Rassegna stampa 6 maggio

 

Giustizia: risolvere i problemi nascondendoli dietro le sbarre

 

L’Unità, 6 maggio 2005

 

Non sarà il massimo dedicare tempo ed energie a tenere un conto macabro, raccogliere testimonianze, scrivere di episodi sospetti, siringhe rimaste conficcate nel braccio, casi di autolesionismo, decisioni estreme. Ma qualcuno doveva pur farlo. Senza le associazioni di volontariato e i siti web che nascono "reclusi" il mondo delle carceri italiane rimarrebbe un luogo di invisibile, fatto di un esercito che aumenta anno per anno in mezzo ad un silenzio assordante.

Non che questo basti a riportare al centro dell’agenda politica e dell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica quella che in ogni paese civile sarebbe una ferita aperta. Solo i fatti di cronaca conditi di numeri "agghiaccianti" riescono a suscitare un dibattito minimo anzi minuscolo, per intensità e argomentazioni. Certo crea impressione il fatto che nel carcere di Sulmona ci siano stati sei suicidi in due anni. Ma la cittadina abruzzese tornerà in breve ad essere ricordata come la patria del confetto.

Se ci si accosta al mondo complesso delle carceri italiane appare evidente che la situazione non è delle migliori. La mancanza di idonei interventi legislativi, le scelte programmatiche di corto respiro del ministero della Giustizia - come la proposta di costruire nuovi luoghi di detenzione piuttosto che puntare ad alleggerire le presenze -, il malcontento del personale che ci lavora e le proteste continue, spesso drammatiche di chi è chiuso dentro, tutto fa pensare che il pessimismo in questo caso non è inopportuno. La morte dietro le sbarre rappresenta solo l’aspetto più drammatico del problema, e va ad aggiungersi ad una condizione generale sempre più grave. Gli istituti di detenzione del nostro paese sono affollati all’inverosimile, spesso fatiscenti. La qualità della vita all’interno di quei luoghi viene poi peggiorata dalla scarsa predisposizione dell’organizzazione carceraria a fornire opportunità di reinserimento concrete: istruzione, corsi di formazione, lavoro all’esterno. Preoccupante il capitolo salute: l’assistenza sanitaria in molti casi non è adeguata, spesso bisogna farne a meno.

Le malattie e il carcere: in un luogo dove si vive a stretto contatto il contagio di virus e infezioni è purtroppo frequente. Un capitolo a parte è rappresentato dall’Aids: oltre ai detenuti che sanno di esserne infetti e possono essere reclusi in strutture speciali, molti questa malattia se la portano dietro in soggiorni anche brevi, nei quali capita di trasmetterla per storie di droga e rapporti sessuali.

Le carceri italiane stanno esplodendo: solo nel ‘48 c’erano più detenuti di oggi. Allora erano 75 mila, calati a 58 mila dopo l’amnistia e poi scesi dopo la riforma del ‘75 e la legge Gozzini dell’86 a 30 mila. Dal 1990, quando fu approvata l’ultima amnistia, non ci sono stati più provvedimenti di clemenza. Nel 1991 eravamo a 31 mila reclusi. Oggi sono invece 57 mila, a fronte di neppure 42 mila posti letto. Più della metà sono tossici e stranieri. Fra gli italiani, il 75 per cento proviene da Sicilia, Calabria, Puglia e Campania. Se fossimo in America questa sarebbe la percentuale di neri e ispanici. Gran parte dei detenuti sono giovani, fra i 25 e i 35 anni, disoccupati e con basso tasso di scolarizzazione.

L’ultimo rapporto ufficiale del ministero della Giustizia sulla situazioni delle carceri risale al 30 giugno 2004. E non è un bel vedere. A cominciare dalla qualità dei dati. A differenza delle statistiche pubblicate in precedenza, l’unico dato disponibile è quello delle presenze istituto per istituto, con un riepilogo nazionale nel quale anche le addizioni sono sbagliate. I due parametri utilizzati per valutare la capienza dei 201 istituti di pena italiani quello della "capienza regolamentare" e quello dei "detenuti presenti". Scompare per incanto un parametro in uso fino a poco tempo e molto utile per capire la vivibilità delle carceri denominato "capienza tollerabile".

L’indice di affollamento medio è del 133%. Leggermente migliore la situazione delle 2.660 donne detenute con un indice pari a 101% mentre per gli uomini il livello sale fino al 135%. Come dire: ogni 3 posti disponibili ci sono 4 detenuti presenti. Poi si dovrebbero analizzare i carceri caso per caso, ognuno con le sue peculiarità. Per esempio: tra gli ospedali psichiatrici giudiziari, quello di Reggio Emilia ha il tasso di affollamento peggiore, pari quasi al 140%. Passando alle sezioni maschili dei penitenziari, in 15 il sovraffollamento è superiore al 200%, cioè per ogni posto disponibile ci sono due detenuti: senza distinzioni tra nord e sud della penisola, i casi disperati sono il carcere siciliano di Ristretta (281%), Busto Arsizio (250%), Rovereto (240%), Varese e Firenze (215%). Per le donne sono i penitenziari di Forlì e Vercelli quelli peggiori dove vivere, con un indice di affollamento superiore al 200%.

Quasi il 95% dei detenuti italiani vive in istituti le cui condizioni di detenzione, dal punto di vista della capienza delle strutture, a detta dello stesso ministero della Giustizia, non sono regolamentari. La densità penitenziaria del nostro paese, rispetto ai 25 paesi membri dell’Unione europea, è superata solo dalla Grecia (156%) e dall’Ungheria (159%).

"Morire di carcere" è un dossier curato dalla rivista Ristretti Orizzonti della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Ogni anno vengono pubblicati i dati di chi in carcere muore perché decide di farla finita o magari per motivi non chiari. Li chiamano "eventi critici", casi di cui non è possibile stabilire la causa. Un esempio? Carcere di San Vittore, 6 marzo 2005: detenuto algerino, 28 anni, viene trovato morto in cella. Alcuni compagni raccontano ad una volontaria di averlo sentito urlare tutta la notte chiedendo aiuto. Era stato portato in ospedale giorni prima per aver inalato gas da una bomboletta. Dopo essere stato dimesso era finito in una "cella a rischio" del IV raggio. Ci sarebbero diverse cose da chiarire ma a che scopo? In fondo era un extra-comunitario di cui non ci si ricorda nemmeno più il nome.

Le ultime statistiche sull’argomento aggiornate dal ministero della Giustizia risalgono al 2001 e, in mancanza di dati ufficiali, non è possibile fare una comparazione. L’obiettivo di Ristretti Orizzonti quindi resta quello di raccontare delle storie, di ridare dimensione umana a questi numeri. Affidandosi al lavoro dei volontari che devono contare e schedare quanti più casi possibili, seguire i processi e i risultati, in modo che la memoria di queste persone non scompaia per sempre. La serie storica ricavata dalle informazioni raccolte è sconvolgente: dal 1992 al 2001 suicidi, tentativi di suicidio, morti "naturali" - tutte da accertare - ed episodi di autolesione sono aumentati costantemente.

