Rassegna stampa 14 marzo

 

Forum su tutela salute: coinvolgeremo istituzioni e associazioni

 

Quotidiano di Calabria, 14 marzo 2005

 

Si va verso la istituzione di un Forum Nazionale Permanente per monitorare e tutelare la salute nelle carceri. Questo il risultato dell’incontro-dibattito tenutosi l’altro ieri a Roma sul tema della "tutela della salute dei detenuti e delle detenute per l’applicazione della medicina penitenziaria" al quale ha partecipato Carmine Barbaro, nella duplice veste di Vicepresidente della Lega delle Autonomie Locali della Calabria e di sindaco di Locri, sede di un istituto di pena circoscrizionale. Ad organizzare l’incontro-dibattito sono state la Lega delle Autonomie Locali, il Ministero della Giustizia unitamente ai sindaci delle città sedi di penitenziari, Federsanità-Anci, i sindacati, consulte e fondazioni nazionali e mondo del volontariato.

L’obiettivo, ha sottolineato il sindaco Barbaro, "è quello di sottoporre all’attenzione l’alta incidenza di casi di malasanità che scuotono il sistema carcerario italiano che non è in grado di garantire azioni di prevenzione e cure tempestive ed appropriate". Nonostante però la consapevolezza dell’urgenza con cui il problema deve essere affrontato, pochi sono stati gli atteggiamenti concreti che si sono registrati. La pretesa del Forum è quella di spezzare questa spirale d’immobilismo evidenziando che "il servizio sanitario italiano, nella delicata materia, nato come pratica aggiuntiva al sistema di controllo dei detenuti, risulta assolutamente marginale ed ormai anacronistico.

Mentre è nato e si è sviluppato un nuovo servizio sanitario nazionale, (afferma Barbaro) la sanità penitenziaria è rimasta ai margini del rinnovamento, nonostante la legge di riordino del 1999 che dispone il passaggio della competenza, sulla salute dei detenuti e sulla sanità penitenziaria, dal Ministero della Giustizia allo stesso Servizio sanitario nazionale, quindi al Ministero della sanità, alle Regioni, alle Aziende sanitarie e al sistema delle Autonomie locali". Il sindaco di Locri, infatti, evidenzia che ad oltre cinque anni di distanza "solo due funzioni sanitarie, la prevenzione e le tossicodipendenze, sono passate dal Ministero della Giustizia alla competenza regionale con un trasferimento limitato di risorse finanziarie e professionali". Oggi, il sistema sanitario del pianeta carceri risulta essere spezzato in due tronconi che non comunicano tra loro, con il conseguente aumento della precarietà presente e futura della salute e della sanità".

In questi anni, (evidenzia Barbaro) si è più volte discusso in favore di forti iniziative in favore del rispetto del diritto alla salute dei detenuti e per la qualità umana delle carceri italiane e l’iniziativa romana si muove proprio nella direzione voci che si riconoscono nelle forze politiche e sociali democratiche che, insieme devono poter operare per del possibile e necessario sviluppo, con continuità e intensità, per favorire l’effettiva applicazione della riforma della medicina penitenziaria". Il Sindaco di Locri, nel sottolineare l’importanza della partecipazione di Legautonomie della Calabria all’incontro romano, ha evidenziato,oltre alla qualità del dibattito, la circostanza che la responsabile Politiche-Sociali di Legautonomie, la parlamentare Leda Colombini, grande esperta del settore, "ha proposto l’immediata istituzione del Forum Permanente sulla delicata questione trovando positivo riscontro in tutte le componenti presenti all’incontro".

A breve, (ha concluso Barbaro), "si procederà alla formale attivazione dello stesso, che vedrà coinvolte tutto il variegato mondo istituzionale ed associazionistico che si occupa fattivamente della situazione delle carceri". Pino Lombardo

Bologna: "I diritti e la povertà", libro sull’avvocato di strada

 

Redattore Sociale, 14 marzo 2005

 

Circa 500 casi seguiti dagli esordi (era il 2001) ad oggi. Intanto "Avvocato di strada", il progetto nato all’interno di "Piazza Grande", l’associazione bolognese che dal ‘94 è a fianco degli ultimi e degli emarginati, continua ad esportare il proprio modello: dopo gli sportelli di Padova e Verona, aperti l’anno scorso, il 9 aprile sarà la volta di Bari e Foggia.

Altri avvocati scenderanno così in campo per garantire assistenza legale gratuita ai poveri, ai clochard, agli immigrati. L’esperienza dei legali bolognesi è stata raccolta in un volume, "I diritti e la povertà" (collana I Quaderni di "Nuovamente", edizioni Sigem, costo 10 euro), presentato ufficialmente oggi a Palazzo d’Accursio, sede del Comune.

"Non è semplice aprire un nuovo sportello (premette l’avvocato Antonio Mumolo, socio fondatore di "Piazza Grande" e coordinatore di "Avvocato di strada") bisogna chiedere il permesso al Consiglio dell’Ordine degli avvocati, individuare il posto, trovare avvocati disponibili". A Bologna l’avventura, sostenuta sin dagli inizi dall’associazione "Nuovamente", è partita con due avvocati (Mumolo e un collega); oggi sono trenta i legali impegnati.

"Siamo partiti da una considerazione (ricorda Mumolo) sempre più chi non ha un tetto, chi è in difficoltà subisce abusi, prevaricazioni. Quasi fosse una colpa essere poveri. Di qui l’idea di costruire per queste persone una tutela giuridica qualificata e gratuita". Il libro racconta le prime battaglie, e le prime conquiste di "Avvocato di strada": dalla causa pilota sulla residenza per i senza fissa dimora, vinta contro il Comune di Bologna, ai casi seguiti di minori, figli di genitori in difficoltà. Circa gli obiettivi del progetto, "vogliamo creare in ogni città (aggiunge Mumolo) una rete in grado di coinvolgere associazioni, centri per i diritti, sindacati, per dialogare su questi temi; a Bologna è già stata costituita. Ma vogliamo anche raccogliere tutti i casi seguiti sull’esclusione sociale". La prossime aperture, dunque, sono già fissate e riguardano Bari e Foggia; "poi sarà la volta di Roma e Napoli". A Bologna lo sportello di "Avvocato di strada", dopo l’incendio che ha mandato in fumo la sede di "Piazza Grande" l’estate scorsa, si è trasferito alla cooperativa "La Strada"; i legali si recano inoltre personalmente nei dormitori pubblici di via Carracci e viale Lenin.

Lo sportello funziona due volte la settimana, "ma la segreteria telefonica è attiva 24 ore su 24: se un senza fissa dimora viene arrestato a Natale, gli viene comunque garantita l’assistenza". Stamani, alla presentazione del volume era presente anche don Giovanni Nicolini, direttore della Caritas diocesana: "Da quanti mesi stiamo soffrendo per una cattiva legge sull’immigrazione? Talvolta le leggi (ha sottolineato) possono essere illegali, ma in quanto leggi non gli si può dar contro. E qui sta la sfida di "Avvocato di strada: diventare voce di chi, dalla legge, subisce l’ingiustizia".

Ragusa: detenuto invalido scrive "in questo carcere sto bene"

 

La Sicilia, 14 marzo 2005

 

Lettera dal carcere, non solo per esternare il senso delle proprie colpe e per snocciolare i guai di natura fisica e psicologica (comprensibili l’uno e gli altri), ma anche e principalmente per sottolineare l’umanità con la quale vengono trattati gli ospiti. E quest’ultimo è certamente l’aspetto più importante perché sta a ribadire il senso di umanità istaurato in un luogo deputato alla espiazione, alla sofferenza, alle rinunce.

Dalla casa circondariale di contrada "Pendente" ci ha scritto Antonio Grillo, 37 anni, nativo di Vibo Valentia. "Sono arrivato al carcere di Ragusa (scrive) da una diecina di giorni ed ho subito notato la differenza con altre carceri, in meglio, sia chiaro. Qui si sta bene grazie alle direttive del direttore, al comportamento delle guardie, alla disponibilità dei medici. Tutto fanno al meglio il proprio dovere. E anche i politici, coloro che si interessano della cosa pubblica, non dimenticano chi sta dietro le sbarre. Alcuni giorni orsono ci è stato offerto uno spettacolo teatrale molto apprezzato. Insomma arrivando al carcere di Ragusa ho trovato tanta brava gente che certamente contribuisce a lenire le mie sofferenze e di quanti altri stanno pagando il debito con la Giustizia".

