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Giustizia: sulla grazia Castelli attacca il Quirinale
Il Manifesto, 18 giugno 2005
"Sarebbe devastante se la consulta desse ragione a Ciampi". Dopo aver taciuto per due giorni, il ministro si lancia contro il Colle. La sinistra difende il presidente e chiede le dimissioni del ministro, abbandonato anche da Berlusconi: "Decida la Consulta, non mi preoccupo" Deve avere uno strano concetto di calma, il ministro della giustizia che due giorni fa aveva chiesto un po' di tempo per commentare con "calma", appunto, il ricorso alla consulta del presidente della repubblica sulla grazia a Ovidio Bompressi. A quasi quarantotto ore dalla notizia, infatti, ieri mattina il ministro ha assestato una esternazione durissima (per poi smentirla nel pomeriggio): "Il sì della Consulta a Ciampi avrebbe effetti davvero devastanti". Perché, sottintende il ministro, se davvero il potere di concedere la grazia fosse considerato di competenza esclusiva del presidente, bisognerebbe applicare la stessa teoria anche alle altre competenze del Quirinale. "Neanche la riforma costituzionale messa a punto dalla Cdl avrebbe questi effetti - ha cercato di sorridere il ministro - sono davvero curioso di leggere il testo del ricorso del presidente della Repubblica. Se per tutti quei poteri del Capo dello Stato la controfirma dei ministri diventa un atto dovuto si pongono grossi problemi. Non c’è il minimo dubbio. Quando ci si mette a giocare con la Costituzione si può dar vita alla famosa eterogenesi dei fini...". Ovviamente quella di Castelli è una boutade. "I poteri attribuiti al presidente della repubblica sono da sempre distinti tra loro. Alcuni sono di competenza esclusiva del Colle, come la nomina dei giudici costituzionali. Ma sebbene questo dato sia chiaro nessuno ha mai pensato per questo che l’Italia fosse una repubblica presidenziale o una monarchia", chiosa il costituzionalista Gaetano Azzariti. Prima e dopo questa sparata il ministro aveva cercato di essere prudente. Prima, in mattinata, quando aveva detto: "Non credo che la decisione della Corte Costituzionale sarà in tempi brevi". E dopo, nel pomeriggio, quando ha cercato di ritrattare: "Non ho fatto polemiche: ho semplicemente sollevato una questione di natura costituzionale, anche perché questo sarà un caso che farà scuola, giurisprudenza e farà un po’ la storia del nostro Paese". A prescindere dalla boutade del ministro, le attese sulla decisione della Corte costituzionale crescono col passare del tempo. Il primo scoglio che la Consulta si troverà ad affrontare sarà quello di scegliere i tempi in cui istruire il ricorso. Il 4 novembre il presidente dovrà nominare quattro giudici della Corte e la legge non scritta dei due palazzi vieta che a decidere sul primo ricorso diretto di un presidente della repubblica siano proprio i "suoi" giudici. Il problema ha accreditato l’ipotesi che la decisione sul potere di grazia avvenga in tempi rapidi, accelerando il calendario della Consulta in modo che la decisione sia presa prima del 4 novembre. A dar ragione a questa tesi c’è anche lo scontro sui giudici costituzionali di ieri pomeriggio (vedi pezzo in pagina). Mazzella, eletto ieri, potrebbe essere costretto ad astenersi sulla decisione, perché il ricorso è firmato dall’ufficio dell’Avvocatura dello stato di cui faceva parte fino a ieri. E senza il suo voto la discussione potrebbe rimanere bloccata per assenza del numero legale. L’attacco del ministro sugli effetti "devastanti" di una vittoria del Quirinale ha chiamato a raccolta l’intera sinistra. Tutti a difesa del presidente a partire dal sindaco di Roma Walter Veltroni, che ha parlato di "dichiarazioni molto gravi ed offensive". Franco Corleone, ex sottosegretario alla giustizia e promotore del digiuno a staffetta "contro l’oblio" sul caso Sofri ieri proponeva un "corso di educazione civica" per alcuni ministri, tra cui l’interessato. Molti altri - Pecoraro Scanio dei Verdi, Pagliarulo del PcdI - invece hanno chiesto, per l’ennesima volta, le dimissioni del ministro. Se la sinistra è tutta mobilitata a difendere il presidente a destra quasi nessuno si alza a far scudo al litigioso ministro. Berlusconi, che specie in questi giorni punta ad accreditarsi come leader dei moderati, ieri ha spiegato di non aver alcuna intenzione di litigare col Colle pure su questo punto. Quella sulla grazia, ha spiegato ieri, "è una decisione della Consulta, non posso intervenire e fare commenti. È un’interpretazione istituzionale della Costituzione e la Costituzione è accettata da tutti noi come legge fondante e fondamentale del nostro sistema, non vedo che effetti potrebbe avere". Garante detenuti: da gennaio 6 morti nelle carceri del Lazio