Nel ‘92 furono in 47 a togliersi la vita, nove anni dopo sono diventati settanta. Così per i tentativi di suicidio: erano 530, sono saliti a 850. I casi di persone trovate senza vita, di cui spesso non si stabilisce la causa del decesso: da 89 a 109. Infine gli episodi riferiti ai detenuti che in vari modi si infliggono delle ferite: nel ‘92 erano 4.300, nel 2001 oltre 6.300. E il trend non accenna a migliorare. L’Osapp, il sindacato autonomo della Polizia penitenziaria, ha riferito che in base alle informazioni raccolte tra il 2002 e i primi mesi del 2003 i tentati suicidi e gli autolesionismi erano aumentati già del 50%.

Più di un terzo delle persone rinchiuse in carcere sono in attesa di giudizio. Al 30 giugno dell’anno scorso più di ventimila detenuti, circa il 36% del totale, sono destinati ad aspettare che la lenta, spesso lentissima macchina giudiziaria italiana li condanni o magari li assolva. Un provvedimento di amnistia e indulto, a quindici anni dall’ultimo intervento adottato in tal senso con i decreti del Presidente della Repubblica n. 75 e n. 394 del 1990), è divenuta negli ultimi anni una questione ineludibile.

Infatti nell’ultima legislatura non sono stati presi provvedimenti idonee a incidere strutturalmente sul sistema carceri del paese. Tanto più che il cosiddetto "indultino" (legge n. 207 del 2003) ha avuto effetti trascurabili rispetto al problema urgente di sfoltire il numero di carcerati. Il provvedimento infatti prevedeva soltanto una sospensione condizionata della parte finale della pena, della quale hanno beneficiato concretamente pochissimi detenuti.

Nella sua visita in Parlamento nel novembre 2002 toccò a Giovanni Paolo II sollecitare l’attenzione delle istituzioni sullo stato di degrado nelle condizioni di vita dei detenuti, facendo ripartire un dibattito sull’opportunità di un provvedimento di amnistia che poi, inevitabilmente, è stato affossato da problemi più incalzanti che concernevano al visibilità e gli interessi elettorali dei partiti. Tanto più che la preoccupazione per eventuali reazioni negative dell’elettorato si accompagnava a una diffusa indifferenza verso la popolazione detenuta che, a ben guardare, non ha diritto di voto. È pertanto una fetta della popolazione estranea al mercato politico, non dotata di una propria rappresentanza, non abilitata a tutelare i propri interessi, non capace di stringere alleanze, di mobilitare energie e risorse, di fare attività di lobbing.

Le ragioni che invece portano a considerare necessario e urgente un atto di clemenza sono varie e tutte valide. Dal sovraffollamento delle carceri derivano le terribili condizioni di vita dei detenuti, che finiscono con l’esasperare l’effetto punitivo della pena, in contrasto con il precetto costituzionale secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

A questo fatto si aggiunge un discorso di fondo, da dedicare alla necessaria riforma del Codice penale. Riservare la funzione di repressione solo al diritto penale, affidandosi alla carcerazione come unica soluzione, rappresenta un modo sbagliato di considerare il problema. Occorrerebbe piuttosto ridurre gli illeciti penali e privilegiare di più l’effetto dissuasivo rispetto a quello punitivo delle sanzioni. Le autorità giudiziarie dovrebbero valutare quindi tutte le strade possibili, considerando il carcere come estrema ratio. Una delle opzioni, ad esempio, potrebbe essere quella di affidare a comunità terapeutiche gestite dallo Stato (considerato che molte di queste già ricevono congrui contributi da parte di enti pubblici) i tossicodipendenti condannati per delitti diversi da quelli contro la persona o da quello di appartenenza ad associazioni criminali dedite allo spaccio. Questi condannati rappresentano infatti oltre il 30% della popolazione carceraria. Un’altra soluzione consiste nel depenalizzare i delitti colposi, considerando il fatto che il carcere non viene mai scontato per la concessione della sospensione.

Uno spartiacque fondamentale nella legislazione dedicata a carceri e detenuti è stata la Legge Gozzini dell’86. C’erano stati anni caldissimi a ridosso della legge di riforma penitenziaria del ‘75: proteste ininterrotte e disperate, rivolte violente, evasioni. Le prime lotte in carcere a carattere di massa e unitarie si sviluppano a partire dall’aprile 1969, inizialmente con mobilitazioni a carattere pacifico: sit-in, resistenza passiva, scioperi della fame, ma assunsero presto forme più radicali sopratutto nei carceri giudiziari delle grandi città. Verso la fine del ‘75 ci fu un’evasione in massa da Regina Coeli, nell’agosto del ‘76 evasione armata dal carcere di Lecce, cui seguiranno quelle da Firenze, Treviso, Fossombrone, Benevento. Nascono anche le prime organizzazioni dei detenuti come il "collettivo G. Jackson" e le "Pantere Rosse" (nel carcere di Perugia). Le valutazioni delle riforma divergono: per qualcuno è un passo avanti, per altri i progressi sono stati timidissimi.

Poi toccò alla Legge Gozzini del 1986 tentare di porre rimedio ai problemi lasciati aperti dalla riforma di dieci anni prima. L’esecuzione penitenziaria fino ad allora governata dal vetusto regolamento del 1931 venne depurata da alcuni aspetti più odiosi ed afflittivi. La pena, almeno nelle finalità, doveva essere finalizzato al recupero del condannato: furono previste nuove figure di operatori penitenziari e, soprattutto, si introdussero le misure alternative alla detenzione.

La stessa Corte Costituzionale aveva affermato con una sentenza che "sul legislatore incombe l’obbligo di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle attraverso prescrizioni limitative ma non privative della libertà personale siano idonee".

Lo spirito della legge dell’86 era dunque di creare le condizioni idonee a conciliare lo strumento di controllo sociale con quello della promozione alla risocializzazione. Si consolidano i principi del garantismo dello "status" di detenuto, viene introdotto il trattamento individualizzato ed eliminate le discusse limitazioni alla fruibilità delle misure alternative. La Corte Costituzionale ha poi dato ulteriori conferme a questo orientamento: con la sentenza 26 del ‘99 ha previsto il controllo giurisdizionale su tutti gli atti dell’amministrazione comunque lesivi dei diritti dei detenuti. Del ‘98 è poi la legge Simeone, che si qualifica soprattutto per la logica del "meno carcere" e per l’incremento delle ipotesi di fruibilità delle misure alternative.

Ma se la legge dell’86 è stata considerata un punto si svolta almeno culturale, bisogna riconoscere che ha dei punti deboli e delle inefficienze nell’applicazione. Le proposte più avanzate, necessarie a superare una normativa per forza di cose in parte obsoleta, si sviluppano su due direttive fondamentali: da una parte si chiede il rafforzamento delle misure di flessibilità della pena detentiva incentivando gli istituti già esistenti - affidamento al servizio sociale, semilibertà, ammissioni al lavoro esterno -, dall’altra è necessario introdurre pene alternative al carcere, collegandovi le esigenze di "affettività", di lavoro e formazione professionale dei detenuti.

Del resto lo spauracchio agitato da politici in mala fede e ripreso senza cognizione di causa da una parte dell’opinione pubblica sulla possibilità che le pene alternative al carcere diano la possibilità a pericolosi criminali di operare liberamente è un argomento smentito dai fatti. Nel nostro paese circa 50 mila persone usufruiscono delle pene alternative e meno di 100, nemmeno lo 0.30%, ha commesso nuovi reati

"In Italia viviamo la cultura carceraria come totalizzante. Preferiamo buttare tutto nel buco nero del carcere, tanto quello che non si vede non esiste" lo dice con cognizione di causa Carmen Bertolazzi, presidente dell’Associazione "Ora d’aria", che da anni si occupa del problema.