Antonio Grillo poi si rivolge a questa "brava gente": "Sono su una sedia a rotelle e sono un ammalato terminale affetto da "attessia spinocelebelare". É una malattia ereditaria: mia madre è morta a 41 anni e un mio figlio è morto in tenera età. Per fortuna ho un altro figlio, di 9 anni, che sta benissimo, ma che avrebbe tanto bisogno di me. Non sono un mafioso e sto scontando una pena a sei anni inflittami dai giudici del tribunale di Siracusa. So di avere sbagliato e sto pagando. Non vorrei morire in carcere, ma vorrei trascorrere gli ultimi tempi della mia vita accanto al mio bambino. Non vorrei suscitare pietismo in chi legge, ma vorrei chiedere soltanto tanta comprensione". Giovanni Pluchino

Candido Cannavò: dignità e sofferenza dentro una cella

 

Gazzetta del Sud, 14 marzo 2005

 

"Nessuno di noi possiede la verità. Viaggiando nel dubbio mi sono costruito alcune solide convinzioni. Tra le quali una che (...) consegno ai miei concittadini del mondo esterno come un onesto (...) manifesto di moralità... Il nostro rapporto con il carcere è sbagliato, controproducente". Con queste parole Candido Cannavò sintetizza, in maniera stringente, il senso del suo libro-inchiesta, del suo viaggio dietro le sbarre di San Vittore, ma che, metaforicamente, diventa resoconto dell’universo-carcere italiano. Un libro, appunto Dietro le sbarre (edito da Rizzoli), che ha consentito al famoso giornalista sportivo Candido Cannavò, direttore della Gazzetta dello Sport, dal 1983 al 2002, autore del best seller Una vita in rosa) di vincere il premio Rhegium Julii 2004 per il giornalismo, e di incontrarsi con gli studenti del Liceo "Fermi" di Bagnara Calabra (presentato dal prof. Franco Cernuto).

Ed è grazie alla sua lettura che si apre alla vista del lettore un microcosmo sconosciuto o, più spesso, volutamente ignorato, dove migliaia di persone (non solo detenuti) vivono una vita parallela a quella che si svolge fuori dalle sbarre, fatta di difficoltà e sforzi perché il carcere non sia solo luogo di espiazione ma anche di ricostruzione di sé. Una realtà coperta da una cortina di nebbia, per proteggere ipocritamente la società civile dallo scandalo rappresentato dalla devianza e dal crimine. "Viaggiando nel piccolo carcere delle donne e in quello, enorme e intasato, degli uomini, ho raccontato storie di tenacia, di intelligenza, di fantasia, di speranza infinita e anche d’amore... San Vittore non è quella pattumiera che la gente immagina. In un crogiuolo (...) c’è anche un immenso potenziale umano".

L’autore ci fa conoscere, attraverso i loro stessi racconti, gli abitanti del numero due di piazza Filangieri, dipingendo, senza retorica, ritratti lucidi, rendendoli vividi attraverso l’osservazione attenta di gesti, accenti, espressioni. Il giornalista conduce per mano il lettore in un itinerario che attraversa celle, corridoi, laboratori, uffici, piccole cappelle, con una gran capacità di narrazione, entrando nelle vite di uomini e donne in punta di piedi, filtrando sapientemente emozioni e sofferenze, raccontando persino gli odori e i rumori del carcere (lo sferragliare di chiavi e cancelli che accompagnano il visitatore per otto mesi, il metal rock carcerario).

Cannavò è un regista rigoroso ma non asettico, senza mai ergersi a giudice, denuncia i limiti del sistema carcerario italiano, gli oltraggi quotidiani alla dignità umana, ma esalta il lavoro infaticabile dei volontari, di tutti coloro che amano i detenuti senza pensare alle storie che si portano dietro. Il lettore non può restare immune. Libertà dietro le sbarre è un lavoro che apre gli occhi e libera il cuore (anche all’autore). Sentiamolo.

Per un giornalista celebre (conosciuto soprattutto per i suoi articoli sportivi), qual è il valore di un grande reportage sulla vita dei detenuti nel carcere più famoso d’Italia? "Prima di tutto mi sento umanamente più ricco. Ho trovato nel carcere una verità nei rapporti tra persone che fuori non esiste. Ho trovato anche fantasia, intelligenza e soprattutto speranza, oltre naturalmente al dolore. Parlando in tutta Italia della mia esperienza, spero che la gente non guardi più il carcere come un immondezzaio".

Si aspettava un così vasto consenso di critica e di pubblico e di vincere il Premio Rhegium Julii? "Quando scrivo qualcosa che sento, non penso mai a quello che potrà accadere dopo. È già una grande gratificazione scrivere. Molta parte della mia vita si identifica con questo piacere di cui ringrazio la provvidenza. Il premio Rhegium Julii, oltre alla gioia, mi ha commosso". Gualtiero Canzoni

Lodi: con "porte aperte" un giorno in carcere tra uomini liberi

 

Il Cittadino, 14 marzo 2005

 

Giuseppe ha 27 anni, faccia pulita, capelli ben pettinati, parla con un marcato accento siciliano. È nel carcere di via Cagnola da un anno, la sua prima esperienza dietro le sbarre. "Sono di Marsala ma vivo a Milano da 6 anni. Per un errore di gioventù mi trovo a dover pagare" dice ad una trentina di lodigiani, in visita al penitenziario per la giornata del "carcere a porte aperte", nell’appuntamento del sabato mattina.

Quando l’hanno beccato, la sua prima destinazione è stata San Vittore "e l’impatto è stato molto pesante, mentre quando poi mi hanno trasferito a Lodi ho visto subito la cordialità, l’ambiente diverso, la cella con le piastrelle e i muri bianchi, con la televisione che prende tutti i canali, mentre a Milano c’erano difficoltà anche a prendere Rai Uno". Enrico ha qualche anno in più, i capelli tagliati corti e il viso vissuto. È tra i primi carcerati a prendere la parola e racconta "dei continui controlli nelle celle da parte degli agenti, controlli che loro devono fare, al mattino alle 7 e alla sera a mezzanotte, quando aprono i blindi". I blindi sono le pesanti porte in ferro che chiudono le celle, e che fanno vedere a chi ci vive dentro un mondo con le sbarre.

"Per noi è uno stress psicologico, perché magari ti addormenti alle 11 e a mezzanotte senti il blindo che si apre". Ma ci sono anche altri problemi, come quando "vedi passare per la sezione un detenuto sanguinante che è fuori di testa e si taglia, perché in carcere ne entrano di ogni. Sono cose che capitano spesso, magari a Lodi meno perché è più piccolo". Enrico condivide con Giuseppe l’esperienza nella redazione di Uomini Liberi, il giornale realizzato nel carcere di Lodi, a cui partecipano una decina di detenuti.

Sono loro a raccontare ai visitatori la realtà della Cagnola, assieme al comandante della polizia penitenziaria Raffaele Ciaramella, che fa da cicerone, provando a stemperare un po’ l’atmosfera pesante delle sezioni in cui i detenuti vivono, anche in 6, in una cella. Al piano terra c’è la prima sezione, con una decina di celle, e la sala delle docce. Sulla porta è affisso un cartello, che vieta di introdurre specchi e materiale da barba.

Una prima regola del mondo del carcere, di cui il visitatore si accorge subito. Appena il gruppo entra, dalle sbarre si affacciano i carcerati, che salutano e si accalcano sui blindi. Molti di loro sono giovani, alcuni sono stranieri. Roberto se ne sta su una branda, in cella, e fuma. Alla domanda se anche in carcere vige il decreto anti fumo del ministro Sirchia risponde sorridendo che "se hai i soldi le sigarette te le puoi comprare e fumare, altrimenti ti devi accontentare di raccogliere i mozziconi che trovi per terra".

La visita della Cagnola comincia dalla sala colloqui, divisa a metà da un muretto sul quale è posata una grande lastra in marmo. Poi si arriva subito a contatto con i detenuti, e nel frattempo si oltrepassano porte pesanti, rigorosamente chiuse a chiave. Qualcuno si sofferma a parlare con loro, tutti guardano nelle celle. In una c’è un ritaglio della copertina di un numero di Famiglia Cristiana che inneggia alla pace, in un’altra una fotografia di Padre Pio. Dalle celle si arriva al cortile nel quale i carcerati consumano l’ora d’aria.

Il pavimento in cemento, i muri che delimitano il perimetro, le telecamere e la torretta di guardia, con un grande faro e un agente di polizia. Una signora fa notare che manca il verde, che mancano le piante, e il comandante Ciaramella, con una battuta le suggerisce che "se ci stanno le piante, può essere che qualcuno ci si arrampica e scappa".

Alla fine della giornata saranno 90 i lodigiani entrati nel carcere. L’appuntamento è arrivato alla terza edizione, e Andrea Ferrari, che è uno degli organizzatori, spiega che "negli anni hanno aderito circa 350 lodigiani, con risultati importanti, perché le persone possono vedere come si vive in un penitenziario e interiorizzano un meccanismo di solidarietà, per creare collegamenti cittadini-detenuti". Lorenzo Rinaldi

Bergamo: il Tar sospende il trasferimento di due agenti

 

L’Eco di Bergamo, 14 marzo 2005

 

Trasferiti in Sardegna per "incompatibilità ambientale", "per aver contribuito ad alimentare un clima di sfiducia tra tutti gli operatori penitenziari, in primis tra i colleghi" e per non esporre l’amministrazione penitenziaria "al pubblico ludibrio". Così recitava la disposizione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che a fine gennaio trasferiva d’ufficio alla casa di reclusione di Mamone (Nuoro) due sovrintendenti della casa circondariale di via Gleno, nei confronti dei quali è stata avviata anche un’inchiesta disciplinare relativa all’evasione di Max Leitner e Emanuele Radosta.

Un trasferimento clamoroso e senza precedenti, per casi del genere, che ha causato la vivace protesta, sostenuta dai sindacati, dei colleghi dei due (gli stessi tra i quali, secondo il Dap, si era diffuso "un clima di sfiducia"), e l’impugnazione del provvedimento al Tar di Brescia da parte dei due diretti interessati.

