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Dalla relazione del P.G. Favara: l’esecuzione della pena nel 2004
La situazione complessiva dell’esecuzione della pena, pur in presenza di lievi miglioramenti per quanto riguarda le attività di stretta competenza della magistratura (ordini di esecuzione e provvedimenti della magistratura di sorveglianza), è sostanzialmente sovrapponibile a quella dello scorso anno. In particolare, il numero dei detenuti presenti negli istituti di pena alla fine del primo semestre del 2004 era di 56.532, rispetto ai 56.403 presenti un anno prima. Prosegue la tendenza virtuosa alla riduzione del numero dei giudicabili rispetto ai definitivi, che sul totale suindicato, al 30 giugno 2004, erano 35.291, pari al 62,5%. Se si escludono i condannati in primo grado ed in appello, i detenuti che non avevano ancora ottenuto una verifica dibattimentale erano 11.839 (circa il 21%). Dal numero dei detenuti si deduce agevolmente che non è mutata la condizione di sovraffollamento degli istituti, peraltro non omogenea: all’interno dello stesso distretto sono presenti carceri sovraffollati e istituti sottoutilizzati. Gli edifici destinati all’espiazione sono in prevalenza assai vetusti e spesso privi di spazi per le attività comuni e di carattere rieducativo. Si segnala però che diversi complessi penitenziari sono attualmente oggetto di ristrutturazione, mentre di recente è stata deliberata la realizzazione di nuovi istituti; è auspicabile, quindi, che la situazione possa migliorare nei prossimi anni. Resta il fatto che in numerosi casi le condizioni di vivibilità sono spesso denunciate come precarie, sia per mancanza di spazio e grave promiscuità tra detenuti di diversa pericolosità, nazionalità, fede e cultura, sia per carenza di opportunità di lavoro, interno ed esterno, sia, infine, per insufficienza e scopertura degli organici della polizia penitenziaria e carenza di educatori. Inaccettabilmente elevato è ancora il numero dei suicidi e dei tentati suicidi, sovrapponibile a quello dello scorso anno. Dal dato numerico della popolazione carceraria emerge che la legge 1° agosto 2003 n. 207 (c.d. indultino) non ha avuto su di essa gli effetti sperati. Come hanno rilevato quasi tutti i Procuratori generali distrettuali, le cause sono molteplici: prima fra tutte la sovrapposizione dell’area di concedibilità con quella di alcune misure alternative alla detenzione, previste dall’ordinamento penitenziario, per il condannato più favorevoli, prima, fra tutte, l’affidamento in prova al servizio sociale. Tale misura, in caso di esito positivo, comporta l’estinzione della pena e di ogni altro effetto penale; invece con la sospensione condizionata il fruitore per cinque anni è soggetto alla revoca qualora commetta un reato. Sostanziali miglioramenti sono segnalati nel funzionamento degli uffici esecuzione del pubblico ministero, anche per effetto del programma informatico R.ES. approntato dal Ministero della giustizia, ritenuto generalmente utile, anche se suscettibile di miglioramento. In alcune sedi tuttavia la situazione non è ancora ottimale, segnalandosi intervalli anche superiori a novanta giorni (a fronte di tempi non superiori a cinque giorni in molte altre) per l’inizio dell’esecuzione penale dopo il passaggio in giudicato della sentenza. La magistratura di sorveglianza ha complessivamente operato con rigore ed efficienza in una situazione da anni assai difficile - per la quale non posso che rinviare a quanto osservato nelle precedenti due relazioni - con l’ulteriore aggravio dei complessi adempimenti derivanti dalla gestione del già ricordato "indultino" e dall’applicazione della legge 30 luglio 2002 n. 189, che ha affidato al magistrato di sorveglianza l’espulsione dei condannati extracomunitari privi di permesso di soggiorno, con procedura attivabile anche d’ufficio. Positivo è invece, in termini di snellezza della procedura e rapidità della decisione, il giudizio sugli effetti della legge 19 dicembre 2002 n. 277, che ha reso concedibile con provvedimento monocratico de plano la liberazione anticipata, anche se ne è derivato maggior carico di lavoro sui singoli uffici di sorveglianza, e gli effetti deflattivi sul tribunale sono in parte vanificati dai reclami avverso i rigetti. Resta il grave problema dell’inadeguatezza degli organici dei magistrati e del personale amministrativo. Sul punto sarebbe necessario un loro aumento, e una più mirata distribuzione, privilegiando le grandi sedi dove più forte è il disagio. Negli ultimi anni le competenze della magistratura di sorveglianza sono enormemente aumentate, ma l’organico è rimasto sostanzialmente invariato rispetto al 1986. I lodevoli sforzi per il contenimento dei tempi medi di definizione delle istanze nelle grandi sedi sono stati spesso frustrati dall’impossibilità di definire quelle dei condannati liberi in sospensione automatica della esecuzione della pena ex art. 656 c.p.p. prima di uno o due anni dal passaggio in giudicato della sentenza. Per giunta, trattando da quaranta a cento procedimenti ad udienza non si può pensare che i tribunali di sorveglianza si addentrino in raffinate dissertazioni giuridiche, e tutto ciò si traduce in una nutrita serie di ricorsi per cassazione. Occorrerebbe prendere atto che questo sforzo imponente si traduce in provvedimenti poco afflittivi, che presentano un carattere risocializzante assai aleatorio, richiedono controlli impegnativi alle forze dell’ordine, espongono la magistratura di sorveglianza ad una costante delegittimazione per l’esito assai incerto della previsione formulata, e la distolgono dal compito primario di garantire la legalità nella fase di espiazione della