"Per reati meno gravi si potrebbe collettivizzare la pena, cioè permettere al colpevole di risarcire la società per quello che ha fatto, come avviene spesso in America e in alcuni stati europei". Si prenda per esempio i tossicodipendenti: commettono dei reati legati alla loro condizione, ma poi invece di iniziare subito un percorso di recupero vengono chiusi in carcere, che spesso diventa l’università del crimine. Così, ricorda la Bertolazzi, quelli che possono considerarsi reati nati in contesti di "detenzione sociale", ossia laddove le condizioni sociali ed economiche spingono una persona disperata a commettere un atto criminale. "I giudici dovrebbero avere maggiore discrezionalità nel poter decidere un modo diverso di espiare le colpe. Prenda gli Usa: per reati non gravi non si finisce facilmente in carcere. Magari ti fanno continuare a lavorare e poi ti passi tutti i fine settimana in cella" conclude la Bertolazzi.

In compenso nei nostri istituti di pena solo un detenuto su quattro lavora - nella provincia di Roma, per esempio, uno su cinque - creando uno scollamento così grave tra il mondo del carcere e quello fuori che si farà sentire nel momento in cui questo riacquisterà la libertà. Una recente ricerca di Ora d’aria dimostra poi che si tratta quasi sempre di lavori funzionali all’economia del carcere (pulizie, cucina, ecc.) senza una reale formazione che permetta di acquisire competenze da spendere fuori. Una prospettiva negativa, quella dell’inoccupazione nelle carceri, che tende anche a scardinare la rete informale dei detenuti - parenti e amici - ritenuta fondamentale per il loro reinserimento sociale.

Del resto per molti, specie per i migranti, la possibilità di guadagnare qualcosa svolgendo dei lavori in carcere è l’unico modo di aiutare la famiglia ad andare avanti. Che la situazione invece di migliorare stia vivendo uno stallo ormai decennale lo conferma la mobilitazione di questi giorni indetta dalla Confederazione Cobas e dall’Associazione dei detenuti Papillon Rebibbia per la vertenza riguardante gli stipendi e le mercedi degli oltre 11000 detenuti lavoranti all’interno delle carceri italiane - e al servizio dell’amministrazione penitenziaria - che sono fermi al giugno del 1993. Il punto di partenza è la sentenza del 2004 della Corte di Cassazione, dopo una vertenza pilota promossa da due iscritti della Papillon, che imponevano al ministero di Giustizia l’obbligo di aggiornare gli stipendi agli attuali contratti nazionali in vigore nei diversi comparti lavorativi e di rimborsare ai detenuti ricorrenti quanto a loro indebitamente sottratto.

Alessandria: per scoprire il killer di un gatto arriva il Ris di Parma

 

Ansa, 6 maggio 2005

 

Per incastrare il killer di Grigione, il gatto maschio della pensionata Anna Caprioglio, settantaduenne, sono intervenuti i carabinieri del Ris di Parma. È stata proprio la prova balistica eseguita dagli specialisti dell’Arma a stabilire che a sparare con una carabina ad aria compressa è stato il vicino di casa, Pietro Nebbia, 71 anni, condannato dal giudice a 30 giorni di reclusione. L’episodio si è verificato il 5 settembre 2003: la donna, tornando a casa, a Terruggia, trova il suo Grigione agonizzante sui gradini della scala. Non è la prima volta che ad Anna Caprioglio accadono fatti come questo. In quindici anni le hanno già ammazzato dieci gatti e due cani, la maggior parte avvelenati, ma già una volta c’era stato un colpo d’arma da fuoco. La pensionata, che finora non ha mai sporto denunce, questa volta decide di andare a fondo e porta Grigione, in una clinica per animali di Alessandria.

Dal corpo viene estratto un proiettile calibro 4,5 sparato dall’alto, che ha colpito l’animale nella zona lombare, in corrispondenza dell’aorta addominale, uccidendolo. Con il piombino la donna si reca dai Carabinieri di Occimiano, ai quali spiega di avere dei fondati sospetti sul vicino di casa, nella cui abitazione sente spesso sparare. L’unica persona che dagli archivi risulta in possesso di una carabina ad aria compressa e di altre armi da caccia in quella zona è proprio Pietro Nebbia, al quale viene sequestrata la carabina, una Weihrauch di fabbricazione tedesca dotata di cannocchiale di precisione, e tre scatole da 500 piombini, marca Diablo.

Arma e proiettili vengono inviati ai Carabinieri del Ris di Parma che li sottopongono ad esame balistico, i cui risultati sono stati resi noti in aula dal militare che si occupa della perizia, citato come teste al processo dal pubblico ministero. "La comparazione effettuata tra il piombino sparato nella galleria di tiro e quello recuperato dal corpo del gatto - ha riferito il militare al giudice - coincidono. Il microscopio ha evidenziato che le striature su entrambi i proiettili sono state provocate dalla stessa canna, vale a dire quella della carabina del Nebbia, l’arma che ha sparato".

Firenze: causa sovraffollamento 30 detenuti trasferiti a Gorgona

 

Ansa, 6 maggio 2005

 

Trenta detenuti del carcere di Sollicciano, a Firenze, saranno trasferiti alla casa circondariale dell’Isola di Gorgona. Il provvedimento, su base volontaria, determina un’ inversione di tendenza per l’istituto di reclusione fiorentino afflitto da sovraffollamento. Lo ha comunicato il garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone.

Il provvedimento è stato adottato dopo che, su sollecitazione dello stesso Corleone, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha inviato una lettera al provveditore toscano De Pascalis perché si provveda ad una riduzione dei detenuti a Sollicciano.

Francia: condannato, evita il carcere se va bene alla maturità

 

Ansa, 6 maggio 2005

 

Uno studente liceale di 20 anni è sTato condannato dal tribunale di Saint Quentin, nell’Aisne, a cinque mesi di carcere per droga. Ma il giovane potrà evitare la prigione se sarà promosso alla licenza liceale. Trovato in possesso nei giorni scorsi di circa 400 grammi di un derivato della marijuana, è stato processato per direttissima; verificato che non si trattava di un dealer abituale, il tribunale, pur condannandolo a cinque mesi di carcere, ha accettato la richiesta dell’avvocato difensore di sospendere la pena in vista degli esami di maturità. E così il 15 luglio il giudice deciderà, anche in relazione all’andamento degli esami, se confermare la condanna o sospenderla definitivamente.

Cassazione: no a libertà condizionale "facile" per gli ergastolani

 

Ansa, 6 maggio 2005

 

Non basta aver scontato 26 anni di carcere duro, non basta aver chiesto scusa, non basta aver iniziato una nuova vita: chi è stato condannato all’ergastolo, specie per reati di strage e terrorismo, deve anche preoccuparsi di rifondere economicamente i familiari delle vittime prima di ottenere la libertà condizionata e dire addio alla cella. Lo sottolinea la Cassazione - con la sentenza 16446, della prima sezione penale - che ha annullato, con rinvio, la libertà condizionale concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Napoli all’ex brigatista Salvatore Colonna, condannato con fine pena mai per una serie di delitti eversivi, tra i quali l’omicidio dell’assessore regionale Pino Amato. Per Colonna la detenzione era cominciata il 19 aprile del 1980, col tempo e la buona condotta aveva ottenuto la liberazione anticipata e la semilibertà per motivi di lavoro.