E l’11 marzo, con due ordinanze pubblicate ieri sul sito internet del Tribunale amministrativo, il collegio giudicante ha accolto i due ricorsi, annullando in via cautelativa il provvedimento del Dap. Toccherà ora all’avvocatura dello Stato, se il ministero della Giustizia lo riterrà opportuno, presentare ricorso contro la decisione dei giudici amministrativi. In caso contrario l’organo collegiale passerà ad esaminare l’eventualità di un annullamento definitivo dell’atto.

Nelle motivazioni dell’ordinanza, i giudici hanno premesso che il trasferimento per incompatibilità ambientale "non assume una connotazione sanzionatoria e non è condizionato all’accertamento di eventuali responsabilità disciplinari per comportamento contrario ai doveri d’ufficio". Vale a dire: comunque vada l’inchiesta disciplinare, il trasferimento è legittimo perché "presuppone soltanto la valutazione che la condotta intrapresa possa risultare nociva all’immagine dell’ufficio". Fra le premesse, si legge però anche che "il potere esercitato non deve trasmodare in arbitrio, essendo sempre necessario che la situazione di incompatibilità si sostanzi in fatti obiettivi che incidano effettivamente sul funzionamento dell’ufficio".

E proprio su quest’ultima premessa il Tar rileva che "appare dubbia la situazione di tensione nell’ambito interno menzionata nel provvedimento, non solo in relazione agli attestati di stima allegati, ma anche dalla lettura della relazione ispettiva del 19 ottobre 2004 (quella del provveditore alle carceri lombarde, Luigi Pagano, ndr), la quale dà conto di una buona situazione organizzativa della struttura, peraltro sottodimensionata in rapporto al numero dei detenuti, senza evidenziare in alcun modo l’esistenza di frizioni o contrapposizioni tra i dipendenti di ogni livello". "Neppure (aggiungono i giudici) è stata allegata una diminuzione di prestigio nell’ambito esterno tale da suggerire il trasferimento del ricorrente".

A queste considerazioni, che contestano la valutazione che ha portato al trasferimento, il Tar aggiunge altre motivazioni, che colpiscono invece nel merito del provvedimento. In entrambe le ordinanze, infatti, si legge: "Il provvedimento di trasferimento non risulta aver adeguatamente tenuto conto della situazione personale e familiare del dipendente, non apparendo al riguardo sufficiente sottolineare la rispondenza di tre strutture ubicate in Sardegna (tra le quali i due sovrintendenti potevano scegliere, ndr) alle capacità professionali possedute dal dipendente". Paolo Doni

Sassari: detenuto in protesta; "trasferitemi a Napoli..."

 

L’Unione Sarda, 14 marzo 2005

 

Da mesi aspetta un segnale di buona volontà da parte del ministero di Giustizia: Giovanni Chivasso, 27 anni, detenuto napoletano rinchiuso a Sassari, celle dell’alta sicurezza, vuole pagare il suo debito ma vicino a casa, in un carcere dove, tra lui e la sua famiglia, non ci sia di mezzo il mare. A novembre un tentativo di suicidio, e dopo lo sciopero della fame: da allora la sua situazione non si è smossa di un millimetro, nonostante il parere di uno psichiatra che riferisce una brutta depressione.

"Ho sbagliato ed è giusto che paghi (scrive Chivasso in una lettera) ma così mi vengono preclusi gli affetti più cari". I suoi genitori sono cardiopatici, dice, un lungo viaggio potrebbe essere fatale. Senza contare che non vivono in condizioni economiche floride: problemi di salute a parte, affrontare un viaggio costa caro e loro non possono permetterselo.

Stesso discorso per la sua compagna e la sua bambina di cinque anni. È una delle tante situazioni di difficoltà all’interno del carcere di San Sebastiano. Situazione che ha finito per trasformarsi in malessere cronico, con sintomi di ansia e depressione profonda. Ma il suo trasferimento, filtra dall’amministrazione, non dipende dai vertici della struttura sassarese: deve pensarci il ministero di Giustizia, lo stesso che lo ha assegnato a Sassari per motivi di sicurezza.

Lecce: direttore del "Regina Pacis" arrestato per sequestro

 

Il Messaggero, 14 marzo 2005

 

Non ha l’aspetto del lager, questo casermone a picco sul mare che affiora tra gli scogli di Santa Foca. Ma certo non poteva essere un giardino d’infanzia, visto che il "Regina Pacis" è stato fino a poco tempo fa l’unico centro di raccolta dell’immigrazione clandestina in Italia. Di qui sono passati extracomunitari di ogni risma e paese: albanesi, moldavi, nordafricani. Quasi tutti con precedenti penali che vanno dalle rapine, allo spaccio, allo sfruttamento della prostituzione. Senza considerare i tentativi di fuga. I metodi di Don Cesare Lodeserto sono sempre stati duri, lui non lo ha mai nascosto. Di proteste e denunce in questi anni ce n’erano state tante, ma quando ieri mattina si è diffusa la notizia che era stato arrestato a Mantova, lo sconcerto ha preso il sopravvento. Il prete, che ha muscoli duri sotto la tonaca, la testa rasa e la mascella quadrata del boxer, è un personaggio notissimo nel Salento. C’è chi lo ama e chi lo odia, non potrebbe essere diversamente. C’è chi apprezza il suo coraggio e la sua capacità di iniziativa che così Si può riassumere: "Regina Pacis non chiede niente e non rifiuta niente". E c’è chi non ne condivideva i metodi che, prima ancora dell’arresto, sono statI oggetto di denuncia per violenza privata.

Questa volta, per quel poco che se ne sa, gli episodi contestati riguarderebbero la palazzina che ospita le donne, in prevalenza prostitute. La procura tiene la bocca chiusa in attesa dell’interrogatorio di garanzia che si dovrebbe svolgere la settimana prossima per rogatoria a Verona; vuole evitare che Don Cesare venga a conoscenza dai giornali dei capi di imputazione che andrebbero oltre i fatti noti. E, stando a indiscrezioni, nella vicenda sarebbero coinvolte altre persone in concorso. L’indagine ha preso avvio dall’istruttoria di un altro procedimento in corso. Ad accusarlo sarebbero state quattro ragazze moldave, trattenute contro la loro volontà nel centro di accoglienza Regina Pacis. Ma si parla anche di episodi di violenza che le donne avrebbero subito all’interno, da parte di altri immigrati o forse anche sorveglianti.

A difendere Don Cesare è stato ancora una volta monsignor Ruppi, il suo vescovo: "Non escludo pressioni politiche, anche di parti estreme", ha denunciato ieri. Forse si riferiva alle numerose denunce fatte da esponenti di Rifondazione comunista, ma va anche detto che tra i tanti che avevano visitato il centro manifestando apprezzamenti c’è Massimo D’Alema. La situazione è pesante. Il prete è accusato di sequestro di persona, abuso dei mezzi di correzione, induzione a delinquere e calunnia. Le imputazioni gli sono state contestate la notte tra venerdì e sabato a Quistello, un paesino vicino a Mantova, mentre era in visita all’altro centro di accoglienza da lui diretto, il gemello di San Foca e che, insieme con un terzo centro aperto in Moldavia, fa capo alla Fondazione "Regina Pacis" da lui fondata e presieduta. Il sacerdote, arrestato dai carabinieri, è stato accompagnato nel carcere di Verona dove resterà almeno sino a martedì quando verrà interrogato per rogatoria dal gip Paola Vacca.

Sembra che l’inchiesta sia partita dal processo nel quale don Cesare è a giudizio, dinanzi ai giudici della seconda Sezione penale del Tribunale di Lecce, per presunti maltrattamenti a 17 maghrebini ospiti nel centro di San Foca e nel quale sono imputate altre 18 persone tra volontari, operatori, carabinieri e medici in servizio accusati di lesioni, abuso di mezzi di disciplina e falso. Le violenze si sarebbero verificate durante un tentativo di fuga il 23 novembre del 2002 per evitare il rimpatrio.

 

Il precedente: Vincenzo Muccioli fu arrestato ma poi assolto

 

L’arresto di don Cesare porta alla memoria la lunga vicenda giudiziaria che ha visto protagonista, negli anni ‘80, Vincenzo Muccioli fondatore di San Patrignano. Una vicenda giudiziaria (passata alle cronache come "il processo delle catene") cominciata con il carcere affrontato per 32 giorni, nel 1984, e con la successiva assoluzione in appello e in Cassazione. Qualche anno dopo un nuovo processo concluso con una condanna a otto mesi per favoreggiamento e un’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo a seguito della morte di Roberto Maranzano, l’ex tossicodipendente ucciso a calci e pugni nella porcilaia di San Patrignano. Vincenzo Muccioli nella sua veste di fondatore e leader della comunità si è dovuto più volte confrontare con la giustizia: agli inizi degli anni Ottanta quando il centro era ancora agli albori sul patron e sui suoi collaboratori piovve sul capo l’accusa di sequestro di persona, violenza e maltrattamenti. Rita Di Giovacchino

Cpt: Ass. Funzionari Polizia, mortificante il ruolo dei poliziotti

 

Agi, 14 marzo 2005

 

Il ruolo dei poliziotti all’interno dei Centri di permanenza temporanea (Cpt) é "mortificante". Lo sostiene Giovanni Aliquò, segretario nazionale dell’Associazione nazionale funzionari di polizia (Anfp), in un’intervista pubblicata su www.stranieriinitalia.it, il portale dell’immigrazione.