Comunicato Stampa, 18 giugno 2005
Dal 1 gennaio al 10 giugno sono sei i morti, per varie cause, nelle carceri del Lazio. La denuncia è del Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni. Secondo i dati conosciuti sono stati cinque i decessi negli istituti di reclusione del Lazio, di cui tre fra aprile e maggio. Tre sono stati causati da malattie, uno è un suicidio mentre per il quinto la causa non è stata accertata. A questi Marroni aggiunge anche un bambino perso la scorsa settimana, a Rebibbia, da una detenuta incinta di 4 mesi. Dei 5 deceduti, 3 sono morti nel complessi di Rebibbia, 1 a Regina Coeli e 1 a Civitavecchia. Fra le morti imputate alla voce "malattie", spicca quella di M.G., 44 anni detenuto a Rebibbia, morto il 15 febbraio. Il suo caso venne denunciato dal Garante: dopo aver visto le sue richieste di scarcerazione per potersi curare respinte l?uomo, gravemente malato di Aids, era stato considerato scarcerato dopo essere stato ricoverato in coma al policlinico Gemelli, dove poi morì pochi giorni dopo. Malato di hiv era anche M.C., 27 anni, morto il 18 maggio nel centro clinico di Regina Coeli. Doveva scontare una pena definitiva fino al 2010 per un cumulo di pene legate a reati come rapine, furti ed evasioni dagli arresti domiciliari. Fra le vittime di malattie anche la 26enne Emanuela Fozzi, malata di Aids, morta il 16 aprile per l’epidemia di varicella che, a Rebibbia Femminile, ha contagiato 13 detenute. Tre mesi prima la donna era stata dichiarata incompatibile, per le sue condizioni, con il carcere. Si è suicidato un detenuto romeno morto il 30 marzo a Civitavecchia mentre non sono state accertate le cause della morte di Domenico Maniscalco, 30 anni, deceduto il 31 marzo a Rebibbia. Risale alla scorsa settimana, invece, la notizia di Johana, una detenuta romena di Rebibbia Femminile, incinta al quarto mese che in carcere ha perso uno dei due bambini che aspettava. "Ritardi spaventosi, incomprensioni, burocrazia esasperante, inefficienze, carenze di personale. Dietro ognuna di queste morti c?è una spiegazione tanto banale e assurda quanto agghiacciante - ha detto Marroni - La realtà è che se ci indigniamo quando queste cose accadono fuori dal carcere, lo stesso deve accadere quando succedono al di là delle sbarre. In questi mesi abbiamo lavorato scongiurando che molti casi finissero come questi. Continueremo a lavorare in tal senso. Le carceri di tutta Italia sono piene di storie del genere. Non può bastare un muro per mettere a tacere le nostre coscienze". Biondi: amnistia e indulto, o fra un anno avremo 80mila detenuti
L’Opinione on line, 18 giugno 2005
"In politica l’opportunismo elettorale non sempre paga e i nodi prima o poi vengono al termine. Quello del sovraffollamento e delle condizioni in cui sono tenute le carceri italiane è ormai drammaticamente all’ordine del giorno e il ministro Castelli a questo punto deve prendere atto della situazione senza rimandare a improbabili miglioramenti futuri ma prendendo di petto le uniche soluzioni concretamente a portata di mano che si chiamano amnistia e indulto". Alfredo Biondi non è solo il vicepresidente della Camera dei deputati e uno dei membri più autorevoli di Forza Italia sul versante laico. È anche un addetto ai lavori visto che è un notissimo avvocato e che fu nel lontano 1994 il ministro di Grazia e Giustizia del primo governo Berlusconi. In questa intervista per L’opinione dice chiaramente quale è la malattia e quale la cura del malato terminale che si chiama sistema penitenziario italiano.
Onorevole Biondi il ministro Castelli si è accorto che le carceri sono un’emergenza nazionale. Che fare adesso? Il ritardo è voluto. Cioè deliberatamente non affrontato prima. In Italia i timori sono un freno che paralizza ogni decisione. Ogni sei mesi c’è un’elezione e nessuno vuole perdere di popolarità affrontando i temi di amnistia e indulto. Castelli appartiene a questo tipo di politici.