Ad avviso dei giudici di merito il comportamento di Colonna era corretto in quanto l’ex terrorista lavorava in una ditta di mobili, prestava opera di volontario al Tribunale per i diritti del malato, aveva una fidanzata incensurata, era circondato da familiari e parenti per bene. Aveva - inoltre - fatto recapitare, dal suo legale, una lettera di pentimento alla vedova di Amato, e aveva scritto una "memoria autocritica" sul suo passato. Per tutti questi motivi, il Tribunale di Sorveglianza - il 18 febbraio 2004 - aveva deciso di dire sì all’istanza di libertà condizionata, nonostante Colonna, per l’esiguità del suo reddito, avesse dichiarato con "autocertificazione" di non essere in grado di risarcire i danni alla famiglia Amato.

Contro questa decisione, ha fatto ricorso - in Cassazione - il Procuratore generale della Repubblica presso il Tribunale di Sorveglianza di Napoli sostenendo che i suoi colleghi avevano "valorizzati argomenti che potevano, al massimo, giustificare la semilibertà, di cui il Colonna già godeva, ma che non dimostravano il profondo pentimento morale richiesto per la concessione della libertà condizionale". In proposito il Pg rilevava che l’ex brigatista "aveva soltanto inviato ai familiari dell’uomo da lui ucciso una lettera tramite il proprio avvocato, ma non aveva in alcun modo risarcito il danno, come pure avrebbe potuto fare percependo da tempo un regolare stipendio, disponendo di un’auto Nissan e di una moto Honda ed appartenendo a un nucleo familiare valido".

E poi il Pg - a sostegno della sua richiesta di revoca del beneficio - aggiungeva che Colonna aveva preso molte multe, per gravi infrazioni al codice della strada, durante la semilibertà. La Cassazione ha accolto le obiezioni del Pg - anche quelle sulle multe - e ha ordinato al Tribunale di Sorveglianza di valutare meglio la sussistenza delle condizioni per concedere a Colonna la libertà condizionata. Secondo i supremi giudici, infatti, "in tema di liberazione condizionale, non è sufficiente lo svolgimento da parte del condannato di attività lavorativa o di volontariato", occorre invece valutare "la condizione del ravvedimento anche alla stregua del pentimento e della elisione delle conseguenze dannose del reato (mancato risarcimento)".

Aggiunge la Cassazione che i giudici di merito devono "acquisire informazioni su quanto Colonna ha fatto e quanto intende fare, per alleviare le sofferenze dei parenti della persona che ha ucciso e delle altre che ha danneggiato durante la sua militanza nella associazione sovversiva". In sostanza una semplice autocertificazione e due righe di pentimento, non bastano per riprendersi la libertà. Nemmeno quella condizionata.

Firenze: Padri Mercedari organizzano convegno su disagio sociale

 

Nove da Firenze, 6 maggio 2005

 

"Vuoti a perdere: esclusione sociale e cittadinanze incompiute" è il convegno che si è svolto stamani nel Salone dè Dugento, organizzato dal Centro Studi e Formazione "Oasi dei Padri Mercedari" e dall’assessorato all’accoglienza ed integrazione del Comune di Firenze. L’incontro ha voluto rappresentare un momento di riflessione per tutte le realtà fiorentine impegnate nella lotta alle povertà, per le nuove forme di disagio e vulnerabilità sociale, diffuse oggi sul territorio nazionale. Ha aperto il dibattito l’assessore all’accoglienza e integrazione Lucia De Siervo, la quale ha posto l’accento sul ruolo delle istituzioni, che devono superare la fase dell’assistenzialismo. "In una società come quella odierna - ha detto l’assessore De Siervo - può capitare a tutti di trovarsi in difficoltà, di passare da una situazione agiata a quello di povertà.

Quindi, il ruolo dell’amministrazione non può essere quello di accompagnare le persone in difficoltà per il resto della loro vita, ma di creare le condizioni perché possano tornare autonome, con la creazione di percorsi che li aiutino al reinserimento sociale". Durante il convegno è stato presentato il volume "Vuoti a perdere" curato dalla Fondazione Zancan, insieme alla Caritas Italiana. Dopo il dibattito, moderato da Nedo Baracani, docente di sociologia del lavoro alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Firenze, al quale hanno preso parte il vice-direttore della Caritas diocesana di Firenze Don Andrea Bigalli, Padre Dino Lai presidente delle Opere Mercedarie di Firenze, Annalisa Tonarelli, docente di sociologia dei gruppi alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Firenze e Tiziano Vecchiato responsabile scientifico della Fondazione Zancan, è stato celebrato il cinquantenario dei padri mercedari e del centro oasi, una comunità d’accoglienza dove convivono anziani ergastolani, quarantenni tossicodipendenti, giovani ragazzi albanesi: un paradigma generazionale dell’esclusione sociale. Chi è interessato agli atti del convegno può richiederli direttamente all’assessorato all’accoglienza e integrazione, inviando una mail al seguente indirizzo, ass.accoglienza@comune.fi.it

 

L’Oasi dei padri Mercedari

 

Nel Quartiere 3 di Firenze esiste, ormai da 50 anni, una comunità d’accoglienza dove convivono anziani ergastolani, quarantenni tossicodipendenti, giovani ragazzi albanesi: un paradigma generazionale dell’esclusione sociale. A gestirla sono i Padri Mercedari, appartenenti ad un ordine religioso fondato in Spagna nel XIII secolo per liberare gli schiavi cristiani fatti prigionieri dai mori. Dall’epoca dei viaggi in Terra Santa i Padri Mercedari si impegnarono nelle carceri, creando centri di accoglienza e parrocchie in tante città del mondo. A Firenze arrivarono all’inizio degli anni Cinquanta per fondare una comunità per ex detenuti: l’Oasi (Opera Assistenza Scarcerati Italiani) una sigla che andò trasformandosi negli anni, simbolo dei cambiamenti più generali cui andava incontro la comunità, in "Oasi", metafora di un luogo di riposo che si offre all’accoglienza di persone con problemi diversi.

L’Oasi, infatti, si rivolge a persone che hanno vissuto l’esperienza del carcere o di altri forti disagi per proporre loro un percorso di scoperta delle proprie risorse, soprattutto quelle spirituali. In 43 anni si è formata attorno alla comunità una rete di strutture e di servizi adatta all’accoglienza e al reinserimento sociale di ex tossicodipendenti, giovani (Casa Martino), minori provenienti dall’area penale (Casa Famiglia Don Zeno Saltini) e minori in stato di abbandono (Centro Mercede). Inoltre all’opera di assistenza i Mercedari di Firenze hanno affiancato anche un lavoro di riflessione e discussione. Per questo è stato creato il Centro Studi e Formazione Oasi che, in particolare, si occupa di approfondire, con ricerche e corsi di formazione, diverse tematiche riguardanti le marginalità sociali.

Rovigo: il sindacato degli agenti; l’organico va rafforzato...

