumo di stupefacenti. Qui si vuole dire, piuttosto, che il principio secondo il quale all’assunzione di droghe deve corrispondere una condizione coatta (di pena e/o di cura) non regge sul piano scientifico: in primo luogo, per la mancata distinzione tra le diverse sostanze, la loro composizione, i loro effetti (oltre che per il mancato riconoscimento del fatto che esistono consumatori occasionali di droghe "pesanti" che non accusano alcuna dipendenza). Inoltre, la casa di reclusione di Castelfranco sarà, in Italia, la prima struttura detentiva affidata alla gestione di un soggetto privato. E su questo c’è moltissimo da dire. Innanzitutto, non risulta chiara la forma della coabitazione tra sanità pubblica e peculiare (e controversa) metodologia terapeutica di San Patrignano. E, poi, c’è un discorso più generale. Se i modelli di riferimento sono le imprese che negli Stati Uniti, come in Inghilterra o in Australia, hanno in appalto molti istituti o l’intero sistema penitenziario, allora c’è di che essere preoccupati: i casi documentati e accertati (e talvolta sanzionati) di sistematica violazione dei diritti dei detenuti si sprecano; e la detenzione va smarrendo (o ha già smarrito) ogni carattere anche minimamente riabilitativo, per ridursi a mera strategia di esclusione e di neutralizzazione. Nel caso italiano - si obietterà - a gestire Castelfranco non sarà un’impresa, ma una comunità terapeutica con decenni d’esperienza. Ma, anche a voler trascurare il carattere "industriale" di quell’esperienza, è il modello di "solidarismo autoritario" praticato a San Patrignano che inquieta. Nell’esperienza avviata da Vincenzo Muccioli si intrecciano punizione "a fin di bene" e paternalismo istituzionale, pedagogia coercitiva e disciplina familistica, autoritarismo e controllo sociale. La "solidarietà" verso il tossicomane si traduce in un meccanismo di interdizione-costrizione (che a Castelfranco, in un carcere, troverà piena realizzazione): perché (è questo il punto) il presupposto dal quale muove quell’approccio terapeutico è che il tossicomane sia un individuo incapace di intendere e di volere, di cui si può perseguire la "salvezza" anche senza il suo consenso e contro il suo consenso; e che, dunque, la sola strategia efficace sia quella che surroga la volontà del tossicomane, ne inibisce la residua autonomia, ne assume la piena potestà. Quale coabitazione sarà possibile, allora, tra gli operatori di San Patrignano e quelli dei Sert, che pure, a termini di legge, dovranno essere presenti a Castelfranco? La strategia della "riduzione del danno", in base alla quale questi ultimi potrebbero operare, parte da una premessa esattamente opposta: ovvero dall’idea che nel tossicomane sopravviva sempre una qualche capacità di autonomia e di scelta (poca o molta che sia). Da qui dovrebbe derivare una terapia che ha come primo obiettivo quello di tutelare e incentivare le risorse di indipendenza e di "libero arbitrio" (poche o molte che siano) che ancora resistono. Risorse che la natura stessa di un istituto come quello di Castelfranco tende ad annullare: o, comunque, a svalutare. Da molti anni, la destra politica tenta di privilegiare la strategia riassumibile nell’esperienza di San Patrignano, al fine di renderla egemone tra le metodiche adottate dall’intervento pubblico. Sotto il profilo scientifico si tratta di una vera sciagura. E lo sarà da domani, con molta probabilità, anche da un punto di vista degli effetti sociali e culturali: perché San Patrignano e Castelfranco rappresentano quel "solidarismo autoritario" che è senso comune e modello pedagogico-terapeutico della destra italiana e di parte del suo elettorato. E sarà "cura coatta", dunque, anche per chi non vuole o non ha necessità di essere curato; sarà "detenzione privata", in barba al fatto che è pubblico (e inalienabile funzione dello Stato) quel diritto che sanziona e decide la reclusione; e sarà "mercato", tutto ciò, se quel centro, come annunciano i vari Giovanardi, dovesse diventare modello per la cura delle dipendenze (vere o inventate). Dio ce ne scampi e liberi. Scrivere a abuondiritto@abuondiritto.it Bologna: inaugurato uno spazio - ludoteca alla Dozza
Il Resto del Carlino, 20 marzo 2005
Uno spazio di circa 30 metri quadrati a misura di bambino, con giocattoli, pastelli, disegni sui muri, tavoli e sedie, ma con le sbarre alle finestre. È la nuova ludoteca della sezione maschile del carcere della "Dozza" di Bologna, che è stata inaugurata oggi dalla direttrice del penitenziario Manuela Ceresani, da Ernesto Caffo, presidente del Comitato nazionale per il Telefono Azzurro e da Walter Dondi, direttore del settore Politiche sociali e comunicazione della Coop Adriatica. Il nuovo spazio, che servirà a far incontrare i padri detenuti nella casa circondariale con i loro bambini, è infatti un progetto gestito dai volontari del "Telefono Azzurro" e sostenuto dalla Coop Adriatica con 37 mila euro (di cui 27 mila derivanti dai ristorni devoluti da 2.500 soci della Coop Bologna e 10 mila stanziati dal cda). "Questa ludoteca va ad aggiungersi a quella già in funzione dal 2001 nella sezione femminile", ha spiegato in conferenza stampa la direttrice Ceresani, sottolineando che "il progetto mira a consentire il mantenimento dei rapporti familiari tra i detenuti e bambini, e a rendere mero difficile e traumatica quella frattura relazionale che avviene nel momento in cui si perde la libertà personale. Molti detenuti (ha aggiunto) scelgono di non vedere il loro figli per non farli entrare in carcere, questo nuovo spazio è pensato proprio per contribuire a superare questi ostacoli e per questo è stato costruito per essere a misura di bambino e di famiglia". A gestire l’uso della discoteca sarà la direzione