Il ministro dice di sperare che i radicali non agitino troppo la cosa perché il governo starebbe lavorando per risolvere il problema… Con queste premesse e queste prese di posizione arriveremo a dopo le elezioni del 2006 quando di detenuti in carceri che possono ospitarne circa 40 mila ce ne saranno ormai il doppio. Io capisco che governare e decidere possa essere impopolare ma se tutto diventa condizionato da imminenti elezioni noi questa cosa non la risolveremo mai e il bubbone fra poco scoppierà.
Si potrebbe ironizzare di non peggiorare addirittura la situazione con la futura legge sulla droga che rischia di raddoppiare in pochi anni le presenze nelle patrie galere… Sì, ci manca un altro po’ di proibizionismo che deresponsabilizza la gente e che provoca questi danni.. io credo che una legge siffatta sia non solo inutile ma anche dannosa e a quel punto il problema carceri non sarebbe più risolvibile.
Si può sempre sperare in un’ulteriore svolta di Fini dopo quella della fecondazione assistita, in fondo Aznar era cattolico e conservatore ma incoraggiava la diminuzione del danno con le narcosalas dove si distribuiva eroina gratis ai tossicodipendenti sotto controllo medico… Sarebbe la vera svolta di Fiuggi verso un conservatorismo illuminato come era quello spagnolo di Aznar. Con tutta la stima che ho della persona non credo che in questo momento Fini sia all’altezza e poi nel partito rischierebbe di provocare una scissione, chissà.
Certo che nelle carceri si potrebbe anche fare meglio vivere la gente che vi si trova dentro. 650 suicidi in dieci anni e altri 2 mila morti fanno dell’Italia una vergogna europea… Oramai c’è un’amnistia per pochi privilegiati che si chiama prescrizione, poi si abbonda in misure premiali anche per chi non le merita. Tanto varrebbe fare un vero provvedimento di amnistia e indulto, come quelli che un tempo si facevano ogni cinque anni. Poi una vera riforma dell’ordinamento giudiziario, non questa riformicchia non ancora varata, perché la magistratura non sia più un instumentum regni, specie di determinate parti politiche,e infine bisognerebbe prendere coscienza che per la sicurezza dei cittadini molto meglio sarebbe che ogni carcere rassomigliasse davvero a un buon albergo..
Quella del Grand Hotel non fu una grande uscita.. No perché attualmente ogni istituto penitenziario è più vicino alla discarica sociale che all’albergo anche di seconda categoria, inoltre che sicurezza da tenere uno recluso per qualche anno in quelle condizioni senza rieducarlo? È chiaro che all’uscita della galera c’è solo il rientro nel giro del grande crimine.. è una politica di sicurezza questa? Dimitri Buffa Roma: caso Marrone, serve riflessione su condizione penitenziari
Adnkronos, 18 giugno 2005
"Franco Marrone è morto abbandonato nella cella d’isolamento senza cure e senza conforto alcuno, se non quello dei propri compagni detenuti che con rabbia hanno più volte richiesto l’aiuto e l’intervento dei sanitari di Rebibbia, che si sono dimostrati sordi". Lo dice Giacomo Frazzitta, legale della famiglia di Franco Marrone, il detenuto di 41 anni, morto nel carcere romano per un tumore al cervello a causa della condotta colposa dei medici. "La morte e il sacrificio di Franco - aggiunge Frazzitta - deve servire a tutti per una riflessione seria sulle condizioni delle carceri in Italia". Trieste: servono agenti donne per la sezione femminile
Adnkronos, 18 giugno 2005
"Abbiamo chiesto al ministro della Giustizia di assegnare agenti donne alla sezione femminile del carcere di Trieste al fine di rendere operative le strutture già esistenti". Lo affermano in una nota congiunta gli onorevoli Ettore Rosato (Intesa democratica) e Roberto Damiani (Gruppo misto) che hanno presentato un’interrogazione urgente al ministro Roberto Castelli sulla situazione triestina. I parlamentari del centrosinistra affermano che la sezione femminile "offre potenzialmente un buon standard di servizi". Di recente, riferiscono, sono state completate aree per l’intrattenimento e due laboratori medici, "ma è il tentativo di procedere all’apertura dell’area - spiegano i parlamentari - ha reso ancor più evidente il cronico problema del personale, in particolare a causa della mancanza di un numero adeguato di agenti donne, problema che sta impedendo l’utilizzo dello spazio". Amnesty International: la Giornata internazionale del rifugiato
Ansa, 18 giugno 2005