"I Cpt si sono trasformati in una sorta di pre-carcere, dove il poliziotto deve sorvegliare i clandestini in uno stato di custodia cautelare prima che siano espulsi trasformandosi così da soggetto titolato nelle indagini in materia di immigrazione clandestina a custode di poveri sciagurati". "Paradossalmente (conclude Aliquò) la procedura attuale ha disincentivato il controllo del territorio anziché incentivarlo. L’obbligo di prendere i clandestini e portarli al Cpt in alcuni casi diventa molto oneroso. Si finisce per dire: stiamo attenti, perché se finiamo i fondi a disposizione, e la finanziaria ne ha tagliati tanti, non possiamo fare più nulla".

Giustizia: campagna dei Radicali contro la legge "ex-Cirielli"

 

Agenzia Radicale, 14 marzo 2005

 

É partita la campagna di Radicali italiani, dell’associazione radicale "Il detenuto ignoto" e di Nessuno tocchi Caino sulla cosiddetta legge "ex Cirielli". Quello che segue è il testo dell’appello lanciato a "Radiocarcere" (curata e condotta da Riccardo Arena), su Radio Radicale, dai promotori dell’iniziativa: Daniele Capezzone (segr. Radicali italiani), Irene Testa (segr. Ass. radicale "Il detenuto ignoto"), e Salvatore Ferraro (della giunta di Radicali Italiani ed esponente dell’Ass. radicale "Il detenuto Ignoto"), e Sergio D’Elia (segr. Nessuno tocchi Caino).

 

Con una lunga iniziativa nonviolenta che vide coinvolti per 54 giorni migliaia di detenuti ed esponenti radicali, con una lunga mobilitazione di associazioni e personalità, con il concorso di tanta parte del mondo politico e parlamentare, si chiese alle Camere di prendere una decisione, di dire il proprio "sì" o il proprio "no" rispetto ai provvedimenti di clemenza, sulla cui approvazione il Parlamento discuteva da anni.

E nell’estate del 2003, alla fine, le Camere scelsero di approvare il cosiddetto "indultino", e cioè una misura che parve subito assai limitata e marginale, nella sua versione definitiva. Allora, ci facemmo comunque carico di ammonire che quella pur tenue novità avrebbe comunque offerto (almeno) una piccola occasione, una finestra temporale di cui far tesoro, per mettere in cantiere provvedimenti in grado di incidere in modo strutturale sulla pesante e per tanti versi incivile realtà delle carceri italiane, che contribuisce ad attribuire all’Italia un poco glorioso primato di condanne presso le Corti internazionali. Dobbiamo purtroppo riscontrare che ciò non è avvenuto. Non solo: sono oggi in cantiere norme che rischiano fortemente di aggravare una situazione già pesantissima, rendendola definitivamente insostenibile.

In particolare, ci rivolgiamo ai Senatori, ai Deputati, alle forze di maggioranza e di opposizione, affinché riconsiderino quegli aspetti del cosiddetto disegno di legge "ex Cirielli" che ci paiono, potenzialmente, devastanti. In tanti, nel mondo politico, si sono concentrati sulla parte di quel provvedimento riguardante le norme sulla prescrizione; ma in pochissimi (e noi abbiamo scelto di concentrarci su questo) ci si è invece soffermati su quel che più ci preoccupa, e cioè tutto il resto del disegno di legge (in particolare gli articoli 4, 5, 7), destinato a circoscrivere o (peggio) ad annullare l’eredità della "legge Gozzini".

La Gozzini del marzo 1975 è stata una legge che ha cambiato notevolmente le condizioni di vita all’interno delle carceri. Questa legislazione, prospettando al detenuto la possibilità di percorsi alternativi alla detenzione, creando situazioni di premialità per chi, dentro le mura, si è sforzato di mantenere comportamenti corretti e costruttivi, ha lasciato al detenuto uno spiraglio di luce dandogli la speranza di potersi ricostruire un futuro e fuggire dalla devianza. É una legge che ha permesso anche a tanti agenti penitenziari e tanti magistrati di espletare le proprie importantissime mansioni in un clima, sebbene non sempre facile, sicuramente più disteso e collaborativo.

Trent’anni di legge Gozzini, sebbene non risolutivi della questione carcere, che sempre di più urla la sua necessità di provvedimenti drastici e deflativi, hanno posto basi serie per serie riforme a venire e, soprattutto, per un uso mirato e costruttivo delle misure alternative.

La Gozzini ha tolto dalle celle il vento della rivolta, acquietato i pesanti strascichi creati dal sovraffollamento, disegnato intorno al detenuto figure professionali che, sebbene non sempre adeguatamente utilizzate, hanno faticosamente prodotto risultati promettenti in termini di riabilitazione del reo.

Al contrario, il disegno di legge "ex Cirielli", si propone di togliere i benefici ai detenuti recidivi (circa l’80% delle persone oggi in carcere), e rischia di riportare indietro di decenni il già disastrato sistema carcerario italiano, annullando e vanificando le esperienze di "buon governo" che tanto coraggiosamente sono state tentate, in numerosi casi, pur nel gravissimo contesto che conosciamo.

La sicurezza dei cittadini non si costruisce sulla disumanità della vita delle e nelle carceri, ma attraverso la conquista della certezza e della civiltà del diritto.

Vogliamo che il carcere sia un luogo di pena ma anche la premessa di una riabilitazione che deve costruirsi con un rapporto fiduciario con lo Stato e la società e con un’applicazione mirata delle misure alternative. Togliere all’80% della popolazione carceraria la possibilità di accedere ai benefici significa, invece, riversare disperazione e violenza dentro le carceri con pesanti ricadute nel nostro livello di civiltà, nei confronti di chi, come direttori, agenti di custodia, psicologi, educatori, in carcere e con il carcere vi lavora. Significa un passo terribilmente indietro per la nostra coscienza civile e politica. Per queste ragioni, chiediamo ai parlamentari, alle personalità e alle forze politiche di ogni appartenenza e schieramento, di ripensare, modificare, correggere, o (se rimarrà in questa versione) di non approvare questo provvedimento. Hanno già aderito, tra gli altri:

Le Associazioni: Antigone, Ristretti Orizzonti, Comunità Villa Maraini, Conferenza nazionale Volontariato Giustizia, Gruppo Abele di Don Luigi Ciotti, Associazione Società Informazione, Il Due di San Vittore, Comunità S. Benedetto al Porto di Don Andrea Gallo, Don. Giovanni Usai della comunità Il Samaritano, Cgil polizia penitenziaria. Diverse personalità tra cui: Furio Colombo, Gabriele Polo, Candido Cannavò, Renato Farina, Giuliano Ferrara, Ettore Randazzo.

Su tutto questo, Daniele Capezzone ha dichiarato: "Adriano Sofri a parte, tutti parlano di questa legge solo per difendere o per dare addosso a Cesare Previti. Noi vogliamo occuparci di altro, e d’altri: dei detenuti senza nome e senza volto che rischiano di essere colpiti da una norma sbagliata e violenta. Questa legge, infatti, devasterà il già disastrato sistema delle carceri italiane. Lo diciamo prima: le nostre carceri torneranno 20-30 anni indietro, e il numero dei detenuti sarà presto quadruplicato, con gli effetti che ciascuno immagina.

Infatti, la legge elimina i benefici e le previsioni della Gozzini per tutti i recidivi (cioè, per oltre i due terzi degli attuali detenuti); aumenta una serie di pene anche per reati di minore gravità; elimina, al terzo reato, qualunque beneficio previsto dalle leggi vigenti. É un’autentica follia, di cui (nella migliore delle ipotesi) nessuno si è ancora reso conto. Lavoreremo perché le Camere non commettano questo atroce errore".

Opera: un nuovo metodo di rilevazione della situazione sanitaria

 

Agenzia Radicale, 14 marzo 2005

 

La Commissione III (Sanità) del Consiglio regionale lombardo nella giornata di giovedì 10 marzo 2005 ha effettuato un sopralluogo alla Casa di Reclusione di Milano-Opera dove sono ristrette 1250 persone invece di 939, con circa 600 agenti. L’ispezione è stata condotta nella circostanza dal Consigliere Lucio Bertè (Radicali - Lista Emma Bonino) e da due funzionarie della III Commissione. Dopo aver interpellato a lungo il Dirigente sanitario Dott. Pocobelli e visitato il Centro clinico, per la prima volta la parte più rilevante della visita ispettiva è stata dedicata ad un campione delle sezioni per detenuti "normali": le due sezioni femminili, la sezione A del 4° piano del II° padiglione e la sezione Alta Sicurezza del 3° piano del I° padiglione.

In tutte le sezioni visitate è stato rilevato sovraffollamento e soprattutto una elevatissima densità di persone affette da gravi patologie, per le quali occorrerebbe una degenza in ambiente ospedaliero. Ma questo non può essere il Centro Clinico di Opera, che ha solo 53 posti letto in celle singole prive di caratteristiche ospedaliere e dove la sorveglianza sanitaria è discontinua.