pena e il raggiungimento dei fini che la Costituzione e l’ordinamento penitenziario ad essa attribuiscono. Al di là della constatazione dell’insostenibilità dei carichi di lavoro, tra gli operatori è sempre più diffusa la consapevolezza - espressa in numerose relazioni dei Procuratori generali - della progressiva implosione del sistema dell’esecuzione della pena creato dalla legge 26 luglio 1975 n. 354 e successive modificazioni. La generalizzata ed automatica sospensione dell’esecuzione per i condannati da liberi con pena o residuo di pena da espiare fino a tre o quattro anni, se ha risposto ad un’esigenza di equità e di eguaglianza di trattamento, ha però enormemente moltiplicato le istanze di misure alternative, rendendo impossibile la decisione in termini contenuti e alterando profondamente originarie le funzioni della magistratura di sorveglianza. L’ampio settore delle misure alternative, e la stessa funzione degli uffici e tribunali di sorveglianza, dopo molti anni di rilevazione di dati, dibattiti e studi specialistici, richiede ormai soluzioni organiche indifferibili. Basti ricordare che nella sua formulazione originaria la principale misura alternativa alla detenzione, l’affidamento in prova al servizio sociale, era concessa per condanne non superiori a due anni e mezzo, dopo un’ osservazione della personalità condotta in carcere per almeno tre mesi. Si riteneva cioè che l’affidamento potesse essere concesso per reati non particolarmente gravi, espiata una pena mai inferiore a quattro-cinque mesi (tenuto conto dei tempi necessari per la fissazione dell’udienza e la decisione del tribunale di sorveglianza). A seguito di una serie di modifiche normative e di talune sentenze della Corte costituzionale si è pervenuti all’attuale formulazione che consente l’affidamento in prova al servizio sociale per pene o residui di pena fino a tre anni (quattro se si tratta dello speciale affidamento per tossicodipendenti), direttamente dallo stato di libertà . Se si considera anche l’abbattimento del livello sanzionatorio determinato dalla scelta dei riti speciali, è evidente che il tipo sociologico del potenziale fruitore della misura è profondamente cambiato: dal deviante marginale a qualunque condannato (almeno per gli ultimi tre-quattro anni di pena residua), che in molti casi (estesi fino alla rapina a mano armata) ne può beneficiare direttamente dalla libertà, per un numero illimitato di volte. Studiosi, operatori, gruppi di studio istituiti dal Consiglio Superiore della Magistratura e dal Ministero della giustizia, gli stessi progetti di riforma del codice penale elaborati nella passata e nell’attuale legislatura, hanno previsto l’inserimento dell’affidamento in prova al servizio sociale (ma il discorso vale anche per la detenzione domiciliare e, in qualche misura, per la semilibertà) nel più ampio ventaglio di sanzioni principali che il Legislatore è andato via via elaborando. Ciò in analogia a quanto già avviene per la libertà controllata e la semidetenzione a seguito della entrata in vigore della legge 24 novembre 1981 n. 689 e per le sanzioni non detentive con le quali sono puniti i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, con il vantaggio che il giudice di merito ha almeno una più compiuta conoscenza della personalità dell’imputato. In tal modo sarebbe ridotto, se non eliminato, lo scarto tra l’astratta previsione teorica delle sanzioni edittali e la sua concreta applicazione e resa comunque più efficace e rapida la fase di espiazione della pena. Se si volesse perseguire questa linea occorrerebbe però rendere possibile, magari previo consenso dell’interessato, l’immediata applicabilità dell’affidamento in prova, pur in pendenza di impugnazione sulla responsabilità, non essendo logico concepire una misura di reinserimento applicata sulla base della valutazione della responsabilità operata diversi anni prima. Ciò probabilmente produrrebbe anche un modesto ma apprezzabile effetto deflattivo sulle impugnazioni. Un orientamento positivo del Parlamento in tal senso renderebbe, altresì, necessario un collegamento informatico di tutte le procure per consentire la conoscenza di tutti i procedimenti pendenti e di eventuali precedenti concessioni. Recentemente taluni provvedimenti della magistratura di sorveglianza, emessi nei confronti degli autori di delitti efferati, autorizzati ad espiare la pena in misura ridotta o con modalità meno afflittive, hanno turbato l’opinione pubblica. Occorre però ricordare che il Parlamento, sostanzialmente all’unanimità, ha approvato la legge 13 gennaio 2001 n. 45, che, pur stabilendo un regime più restrittivo per tali condannati, configura comunque, a determinate condizioni, il loro diritto ad ottenere i permessi e la detenzione domiciliare sui soli presupposti dell’importanza della collaborazione prestata e della recisione completa dei rapporti con la criminalità organizzata, senza alcuna possibilità di esclusione per la sola gravità dei delitti commessi. Si tratta di una legittima scelta di politica criminale di competenza del Legislatore, che la magistratura non può e non deve mettere in discussione. Va infine ribadito l’esito generalmente positivo dei permessi concessi ai detenuti: i mancati rientri nella maggior parte delle corti d’ appello sono pari a zero, in altre contenuti in una o due unità, peraltro quasi sempre seguiti dal ripristino della detenzione entro pochissimi giorni. Le poche emergenze negative in materia, raffrontate al numero dei detenuti aventi diritto ai permessi, sono statisticamente non rilevanti e contenute nel rischio sociale minimo accettato dal Legislatore.
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