"Italia: soggiorno temporaneo, diritti permanenti. Il trattamento dei cittadini stranieri detenuti nei Centri di permanenza temporanea e assistenza". È il Rapporto che Amnesty International presenterà a Roma il 20 giugno, Giornata internazionale del rifugiato (presentazione alle ore 10 presso la Sala conferenze dell’Associazione della Stampa Estera in Italia, Via dell’Umiltà, 83/c). Interverranno: Nerys Lee, curatrice del Rapporto per conto del Segretariato Internazionale di Amnesty International; Gabriele Eminente, direttore della Sezione Italiana di Amnesty International; Riccardo Noury, portavoce della Sezione Italiana di Amnesty International. Il Rapporto evidenzia le preoccupazioni di Amnesty International sulla situazione delle migliaia di migranti e richiedenti asilo detenuti ogni anno nei "centri di permanenza temporanea e assistenza", comunemente noti come Cpta. Le quantità, la regolarità e la coerenza delle segnalazioni e delle denunce circa le condizioni di vita all’interno di tali strutture e il trattamento dei detenuti, insieme alle conclusioni di organismi internazionali come la Corte europea dei diritti umani e le stesse Nazioni Unite, sono fonte di preoccupazione per Amnesty International, che raccomanda alle autorità italiane il rispetto degli standard internazionali in materia di asilo, di prevenzione della tortura e di trattamento delle persone private della libertà. Frosinone: violenza sessuale, indagati direttore carcere e 2 agenti
Agi, 18 giugno 2005
L’ex direttore facente funzione nel carcere di Frosinone e due agenti della polizia penitenziaria sono stati iscritti nel registro degli indagati della procura per abuso d’ufficio. Secondo l’accusa, infatti, i tre non avrebbero riferito alle autorità competenti una presunta violenza sessuale avvenuta nel luglio dello scorso anno nei sotterranei della casa circondariale a danno di un giovane omosessuale detenuto. L’uomo, secondo quanto riferito in una denuncia presentata solo dopo aver lasciato il penitenziario ciociaro per altra destinazione ignota, sarebbe stato invitato in una zona isolata del carcere di Frosinone da un brigadiere della polizia penitenziaria che poi avrebbe approfittato di lui. La violenza sarebbe stata consumata, stando alla querela, nel cosiddetto corridoio di passeggio che porta alla palestra ed ai locali della scuola. Il giovane omosessuale, proveniente dal carcere di Verona, ha provato, a suo dire inutilmente, a riferire la violenza ma nessuno lo avrebbe preso in considerazione. Al termine delle indagini il sostituto procuratore Monti ha chiesto il rinvio a giudizio per tutti e tre. La parola passa ora al gup che dovrà decidere se archiviare il caso o dare seguito alla querela. Messina: in carcere per errore al posto del fratello
Agi, 18 giugno 2005
"Signor giudice io sono estraneo ai fatti. L’utenza telefonica cellulare intercettata dalla polizia è intestata a me, ma è da cinque anni in uso a mio fratello Giuseppe Giorgio". Con queste parole il palermitano Gioacchino Imburgia ha denunciato in aula quello che a suo dire è stato un errore che gli è costato l’arresto nell’ambito dell’inchiesta "Due Sicilie" coordinata dalla dda di Messina su droga ed euro falsi. Il suo avvocato ha chiesto al gip Antonino Genovese la revoca dell’ordinanza cautelare, ma il pm Ezio Arcadi si è opposto e il giudice si è riservato di decidere. Nello stesso tempo, però, il procuratore della dda Arcadi ha firmato un provvedimento d’urgenza di fermo nei confronti di Giuseppe Giorgio Imburgia, 40 anni, di Bagheria, dando incarico alla squadra mobile di arrestarlo. Il ricercato si è presto costituito alla squadra mobile di Palermo. Nelle intercettazioni telefoniche eseguite nei confronti a Francesco Cannizzo - affiliato al clan dei Contempo Scavo di Tortorici (Messina) e in affari con il clan di Lauro di Napoli per il traffico di droga ed euro falsi - si parlava del ruolo di "Gio" di Bagheria nell’organizzazione, e, attraverso i tabulati telefonici, si era risaliti a Gioacchino Imburgia titolare della scheda telefonica. Cannizzo, però, i legami li aveva invece col fratello Giuseppe Giorgio Imburgia. Il gip ha interrogato anche altri 11 dei sedici arrestati finiti in carcere, ma tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Lecce: revocati arresti domiciliari a don Cesare Lodeserto
Agi, 18 giugno 2005