dell’istituto di pena con il supporto dei volontari del "Telefono Azzurro", che assisteranno agli incontri. "Al momento (ha spiegato ai cronisti Paola Barbato, responsabile del progetto "Carcere", promosso a livello nazionale dal "Telefono Azzurro") gli incontri in ludoteca, invece che in parlatorio, potranno avvenire solo il sabato, in relazione al numero di volontari disponibili, ma contiamo di poter presto aumentare le frequenze all’interno della settimana". Un obiettivo, confermato anche dalla vicedirettrice del carcere Palma Mercurio, che ha precisato che "non appena ci saranno i volontari gli incontri si faranno quotidianamente". Per ora i volontari del Telefono Azzurro impegnati nel progetto sono circa 20, ma altri verranno formati, anche grazie al contributo economico di Coop Adriatica, per poter estendere l’iniziativa. Oltre alla ludoteca,che potrà accogliere fino a tre gruppi familiari per volta (ogni colloquio dura un’ora, ma esiste la possibilità di prolungare l’orario per i parenti che vengono da lontano), dalla prossima primavera, riprenderanno anche i colloqui all’aperto, ha fatto notare la direttrice della "Dozza", nel giardino che è stato inaugurato nel 1988. In media entrano nel carcere bolognese per fare visita ai genitori, dai 30 ai 40 bambini al giorno, mentre sono una decina quelli sotto i 10 anni ai quali è dedicata la nuova ludoteca. "A Bologna siamo dal 1987 (ha ricordato il presidente del Telefono Azzurro, Ernesto Caffo) ma questa nuova ludoteca fa parte di un progetto più ampio, iniziato nel 1992, che ha coinvolto 15 strutture penitenziarie in tutta Italia, dove sono stati aperti nidi per i bambini delle detenute e ludoteche per i piccoli visitatori". Tra le carceri dove il Telefono Azzurro ha aperto spazi di questo genere ci sono "Rebibbia" di Roma, "Poggio Reale" di Napoli, "Le Vallette" di Torino e il carcere di massima sicurezza di Prato, a questi si aggiungono altri 3 penitenziari dove le ludoteche sono in via attivazione. In tutto il Paese i bambini che hanno i genitori detenuti sono circa 40 mila. Alla cerimonia inaugurale di oggi hanno preso parte anche l’assessore provinciale alla Sanità, Giuliano Barigazzi e il vice prefetto vicario di Bologna Luigi Viana. Usa: i prigionieri morti tra Iraq e Afghanistan sono 108
Il Manifesto, 20 marzo 2005
Una corte marziale di Fort Hood, nel Texas, ha condannato ieri il soldato statunitense Jack Saville a quarantacinque giorni di carcere e dodicimila dollari di risarcimento per aver gettato nel Tigri due prigionieri iracheni, uno dei quali sarebbe annegato. Il condizionale è d’obbligo, perché la riesumazione del cadavere del 19enne Zaidoun Hassoun, disposta per accertare il motivo del decesso, non è mai avvenuta, per "motivi di sicurezza". Per Saville (che dopo aver patteggiato la pena rischiava un massimo di due anni di galera) ha parlato il suo avvocato, Frank Spinner, al quale la clemenza del giudice militare Theodore Dixon quasi non è parsa vera: "Non posso certamente lamentarmi di questa sentenza", ha dichiarato ai cronisti. Zaidoun, fu gettato nel fiume a Samarra assieme a suo cugino Marwan Fadil nel gennaio 2004: entrambi avevano osato violare il coprifuoco in una delle città dove più accanita è la resistenza agli occupanti. Marwan ha raccontato durante il processo che mentre Zaidoun precipitava nelle acque gelide del Tigri i soldati (un commilitone di Saville è stato precedentemente condannato a sei mesi per lo stesso episodio) si fecero una grossa risata. La pena simbolica inflitta al soldato Saville è arrivata proprio nel giorno in cui il New York Times ha riportato i risultati di un’inchiesta militare sugli "omicidi" di prigionieri in Iraq e Agfhanistan. Ventisei detenuti morti dal 2002, il numero più alto mai ammesso dagli americani dall’inizio della cosiddetta "guerra al terrorismo" che, partita con l’invasione della Kabul del taleban nel novembre 2001, ha portato il suo bagaglio di torture e assassini fino alla Baghdad di Saddam Hussein. Sono state la marina e l’esercito statunitensi che (dopo una serie d’inchieste) hanno fornito questa cifra. Il quotidiano newyorchese sottolinea che sono una delle morti accertate "è avvenuta nel carcere iracheno di Abu Ghraib (come hanno riferito i funzionari Usa) il che dimostra quanto ampiamente siano diffusi, al di fuori di quel penitenziario di Baghdad, i casi di abusi più violenti". "Questo fatto (continua il Nyt) contraddice le precedenti versioni secondo le quali gli abusi erano opera di un risstretto gruppo di membri della polizia militare del turno di notte di Abu Ghraib". Il portavoce del Pentagono, Lawrence Di Rita, ha dichiarato di non aver ancora visto i rapporti dell’esercito e della marina, ma ha sottolineato come negli ultimi tre anni e mezzo gli americani abbiano tenuto prigioniere nei due paesi oltre 50.000 persone. Come dire che 26 omicidi su 50.000 prigionieri ci possono anche stare. Il termine "omicidio" usato dall’inchiesta dell’esercito per i militari indica "una morte che risulta dal comportamento intenzionale o imprudente di una persona o di un gruppo". Secondo l’esercito, le uccisioni dei prigionieri hanno avuto luogo sia all’interno che all’esterno dei penitenziari, in questo secondo caso quasi sempre al momento della cattura, avvenuta in contesti di scontri armati. In totale però i prigionieri morti dietro le sbarre della "guerra al terrore" sono almeno 108, così divisi: 26 casi indagati come omicidi, alcuni dei quali a seguito di torture; 29 attribuiti a sospette cause naturali o incidenti; 22 per il lancio di colpi di mortaio da parte della resistenza contro Abu Ghraib nell’aprile 2004; 20 "omicidi giustificati", cioè perpetrati contro prigionieri in rivolta o che tentavano di evadere. Una situazione