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Modena: arrestato lunedì scorso, 62enne s’impicca in cella
Corriere della Sera, 28 gennaio 2005
È stato trovato morto in cella a Modena il boss mafioso Francesco Pastoia, 62 anni, fermato lunedì notte a Castelfranco Emilia. Era accusato di essere uno dei gregari più fidati del capomafia latitante Bernardo Provenzano e un sicario delle cosche. L’uomo si è impiccato. Lo hanno scoperto venerdì mattina gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Sant’Anna. Pastoia era il perno dell’inchiesta che ha portato lunedì notte al fermo di 50 persone. Contro di lui c’erano prove schiaccianti della sua colpevolezza in molti affari illeciti che riguardavano gli appalti pubblici, ma soprattutto l’omicidio di un imprenditore, assassinato lo scorso ottobre a Palermo e di cui gli agenti della squadra mobile hanno registrato in diretta le fasi di preparazione, intercettando le parole di Pastoia mentre si preparava ad effettuare l’agguato. Ma era anche il gestore delle comunicazioni della "primula rossa" con gli altri capimafia. Pastoia, che diverse volte in passato era entrato e uscito dal carcere, anche dopo aver scontato condanne per mafia, durante l’udienza di convalida davanti al gip di Modena si era avvalso della facoltà di non rispondere. Il giudice aveva convalidato l’arresto e stava trasmettendo ai colleghi di Palermo il fascicolo. Pastoia ha avuto modo di leggere nel provvedimento di fermo che lo riguardava le centinaia di conversazioni registrate di cui non si sarebbe mai aspettato. Il boss, che per molti anni ha organizzato e gestito la latitanza di Provenzano, rivela, involontariamente, di aver violato diverse regole di Cosa nostra, e di aver tentato di "prendere in giro" Provenzano su alcuni delitti. Non solo, parlando con un suo amico, confessa involontariamente di aver commesso omicidi senza l’autorizzazione dei capimafia delle zone in cui sono stati effettuati. Secondo gli investigatori questi comportamenti, svelati dalle sue stesse parole registrate dalle microspie, hanno rovinato la figura di Pastoia agli occhi di Provenzano. Droghe: "D.a.p. Prima", progetto assistenza a tossicodipendenti
Redattore Sociale, 28 gennaio 2005
Un progetto del Dipartimento amministrazione penitenziaria suggerisce una maggiore collaborazione tra istituzioni per consentire la presa in carico dei tossicodipendenti (da parte di operatori sociali ed educatori) già in fase di convalida dell’arresto, evitando il passaggio in carcere. L’iniziativa, denominata "D.a.p. Prima", è stata presentata oggi al convegno "La tossicodipendenza, il carcere, le alternative", in corso all’Hotel Villa Pamphili, promosso dallo stesso Dap. In merito al progetto ha espresso le sue perplessità Luigi Manconi, Garante per i detenuti del Comune di Roma e presidente dell’associazione "A buon diritto": "La scelta della comunità terapeutica deve essere sempre condivisa dal tossicomane, non coatta". Concorde con il Dipartimento nella proposta di "un’alternativa concreta alla detenzione per tossicodipendenti autori di piccoli reati", Manconi ha motivato i suoi dubbi: "Occorre tutelare nel tossicomane la sua capacità di autonomia e scelta; le politiche sociali dovrebbero metterlo in grado di valorizzare la sua volontà di emancipazione dalla sua condizione". Quindi la decisione di entrare in comunità non deve essere "una sorta di terapia imposta, altrimenti il rischio è che prevalga una cultura autoritaria e paternalistica, dove i due aspetti – dell’autoritarismo e del paternalismo – si intrecciano", ha osservato ancora Manconi, deprecando "una concezione autoritaria della solidarietà, o il solidarismo autoritario, che rende la cura del tossicomane un meccanismo di interdizione e coercizione. Non si può inibire la piena autonomia del tossicodipendente né assumerne la piena tutela". Lo staff centrale del progetto "Dap Prima" è composto dallo stesso Dipartimento insieme a magistrati, forze dell’Ordine, esperti; in sede locale entrano in gioco i Sert, le comunità terapeutiche e gli Enti locali. Avviato a marzo 2004, sarà sperimentato a Roma, Reggio Calabria, Padova e Catania. Secondo Dario Foà, responsabile del Servizio area penale e carcere Asl di Milano, andrebbe "innalzato il tetto di pena sotto il quale sono possibili le misure alternative".