Il gip Maurizio Saso ha concesso ieri la revoca dei domiciliari per l’ex-direttore del centro di accoglienza di S. Foca "Regina Pacis" nel Salento, don Cesare Lodeserto, su richiesta dei difensori Pasquale Corleto e Francesca Conte. Don Cesare era stato arrestato l’11 marzo scorso per presunti maltrattamenti ai danni di alcune ragazze dell’Est coinvolte nel progetto di recupero per persone coinvolte nella cosiddetta tratta delle schiave. Dopo cinque giorni in carcere don Cesare era stato sottoposto agli arresti domiciliari presso l’abbazia di Noci, quindi nell’abitazione della madre a Lecce e, poi, nel nuovo seminario arcivescovile del capoluogo salentino dove è rimasto sino a ieri quando ha ottenuto la libertà. Il provvedimento è stato reso possibile anche in seguito all’incidente probatorio con le testimonianze delle ragazze coinvolte nella vicenda. Giustizia: carcere e disabili, l’esperienza di Rebibbia
Giustizia.it, 18 giugno 2005
Tra i detenuti presenti nella Casa Circondariale di Roma Rebibbia, circa 1600, vi sono anche persone con disabilità sensoriali e motorie, la cui gestione pone problemi del tutto peculiari. Di solito i detenuti disabili, condannati o in attesa di giudizio, vengono assegnati dall’amministrazione penitenziaria ad istituti dotati di reparti adeguatamente attrezzati sia sotto il profilo strutturale sia per le rafforzate possibilità di assistenza sanitaria. Tuttavia, in queste strutture, i posti non sono sufficienti. Nella Casa Circondariale di Roma Rebibbia sono circa 25 le persone che versano nell’impossibilità di attendere alle proprie esigenze di vita o perché affette da malattie croniche di carattere degenerativo o perché portatrici di protesi agli arti inferiori o temporaneamente inabili a causa di fratture subite. È il motivo per cui l’amministrazione di Rebibbia, al pari di altri istituti, si trova nell’evenienza di dover diversificare ulteriormente la gestione della popolazione detenuta. Nel maggio 2004 è stata inaugurata una sezione con ridotte barriere architettoniche in modo da agevolare gli spostamenti e non pregiudicare la partecipazione alle attività trattamentali rieducative offerte a tutti. Alcune stanze di detenzione sono state dotate di bagni assistiti già nel 2002, e vengono assegnate in base a criteri stabiliti dal medico del reparto. Tutti i disabili possono usufruire di locali docce le cui dimensioni consentono l’accesso con la sedia a rotelle. Nel marzo di quest’anno, una rampa d’ingresso al cortile passeggi ha sostituito i gradini impraticabili per i disabili. Ad aprile, la biblioteca del reparto G11 è stata spostata al pian terreno per consentire la consultazione dei libri e per alcuni l’attività lavorativa di bibliotecario. I detenuti disabili sono tutti assistiti nel compimento delle loro attività quotidiane, e quest’assistenza è data da altri detenuti, i c.d. piantoni. Il termine è mutuato dal linguaggio militaresco ad indicare chi nel proprio servizio osserva, attende a qualcosa. Per garantire la massima continuità, il piantone, se necessario, condivide con il proprio assistito anche la cella e dall’anno scorso, i piantoni frequentano, con priorità rispetto ad altri detenuti, un corso di formazione per il supporto dei disabili all’interno del carcere. Il corso, della durata di quattro mesi, è organizzato dal comune di Roma in collaborazione con la direzione della Casa Circondariale di Roma Rebibbia, ed è alla seconda edizione. Coinvolge i "detenuti badanti", e in qualità di insegnanti, varie figure professionali in campo assistenziale quali il sociologo, il fisioterapista, l’esperto nel linguaggio dei segni, l’esperto in legislazione sociale e l’architetto esperto in materia di abbattimento delle barriere architettoniche. Gli obiettivi del progetto guardano sia al detenuto che all’organizzazione penitenziaria, infatti al conseguimento per i partecipanti di un attestato spendibile nel mondo del lavoro, si affianca l’offerta di assistenza qualificata ad altri detenuti che favorisce la qualità nella convivenza per operatori e popolazione detenuta. Benevento: Sappe denuncia aggressione agente penitenziario
Ansa, 18 giugno 2005