che, secondo le organizzazioni per la tutela dei diritti umani, è rimasta in gran parte impunita o, meglio, per la quale hanno pagato solo soldati che hanno funto da capri espiatori per proteggere gli agenti del servizio segreto CIA che sovrintenderebbero alla "fabbrica delle torture". Secondo John Sifton, che si occupa di Afghanistan per Human Rights Watch, "lo scandalo delle torture non mostra alcun segno di ridimensionamento". "Quasi ogni giorno (ha scritto Sifton sul settimanale the Nation) emergono nuove accuse di maltrattamenti di prigionieri da parte di militari americani e agenti della CIA". Ma secondo l’organizzazione statunitense di difesa dei diritti umani, agli agenti segreti Usa sarebbe garantita una sostanziale impunità "nascondendo il loro coinvolgimento dietro prove classificate". In questo modo si è potuti arrivare al punto che "la maggior parte dei soldati implicati se la stanno cavando con pene irrisorie, mentre nessun agente della CIA è stato finora processato". Mi. Co. Tunisia: alcuni detenuti graziati per festa indipendenza
Ansa, 20 marzo 2005
Il Presidente tunisino Zine El Abidine ben Ali ha graziato oggi "dei detenuti" per onorare il 49/o anniversario dell’Indipendenza che sarà celebrato domenica. Lo hanno riferito oggi fonti ufficiali a Tunisi. La misura è stata annunciata al termine dell’incontro con il ministro dell’Interno, Rafik Belhaj Kacem, e della Giustizia, Bechir Tekkari. Il numero e l’identità dei detenuti che beneficeranno di questa misura non sono stati precisati. Si tratta di riduzione delle pena per alcuni detenuti e di annullamento del residuo della pena da scontare per altri. Inoltre, tre detenuti condannati a morte avranno la pena commutata in ergastolo "tenuto conto delle circostanze in cui i crimini hanno avuto luogo e delle loro condizioni sociali". Le ultime grazie presidenziali risalgono al novembre 2004, data in cui il presidente Ben Ali aveva graziato 71 prigionieri membri del movimento islamico illegale Ennahda. Secondo alcune Ong (organizzazioni non governative), vi sono ancora nelle carceri tunisine circa 500 detenuti "d’opinione", in maggioranza islamisti, ai quali le autorità non riconoscono tale status e che vengono considerati detenuti comuni. Roma: a Rebibbia, ecco l’asilo nido dei piccoli carcerati...
La Repubblica, 20 marzo 2005
"Apri" dice Ivan alla guardia, "apri" ripete, anche se la "r" si inceppa nella lingua e "apri" diventa "api", ma non importa, perché Ivan ha due anni, vive in un carcere e sa che oltre quella parola c’è il sole, il giardino, il muro di cinta, il cortile d’asfalto. Lì il suo orizzonte si interrompe, la linea si spezza, anche l’immaginazione fatica a nascere, e il mondo sembra una scatola a sbarre piena di regole e di divieti, dove è meglio piangere piano, correre piano, strillare piano. Gli educatori raccontano che i bambini detenuti con le madri nelle sezioni "nido" dei penitenziari femminili tra le prime parole che imparano a pronunciare c’è anche il lessico del carcere: "mamma" "pappa" e poi "apri", "chiavi", "guardia", "aria". Bambini dietro le sbarre. Bimbi che crescono in luoghi dove le porte restano sempre chiuse, le finestre hanno le sbarre, gli adulti portano la divisa e la pistola. In tutta Italia sono settanta i baby carcerati da zero a tre anni che trascorrono i loro primi mille giorni di vita (i giorni più preziosi, dicono gli esperti dell’infanzia) in una cella, nonostante una legge del 2001 che porta la firma della parlamentare Ds Anna Finocchiaro preveda per le madri detenute arresti domiciliari, pene alternative al carcere o reclusione in strutture protette sul modello delle case famiglia. Piccoli "colpevoli nati", così li ha definiti l’Associazione Antigone, e che oggi scenderanno in piazza insieme ai nonni per chiedere che "nessun bambino varchi più la soglia di un carcere", in una manifestazione organizzata dall’associazione "A Roma Insieme". Rebibbia, carcere femminile di Roma. Anna, Jania e le altre fanno passeggiare i figli nel piccolo giardino già tiepido di sole davanti alla sezione nido, oggi in ristrutturazione, ma che diventerà in pochi mesi abitabile e funzionale. Ci sono Ivan, Mirko, Margherita: tre dei 22 bambini da zero a tre anni ospitati nel grande penitenziario insieme alle loro madri, alcune italiane, in gran parte nomadi, tutte dentro per furto e spaccio, donne ultime tra le ultime che fuori non saprebbero a chi lasciare i loro bambini. "Quando la sera chiudono le celle Ivan inizia a dare calci alla porta - racconta Anna, 22 anni, altri due figli a casa, un cumulo di furti da scontare fino al 2008 - e corre sempre dietro agli educatori perché ha capito che loro possono uscire, e cento volte al giorno mi prende la mano e mi dice mamma aria, vuol dire andiamo fuori, vuol dire che non ce la fa più a correre tra la cella e i corridoi, ogni volta che ci sente litigare si nasconde e poi non parla più, la notte si sveglia e grida, ogni rumore lo fa tremare". Tra un anno Ivan, così dice la legge, dovrà lasciare il carcere, mentre Anna resterà dentro, e la mente e il cuore di Ivan, raccontano gli operatori, che di queste scene ne hanno viste tante, "resteranno segnati per sempre da questo distacco, così come la sua vita è stata già segnata dai mille giorni trascorsi in prigione". Già, perché come può un bimbo crescere se i suoi occhi sbattono tutti i giorni contro un muro e il suo sguardo confina fin dalla nascita con un orizzonte che non può valicare un muro di cinta? Eppure Rebibbia è un caso a parte. Perché qui la sezione nido esiste davvero, è piena di giocattoli e di murales colorati, i bambini vengono portati ogni giorno all’asilo comunale, e diverse puericultrici si danno il cambio per assistere mamme che allattano e