Altri hanno gravi patologie stabilizzate, gestibili con cure adeguate, ma solo in casa, con un’assistenza familiare continua, e non certo in celle singole condivise con un compagno di detenzione che deve prendersi la responsabilità dei primi interventi in caso di necessità, interventi che non sempre possono essere tempestivi ed efficaci. Per esempio ci sono persone soggette a crisi epilettiche, persone amputate, persone paralizzate, persone malate di cancro e operate più volte, persone affette da Aids in fase quasi terminale. Frequenti sono i ricoveri ospedalieri esterni, dato che nel Centro clinico sono inagibili le sale operatorie e non tutte le analisi sono praticabili. Funziona la radiologia e alcuni gabinetti specialistici, quando ci sono gli specialisti.

Occorrerà chiarire se è vero quanto affermato dal Dirigente sanitario, che sono disponibili tutti i farmaci e le prestazioni specialistiche con tempi d’attesa paragonabili a quelli esterni, oppure se sono fondate le dichiarazioni in senso opposto fatte da tanti cittadini detenuti: occorre una valutazione serena, sapendo che un detenuto non ha le soluzioni alternative o di ripiego di chi è libero.

La Commissione ha disposto entro i prossimi giorni la rilevazione sezione per sezione e cella per cella dei cittadini detenuti presenti, delle loro eventuali patologie in atto e della disponibilità dei farmaci e dei trattamenti sanitari e riabilitativi necessari. La relazione ufficiale sarà fatta sulla base dei dati completi e sarà il primo documento sul tavolo della Commissione sanità del prossimo Consiglio regionale della Lombardia.

Il metodo applicato (e la filosofia che lo sottende), è quello delineato in un Ordine del Giorno a prima firma Lucio Bertè approvato all’unanimità dal Consiglio regionale l’8 febbraio 2005, che chiede di modificare i criteri delle rilevazioni delle condizioni sanitarie nelle carceri effettuate ogni sei mesi dalle Asl. Occorre rilevare l’abitabilità delle celle in base ai parametri definiti dai regolamenti edilizi e di igiene dei Comuni (i detenuti sono cittadini residenti), rilevare cella per cella il numero dei presenti nonché la superficie libera utile e la cubatura d’aria per ciascun detenuto, rilevare cella per cella le patologie presenti e le cure in atto.

Lucio Bertè ha dichiarato: "Sulla attuazione di questo Odg il 9 marzo l’Assessore regionale alla Sanità Carlo Borsani si è impegnato in prima persona, convinto che prima di tutto occorre avere una fotografia esatta della situazione, per poi capire cosa si può fare e a chi tocca, e cosa non si può fare e perché, con spirito di verità e senza prendere in giro le leggi vigenti. Occorre però che l’input sia dato subito, prima che subentri un nuovo Assessore alla Sanità che non la pensi così".

Torino: come topi, le baby gang straniere invadono le fogne

 

Repubblica, 14 marzo 2005

 

Si entra qui, in questa specie di bocca di caverna sotto il parco del Valentino. Qui, dove le fogne si gettano nel Po, gli spacciatori bambini si infilano nell’intestino della città. Età media, quattordici anni. Altezza media del cunicolo, un metro e sessanta. Altezza dell’acqua, uno e venti. Larghezza del tubo di scarico all’uscita sotto il tombino, un chilometro e mezzo più avanti: settanta centimetri.

Puzza, buio, paura. Escrementi, piscio, hashish, urla. Scappare. Catturarli. È successo tre giorni fa, in pieno pomeriggio: gli uomini della polizia municipale intercettano i baby spacciatori, li rincorrono, quelli vanno verso il fiume (si tufferanno? cosa diavolo hanno in mente?) e poi spariscono. Nella fogna. E i vigili dietro, carponi. "All’inizio si passa abbastanza bene, c’è una specie di cascatella, poi il condotto diventa più ripido" racconta uno di loro, M., una vita in borghese e in incognito, berrettino di lana nero sugli occhi, basso di statura, tarchiato.

"Siamo stati lì dentro quasi due ore, loro erano una decina, bisognava capire dove fossero, è un labirinto incredibile, è tutto scuro, avevamo le torce elettriche ma anche loro le avevano, sono attrezzati, ci sono buchi nelle pareti dove tengono la droga e le pile, mica improvvisano". Come topi, tutti, gli spacciatori e i poliziotti. Sopra, la città dei cantieri olimpici, dei fragori di ruspe e betoniere. Sotto, loro. Insieme ai cani dell’unità cinofila K9.

"Sono riemersi qui, nello scavo del metrò davanti alla stazione di Porta Nuova". La scena è da vecchio fumetto di Topolino, o da bizzarro film d’azione. Il coperchio rotondo di un tombino che si solleva da solo, dieci giovani marocchini che ne sbucano come tappi di champagne o minatori stremati, dopo l’ultimo tratto di arrampicata, i poliziotti dietro, gli operai con le pale in mano e neanche una parola in bocca, solo stupore. "Ne abbiamo presi tre, rincorrendoli dietro la Sinagoga verso San Salvario, il quartiere nero di Torino, gli altri sono scappati".

La solita scena, i pusher che non hanno documenti e dichiarano dieci, dodici anni, sono sempre gli stessi, minorenni sì ma non così piccoli. Però nelle fogne non erano mai scesi. Hanno le mappe in testa, sanno bene dove infilarsi. Dal Valentino c’è un sentiero sterrato, pieno di immondizie e sterpi, sotto alberi invernali scheletrici.

Un posto da paura anche in pieno giorno, terra di delinquenti, zona franca (e accidenti com’è minaccioso il cartello del Comune che intima: "Vietato il gioco del pallone"), ma ormai anche il centro storico oltre il corso Vittorio Emanuele è in ostaggio agli spacciatori africani, via San Massimo, via Mazzini, via dei Mille, qui polizia e carabinieri non riescono a fare nulla, non ci sono quasi mai. Arresi. La caverna è lì sotto, accanto a un imbarcadero.

Si entra passando sotto una specie di arco naturale, poi la volta della fognatura s’abbassa di colpo e allora bisogna chinarsi. "Due ore nell’acqua sporca che arrivava a mezza gamba e anche più su, a un certo punto la sfioravo con la faccia" racconta il poliziotto. "Mi sentirò la puzza addosso per giorni, qui non bastano venti docce". L’intestino di Torino non è un luogo di fughe improvvise, è un territorio organizzato dalle bande. Queste erano le gallerie di Pietro Micca, il kamikaze contro i francesi, e delle carrozze del Re, oggi è un incrocio di strade nere per lo spaccio di droga, per sparire e riapparire altrove sotto una grata divelta o un tombino.

C’è chi ci vive, come i quindici bambini e ragazzi magrebini trovati negli scantinati della casa che fu di Gramsci, in piazza Carlina, cuore barocco torinese. Succede sotto il centro storico, sotto il parco più importante della città, sotto la stazione di Porta Nuova e San Salvario ma anche sotto Porta Palazzo, la zona del mercato, dove i "napuli" di Mimì Metallurgico sono stati sostituiti dagli africani, dagli islamici con le moschee nei palazzi decrepiti e i loro negozi, le bancarelle del tè verde e delle spezie, le macellerie soprattutto. Qui, in via Noè, è stato appena scoperto un nodo di gallerie che collegavano un phone center con il cortile di una casa popolare di ringhiera, dallo spacciatore al consumatore senza mai uscire alla luce.

Come non uscivano certi clienti del phone center, così gli agenti del commissariato Dora Vanchiglia hanno pensato che non potevano essere spariti nel nulla. Nel nulla no, nella pancia della città invece sì. "Io guadagno anche trecento euro al giorno e non penso proprio di tornare a casa, in Marocco, è un posto troppo brutto" racconta Nabil, spacciatore di tredici anni che ne dichiara sei e indossa solo scarpe da ginnastica firmate.

Come lui, altri cinquanta ragazzini fanno i corrieri della droga, nelle strade e in piazza Vittorio Veneto, e adesso nelle fogne, l’ultima novità dello spaccio. Poi ci sono i bambini rumeni che invece borseggiano e scippano, ci sono le piccole prostitute, i mendicanti ai semafori, un mondo sommerso che sa di sottosuolo anche quando non entra e non esce dai tombini.

"Nell’arco di un anno intercettiamo circa quattrocento minori" spiega Laura Marzin, responsabile dell’Ufficio minori stranieri del Comune. "Non si può fare molto a parte esserci, offrire l’esempio di un adulto positivo, ma questi sono ragazzi senza più paura di nulla, disperati, aggressivi". Come i bambini di Bucarest, vivono e scappano e spacciano e si bucano e qualche volta muoiono lì sotto, con poca aria e ancora meno voglia di respirarla, dove un tubo di scarico è largo mezzo metro ma sempre più di qualunque futuro, molto di più. Maurizio Corsetti

Immigrazione: anche l’Onu critica la legge Bossi-Fini...

 

Brescia Oggi, 14 marzo 2005

 

Nuovi sbarchi anche ieri a Lampedusa e intanto le Nazioni Unite lanciano l’allarme immigrazione in Italia. In un rapporto redatto dopo una missione nel Paese, l’esperta dell’Onu identifica nell’economia sotterranea con l’offerta di posti di lavoro al nero "la principale causa dell’immigrazione clandestina in Italia". La relatrice Gabriella Rodriguez Pizarro esorta quindi le autorità italiane a devolvere "maggiori energie e risorse per perseguire coloro che impiegano immigrati in situazione irregolare". E, criticando alcuni aspetti della legge Bossi-Fini, afferma che è necessario vigilare affinchè le continue modifiche alla legge sugli stranieri siano conformi al rispetto dei diritti umani e dei trattati ratificati dall’Italia.