 

Il Gazzettino, 6 maggio 2005

 

La situazione delle carceri italiane diventa sempre più drammatica, anche se sembra calato il silenzio dopo tante denunce e proposte, rimaste senza risposta da parte del governo. Peggiorano l’affollamento, le condizioni di vita indegne condivise dagli operatori che assolvono il loro compito per la giustizia e dai detenuti. Tutto questo mette a repentaglio anche la sicurezza degli istituti di pena. Voglio perciò esprimere la mia solidarietà e il mio sostegno al personale penitenziario per il quale il sindacato della funzione pubblica della Cgil veneta ha proclamato lo stato di agitazione, indicendo per oggi una manifestazione davanti alla sede del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria a Padova.

Vengono richiesti una serie di interventi per alleviare a livello locale le carenze più gravi, dagli organici alle condizioni sanitarie. L’iniziativa ha anche il merito di riaccendere l’attenzione sull’emergenza carceri, che in Veneto e particolarmente in Polesine è, se possibile, ancora più acuta. A differenza di regioni come la Toscana, il trattamento sanitario dei detenuti non è passato alle Asl ma rimane in carico alle amministrazioni penitenziarie, tramite costose convenzioni con professionisti privati e senza garantire la necessaria assistenza giorno e notte.

Per quanto riguarda la casa circondariale di Rovigo, nell’interminabile attesa del nuovo carcere, il fatiscente edificio di via Verdi arriva a contenere fino a 110 detenuti, decine in più di quelli consentiti dai pochi spazi disponibili, in precarie condizioni igieniche e di sicurezza.

Gli agenti sono costretti a turni massacranti, senza rispetto per orari, ferie e basilari diritti contrattuali. Il loro numero e quello degli operatori civili è ben al di sotto della pianta organica prevista: manca anche un educatore, che viene "prestato" dalla casa circondariale di Padova. A Rovigo come nel resto d’Italia il sistema carcerario è ormai arrivato al collasso. Con l’approssimarsi dell’estate la situazione diventerà come al solito ancora più insostenibile. La maggioranza di centrodestra da anni non fa nulla, anzi taglia gli investimenti in tutto il comparto della sicurezza, lasciando come unica alternativa eventuali atti di clemenza generalizzata che sarebbero solo rimedi-tampone e in quest’ottica una resa all’incapacità di gestire la giustizia.

Bisogna invece agire in questo scorcio di legislatura perché l’amministrazione penitenziaria a livello statale e regionale garantisca la copertura delle piante organiche effettive negli istituti di pena e un impiego più funzionale del personale, bloccando i distacchi discrezionali a mansioni non carcerarie. Sarà impegno del prossimo governo di centrosinistra dare una soluzione strutturale ai mali del sistema carcerario, sia con risorse economiche adeguate sia con la riqualificazione degli edifici carcerari, sostituendo quelli non più utilizzabili. Come a Rovigo, se il progetto di cui finora si parla non si concretizzerà.

Caltagirone (Ct): dal 2 maggio 220 detenuti in sciopero della fame

 

La Sicilia, 6 maggio 2005

 

Sciopero pacifico dei 220 detenuti della casa circondariale di contrada Noce, a Caltagirone, che da lunedì 2 maggio rifiutano il vitto dell’amministrazione penitenziaria, aderendo in questo modo a un’iniziativa di mobilitazione che coinvolge numerosissime carceri in tutta Italia. I detenuti della struttura calatina si uniscono, pertanto, ai loro colleghi di altri istituti di pena che, già da diversi giorni, hanno dato vita a questa forma di protesta per rilanciare le proprie richieste e proposte sui temi dell’amnistia e dell’indulto.

Sull’argomento il responsabile dell’associazione culturale "Papillon" di Caltanissetta, Alfredo Maffi, ha diffuso un comunicato in cui spiega le ragioni della protesta. "Vogliamo sensibilizzare gli uomini politici a tenere fede a quell’atto di clemenza tanto desiderato dal Santo Padre Giovanni Paolo II, in occasione della sua visita al Parlamento italiano. Il governo italiano, e in particolare il ministro della Giustizia Castelli, non ha dato seguito a quanto richiesto dal Pontefice. Proprio in questi giorni - prosegue Maffi - l’Unione ha presentato al Senato un disegno di legge per un anno di amnistia per i reati sino a quattro anni e l’indulto per pene sino a due anni di carcere".

Il presidente dell’associazione culturale "Papillon" prosegue stigmatizzando quanto, a suo dire, non sarebbe stato attuato dall’on. Gaetano Pecorella (già difensore di molti imputati) in materia di amnistia e di indulto. "Il sovraffollamento delle carceri italiane - aggiunge Maffi - è un dato incontrovertibile, al pari della carenza di risorse umane, come dimostrano i 563 educatori contro i 1376 previsti in pianta organica e gli appena 180 magistrati di sorveglianza a fronte di migliaia di procedimenti pendenti. Inoltre le risorse finanziarie sono inadeguate. La mia riflessione è che, oggi, il sistema penale viene utilizzato come regolatore sociale".

Il presidente dell’associazione Papillon conclude facendo appello anche agli uomini politici e ai rappresentanti istituzionali di Caltagirone e della zona, "affinché si rechino nella struttura penitenziaria di contrada Noce a raccogliere le testimonianze dei detenuti, i quali chiedono il riconoscimento di un diritto che non trova attuazione da oltre 16 anni". M. Mes.

Tempio Pausania: i problemi del carcere sul tavolo di Castelli

 

L’Unione Sarda, 6 maggio 2005

 

Il caso Rotonda arriva sul tavolo del ministro Roberto Castelli. Già questa mattina l’esponente della Lega Nord incontrerà il segretario nazionale del sindacato di polizia penitenziaria, Donato Capece. Il sindacalista ha visitato il carcere tempiese nei giorni scorsi e ha chiesto subito di poter parlare delle condizioni di vita all’interno del penitenziario, sia per quanto riguarda gli agenti che per i detenuti, con il ministro della Giustizia. Il primo risultato delle richieste di intervento rivolte a Capece dai responsabili locali del Sappe.

"Una situazione inaccettabile - queste le parole del segretario nazionale del sindacato - e unica tra quelle più gravi nell’isola. Il penitenziario di Tempio presenta delle problematiche che richiedono un intervento immediato da parte della amministrazione". Il segretario nazionale del Sappe ha incontrato il personale dell’istituto e i vertici della struttura. Quindi ha affrontato le questioni legate alla drammatica carenza di agenti della polizia penitenziaria, con il provveditore regionale alle carceri, Francesco Massidda. Tra l’altro è stata confermata la volontà di trasformare l’istituto in un penitenziario di primo ingresso, per gli arrestati a disposizione della magistratura e per i detenuti in semilibertà. Secondo gli stessi sindacati, ma anche gli amministratori comunali di Tempio, si tratta dell’anticamera della chiusura del carcere.

Nelle settimane scorse i tecnici del Ministero della Giustizia hanno effettuato i primi rilievi per l’avvio del progetto di realizzazione del nuovo carcere nelle vicinanze della frazione di Nuchis. Per l’opera sono stati già stanziati circa trenta milioni di euro. Un eventuale chiusura anticipata del vecchio penitenziario, potrebbe in qualche modo ostacolare il progetto del nuovo penitenziario. Il Sappe comunque ora vuole risolvere in tempi brevi il problema dei permessi e delle ferie negati al personale. La Procura di Tempio intanto continua ad indagare sui congedi per malattia di dieci agenti della Rotonda.