mini-detenuti che giocano. Non così in altre carceri femminili. "La storia di Anna - spiega Leda Colombini, un lungo passato di militanza politica e femminista, oggi anima infaticabile di "A Roma Insieme", associazione che dal 1994 ogni sabato porta in libera uscita i bimbi di Rebibbia (è esemplare del dramma delle detenute madri, in particolare delle straniere). Si portano i figli in carcere perché non possono lasciarli a nessuno, qui dentro vivono in simbiosi con i bambini, i quali a tre anni però devono uscire. Giusto, è assurdo che crescano in cella, ma nello stesso tempo è una tragedia. Per due motivi. Perché il distacco è insopportabile per entrambi, e perché il futuro di questi bambini, che comunque in carcere sono protetti e curati, diventa ancor più incerto. Tornano infatti in nuclei familiari che non conoscono, in situazioni di forte degrado. Quando li rivediamo, di solito hanno subito una regressione fortissima. Raramente riusciamo a convincere le madri a darli in affido". Per questo era nata, nel 2001, la legge Finocchiaro. "La gran parte delle detenute madri è dentro per piccoli reati e potrebbero essere ospitate in case famiglia protette, dove scontare la pena senza doversi separare dai figli a tre anni e farli crescere in luoghi più umani. I giudici sono però assai restii nel concedere arresti domiciliari, in particolare alle nomadi, vista loro recidività, e soprattutto le strutture alternative non esistono". E allora? Ivan, che alla fine ti regala anche un sorriso e trova un sasso da tirare, e gli altri 22 piccoli ospiti di Rebibbia sono davvero "colpevoli nati"? Anna Finocchiaro, autrice della legge, dice semplicemente: "La verità è che costa troppo occuparsi di settanta bambini e costruire per loro strutture dove possano vivere con le madri detenute. A quanti importa sapere che i piccoli che crescono in cella soffrono la reclusione assai più che gli adulti? Mi risulta però che fino ad ora soltanto il comune di Roma abbia costruito alcune case protette. Il clima politico non è favorevole, ma in nome di questi bambini ci vorrebbe uno sforzo di civiltà e di fiducia nel ruolo rieducativo e non solo punitivo del carcere". Maria Novella de Luca Parma: pranzo pasquale tra i detenuti in semilibertà
La Gazzetta di Parma, 20 marzo 2005
Pasqua significa "passaggio". Ed è proprio il passaggio da una vita difficile a una migliore l’augurio che monsignor Cesare Bonicelli ha esteso a tutti gli invitati di questo speciale pranzo pasquale all’istituto Saveriano. Attorno allo stesso tavolo si sono riuniti detenuti in regime di semilibertà, o in permesso speciale, accanto ai volontari del gruppo Caritas-carcere e di strutture di accoglienza come la casa famiglia San Cristoforo. "È chiamata cosi perchè la barca di San Cristoforo aiutava a passare all’altra sponda del fiume: ecco, è quello che cerchiamo di fare anche noi con le persone in difficoltà", spiega don Umberto Cocconi. E in questo pranzo, "un appuntamento che si rinnova da circa otto anni, a Natale e Pasqua", spiega Maurizio Saccani, responsabile della Caritas - carcere di persone che stanno attraversando il guado di una vita difficile ce ne sono tante. Ad esempio Mimmo, quarantotto anni, di cui venticinque vissuti da barbone dopo aver perso una gamba in un incidente stradale, e altri tre passati nel carcere di via Burla, racconta di "un’indifferenza da parte della gente che ha tanti diversi modi di farti del male", e poi, con rabbia non trattenuta ma anche con dignità, dice che "c’è bisogno di aiuto, di avere una casa dove vivere". Ora Mimmo vive e lavora alla casa- famiglia di San Cristoforo, e ringrazia "i volontari che sono davvero bravissimi". Abdulamid è giovane, viene da passione, spero di poter continuare a fare questo lavoro quando uscirò dal carcere", dice sorridendo. Intanto, tra lasagne e tortelli, arrosto e colomba finale, c’è anche chi prende la parola per ringraziare a voce alta gli Zanzibar, ha sposato una donna italiana e ha un bambino di sette anni: deve scontare ancora tre anni di pena, per droga, ma intanto è in regime di semilibertà e fa il cuoco in un ristorante della città: "Cucinare è la mia grande zatori", chiedendo comprensione "perchè non siamo angeli ma solo esseri umani". Mario, che è stato in via Burla dal’98 al 2004 e ora vive a Rimini nella comunità di Don Benzi, legge una sua poesia che parla di "dignità orbata" dei carcerati e chiede al vescovo di non dimenticare chi sta chiuso in una cella. Giorgio invece, rumeno dallo sguardo malinconico e profondo, che ora si trova in affidamento sociale e lavora alla Biblioteca civica, non è d’accordo sull’aiuto a tutti costi: "Quello che chiediamo non è un’amnistia, ma un’opportunità quando saremo scarcerati". E aggiunge: "Gli assistenti volontari sono per noi un tramite importante con il mondo esterno". Il vescovo Bonicelli si rivolge a tutti i presenti definendo "occasione preziosa" questo pranzo, "una piccola goccia che serve a richiamare l’attenzione della città sul carcere di via Burla, un invito pressante alla società a ricordare la condizione dei detenuti". Una condizione alla quale Maurizio Saccani della Caritas - carcere, che da quindici anni entra nelle celle per i colloqui, confessa "di non essere ancora del tutto abituato, quando sento il rumore delle chiavi di tutti quei cancelli che si richiudono alle mie spalle. Cosa chiedono i detenuti? Soprattutto di poter essere ascoltati da qualcuno, poi succede che hanno voglia di raccontarti tutta la loro vita, e magari alla fine nasce anche un’amicizia". Francesca Benazzi Fossombrone: oltre al carcere, una scuola per gli agenti
Corriere Adriatico, 20 marzo 2005