Pochi giorni fa presso la casa circondariale di Benevento si è assistito ad un ennesimo episodio di aggressione fisica da parte di un detenuto a danno di un agente di polizia penitenziaria. Attualmente l’agente è ricoverato presso l’ospedale Rummo di Benevento per ulteriori accertamenti. Ed in merito a questo episodio a scendere in campo è il segretario provinciale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) Fernando Mastrocinque ed il segretario locale Roberto Borea. "Da più parti e spesso - commentano i due segretari - giungono richieste di intervento, da parte del personale di polizia penitenziaria in servizio nei reparti detentivi, a salvaguardia della sicurezza del personale in servizio. La sicurezza degli agenti di polizia penitenziaria che operano nei reparti detentivi per quanto ci riguarda - continuano Mastrocinque e Borea - è base fondamentale per mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituto e quindi è del tutto evidente che la situazione che si è venuta a creare richiede un intervento incisivo da parte della segreteria generale verso le autorità competenti, al fine di salvaguardare la sicurezza di quel personale che quotidianamente presta servizio dove molti altri cercano di evitare". Dunque come vediamo da parte di Mastrocinque e Borea parte proprio un appello affinché vengano presi immediatamente i dovuti provvedimenti onde evitare che in futuro succedano altri casi incresciosi. Bisogna intanto sottolineare che il Sappe molte volte ha segnalato l’esigenza di interventi determinanti e responsabili per tutelare l’incolumità e la sicurezza del personale, ma l’episodio che si è verificato è un ulteriore segnale di sollecitazione verso gli organi competenti i quali devono prendere provvedimenti pertinenti. "Intanto - conclude Fernando Mastrocinque e Roberto Borea - l’intera segreteria provinciale esprime la più profonda solidarietà umana e professionale al collega aggredito augurandogli una pronta guarigione ed il Sappe, decisamente sconfortato e rammaricato dell’accaduto continuerà a combattere sempre al fianco di chi ha bisogno di una tutela forte". Droghe: quando si dice "fare di tutta l’erba un fascio" di Andrea Boraschi e Luigi Manconi
A buon diritto, 18 giugno 2005
Quando si dice "fare di tutta l’erba un fascio": il motto popolare si attaglia perfettamente al dibattito pubblico sul consumo di marijuana. E dagli Stati Uniti ci viene l’ennesima, paradigmatica conferma di questa tendenza. La Corte Suprema, con sei voti favorevoli e tre contrari, ha deciso di vietare l’uso dei derivati della cannnabis per fini terapeutici. La risoluzione riguarda il caso di due donne californiane: Diane Monson, malata di cancro al cervello, e Angel Raich, sofferente di una malattia degenerativa della spina dorsale. Nell’agosto del 2002, gli agenti federali avevano sequestrato a entrambe alcune piantine di marijuana, coltivate nel cortile di casa e usate per attenuare le sofferenze derivanti dalle rispettive patologie. In termini strettamente politici, la sentenza della Corte Suprema rappresenta una vittoria per l’amministrazione Bush, che - da tempo - si oppone a qualsiasi forma di consumo di stupefacenti, sia terapeutica che voluttuaria. I dieci Stati che avevano autorizzato l’uso medico della cannabis (tra cui la California, il Colorado, il Maine, l’Oregon e lo stato di Washington) dovranno adeguarsi a questa risoluzione, che in sostanza riconosce la preminenza della legge federale (ovvero del Controlled Substances Act) su quella statale. Di conseguenza, le autorità federali potranno incriminare i medici che prescrivono l’uso di marijuana a scopi terapeutici e gli stessi pazienti che, sulla scorta di quelle prescrizioni, si curano con i derivati della cannabis. La sentenza della Corte Suprema, tuttavia, non deve essere letta come una bocciatura dell’impiego della marijuana per uso medico: il pronunciamento della Corte, in altre parole, non si basa su ragioni terapeutiche (e non si pronuncia, quindi, sull’efficacia o meno di quelle sostanze nella cura di alcune patologie), quanto su un conflitto giuridico tra legge statale e legge federale. La soluzione adottata è, in ogni caso, oltremodo negativa: le parole del giudice John Paul Stevens, che invita il Congresso a farsi carico della questione - dunque ad approvare, se crede, una legge che consenta l’impiego terapeutico della cannabis - non rappresentano, certo, la ricerca di una soluzione concreta. La Corte Suprema non dice che l’impiego della cannabis in medicina sia inefficace o nocivo per i pazienti: dice, però, che i singoli stati che l’hanno consentito hanno agito in contrasto con una legge federale; e che spetta al Congresso, eventualmente, promuovere una nuova legge che metta in condizione quegli stessi stati di autorizzare l’uso terapeutico della marijuana. Ma - va da sé - è assai improbabile che il Congresso si risolva in tal senso. La lettura "politica" che prima suggerivamo non è una forzatura: tra le righe di quella sentenza si profila una dura sconfitta del movimento