Giustizia malata: criminali in libertà, innocenti detenuti

di Paolo Carotenuto

 

Il Denaro, 6 maggio 2005

 

I casi Izzo e Barillà ripropongono la questione della riforma dell’ordinamento giudiziario. Due storie di ordinaria ingiustizia italiana riempiono le cronache dei giornali di questi giorni, riproponendo il vero problema che attanaglia il sistema giudiziario italiano e che sicuramente non è rappresentato dalle riforme che faticosamente il Governo sta cercando di realizzare, peraltro in modo parziale, ma da chi usa il potere giudiziario, producendo mostruosità intollerabili per uno Stato che presuntuosamente si definisce di diritto, lasciando impuniti i loro fautori.

La prima storia riguarda Angelo Izzo, uno dei condannati all’ergastolo per il massacro del Circeo, quando con Gianni Guido e Andrea Ghira, invitò Maria Rosaria Lopez e Donatella Colasanti ad una festa nella villa di Ghira, al Circeo, dove le seviziarono e massacrarono. La Lopez morì e la Colasanti si salvò, in terribili condizioni, fingendosi morta.

Come spesso accade nel nostro Paese, gli ergastolani, i criminali, gli assassini, gli uomini socialmente pericolosi sono liberi di proseguire la propria "missione" con tanto di autorizzazione di tribunali e giudici, per i quali è sufficiente la confessione di altri crimini e l’adesione alla famigerata "formula" che prende il ridicolo nome di "collaboratori di giustizia", per ottenere sconti di pena se non anche la libertà.

Uno che di pentiti se ne intendeva, Giovanni Falcone, bollò Izzo come un millantatore ed infatti le sue rivelazioni gli costarono una ulteriore condanna a 4 anni per calunnia. Ma Falcone morì e si sa che le procure pullulano di magistrati desiderosi di poter contare sull’apporto di fantasiosi racconti di gente come Izzo pur di rafforzare i propri teoremi investigativi. E per conseguire tutto ciò, non lesinano concessioni e tutele ai pregiudicati, anche se si dovesse trattare di un ergastolano.

Certo, può capitare di imbattersi, nel tempo, in altri due cadaveri di donna sepolti in un giardino, uccise per ragioni a sfondo sessuale, molto probabilmente per mano del criminale pentito, in libertà vigilata.

Donatella Colasanti, sopravvissuta al massacro del Circeo, non riesce a credere alla notizia dell’arresto di Angelo Izzo ed a fatto che sia stata possibile consentirgli nuovamente di poter uccidere, commettere lo stesso crimine di 30 anni fa. Ingenuamente la donna chiede "che chi ha sbagliato ora deve pagare, con l’intervento immediato del Governo e provvedimenti disciplinari durissimi per i magistrati che hanno considerato Izzo un collaboratore di giustizia".

Dunque puoi commettere i crimini più efferati, puoi violentare ed uccidere ragazze innocenti, puoi sciogliere nell’acido il corpo di un bambino, ma ci sarà sempre un magistrato pronto ad aprire le porte della umana comprensione, oltre quelle del perdono e dell’impunità in cambio di una confessione, di una rivelazione scottante che possa supportarlo nel perseguimento dei propri disegni.

In un contesto così nauseante e sconfortante, è ancora più forte il messaggio che viene lanciato dalla fiction realizzata dalla Rai sulla storia di Daniele Barillà, arrestato e condannato ingiustamente dopo anni di indagini e processi nel corso dei quali non era emersa una sola prova che potesse supportare l’accusa che lo voleva coinvolto in un traffico di droga, ignorando gli alibi prodotti ed omettendo la più semplice delle verifiche: controllare che non ci fosse stato un drammatico scambio di persona. Una vicenda Kafkiana che ha trovato uno sviluppo favorevole per l’involontario protagonista solo dopo 7 anni di carcerazione, laddove la giustizia si espone ai paradossi più estremi e traumatici, risultando inflessibile e impietosa con gli innocenti. È stridente e lancinante il raffronto tra vicende come queste che denotano lo stato comatoso in cui versa la giustizia italiana, ostaggio di uomini che offendono la legge e la libertà degli uomini.

Reggio Emilia: Opg, verso il reinserimento… con una bicicletta

 

Redattore Sociale, 6 maggio 2005

 

Sperimentare nuovamente la libertà e fare i primi passi verso il reinserimento nella vita "normale", a partire dalle biciclette. Un progetto che coinvolge un gruppo di ospiti dell’Opg, l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, che verrà raccontato domani, sabato 7 maggio, su Rai 3 (redazione dell’Emilia - Romagna) in due momenti distinti: alle 12.30, durante "Il settimanale", spazio extra tg, e alle 14 nella rubrica "Abilhandicap". I servizi sono stati realizzati dal giornalista Nelson Bova, ideatore e curatore di "Abilhandicap", da sempre attento a temi di carattere sociale. Ma perché un servizio proprio sull’Opg?

"Il Comune di Reggio - racconta - ha deciso di dare in gestione un parcheggio scambiatore, in pieno centro città, all’Opg. Questo vuol dire, per il gruppetto di detenuti coinvolti nel progetto, uscire dalla struttura alla mattina e rientrare la sera, a turni di due-tre, per fare noleggio delle bici del Comune, riparazione e vendita di quelle dei ferrivecchi". Ma oltre all’aspetto dell’uscita, c’è dell’altro: "Un addetto del Comune è incaricato di portare delle bici nell’Opg, per farle aggiustare. All’interno della struttura, infatti, è stato attrezzato un apposito laboratorio per le riparazioni". Nata nel 2000 come rubrica specifica sulla disabilità, "Abilhandicap" ha allargato il suo campo d’azione ed ora si occupa del mondo della solidarietà, del volontariato, dell’associazionismo. Persone disabili, ma non solo, anche senza fissa dimora, immigrati, profughi, tossicodipendenti, malati, anziani. E ospiti dell’Opg. "Prima di cominciare l’esperienza - prosegue Bova - i detenuti hanno fatto un corso di formazione con l’Enaip.

Partito con cinque persone, il progetto – che coinvolge l’Opg, il Comune e la cooperativa sociale "Prima o poi" – si sta allargando. È bello vedere come entrano ed escono in bici, in assoluta tranquillità; alcuni di loro sono prossimi all’uscita definitiva dalla struttura". Persone che, in passato, hanno compiuto gesti efferati, "e che ora considerano questo progetto una bella opportunità, come raccontano loro stessi nella rubrica". Dal servizio nell’Opg di Reggio alla Norvegia: "Ci andrò prossimamente - conclude Bova - perché c’è un ragazzo, sempre di Reggio Emilia, tetraplegico, che là sta facendo l’Erasmus. Ha realizzato un video sulle barriere architettoniche, e potrebbero esserci spunti interessanti per vedere come funzionano le cose nell’Europa del nord. È tutto da costruire, insomma. Ma sarà senz’altro oggetto di una prossima puntata di Abilhandicap".

Cassazione: giro di vite sulle misure premiali agli ergastolani

 

Il Messaggero, 6 maggio 2005

 

È soltanto un caso che la Cassazione si sia pronunciata in coincidenza con le tragiche vicende di Campobasso, ma la sentenza depositata in cancelleria proprio in questi giorni dimostra che un ripensamento sulle facili concessioni di premi per gli ergastolani era già nell’aria prima ancora del caso Izzo. Il giro di vite arriva dalla Suprema Corte con una sentenza che impone ai Tribunali di Sorveglianza di valutare il "reale" e "concreto pentimento" dei condannati prima di dare l’ok a regimi carcerari di semilibertà.