La legge Bossi-Fini "fa della lotta contro l’ immigrazione clandestina una delle priorità della strategia migratoria, ma si accompagna di severe restrizioni per l’entrata degli stranieri ed ostacola una serie di diritti degli immigrati presenti nel Paese", scrive l’esperta in un rapporto che sarà presentato alla Commissione dell’Onu sui diritti umani riunita in sessione annuale da oggi a Ginevra. Nelle conclusioni, la relatrice afferma che i contatti del governo italiano con i Paesi d’origine e di transito degli immigrati sono il "miglior mezzo di porre fine all’immigrazione clandestina". La relatrice si felicita, inoltre, per gli sforzi intrapresi per regolarizzare gli immigrati con un impiego e rende omaggio al "lavoro delle forze di sicurezza incaricate del salvataggio in mare dei clandestini" che su imbarcazioni di fortuna tentano di raggiungere l’Eldorado europeo.

La "comprensione dell’aspetto umano" di tale fenomeno da parte dei membri delle forze di sicurezza italiane è stato apprezzato da Rodriguez Pizarro che si felicita inoltre per il lavoro svolto dal Ministero delle pari opportunità per lottare contro la tratta di esseri umani. Preoccupazione è invece espressa per gli stranieri detenuti in carcere, la situazione degli immigrati e dei richiedenti d’asilo in luoghi come il Centro di permanenza temporanea di Lampedusa, non adatto a far fronte ai frequenti e massicci sbarchi di stranieri. Rodriguez Pizarro critica la "lenta trasformazione dei centri d’accoglienza in centri di identificazione" e chiede che in tali luoghi sia garantita una presenza dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. Ieri la Capitaneria di Porto di Lampedusa ha intercettato nelle prossimità dell’isola alcuni barconi: uno con un centinaio di clandestini a bordo, un secondo con circa 170 immigrati, entrambi già arrivati nel porto in tarda serata e scortato da una motovedetta della Guardia di Finanza e dalla marina militare. Un terzo barcone è stato avvistato nella notte.

Filippine: rivolta "islamica" nel carcere di Manila, sei morti

 

Ansa, 14 marzo 2005

 

Quattro prigionieri e due guardie carcerarie sono stati uccisi e un altro agente è stato ferito oggi in occasione di una rivolta, nel carcere di Manila, di detenuti che appartengono al gruppo integralista islamico di Abu Sayyaf, legato all’organizzazione terroristica Al Qaeda.

Quattro prigionieri e due guardie carcerarie sono stati uccisi e un altro agente è stato ferito oggi in occasione di una rivolta, nel carcere di Manila, di detenuti che appartengono al gruppo integralista islamico di Abu Sayyaf, legato all’organizzazione terroristica Al Qaeda. Lo riferiscono fonti di polizia. I rivoltosi, il cui numero non è stato rivelato dalla polizia, sono armati di due fucili e una pistola sottratti alle guardie. Le autorità, utilizzando gli altoparlanti, hanno tentato di convincere gli ammutinati ad arrendersi. Il capo della polizia metropolitana di Manila, Avelino Razon, ha dichiarato alla televisione che tiratori scelti sono stati dispiegati intorno alla prigione di Camp Bagong Diwa, situata nel quartiere generale della polizia nella capitale, e che un gruppo di negoziatori ha tentato di entrare in contatto con i rivoltosi e di riprendere il controllare della situazione.

Spoleto: 80 detenuti in 41 bis minacciano lo sciopero della fame

 

Adnkronos, 14 marzo 2005

 

È alta la tensione all’interno del carcere di Spoleto, dove 80 detenuti minacciano lo sciopero della fame. Il motivo della protesta riguarderebbe l’opposizione del ministro Castelli alla possibilità di prolungare l’orario di colloquio dei detenuti sottoposti al regime del carcere duro. "Di recente - ha spiegato l’avvocato Vittorio Trupiano, promotore in passato di due iniziative referendarie tese a modificare le condizioni che disciplinano la vita dei detenuti sottoposti al regime del carcere duro - il direttore del carcere di Spoleto, Ernesto Padovani, aveva disposto che i reclusi al 41 bis, che possono incontrare una sola volta al mese i propri congiunti, separati da vetro divisorio, avessero a disposizione non una ma due ore di colloquio".

"Attraverso una circolare - ha proseguito l’avvocato - il ministro della Giustizia ha ribadito che la durata fissata nei decreti applicativi del 41 bis non può superare l’ora. Da diversi giorni gli 80 detenuti al 41 reclusi a Spoleto reclamano in massa un provvedimento da parte del magistrato di sorveglianza Maria Grazia Manganaro che non si è ancora espressa sulla vicenda. Qualora il magistrato si pronunciasse in modo negativo sul ripristino delle due ore, i detenuti si dichiarano intenzionati ad impugnare il provvedimento e a proseguire la battaglia legale".

Secondo quanto riferito dall’avvocato Sergio Simpatico, che mercoledì 9 marzo ha incontrato in carcere il detenuto Antonio Caiazzo, che si è fatto portavoce della protesta, nei prossimi giorni i detenuti inizieranno lo sciopero della fame e non è escluso che possano ricorrere ad altre forme pacifiche di protesta volte a richiamare l’attenzione sul carcere duro.

La direzione di un carcere, a suo insindacabile giudizio, può prolungare l’orario del colloquio dei detenuti sottoposti al regime del carcere duro. Il dpr del 30.6.2000 agli artt. 35 comma 1 e 37 comma 10, infatti, sancisce la competenza esclusiva del Direttore dell’Istituto di pena sulla durata dell’orario del colloquio. Ed è proprio quanto ha disposto, di recente, il dr. Ernesto Padovani, Direttore della Casa di Reclusione di Spoleto, disponendo che i reclusi al 41 bis che incontrano 1 sola volta al mese i propri congiunti - separati da vetro divisorio - e per 1 sola ora, potessero prolungare il colloquio per 1 altra ora.

A ciò si è opposto il Ministro Castelli ed in una circolare del Ministero è stato ribadito che la durata del colloquio fissata nei decreti applicativi del 41 bis non può superare l’ora. Gli 80 detenuti al 41 reclusi a Spoleto hanno, quindi, presentato in massa reclami al competente Magistrato di Sorveglianza del posto, la dott.ssa Maria Grazia Manganaro, che non ha ancora provveduto in merito, onde conseguire il ripristino delle 2 ore di colloquio. Si profila, sulla spinosa questione, un conflitto istituzionale fra Organo Amministrativo (Ministro) ed Organo Giurisdizionale (Magistrato di Sorveglianza). I detenuti reclamano a gran voce un qualsiasi provvedimento da parte del Magistrato di Sorveglianza, anche negativo, sì da poterlo impugnare, purché si esprima, cosa che attendono oramai inutilmente da diversi giorni.

Cagliari: l'assessore regionale alla sanità visita il carcere

 

L’Unione Sarda, 14 marzo 2005

 

Sono da poco passate le 13 quando Nerina Dirindin, assessore regionale all’igiene e sanità e all’assistenza sociale, oltrepassa il portone di Buoncammino dopo una visita durata più di tre ore. Sembra preoccupata ma non ha problemi a rispondere alle domande dei cronisti. Qual è la situazione attuale del carcere?

"Grave, ci sono troppi tossicodipendenti per i quali servono strutture e cure adeguate. Dal punto di vista sanitario bisognerà lavorare parecchio. Manca soprattutto un coordinamento interno che regoli il lavoro dei medici", spiega l’assessore regionale. "L’assistenza c’è - aggiunge - ci sono undici medici e trenta infermieri. Si alternano nell’assistere i 430 detenuti. Non tutti hanno bisogno di cure mediche quotidiane ma un buon 40 per cento ha patologie gravi che hanno bisogno di assistenza. Molti sono tossicodipendenti e non possono essere seguiti soltanto quando stanno male. Hanno bisogno di qualcuno che si occupi di loro e conosca i loro bisogni. Non possono cambiare medico ogni volta. In questa maniera vengono curati male: chiaramente ogni medico ha un suo metodo sempre diverso da quello degli altri".

Nel carcere di Buoncammino l’assistenza medica costa all’incirca un milione di euro all’anno. "Se si aggiungono le spese per i medicinali la cifra tende a raddoppiare ma ora come ora la situazione è questa e ci vorrà tempo prima di poterla migliorare". Gianfranco Pala, il direttore del carcere di Buoncammino, deve gestire un istituto vecchio, da molti considerato invivibile, con un numero di agenti di polizia penitenziaria insufficiente e con un’altissima percentuale di detenuti tossicodipendenti. Nonostante tutto dal suo punto di vista, "la situazione non è disperata".