antiproibizionista americano e, più precisamente, di quella parte del mondo della ricerca e della medicina che da decenni si batte per una sperimentazione e un impiego liberi, a scopo terapeutico, dei derivati della cannabis. La stessa amministrazione Bush ha promosso questa battaglia giuridica con argomenti molto impegnativi, evocando addirittura la lotta al terrorismo, che sarebbe alimentato dal traffico illegale di stupefacenti. Poco importa che il merito della questione riguardasse due donne malate, che la marijuana, la coltivavano nel proprio giardino; e che i proventi del commercio di stupefacenti, con cui il terrorismo islamista in parte si finanzia, vengano soprattutto dal mercato del papavero da oppio (che è tornato a essere la principale fonte di reddito dell’Afghanistan post-talebano). Insomma, all’origine di questa decisione della Corte Suprema non c’è un mero conflitto normativo, quanto l’estenuante braccio di ferro ingaggiato dal proibizionismo per penalizzare l’uso di alcune sostanze e per connotare in maniera sinistra i loro effetti sulla persona e sugli stili di vita di chi, quelle sostanze, le consuma. È proprio una siffatta impostazione a motivare quell’approccio oltranzista, che fa della questione "droga" una "guerra globale", indirizzata con gli stessi mezzi e con gli stessi argomenti contro il consumo occasionale di marijuana e di hascisc e contro l’abuso di eroina o cocaina. "Fare di tutta l’erba un fascio", come dicevamo in apertura: mentre tutta la ricerca scientifica procede nel senso della distinzione e della specificazione, solo quella sulle sostanze stupefacenti dovrebbe andare nella direzione esattamente opposta. Dovrebbe procedere generalizzando e omologando, equiparando droghe "pesanti" e "leggere", come pretende chi si batte (e sono in molti, pure in Italia) affinché sia abolito (anche sotto il profilo normativo) qualunque confine nell’uso o nell’abuso delle due "classi" - così incommensurabilmente diverse - di sostanze. Ma sotto il profilo tossicologico, psicologico, terapeutico, sociale, culturale - e chi più ne ha, più ne metta - le differenze tra i derivati dell’oppio e della coca e i derivati della canapa indiana sono inconfutabili. (Per chi ha la memoria corta, vale la pena ricordare, per l’ennesima volta, che la Dea (Drug Enforcement Administration), la potente agenzia governativa americana, già nel 1988 affermava: "Nonostante la lunga storia e lo straordinario numero dei consumatori, in tutta la letteratura scientifica non vi è un solo testo che descriva un caso di morte provocato sicuramente dalla cannabis". L’aggravante, in questo caso, è che non si sta parlando della semplice contrapposizione tra legalizzazione e proibizione: qui si parla dell’impiego terapeutico (altro che "voluttuario" o "ricreativo"!) dei derivati della cannabis; e si parla di cittadini che soffrono e che potrebbero trovare sollievo nel consumo controllato e medicalizzato della marijuana e dei suoi derivati. Quale principio etico o quale esigenza politica dovrebbero mai impedire a un malato sottoposto a cicli di chemioterapia di combattere il proprio deperimento, il vomito e la nausea con farmaci come il Marinol (una replica sintetica del principio del THC, distribuito sul mercato farmaceutico statunitense già dal 1985, a seguito di un parere positivo della severissima Food and Drug Administration) o con il consumo diretto di cannabis (attraverso il fumo o l’alimentazione)? Ricordiamo che le proprietà antiemetiche della cannabis sono state dimostrate da numerosi studi: una rassegna sistematica, pubblicata nel 2001 sull’autorevole British Medical Journal, ha passato in rassegna tutte le ricerche sull’argomento e ne ha selezionate una trentina (riferite a circa millequattrocento pazienti), che rispondono a criteri di estremo rigore scientifico. In tutti questi studi l’efficacia antiemetica dei cannabinoidi è risultata superiore a quella dei farmaci convenzionali. Dimostrazioni altrettanto stringenti dell’efficacia terapeutica della cannabis sono state fornite per quanto riguarda la stimolazione dell’appetito nei malati di Aids; ed esistono evidenze molto promettenti per l’impiego terapeutico di quella stessa sostanza nella cura di patologie (o di effetti collaterali o di conseguenze delle relative terapie) quali la sclerosi multipla, l’ictus, la sindrome di Tourette, l’artrite reumatoide, i glaucomi, l’epilessia. L’elenco delle indicazioni potenziali è, in realtà, più lungo: qui ci limitiamo a citare