Su 56mila detenuti in Italia, oltre 16mila sono tossicodipendenti
Su 56mila detenuti in Italia, oltre 16mila sarebbero tossicodipendenti; solo 3.600 sono stati affidati a una comunità, come misura alternativa alla detenzione. Ma secondo il senatore Luigi Manconi, Garante per i detenuti del Comune di Roma, le persone con dipendenze dietro le sbarre sarebbero 24mila, mentre l’avvocato Angiolo Marroni, Garante per i detenuti della Regione Lazio, circa il 25-27% dei reclusi è tossicomane, di cui più della metà sta scontando la pena definitiva che – nella maggioranza dei casi – non supera i 4 anni. "Sarebbero quindi ammissibili alle pene alternative, ma vi accede soltanto il 10%". Nel Comune di Roma, invece, su 1.800 tossicodipendenti presi in carico dai servizi, "una buona percentuale viene dal carcere; stiamo per aprire una struttura per madri dipendenti", ha annunciato a margine dei lavori l’assessore alle politiche sociali, Raffaela Milano. I dati sono stati presentati in occasione del convegno "D.a.p. Prima. La tossicodipendenza, il carcere, le alternative", in corso all’Hotel Villa Pamphili, promosso dal Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap). "Su oltre 16mila tossicodipendenti in carcere, ovvero persone che hanno avuto esperienze non sporadiche di consumo e dipendenza dalla droga, quasi la metà – circa 7.200 – sono trattenuti in stato di detenzione per reati esclusivamente attinenti al mondo degli stupefacenti, in grande prevalenza per fatti di cessione qualificabili come episodi di lieve entità", ha rilevato Sebastiano Ardita, responsabile della Direzione generale dei detenuti e del trattamento presso il Dap, osservando: "Questi numeri danno esattamente la misura di come la repressione del commercio degli stupefacenti finisca inevitabilmente con il travolgere, in buona parte, anche i tossicodipendenti, benché essi siano i soggetti che per primi la legge intenderebbe tutelare con la lotta al mercato della droga". Quindi – ha concluso Ardita – "la ordinaria condizione carceraria non solo non risulta idonea a produrre un effetto di dissuasione nei confronti del tossicodipendente che ne patisce gli effetti (fallimento della funzione di prevenzione sociale), ma neanche funge da elemento di dissuasione per gli altri tossicodipendenti, che rispetto al delitto ricevono impulso alle proprie motivazioni dalla necessità economica di fare fronte ai bisogni indotti dalla devianza primaria". In sintesi, la detenzione dei tossicomani "non potrà essere vissuta in modo analogo a quella degli altri detenuti". Roma: emergenza per le carceri, soluzioni a confronto
Roma One, 28 gennaio 2005
Fenomeno comune in tutta la Penisola, il tema del sovraffollamento degli istituti penitenziari invade sempre di più il dibattito politico. Se da una parte i responsabili della res publica devono fare i conti con i cittadini ansiosi di maggior sicurezza (spesso indignati al cospetto di sentenze ritenute "morbide"), dall’altra sono alle prese con i disagi denunciati dai detenuti che con proteste più o meno energiche o dimostrazioni più o meno drammatiche, chiedono di saldare il debito con la giustizia in condizioni più civili e tollerabili. Ad avanzare proposte alternative e per certi versi impopolari, sono i Socialisti Democratici Italiani che nel convegno "Il carcere, una realtà del territorio" organizzato dalla Federazione romana del partito, rilanciano la via delle misure alternative di detenzione. Abbattere l’abuso dei provvedimenti cautelativi, migliorare e rendere meno fatiscenti le strutture esistenti piuttosto che puntare su nuove e più impegnative costruzioni, promuovere progetti di recupero e di reinserimento sociale, accelerare il processo di decarcerizzazione auspicato anche da Bruxelles. Sono solo alcune delle prese di posizione messe sul tavolo dallo Sdi che denuncia un’eccedenza di 15 mila detenuti rispetto alla capienza dei 205 istituti penitenziari sparsi nella penisola. Dei circa 56 mila reclusi nel territorio nazionale, il 40,5 per cento sono quelli in attesa di giudizio. Un dato preoccupante che secondo i responsabili del partito socialista, capitanati da Enrico Buemi, presidente del Comitato carceri della Commissione giustizia alla Camera, impone una marcia indietro sull’uso eccessivo delle misure di carcerazione preventiva o meglio di custodia cautelare. Pensiero che trova il favore della Camera Penale di Roma che accusa i giudici di concentrarsi sulla confessione dell’imputato anziché cercare le prove. "Se esiste il principio di presunzione di innocenza - riferisce Giuliano Dominici, vicepresidente della Camera Penale - la custodia cautelare è un lusso che una democrazia non può permettersi". Rispondere alla domanda di sicurezza perseguendo la via garantista anziché quella giustizialista. Un percorso che mette d’accordo le figure dei garanti dei diritti dei carcerati, quello della Regione Lazio, Angelo Marroni, per il quale "la società ha interesse ad avere un carcere da cui escano persone diverse da quelle che sono entrate", e il suo omologo del comune di Roma, Luigi Manconi, assente al convegno dove è invece intervenuto Stefano Anastasia, suo collaboratore e presidente