Non basta aver scontato 26 anni di carcere, aver chiesto scusa e aver dato prova di volersi ricostruire una nuova vita. Neppure è sufficiente che il condannato sia impegnato in attività lavorativa o di volontariato. Il Tribunale di Sorveglianza prima di concedere la semilibertà o la libertà condizionale deve valutare le condizioni di concreto "pentimento" e sondare cosa "intende fare il detenuto per alleviare le sofferenze dei parenti delle vittime". I paletti fissati riguardano un ex brigatista rosso della colonna napoletana, Salvatore C., condannato all’ergastolo con isolamento diurno per concorso nei reati di strage, omicidio, banda armata, rapina. A concedergli la libertà condizionale era stato il Tribunale di Sorveglianza di Napoli, nel febbraio 2004, che ne aveva apprezzato la correttezza e la presa di coscienza del proprio vissuto "con adesione ai valori di solidarietà e di dignità, agevolati dal buon livello culturale e dal positivo rapporto con il proprio nucleo familiare". In particolare era stato apprezzato l’impegno del detenuto "in attività di volontariato quale responsabile di un distretto sanitario nell’ambito del coordinamento regionale del Tribunale per i diritti del malato".

Agli atti c’era anche una lettera di autocritica "per le conseguenze dolorose e la sofferenza provocata" e che era stata fatta arrivare, attraverso il suo legale, alla vedova di un assessore regionale ucciso dall’ergastolano. Ma il procuratore generale presso lo stesso Tribunale di Sorveglianza aveva fatto ricorso in Cassazione, facendo notare che non c’era alcuna la prova di "profondo pentimento morale" per i delitti commessi, visto che nonostante la lettera, il condannato "non aveva in alcun modo risarcito il danno, come pure avrebbe potuto fare percependo regolare stipendio, ed appartenendo ad un nucleo familiare valido". La Prima sezione penale ha accolto il ricorso asserendo che non basta il passivo pentimento per tornare in libertà, occorre che il condannato manifesti "effettivo interessamento" per la situazione morale e materiale delle persone offese tentando nei limiti delle sue possibilità di attenuare se non riparare interamente i danni provocati. Insomma non basta pentirsi, occorre risarcire i danni provocati. La semplice autocertificazione e una paginetta scritta non sono sufficienti per riprendersi la libertà. Nemmeno quella condizionata. R.D.G.

Cremona: 23enne si uccise in carcere 8 anni fa, era innocente

 

Provincia di Cremona, 6 maggio 2005

 

Il 21 maggio 1997, un ragazzo di 23 anni si tolse la vita in carcere, dopo aver gridato la propria innocenza e dopo aver lasciato un biglietto: "Non ho ucciso io mio padre". È la drammatica storia di Michele Botti: un solo indizio lo portò in cella due mesi e mezzo prima, il 3 marzo: la sua impronta insanguinata rilevata nell’appartamento in via Crespi al Cambonino, dove la sera del 28 febbraio fu trovato il cadavere del padre Giovanni Botti, 47 anni e dove Michele non negò di essere entrato e di aver scoperto il corpo. Dopo l’impronta, niente. Otto anni dopo si sa che l’impronta era l’unico indizio che "ha visto sfumare la sua valenza tanto da consentire" per Michele "la sua estraneità all’evento criminoso".

Dopo 8 anni dal suicidio, affiorano le motivazioni che il 2 novembre 2001 indussero il procuratore Giorgio Caimmi a chiedere al Gip l’archiviazione "per non aver commesso il fatto" di Michele Botti e di altre due persone inizialmente indagate. E dopo otto anni affiorano le motivazioni con cui il Gip Marco Cucchetto, il 17 dicembre 2002, accolse la richiesta di archiviazione. "Considerato che l’unico dato oggettivo dotato di un qualche spessore - ha scritto il Gip - rappresentato dall’impronta rinvenuta sullo stipite dell’appartamento della vittima, dattiloscopicamente attribuibile a Botti Michele ed impressa con traccia ematica che in termini probabilisticamente elevati (seppur non scientificamente certi) è risultata compatibile con il profilo ematico della vittima, possiede una valenza indiziaria che, pur significativa, non ha ricevuto i necessari elementi di conforto....". Solo dopo otto anni, i due provvedimenti (la richiesta di archiviazione del procuratore e il decreto di archiviazione del Gip) sono stati consegnati alla signora Angela Botti, la zia di Michele, che ha cresciuto il nipote dall’età di 6 anni a 15 anni, e che dal 21 maggio 1997 lotta con rabbia, perché convinta che suo nipote sia stato vittima di un errore giudiziario.

Ed ora sta valutando un risarcimento dei danni (la signora si è affidata all’avvocato Simona Bracchi, che ha smosso il caso nel 2001). Michele non ha avuto vita facile. Con la madre non aveva rapporti, del padre aveva soggezione "e lo considerava un mito, nel bene e nel male", dice chi lo conosceva bene. Era un ragazzo fragile, border-line per lo psichiatra.Ha bussato a numerose porte, la signora Angela in questi anni "perché venisse fuori la verità, il vero nome dell’assassino".

Nel settembre 2003, si era anche rivolta all’onorevole Andrea Gibelli (Lega Nord) perché a Roma si esaminasse il fascicolo sul suicidio di Michele. L’indagine non approdò in nulla, ma in quel faldone voluminoso mancavano i due provvedimenti. E mancavano, perché contenuti nell’altro faldone, quello sull’omicidio di Giovanni Botti. Se le indagini hanno dimostrato che l’impronta insanguinata era un indizio fragile e privo di riscontri, chi ha ucciso Giovanni Botti? Se lo chiede la zia. Il 15 luglio 2003 nell’intricato puzzle, si è aggiunta una tessera importante: la sentenza di condanna a 2 mesi di reclusione emessa dal giudice Massimo Vacchiano nei confronti di Carmelino Grasso, 30 anni "per aver sottaciuto quanto a sua conoscenza sull’omicidio Botti". Dunque, secondo il giudice Carmelino Grasso sapeva e agli inquirenti dichiarò il falso e si mostrò reticente. Erano le 4 del mattino del 21 maggio, quando l’agente di polizia penitenziaria passò davanti alla cella in cui era detenuto Michele Botti e sobbalzò: il ragazzo si era legato un sacchetto di plastica attorno al collo, in bocca si era infilato un tubo collegato a una bomboletta di gas. "Zia perdonami, ma non ho ucciso io il papà".

Rosarno (Rc): serve midollo per ragazza, gara solidarietà fra detenuti

 

Asca, 6 maggio 2005

 

Prosegue, senza sosta, la gara di solidarietà a favore di Silvia, la giovane rosarnese, che attende, da mesi, il trapianto di midollo osseo. Per trovare un donatore compatibile si stanno mobilitando centinaia di persone in tutta Italia, specie dopo l’appello lanciato dalla famiglia attraverso i media. Al Municipio di Rosarno, ogni giorno, giungono telefonate di persone che si dichiarano disponibili a fare gli esami per la verifica della compatibilità. Tra le richieste più significative e commoventi quelle che pervengono da detenuti.