quelle per cui la ricerca ha già dato risposte positive o ha già registrato evidenze significative. La contestazione mossa tradizionalmente all’utilizzo (e alla stessa sperimentazione) di farmaci che sfruttano il principio del Thc, o all’utilizzo terapeutico della cannabis vera e propria, si basa su pregiudizi primitivi. Il primo dei quali legge nella disciplina dell’uso medico della marijuana il pretesto per la legalizzazione del consumo di questa sostanza a scopi, per così dire, "di piacere". Ma, per quanto possa essere controversa una prospettiva di legalizzazione (che per noi è comunque ragionevolissima, qualora preveda per hascisc e marijuana un regime di autorizzazioni e controlli, analogo a quello cui sono sottoposte sostanze perfettamente legali, eppure assai dannose, come alcool e tabacco), qui è di altro che si sta parlando. Qui si sta parlando del dolore e della malattia. In America è stato fatto un passo indietro; in Italia, si farà mai un passo avanti? Il marocchino dimenticato in carcere, di Franco Corbelli
Movimento Diritti Civili, 18 giugno 2005
Abdelhakim Abdelkrim è un immigrato marocchino detenuto in Calabria, che ha perso i genitori, un fratello e una sorella nella tragedia ferroviaria di Rometta Marea (Me), ed ha due nipotini rimasti orfanelli. Quest’uomo per protesta ha iniziato lo sciopero della fame ed ha scritto alcune dignitose lettere al Movimento Diritti Civili chiedendo di essere aiutato. L’uomo chiede solo "un atto di giustizia e pietà umana". Il marocchino era arrivato in Italia 25 anni fa. Ha sempre lavorato in Italia per mantenere la sua povera famiglia in Marocco. In un periodo di difficoltà e di disperazione ha commesso dei reati contro il patrimonio e per questo è stato condannato. Da Messina si era trasferito a Milano. Una volta arrestato è stato poi trasferito nel carcere di Palermo. E dalla città siciliana in un carcere della Calabria, dove si trova tuttora. Quando era detenuto a Palermo erano venuti a trovarlo i genitori, due fratelli e due nipotini. Tutta la famiglia rimase coinvolta nella tragedia ferroviaria di Rometta Marea (Messina). Persero la vita i genitori e i fratelli. Si salvarono miracolosamente solo i due nipotini. Da allora questo immigrato lotta disperatamente per poter uscire dal carcere e ritornare nel suo paese per stare accanto ai suoi due nipotini, rimasti orfani, per assisterli e crescerli. Diritti Civili ha presentato una istanza di grazia al Presidente della Repubblica, Ciampi, chiedendo di rivedere questo caso. Di valutare il dramma umano, la grande tragedia che ha colpito la famiglia di questo uomo che è stata praticamente distrutta nel disastro ferroviario. Il marocchino non ha commesso fatti di sangue o omicidi. Occorre valutare questi aspetti e dare quindi a lui la possibilità di poter uscire dal carcere e ritornare in Marocco, per stare accanto ai suoi nipotini orfanelli e al resto della sua famiglia, così duramente colpita da un destino crudele. Quest’uomo chiede solo, come ha scritto nella sua ultima toccante lettera, indirizzata al Movimento Diritti Civili, un atto di giustizia e di pietà umana. Che giustizia è quella che libera i pluriassassini e nega la scarcerazione e la possibilità di ritornare nel suo Paese ad un immigrato marocchino (che non ha commesso fatti di sangue, ma solo piccoli reati) rimasto senza più famiglia e con due nipotini orfanelli? Purtroppo in questa vicenda si registra il silenzio, ingiustificato, non solo delle Istituzioni ma anche dei media. È altra faccia della "giustizia" che non interessa nessuno! Cassazione: chi fa la "pennichella" sul lavoro rischia il carcere
Adnkronos, 18 giugno 2005
Chi fa la pennichella sul lavoro rischia addirittura il carcere. A dare valore tutt’altro che rigenerante alla siesta in ufficio come invece accade negli Usa, è la Corte di Cassazione, che ha reso definitiva la condanna ad un mese e dieci giorni di reclusione, convertita in multa per il reato di "interruzione di pubblico servizio", nei confronti di una guardia giurata, Angelo N., che si era "addormentato durante le ore di lavoro interrompendo il servizio di vigilanza presso il Palazzo di Giustizia di Caltanissetta". Per la Suprema Corte, abbandonarsi alla siesta sul lavoro è un comportamento così grave da rendere legittimo non solo il licenziamento del dipendente che si abbandona a Morfeo in ufficio, ma anche una condanna penale che imbocca la strada della reclusione.
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