Una scuola di formazione per agenti di polizia penitenziaria. Il progetto è stato illustrato da Antonio Bresciani ex sindaco di Fossombrone e candidato al consiglio regionale per Forza Italia. "È da circa un anno (ha sottolineato Bresciani) che ho preso contatti con il Ministero di Grazia e Giustizia al fine di offrire all’istituto di pena di Fossombrone la gestione di una scuola di formazione. In seguito ad alcuni orientamenti in sede ministeriale viene indicata come necessaria (ha aggiunto Bresciani) la possibilità di formare il personale addetto alla custodia nell’ambito della regione di appartenenza o in regioni contigue all’ubicazione dei penitenziari. Oltretutto per quanto riguarda Fossombrone (ha fatto notare l’ex sindaco di Fossombrone) non ci si può dimenticare della presenza della facoltà di giurisprudenza a Urbino. La stessa facoltà va coinvolta in maniera opportuna perché può sicuramente sostenere la migliore formazione giuridica del personale". Si ipotizza una presenza di circa 200 agenti in formazione al mese. "Ciò comporterebbe per Fossombrone (ha detto ancora Bresciani) un volano economico di grande rilevanza. Peraltro non ci sarebbero nemmeno problemi in ordine al reperimento di locali idonei. Mi riferisco all’ex seminario. Struttura attualmente inutilizzata in pieno centro storico". Si tratta di un’ipotesi che da una parte sa bene quale sia l’importanza della presenza del carcere a Fossombrone in termini economici. Dall’altra é la conferma che l’attenzione sul carcere deve necessariamente comportare proposte di ulteriore qualificazione e supporti comunque di notevole rilevanza per la cittadina metaurense. Negli ultimi 10-12 anni il consiglio comunale raramente ha affrontato questioni relative al carcere. Cosa che invece era all’ordine del giorni nei periodi precedenti. Quando si ipotizzò perfino la costruzione di un nuovo carcere. Oppure quando si dava per imminente una serie di innovazioni poi regolarmente svanite nel tempo. La proposta di Bresciani sembra aver colto nel segno. Numerose sono state le reazioni positivi e i commenti favorevoli. Fossombrone deve necessariamente pensare a sbocchi nuovi per quanto attiene incentivi che diano una spinta ad un’economia sempre più asfittica e debole. Né si può dimenticare un altro aspetto non meno importante: quello relativo al ruolo che il carcere svolge in termini di rieducazione dei reclusi. Il livello di vita interno viene giudicato più che soddisfacente. Ultimamente sono state diverse le attestazioni in tal senso. Anche autorevoli. Poter contare su personale sempre meglio formato comporterà la possibilità di ottenere risultati sempre più qualificati. Roberto Giungi Siracusa: incontro sulla legalità con gli studenti del professionale
La Sicilia, 20 marzo 2005
I progetti di "Educazione alla legalità", nelle scuole, oggi, nascono dalla presa di coscienza di problemi attuali, come la diffusione e la persistente pericolosità dei fenomeni di traffico illecito di stupefacenti, di usura, di racket e di microcriminalità. L’attenzione è rivolta, giustamente, ai giovani, perché si rileva necessario educare le nuove generazioni alla cultura della legalità, condizione indispensabile per acquisire comportamenti corretti e diventare rispettosi delle regole di convivenza. L’Istituto Professionale "A. Moncada", da anni, lavora in questa direzione, per contribuire a rinnovare la fiducia dei giovani nella legalità e combattere quella mentalità che li vuole, invece, spettatori più deboli del mondo illegale. Sabato la scuola ha ospitato il dottor Franco La Ferla, direttore dell’Istituto penitenziario di Bicocca, invitato a dibattere sul tema: "Legalità oggi: il ruolo e l’impegno delle forze dell’ordine e degli istituti di pena". Durante l’incontro con l’esperto sono emersi alcuni dei temi più cocenti riguardanti l’amministrazione della giustizia: la lotta alla criminalità, lo smarrimento e la devianza dei giovani, gli stabilimenti carcerari e il loro ordinamento interno. "Quella del carcere (afferma il direttore) è una realtà con una sua storia. La nostra legislazione ha abolito la segregazione ed impone l’obbligo del lavoro: il fine è quello di tendere al recupero dei detenuti, soprattutto minori ed agire in prospettiva del loro reinserimento in società. Il carcere, tuttavia, resta luogo di pena durissima e di sofferenza". Cinzia Anzalone Vicenza: i clown fanno sorridere le famiglie dei detenuti
Giornale di Vicenza, 20 marzo 2005
Don Agostino Zenere, cappellano del carcere, ha accompagnato a San Pio X il gruppo clown di Patch Adams, che di solito si esibiscono all’ospedale San Bortolo per i pazienti più piccoli. I detenuti hanno chiesto alla direzione un permesso speciale per poter tenere questo simpatico incontro con moglie e figli. In genere i colloqui con parenti si fanno in una stanza a parte. Stavolta, in occasione della festa del papà, alcuni detenuti hanno avuto la possibilità di abbracciare i figli in una circostanza davvero singolare e gioiosa. I clown si sono esibiti in alcuni numeri ad effetto, che hanno strappato il sorriso a tutti i presenti, comprese C’erano anche le guardie carcerarie che sono state liete di poter aderire a questa iniziativa significativa. Macomer: il regolamento carcerario sarà tradotto in sardo
L’Unione Sarda, 20 marzo 2005