Da Sulmona (L’Aquila) un ergastolano chiede di conoscere il percorso da compiere per ottenere l’autorizzazione al prelievo del sangue. "Sono un cattolico fervente - scrive al Sindaco- anelo ad un posticino vicino a Dio, nella vita eterna e a tal fine, se potrò dare il midollo alla sua sfortunata concittadina, sarò io a ricevere e non viceversa". Stessa disponibilità giunge dalla Casa Circondariale di Tolmezzo (Udine) da parte di reclusi che chiedono l’intervento del Sindaco presso le competenti Autorità per essere sottoposti all’esame ematologico.

"La risposta che viene dai detenuti - ha detto il sindaco Saccomanno - che con generoso altruismo si offrono per salvare una vita, costituisce motivo di profonda riflessione per i risvolti di natura umana e morale che la vicenda racchiude. Sono atti di bontà meritevoli di attenta valutazione sociologica, poiché dimostrano quanto bene alberghi nel cuore dell’uomo e quanto forte sia la spinta alla fratellanza e alla solidarietà, che proviene da uomini già duramente provati dalle circostanze, desiderosi di rendersi utili alla società attraverso un profondo atto d’amore".

Usa: pena morte, eseguita condanna in Carolina del Nord

 

Ansa, 6 maggio 2005

 

Un uomo è stato messo legalmente a morte,con un’iniezione letale, la scorsa notte nel carcere di Raleigh nella North Carolina. Earl Richmond è stato riconosciuto colpevole di avere assassinato una donna, i suoi due figli e un soldato, a Fort Dix, nel New Jersey. Richmond è la seconda persona la cui condanna capitale è stata eseguita nello Stato quest’anno e la 36/a da quando le esecuzioni sono riprese, nel 1977.

Roma: 3 agenti di Rebibbia indagati per suicidio di una detenuta russa

 

Ansa, 6 maggio 2005

 

Rischiano il processo per omicidio colposo tre agenti della polizia penitenziaria di Roma per il suicidio di una detenuta nel carcere di Rebibbia. I tre sono accusati di non aver vigilato su una 40enne di origine russa che si impiccò nel novembre scorso dopo aver dato evidenti segni di squilibrio. L’episodio coinvolge un capo della vigilanza generale e due agenti donne. La detenuta, Marina Kniazeva, in carcere per rapina, fu trovata impiccata alla sponda del letto di una cella del reparto infermeria.

Livorno: sull’isola di Gorgona non c’è solo carcere…

 

Nove da Firenze, 6 maggio 2005

 

Riprendere i rapporti di collaborazione che nel recente passato erano stati coltivati e che avevano dato ottimi frutti sul piano sociale e culturale; rilanciare le esperienze ed i progetti tesi alla salvaguardia e alla valorizzazione dello straordinario patrimonio ambientale dell’isola di Gorgona . Sono gli obiettivi riconfermati dalle istituzioni locali e dalla nuova direzione del carcere di Gorgona. Impegni ed obiettivi al centro della conferenza stampa di oggi, cui hanno partecipato l’assessore alle politiche sociali Alfio Baldi ed il nuovo direttore del carcere dell’isola di Gorgona, Salvatore Iodice.

"Giornate ecologiche all’Isola di Gorgona": è il titolo della prima iniziativa messa a punto dalla direzione del carcere in collaborazione con il Comune di Livorno ed alcune associazioni ambientaliste. L’iniziativa è in programma da oggi fino al 13 maggio e vede impegnati 18 detenuti del carcere di Massa, di cui è direttore lo stesso dr. Iodice.

Suddivisi in due gruppi di nove, i detenuti vengono condotti in "permesso-premio" ed a titolo volontario e gratuito nell’isola di Gorgona dove vengono impegnati nella raccolta differenziata dei rifiuti: questi saranno poi portati ai siti di smaltimento ufficiali. Insieme ad una parte dei detenuti del carcere di Gorgona, saranno anche occupati nella potatura di alberi e nella piantumazione di nuove piante, oltre che nella sistemazione della viabilità pedonale dell’isola.

I detenuti sono affiancati da personale penitenziario (polizia penitenziaria ed educatori), ma anche da operatori di associazioni ambientaliste per concretizzare una sorta di "educazione formazione" sul campo e "in corso d’opera". Hanno dato la loro disponibilità Legambiente, il WWF e la Coop. Gorgona.

Pienamente confermata da parte di tutte le istituzioni la necessità di mantenere e sviluppare in Gorgona l’attuale Laboratorio di biologia Marina gestito in collaborazione con il Centro Interuniversitario di Biologia Marina. Si tratta di un laboratorio di supporto all’allevamento di pesci, spigole e orate, destinate al consumo del carcere ed anche alla vendita fuori dall’isola. Il lavoro viene svolto in parte da detenuti dell’isola e si colloca all’interno di un percorso complessivo di formazione professionale e di valorizzazione della cultura scientifica, grazie appunto al proficuo rapporto con il Centro Interuniversitario di Biologia Marina, il prestigioso centro di ricerca fondato nel 1967 dal Comune di Livorno insieme a 6 Università italiane.

Comune di Livorno, Provincia di Livorno e Direzione del carcere di Gorgona si sono impegnati a rivedere ed aggiornare la convenzione sottoscritta negli anni ‘90, nella prospettiva di migliorare l’uso turistico consapevole dell’ambiente isolano. Anche su questo terreno si incontrano due volontà, quella dell’amministrazione statale e quella degli enti locali. Ambedue vedono in una maggiore apertura dell’isola un momento importante di recupero sociale della popolazione carceraria, ma anche una occasione per far conoscere soprattutto ai giovani ed agli studiosi un patrimonio ambientale di straordinario interesse.

Sull’isola continuerà la positiva esperienza didattica del centro bambini e genitori realizzato dal Comune di Livorno (assessorato alle attività educative). Il centro è a disposizione delle famiglie degli agenti e, comunque, di tutti i bambini - circa 12 - che hanno occasione di soggiornare sull’isola. La Circoscrizione 2, nel cui territorio rientra l’isola di Gorgona, si interesserà invece di una serie di interventi di manutenzione delle strade e dell’illuminazione.

Padova: sit-in della Cgil su modifica ordinamento penitenziario

 

Ansa, 6 maggio 2005

 

Presidio della Cgil con cartelli e striscioni stamani a Padova per sollecitare una attenzione da parte dell’opinione pubblica sui problemi legati all’ordinamento penitenziario, in particolare per le modifiche riguardanti i servizi di sostegno sociale e psicologico. La deputata verde Verde Luana Zanella ha inviato un’interrogazione al ministro dell’Interno ed ha espresso la sua solidarietà alla Cgil Fp settore penitenziario.

La situazione di degrado nei carceri padovani - spiega Zanella - è tale che l’incidenza dei suicidi tra i detenuti è altissima, anche grazie alla penuria di educatori e di psicologici che rasenta il paradossale per istituti di quelle dimensioni. Di fronte a questa situazione, bisogna fare fronte agli attentati contro la legge Gozzini e ai colpi di mano come quello tentato dalla Cdl con la legge Meduri, che da una parte rafforza le politiche repressive smantellando i servizi di sostegno sociale e psicologico, dall’altra aumenta il ruolo dei dirigenti penitenziari.

 

 

Precedente Home Su Successiva