Se però s’indaga sotto l’apparenza si scopre che le difficoltà sono tante: "In Sardegna mediamente ci sono pochi detenuti - spiega il direttore - ma questo perché a Mamone e Is Arenas alcune ali sono chiuse per lavori. In altre regioni va molto peggio. E anche la situazione di Buoncammino, rispetto al passato, oggi è accettabile". Il vero problema è l’altissima percentuale di detenuti tossicodipendenti, per i quali la carcerazione non rappresenta un deterrente ma spesso una soluzione. "Serve un intervento diverso - sottolinea Pala - sarebbe necessario portarli in strutture alternative, magari gestite da Comuni, Regione e volontari.

Centri d’accoglienza che sappiano come reinserirli nella società. Una cosa che il carcere non può fare". La nascita di una nuova struttura carceraria, specializzata nelle cure mediche, potrebbe risolverebbe i problemi. "Aumenterebbero certamente gli spazi. Ma nel momento in cui si venissero a creare - sottolinea il direttore - questi sarebbero subito occupati da extracomunitari e tossicodipendenti provenienti da tutta Italia. Quindi si ricomincerebbe da capo. E sarebbe peggio di prima, perché a quel punto l’organico della polizia giudiziaria, già ora insufficiente, sarebbe del tutto inadeguato". (ale.t.)

 

Il penitenziario in numeri

 

430 i detenuti rinchiusi nel carcere. 250 i detenuti che soffrono di patologie gravi. 210 i tossicodipendenti che hanno bisogno di cure. 70 Sono seguiti quotidianamente dai medici. 140 Rifiutano l’assistenza medica. 11 i medici che lavorano 24 su 24 nel carcere. 30 Gli infermieri che seguono i detenuti.

Vicenza: i detenuti si trasformano in agricoltori biologici

 

Giornale di Vicenza, 14 marzo 2005

 

Da oggi il biologico torna in carcere: dodici detenuti diventeranno coltivatori per un esperimento che rimane unico in Italia. Arriva la primavera e in carcere i detenuti si preparano a diventare ortolani oggi, per essere imprenditori agricoli domani. L’iniziativa è promossa nella Casa Circondariale S. Pio X di Vicenza in collaborazione con il Cipat regionale, finanziata dall’Ue: tre anni fu fatto proprio in questa sede il primo esperimento del genere in Italia: l’agricoltura biologica veniva insegnata e praticata dentro le mura di un carcere. Oggi il primato non è stato ancora spodestato, tanto che l’esperienza vicentina è esportata ma difficilmente emulata in Italia, come in altri stati d’Europa. Dodici detenuti ad "alta sicurezza", scelti per capacità e volontà da un’apposita commissione, diventeranno agricoltori, sulle orme di altrettanti detenuti "diplomatisi" negli anni scorsi grazie a questo corso.

A partire da stamattina, per 450 ore complessive fino alla prima settimana di luglio, i dodici neo-agricoltori saranno chiamati a svolgere un programma gestito da sette docenti specializzati tra cui una psicologa, affrontando tematiche diverse: dai principi di economia ed ecologia agraria all’ agricoltura eco compatibile e organica; dall’orticultura alla frutticoltura biologica.

I risultati più che soddisfacenti già ottenuti dalle esperienze passate, stando all’entusiasmo degli stessi docenti, portano ancora i "frutti" dell’impegno profuso dai detenuti che in meno di tre anni, hanno attrezzato l’area di quattro mila metri quadrati circondata dal muro carcerario, in un grande laboratorio con tanto di serre, frutteto e semenzaio. "Tornerà ad essere questa "l’aula verde" attrezzata per le nostre lezione - risponde Natalino Stellin, docente del Cipat - dove i detenuti saranno chiamati ad operare praticamente e teoricamente per imparare come si coltiva biologicamente. Di più, l’esperienza che ormai si è consolidata, ha nel carcere di Vicenza un vanto di collaborazione tra enti esterni e organizzazione carceraria, che offre ai detenuti un’opportunità di riscatto e recupero che parte dalla terra per poi diventare impegno sociale vero e proprio una volta che si riapriranno le porte del carcere".

A riconoscere particolare valenza del corso, è anche la direttrice del carcere di via della Scola: "Tutto ciò che può creare legami tra la struttura carceraria e il territorio, è utile per la riabilitazione dei detenuti - spiega la dottoressa Jannucci, insediatasi a Vicenza solo tre mesi fa - ma sapere che in questa struttura si sperimenta un rapporto così diretto con la terra e con il mondo del lavoro, esalta me come i protagonisti del corso di agricoltura biologica che sta per partire".

L’apprendimento delle materie agricole, come delle diverse pratiche di coltivazioni che si alterneranno nei vari mesi, producendo zucchine, cetrioli, insalata, pomodori, come mele, pere kiwi ed altro, alimenteranno poi gli stessi detenuti del carcere vicentino. "Fin dall’inizio - spiega il docente Stellin-, ciò che si produceva è servito per rifornire le cucine del carcere. Prodotti dunque, coltivati e consumati in loco. Questo crea così una "coscienza naturale" verso un sano modo di alimentarsi anche tra i detenuti. Molti dei quali, pur avendo pene trentennali, giurano che una volta scontata la loro pena, torneranno negli appezzamenti di famiglia per avviare o continuare la professione agricola con indirizzo biologico".

L’entusiasmo di certo non manca, e le temperature miti di questi giorni rinverdiscono le speranze anche oltre le grate del carcere: "Anche questa volta - conclude Natalino Stellin-, il fattore vincente sarà quello di creare un legame diretto tra la terra e coloro che la coltivano. Difficile una volta scoperto questo rapporto, che conta molto di più di una terapia, restarne indifferenti. Se poi la terra è viva, credo che il suo messaggio di speranza sia ancor più compreso e condiviso stando dietro le sbarre di un carcere". Antonio Gregolin

Veneto: 100 mila euro per la lotta alle dipendenze in carcere

 

Asca, 14 marzo 2005

 

È stato presentato oggi a Vicenza, nella sede della Casa circondariale, il progetto regionale "carcere e dipendenze" finanziato con 100 mila euro dalla Giunta veneta per tracciare la mappatura dell’attività sociosanitaria realizzata dalle Aziende Ullss del Veneto a favore dei detenuti tossicodipendenti e alcoldipendenti. Secondo il Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al 31 dicembre 2004 nelle carceri venete i detenuti erano 2.681 di cui 839 con problemi di dipendenza.

I temi che saranno indagati dal progetto pilota saranno, in sintesi, quelli riguardanti il dimensionamento e la percezione del problema "dipendenze in carcere"; la descrizione della situazione attuale (in relazione soprattutto all’organizzazione del personale e alle funzioni svolte); gli effetti positivi ed effetti negativi del trasferimento dell’assistenza dei detenuti tossicodipendenti ed alcoldipendenti ai Ser.T.; i margini di miglioramento e condizioni necessarie per attuarlo. Il D.L. 230/99 del 1 gennaio 2000 ha disposto il passaggio al SSN delle funzioni sanitarie precedentemente svolte dall’amministrazione penitenziaria con riferimento ai soli settori della prevenzione e dell’assistenza sanitaria e socio-riabilitativa ai detenuti e agli internati tossicodipendenti e alcoldipendenti.

Verona: le riflessioni dei detenuti raccolte in un opuscolo

 

L’Arena di Verona, 14 marzo 2005

 

Il carcere non è un’isola posta su un altro pianeta ma è uno dei luoghi della città, che con la città vuol avere un dialogo. Per questo un gruppo di detenuti e di detenute ha lanciato un ideale ponte verso i veronesi realizzando, con l’aiuto del cappellano di Montorio don Luciano Ferrari, un libretto, "Il Vangelo secondo noi", riflessioni su brani del Vangelo. Un opuscolo, che sarà distribuito nelle parrocchie, dove si esprimono i sentimenti di chi vive recluso, separato dal mondo, ma i cui pensieri, indirizzati dal messaggio universale proposto dal Vangelo, sfociano nella speranza.

Sofferenza e voglia di riscatto, desiderio di cambiare vita e timore di non trovare opportunità una volta finita la pena. Se ne è parlato sabato nell’incontro organizzato all’interno della casa circondariale di Montorio dall’associazione di volontariato per il carcere "La Fraternità", a cui hanno partecipato la giornalista milanese Emanuela Zuccalà, che ha presentato il suo ultimo libro sulla quarantennale esperienza in carcere di fra Beppe Prioli, uno dei fondatori della Fraternità, a sua volta presente all’incontro con don Ferrari, l’assessore provinciale ai servizi sociali Maria Luisa Tezza, l’assessore all’istruzione del Comune Maria Luisa Albrigi, il consigliere comunale Riccardo Milano, monsignor Giancarlo Agnolini per la Curia, don Maurizio Guarise direttore della Caritas diocesana e l’avvocato Guariente Guarienti che ha fatto da moderatore.Straordinaria l’esibizione del coro "Le Falìe" di Velo, diretto da Alessandro Anderloni, che ha proposto suggestive canzoni della tradizione locale che ha suscitato grande emozione nel pubblico.