Tra le mura del carcere di Macomer forse non si parlerà di "presone" e "presoneris": i termini calpestano la sensibilità individuale e dipingono un’immagine deteriore dell’umanità reclusa. Ma non si potrà fare a meno, per rendere il nesso "espiare la pena", di "dannu" e "dannare". Attingendo al ricco vocabolario della lingua sarda e sfogliando i plurisecolari testi giuridici bisognerà ricercare le parole più adatte per tradurre i dettami dei regolamenti carcerari, sfrondandoli dalle accezioni negative attribuite dai parlanti e restituendoli al loro contesto comunicativo. Il cimento non spaventa gli operatori della casa circondariale del capoluogo del Marghine (diretta da Giovanni Monteverdi) e il Comune che, contando sul supporto della Consulta della lingua sarda, sono già pronti a rendere possibile un progetto che non ha precedenti. Si attendono i finanziamenti (che verranno smistati dal ministero dell’Interno), ma gli organismi municipali sono già pronti a dare man forte alla sperimentazione voluta dal Provveditorato regionale dell’autorità carceraria. "La traduzione dei regolamenti interni in lingua sarda", dice Gigi Muroni, assessore alla Cultura, "sarà resa possibile attraverso l’applicazione della legge 482, finalizzata alla tutela della minoranze linguistiche. Il lavoro, al di là della sua straordinaria valenza educativa, consentirà di proseguire nel percorso di collaborazione che da tempo abbiamo inaugurato con la direzione carceraria di Macomer". Una sinergia pensata con la finalità di sensibilizzare la società nei confronti della difficile realtà del penitenziario che sorge nella zona industriale di Bonu Trau e contemporaneamente di fornire ai detenuti occasioni di scambio e prospettive di reinserimento. "Pensiamo che l’iniziativa possa decollare a breve termine", afferma Giampiero Longu, comandante della Polizia penitenziaria, "contando sul contributo degli operatori interni alla struttura e sul personale che sarà messo a disposizione dal comparto Ministeri, oltre che sulla preziosa e competente opera degli esperti esterni. Sugli 85 detenuti attualmente ospitati nella nostra struttura, una percentuale consistente, nonostante la maggioranza sia rappresentata da extracomunitari, è sarda". Ma solo i nati in Sardegna potranno beneficiare dell’opportunità di conoscenza? "L’iniziativa sarà realizzata, pur riferendosi prevalentemente all’aspetto linguistico", sottolinea Alberto Frau, presidente della Consulta comunale della lingua sarda, "anche per diffondere tra i non sardi la cultura e le tradizioni della terra che li ospita e nella quale si troveranno a vivere una volta compiuto il percorso di riabilitazione". Un’esperienza che andrà ben oltre le anguste mura della struttura di detenzione: "Sarà anche un campo di prova, impegnativo e coinvolgente", prosegue Frau, "per valorizzare le potenzialità del sardo e per immettersi nella direzione che alcuni sperimentatori hanno indicato: farne una lingua veicolare, capace di esprimere tutti i concetti, anche quelli scientifici". Nella fattispecie si tratta di tradurre termini speciali, di competenza giuridica: "Possiamo contare su uno straordinario corpus di diritto civile e penale, la Carta de Logu. Fonte di gran lunga antecedente rispetto alle raccolte legislative compilate negli altri paesi d’Europa". Per il monumentale lavoro sarà utilizzata la variante logudorese e per l’ortografia si farà riferimento alla produzione letteraria scritta di Macomer.
Più spazio a libri e cultura
Quello che prevede la traduzione dei regolamenti carcerari in lingua sarda è uno dei tanti progetti pensati per contribuire al reinserimento dei detenuti. "Tra gli obiettivi che intendiamo raggiungere", dice l’assessore alla Cultura del Comune di Macomer, Gigi Muroni, "c’è anche quello di dotare il carcere di una raccolta di libri (si tratta di un progetto regionale e dell’amministrazione carceraria) e di consentire, attraverso il collegamento in rete, i prestiti con la nostra biblioteca. È già in atto (il finanziamento è del Comune) un laboratorio di teatro rivolto a un gruppo di detenuti e che potrebbe culminare ? qualora esistano i presupposti di natura logistica ? con una rappresentazione aperta anche all’esterno". Diverse poi le iniziative tese a garantire un futuro professionale, oltre alle sbarre e alle strutture di sicurezza: "Attraverso il progetto "Argo" si vorrebbero formare alcuni detenuti all’attività di addestratore, magari costituendo, attraverso l’adozione di randagi, un piccolo canile che prepari allo svolgimento della professione". Obiettivi che si prefiggono quotidianamente coloro che operano all’interno del carcere: "Si tratta di progetti che hanno una valenza straordinaria ma che non possono prescindere dall’attenzione dei privati", sottolinea Giampiero Longu, "ci piacerebbe che gli imprenditori locali offrissero la loro collaborazione, magari indicandoci le figure delle quali necessitano in modo che, in vista del reinserimento sociale, si possano formare le professionalità richieste dal mercato del lavoro. Sarebbe un ulteriore passo verso il reinserimento nella società". Il penitenziario in cifre: 11 gli anni che sono passati da quando è stata aperta la casa circondariale 85 i detenuti attualmente ospitati nella struttura 25 gli extracomunitari detenuti nel penitenziario 10 gli ospiti del penitenziario che sono impegnati nel laboratorio di teatro 4 gli insegnanti impegnati nella scuola media interna 2 i volontari di Macomer che prestano la loro opera 1 il presidio sanitario aperto all’interno della struttura per le visite mediche dei detenuti. Manuela Arca Giustizia: Violante (Ds); niente amnistia, se vince centro-sinistra
Il Cittadino, 20 marzo 2005
Niente amnistia se vincerà l’Unione. Lo ha detto Luciano Violante, capogruppo dei Ds alla Camera dei deputati, ai carcerati di Lodi venerdì pomeriggio, quando è stato intervistato per due ore nella Casa circondariale di via Cagnola da una decina di detenuti del mensile interno "Uomini Liberi". Come noto la pubblicazione dal giugno 2003 è distribuita da "Il Cittadino" ed è realizzata interamente dai detenuti. La redazione è affiancata da un comitato esterno di volontari, coordinato da Andrea Ferrari, che hanno promosso una serie di incontri periodici con le personalità locali e nazionali, come Rita Borsellino. Luciano Violante, giunto nel carcere, che ospita attualmente 70 persone controllate da 50 agenti di custodia, si è intrattenuto per un paio d’ore con i carcerati. Rispondendo alla prima domanda "perché è venuto a trovarci", Violante, che è un ex magistrato, ha ricordato che fin dai tempi dell’università svolgeva attività di volontariato nella carceri, con la San Vincenzo, e successivamente ha tenuto in considerazione questo tipo di contatti "poiché mi interessa, sempre, avere un rapporto positivo con chi è stato condannato dalla società e anche perché c’è bisogno di rieducare la società". La domanda più scomoda posta dai detenuti ha riguardato la possibilità di un’amnistia nel caso di un ritorno al governo del Paese del centro sinistra. A tale proposito Violante è stato esplicito con un "no" categorico. Quindi si è intrattenuto sulla riforma carceraria che non procede per mancanza di idee. "A mio avviso (ha detto) ci sono carceri che funzionano altre che non funzionano, così come accade per l’operatività dei tribunali. Prima di metterci a fare leggi bisogna analizzare le situazioni positive, studiarle e proporre l’applicazione di quei modelli". Il parlamentare a ricordo dell’incontro ha donato alla redazione di "Uomini liberi" l’ultima sua fatica letteraria "Secondo Qoelet, dialogo fra gli uomini e Dio". Caltanissetta: da carcere a centro di recupero motorio
La Sicilia, 20 marzo 2005
Da quella roccaforte don Calogero Vizzini, capo della mafia dagli anni ‘30 fino al dopoguerra, diede il permesso agli americani di sbarcare in Sicilia per cambiare la storia d’Italia. Villalba, un centro agricolo all’interno del Vallone nisseno, fu un punto strategico per i clan sparsi nel mondo fino all’avvento dei corleonesi ma questa mattina lo stesso paese diventa simbolo di legalità. Il carcere mandamentale, per anni abbandonato, è stato riconvertito in un centro di riabilitazione psicomotoria e di recupero dalla tossicodipendenza gestito dall’associazione Casa famiglia Rosetta. L’inaugurazione coincide con la "Festa di primavera" che Casa Rosetta, impegnata da un trentennio nel recupero dei tossicodipendenti e nell’assistenza ai disagiati sociali, ogni anno celebra per infondere tra i suoi ospiti la fiducia verso le Istituzioni e rafforzare il principio di legalità che caratterizza ogni sua attività. Fino ad ora tutti i tentativi di utilizzare il carcere (costato 20 miliardi di lire) erano caduti nel vuoto. Cinque anni fa anche il ministro della Giustizia Piero Fassino, rispondendo all’interrogazione dell’on. Gianfranco Anedda circa le problematiche scoppiate nei penitenziari della Sardegna, aveva parlato del carcere di Villalba prospettandone la sua apertura assieme ad altre case mandamentali. L’ex sindaco Lillo Vizzini nel dicembre del ‘99 aveva pure contattato Giancarlo Caselli, all’epoca direttore generale delle carceri, chiedendo di riconvertire la struttura in casa circondariale. Ma il carcere è rimasto sempre chiuso ed era andata anche deserta la gara d’appalto per la locazione della struttura a fini sanitari e socio assistenziali. L’ex carcere di Villalba è dotato di 32 celle a due posti, servizi igienici e docce, la cucina per 250 pasti, la lavanderia, la mensa e spazi verdi, padiglioni per gli uffici e alloggi per il personale. Una struttura modello che ha attirato l’attenzione di don Vincenzo Sorce, fondatore di Casa Rosetta, noto per la sua caparbietà nel portare a termine progetti spesso ostacolati dalla burocrazia. In questi decenni è riuscito a creare un’associazione che gestisce comunità non solo in Sicilia e in varie regioni ma anche in Brasile, inoltre ha sottoscritto un accordo con i Paesi dell’Est per formare operatori in varie Nazioni e ha avviato alcune facoltà della Lumsa di Roma a Caltanissetta. Casa Rosetta assiste oggi circa 10 mila utenti in tutto il mondo e dà lavoro a 400 persone. E allora perché non avviare a Villalba un centro polifunzionale, specializzato in ippoterapia, capace di ridare lustro a un intero territorio? Una comunità, quella di Villalba, che ha subito sia lo strapotere mafioso ma anche le conseguenze di cattive politiche di programmazione e di investimento. Oggi in paese vivono 2 mila abitanti in maggioranza anziani perché i giovani sono emigrati; quei pochi rimasti si dedicano all’agricoltura ma solo per sopravvivere. Eppure Villalba, qualche anno fa, tentò di dare una svolta alla sua economia puntando sulle lenticchie e poi sul pomodoro "siccagnu" (capace di svilupparsi in terreni con poca acqua) ma con scarsi introiti a causa della concorrenza e degli elevati costi di distribuzione. Anche le opere pubbliche sono arrivate a Villalba con il contagocce e tra queste appunto il carcere mandamentale appaltato per porre fine a una situazione grottesca: al centro del paese c’era un edificio che ospitava una scuola, il Comune, la pretura e alcune celle. Così nacque il progetto del nuovo carcere che fu realizzato con 20 anni di ritardo e dopo la soppressione della pretura a cui era appunto collegata la struttura. Quel complesso di cemento è rimasto inutilizzato per lungo tempo, poi venne attrezzato, fu riempita la dispensa e venne aperto. Ma l’attività cessò quasi subito. Il mese scorso padre Sorce ha firmato il comodato d’uso con il sindaco Eugenio Zoda, quindi sono state avviate le pulizie dell’immobile durante le quali sono stati rinvenuti pacchi di merendine e bibite ormai inutilizzabili da sei anni. Enrico De Cristoforo Siracusa: racconto della realtà carceraria e cultura della legalità
La Sicilia, 20 marzo 2005