Un detenuto ha letto un brano del libro "Risvegliato dai lupi" di Emanuela Zuccalà, ricordando che "se ce l’hanno fatta i più disperati a trovare una soluzione nel proprio percorso in carcere verso il riscatto personale e sociale, ce la possiamo fare anche noi che abbiamo un debito meno pesante da scontare". Un altro detenuto ha spiegato invece come è nato "Il vangelo secondo noi", un opuscolo "che non ha pretese di essere un best seller ma che riflette lo stato d’animo di chi, dopo una seria riflessione, ha deciso di cambiare davvero strada, cominciando a manifestare a chi sta "fuori" il buono che c’è dentro il carcere, che non è solo un luogo di male ma un posto dove il tanto tempo libero può diventare una vera alternativa a chi vuol chiudere i propri conti con il passato". L’avvocato Guarienti ha lanciato la proposta di far adottare un detenuto ad ogni parrocchia, "perché il problema più grande dei carcerati, soprattutto degli stranieri, è di poter comunicare con qualcuno all’esterno, per sentirsi ancora una persona e non un numero dimenticato dentro al contenitore del carcere".

Nella sezione femminile, dove il consigliere Milano ha sottolineato l’impegno del Comune a seguire la situazione del carcere, dove c’è il progetto di creare una commissione consiliare, è emerso con forza uno degli aspetti più difficili da affrontare per chi si trova dietro le sbarre: la carenza di informazione e di comunicazione con l’autorità giudiziaria. "Vorremmo lanciare un appello al giudice di sorveglianza affinché ci venga a trovare, almeno una volta, per ascoltare le nostre esigenze", ha chiesto una detenuta. E una ragazza straniera, che si trova a Montorio da quasi un anno, dal momento in cui è entrata non è più riuscita a vedere il marito e i due figli piccoli che vivono a Roma.

"Noi straniere, oltre ad avere molte difficoltà con l’italiano, non possiamo pagarci gli avvocati che seguano le nostre pratiche" ha specificato un’altra ragazza. "Molte di noi non sanno nemmeno quando arrivano le sentenze, non sanno come compilare una domanda per un permesso, non sanno nulla sulle misure detentive alternative.Abbiamo bisogno di consulenza ma nessuno ce la dà. Non è possibile avere, anche una volta al mese, qualcuno che viene qui e ci spiega tutte queste cose?". Elena Cardinali

Gli stranieri di Don Cesare e la stranezza dei Cpt, di Luigi Manconi

 

L’Unità, 14 marzo 2005

 

L’arresto di don Cesare Lodeserto, direttore del Regina Pacis, prima centro di permanenza temporanea (Cpt), poi centro di accoglienza di San Foca Melendugno, in provincia di Lecce, non può essere motivo di soddisfazione per alcuno: nemmeno per chi (come me) è favorevole all’abrogazione dei Cpt.

E, infatti, si assiste - ancora una volta - a un uso eccessivo della custodia cautelare, dal momento che per nessuno dei reati contestati al sacerdote è previsto l’arresto obbligatorio; e resta più che mai valida la premessa (sanamente garantista quando non è manovrata ipocritamente) sull’opportunità di lasciare che sia il processo nei suoi diversi gradi a valutare le responsabilità penali individuali.

Certo è che, intorno a quel prete e al suo centro, alle sue molte attività e alle sue ancora più numerose vicissitudini, nel corso degli anni, c’è stata una costante tensione: e molteplici iniziative giudiziarie. Da quella per le violenze denunciate da stranieri trattenuti nel centro a quella relativa alla gestione e all’utilizzo di fondi pubblici. Ciò che appare certo - anche sulla base si testimonianze dirette - è che siamo in presenza di un caso esemplare di quel "solidarismo autoritario", che costituisce il tratto - culturale e caratteriale, insieme - di molte figure votate al "bene degli altri". Mi riferisco a un modello di gestione dell’assistenza, che ha avuto il suo precursore in Vincenzo Muccioli: e che si manifesta come strategia leaderistica - provvidenziale, dove si intrecciano punizione "a fin di bene" e paternalismo istituzionale, pedagogia elementare e controllo sociale.

Tutto ciò - va da sé - può svilupparsi tanto più potentemente quanto maggiore è lo spazio di autonomia (e, dunque, di potenziale arbitrio) che viene concesso. Quanto più lo Stato consente a soggetti privati una totale libertà di movimento senza vincoli e controlli, senza parametri di efficienza e di qualità, tanto più possono verificarsi la speculazione e l’abuso. Anche perché, qui, non stiamo parlando della gestione di una mensa e nemmeno di un segmento dell’istruzione scolastica. Qui, stiamo parlando nientemeno che di funzioni di controllo e di custodia.

Ed ecco il secondo punto - forse il più dolente - evidenziato dall’arresto di don Cesare Lodeserto. Fino al dicembre scorso, quel luogo era un Centro di permanenza temporanea. Un’istituzione introdotta da una convenzione europea e finalizzata al trattenimento di stranieri sottoposti a provvedimento di espulsione o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile. In altre parole, si tratta di stranieri non condannati né imputati di reati penali, responsabili esclusivamente di un illecito amministrativo (ingresso o permanenza irregolare sul territorio italiano), in attesa di venire espulsi. Dunque, come scrive Medici Senza Frontiere, "con lo status di trattenuti, o ospiti, e non di detenuti": ma "la differenza, allo stato pratico, non sembrerebbe essere così rilevante come dovrebbe".

Insomma, una vita da galera in luoghi che non possono essere definiti carceri: ma che presentano caratteri simili a quelli della detenzione e condizioni, in qualche caso, peggiori sotto il profilo igienico-sanitario. E, soprattutto, dove non esiste certezza del diritto, chiarezza sui ruoli e sulle competenze, consapevolezza degli obblighi e dei limiti, dei poteri e delle responsabilità. E, infine, dove non esiste un regolamento e, tanto meno, una carta dei diritti; né strumenti di tutela o figure di autorità cui appellarsi. Una zona franca, dunque, dove - è il caso del centro di San Foca Melendugno - non c’è uno straccio di codice di condotta nei confronti dei trattenuti. Ospiti, come vuole la beffarda e crudele definizione burocratica, ma senza diritto alcuno. E, allora, se è vero che ex malo bonum (dal male può sortire un bene), l’arcivescono di Lecce, monsignor Cosmo Francesco Ruppi, che si sente "capo di una chiesa perseguitata", e lo stesso don Lodeserto ne converranno: questa può essere l’occasione per mettere radicalmente in discussione - e arrivare a superarli - i Centri di permanenza temporanea. E questo dovrebbe valere anche per il centrosinistra: soprattutto per il centrosinistra.

Genetica: quasi pronto documento su banca dna per i criminali

 

Ansa, 14 marzo 2005

 

Una banca di dati genetici a sostegno delle indagini sulla criminalità organizzata e il terrorismo: è la proposta contenuta nel documento allo studio in seguito all’accordo fra il Comitato nazionale per le biotecnologie e la biosicurezza presso la Presidenza del Consiglio e i ministeri di Interno, Giustizia, Ricerca e Salute. Lo ha detto oggi a Roma il presidente del Comitato, Leonardo Santi, nell’incontro di presentazione della rassegna di biotecnologie Bionova (Padova, 20-22 aprile).

Il documento, della cui preparazione si sta occupando il gruppo interministeriale di esperti, è in dirittura d’arrivo e potrebbe essere "definito entro un mese", ha detto Santi. Il testo prevede che i dati relativi al Dna potrebbero essere archiviati in uno schedario, come avviene da tempo nel casellario giudiziario per le impronte digitali di indagati e detenuti. Grazie a microchip in grado di immagazzinare tutte le informazioni genetiche che è possibile raccogliere sul luogo del delitto, si costituirebbero delle banche di impronte genetiche. "Stiamo mettendo a punto queste norme con la consapevolezza dei problemi morali ad esse collegate", ha osservato Santi.

L’archiviazione dei dati genetici dovrebbe riguardare soltanto i reati più gravi, come stupri e terrorismo, ha osservato il presidente del Comitato. Sono anche allo studio le modalità per il prelievo, così come si discute sulla proposta di prelievo coatto. A sollecitare questa discussione, ha proseguito, è stata la segnalazione del procuratore Pierluigi Vigna, in seguito al rifiuto di sottoporsi al prelievo di sangue da parte dei proprietari della madonnina di Civitavecchia. Il documento, che potrà essere discusso in occasione di Bionova, sarà sottoposto all’esame del Parlamento, che dovrà dare o meno il via libera alla realizzazione della banca del Dna.

Lecce: a don Cesare la solidarietà delle ospiti del Regina Pacis

 

Il Mattino, 14 marzo 2005

 

Sono state proprio le oltre 50 extracomunitarie ospiti del centro Regina Pacis di Lecce a manifestare ieri, il proprio affetto e la propria solidarietà a don Cesare Lodeserto, arrestato venerdì nei pressi di Mantova e rinchiuso nel carcere di Verona, per sequestro di persona e abuso dei mezzi di correzione. Molte tra loro sono connazionali delle ragazze che lo hanno denunciato, anche loro ospiti del centro di accoglienza di San Foca.

Ai balconi di alcune costruzioni attigue all’edificio centrale del Regina Pacis, hanno esposto un lenzuolo bianco con un appello perché don Cesare "torni presto in libertà". Le ragazze si sono mostrate addolorate per l’arresto del prete direttore del centro e hanno espresso la speranza che il sacerdote possa tornare quanto prima tra loro. Ma ieri, la solidarietà a don Cesare è arrivata anche dalla comunità religiosa Sant’Angelo e Padre Pio dei frati minori cappuccini: i religiosi hanno auspicato una rapida conclusione dell’inchiesta e si sono detti certa dell’innocenza di don Cesare.

 

 

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