I progetti di "educazione alla legalità", nelle scuole, oggi, nascono dalla presa di coscienza di problemi attuali, come la diffusione e la persistente pericolosità dei fenomeni di traffico illecito di stupefacenti, di usura, di racket e di microcriminalità. L’istituto professionale "A. Moncada" di Lentini da anni lavora per contribuire a rinnovare la fiducia dei giovani nella legalità e combattere quella mentalità che li vuole, invece, spettatori più deboli del mondo illegale. Sabato scorso la scuola ha ospitato il dott. Franco La Ferla, direttore dell’istituto penitenziario di Bicocca, invitato a dibattere sul tema "Legalità oggi: il ruolo e l’impegno delle forze dell’ordine e degli istituti di pena". Durante l’incontro con l’esperto sono emersi alcuni dei temi più cocenti riguardanti l’amministrazione della giustizia: la lotta alla criminalità, lo smarrimento e la devianza dei giovani, gli stabilimenti carcerari e il loro ordinamento interno. "Quella del carcere -afferma il direttore- è una realtà con una sua storia. La nostra legislazione ha abolito la segregazione ed impone l’obbligo del lavoro: il fine è quello di tendere al recupero dei detenuti, soprattutto minori ed agire in prospettiva del loro reinserimento in società. Il carcere, tuttavia, resta luogo di pena durissima e di sofferenza". Cinzia Anzalone Caserta: morte "sospetta" di un 30enne fermato dalla polizia
Il Manifesto, 20 marzo 2005
È morto durante un fermo di polizia, Domenico Palumbo, tren’anni. Secondo gli agenti che la sera dello scorso 31 ottobre lo hanno immobilizzato a terra, Domenico era un tossicodipendente in overdose. Ma quando sono stati resi noti i risultati dell’autopsia sul suo corpo è venuta fuori un’altra storia: Domenico non aveva fatto uso di sostanza stupefacenti, e la sua morte è avvenuta per soffocamento. Cosa è accaduto, dunque, quella sera ad Aversa, in provincia di Caserta? Domenico Palumbo era in automobile, quando con una ruota finisce in un avvallamento davanti alla scuola di Polizia Penitenziaria. Domenico si allontana, alla ricerca di un aiuto. Gli agenti di turno preoccupati dal rumore e da quell’auto in sosta con il motore acceso, prima chiamano la questura poi i carabinieri. Temono che l’auto sia rubata, forse anche qualcosa in più: una circolare ministeriale invita a mantenere alta l’attenzione per possibili attentati. Tre agenti decidono di uscire. Si avvicinano all’automobile. Domenico Palumbo ritorna e, infastidito dalla presenza degli agenti, li allontana bruscamente. Riprova a mettere in moto la sua auto. Gli agenti pensano ad un ladro, lo immobilizzano e lo bloccano a faccia a terra sul marciapiedi esterno alla scuola. Molta gente assiste alla scena e rumoreggia sia per l’eccessiva veemenza con cui il giovane è trattenuto sia perché Domenico non sta bene. Il suo malessere è evidente e gli stessi agenti chiamano il 118, chiedendo un intervento per un giovane tossicodipendente, probabilmente in overdose. Il medico del 118, il dottor A. P. dichiarerà che una volta arrivato ha notato un’auto in bilico sul selciato, vicino "vi era un giovane in posizione prona, con la guancia sinistra poggiata a terra. Veniva mantenuto nell’occasione da due persone di cui una lo teneva per i polsi ed altra lo teneva per i piedi. Le due persone si sono qualificate quali appartenenti alla polizia penitenziaria e nell’occasione mi hanno riferito di stare attento poiché il giovane era violento. Ho fatto spostare tutti e avvicinandomi al giovane l’ho girato in posizione supina, in tale frangente mi sono reso conto che il giovane era deceduto". Questa testimonianza è stata confermata dal collega del medico. I tentativi di rianimazione falliscono. Il giorno dopo il direttore della scuola, Mario Mascolo, fornisce alla stampa una versione ufficiale dell’accaduto: il giovane si dimenava, sotto evidente effetto di stupefacenti e appena si è sentito male è stato chiamato il 118. Il tutto si è svolto senza alcuna violenza. Questa versione sarà ripetuta dagli agenti anche al magistrato e sarà trascritta nei rapporti. Tre giorni dopo, un quotidiano riporta la notizia spiegando che l’autopsia ha confermato la morte causata da overdose. Ma quella autopsia non è ancora stata effettuata. I risultati infine arrivano: Domenico Palumbo non era sotto effetto di sostanze stupefacenti. La sua morte, atroce, è avvenuta per un motivo banale: soffocamento. "Per asfissia meccanica dalle vie respiratorie da parte di materiale alimentare nelle fasi iniziali della digestione", dice il consulente medico del pm Antonella Cantiello, della Procura di Santa Maria Capua Vetere. La causa: i resti di una abbondante cena non ancora digerita. Nonostante questo il pm ha chiesto l’archiviazione perché "l’immobilizzazione, atto legittimo ed imposto dalle reazioni incontrollabili del Palumbo durò pochi istanti. Non tali quindi secondo il pubblico ministero a cagionarne la morte". La famiglia si è rivolta al vescovo di Caserta, Monsignor Raffaele Nogaro. Milano: denuncia dei Verdi; ancora pestaggi al Cpt di Via Corelli
Il Manifesto, 20 marzo 2005
"Mi sono stati segnalati pestaggi ad alcuni immigrati al Centro di permanenza temporanea di via Corelli, a Milano". Lo denuncia il senatore dei Verdi Fiorello Cortiana che aggiunge "Quel che è peggio è che gli stessi immigrati sembra siano stati minacciati di ritorsioni se avessero resa nota l’aggressione e il trattamento subito. Per questo ne preserviamo l’identità. Ne ho parlato (prosegue Cortina) con il Prefetto di Milano che, tra l’altro, incontrerò domani (oggi, ndr), chiedendo di sapere la verità su quanto è accaduto, e sono contento che si sia dimostrato sensibile per avviare una rapida verifica. Il Cpt di via Corelli (conclude Cortina), che già era stato oggetto di ispezione da parte della senatrice dei Ds Acciarini, è fuori da ogni criterio di umanità e trasparenza".
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