dell’associazione Antigone. "L’istituzione dei garanti - ha detto - è sintomo di una carenza di diritti e rivaluta il ruolo delle istituzioni locali". Guardando più da vicino la situazione della Capitale, Mauro Mariani, direttore del carcere di Regina Coeli, sottolinea come su circa 3200 detenuti, solo 120 sono quelli che godono della semilibertà. Mariani valuta l’esigenza di promuovere il lavoro socialmente utile, un mezzo da abbinare alla liberazione anticipata allargata "che andrebbe così incontro all’esigenza di scarcerazione e non provocherebbe il dissenso dell’opinione pubblica se i cittadini vedessero rinnovati i giardini e le piazze". Dello stesso avviso Carmelo Cantone, direttore di Rebibbia nuovo complesso, che sottolinea come "li dove prassi del genere hanno funzionato, i cittadini hanno risposto con favore". Medio Oriente: detenuto palestinese muore in incendio carcere
Associated Press, 28 gennaio 2005
Un detenuto palestinese di 28 anni è morto a seguito di un incendio nella prigione di Meguido, nel nord di Israele. Lo riferiscono fonti israeliane. La radio pubblica israeliana ha confermato che un prigioniero è morto in occasione di questo rogo, la cui origine non è ancora nota. La vittima, Rassem Abu Raha, era originaria di Ramallah, in Cisgiordania, e faceva parte del gruppo di Al Fatah. Giustizia: Gargani (Fi); la pdl Cirielli-Vitali va bene così com’è
Ansa, 28 gennaio 2005
La proposta di legge che dimezza i tempi della prescrizione dei reati, ormai conosciuta come "salva-Previti", per i saggi della Cdl "va bene così com’è". "Pertanto - spiega il responsabile Giustizia di Forza Italia Giuseppe Gargani al termine della riunione dei saggi che si è appena conclusa alla Camera - noi non la cambieremo". La maggioranza insomma, prosegue Gargani, non presenterà nessun emendamento all’ex Cirielli perché "il testo così com’è va benissimo". La Spezia: detenuti ristrutturano un castello medioevale
Vita, 28 gennaio 2005
Dal 4 al 10 febbraio saranno impegnati come volontari nella fortezza di Coderone a Biassa. Una ventina di carcerati, alcuni dei quali extracomuinitari, reclusi nella casa circondariale di La Spezia, che già usufruiscono di permessi premio, daranno vita a un progetto di volontariato gratuito per il recupero ambientale del castello medioevale di Coderone a Biassa (Sp), una fortezza militare eretta alla metà del 13° secolo in appoggio alla politica difensiva ed espansionistica genovese e poi divenuto un palazzo signorile nel 16° secolo. Il progetto, che vedrà i detenuti al lavoro tra il 4 e il 10 febbraio prossimi in collaborazione con il Comune, il corpo forestale dello Stato e la polizia penitenziaria, prevede di ripulire i muri del castello e bonificare i sentieri circostanti. Droghe: Berlusconi; per vincere la droga il carcere non serve
Il Messaggero, 28 gennaio 2005
"Misure alternative al carcere per i tossicodipendenti". Ha parlato attraverso un messaggio il premier Silvio Berlusconi al convegno "Tossicodipendenza, il carcere, le alternative", organizzato ieri a Roma dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un progetto che prevede la possibilità di evitare la detenzione ai tossicodipendenti condannati per reati minori. "Sono convinto - ha spiegato Berlusconi - che il modo migliore per combattere il problema sia di aiutare chi è coinvolto non tanto attraverso pene detentive da scontare in carcere, quanto piuttosto col ricovero in strutture adeguate e gestite da professionisti preparati, competenti e umanamente sensibili". E anche il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha inviato un messaggio facendo riferimento alla "necessità di un giusto equilibrio tra le esigenze di cura e quelle, altrettanto essenziali, della sicurezza collettiva" Il progetto "Dap-Prima" segue l’esperienza milanese "La cura vale la pena" e consiste nell’applicare, a partire dalla fase del processo per direttissima, l’attivazione di un programma di recupero immediato. Due le condizioni essenziali: i tempi veloci del procedimento, con il condannato reo confesso disponibile a intraprendere un programma terapeutico, e la presenza di un operatore Sert in grado di formulare una valutazione e una proposta per il recupero. Il progetto, nato da un’iniziativa della Direzione generale detenuti e trattamento del ministero della Giustizia, vuole dare sistematicità all’esperienza e di riproporla su scala nazionale, con l’istituzione di un nucleo operativo socio sanitario presso i tribunali delle maggiori città. Nella prima fase, Roma, Catania, Padova e Reggio Calabria. Il responsabile del Dap, Giovanni Tinebra e il responsabile della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, Sebastiano Ardita, hanno spiegato che è opportuno bloccare il turn-over che nel 2004 ha portato 24 mila tossicodipendenti a entrare nelle carceri italiane, e uscirne, poco dopo, per aver commesso reati minori. "Queste persone - hanno spiegato - possono essere prese in cura e rieducate senza fare neanche un giorno di carcere". Roma: dopo il convegno, "basta carcere per i reati di droga"
Il Mattino, 28 gennaio 2005
Roma. Per aiutare il tossicodipendente a vincere la propria dipendenza servono non tanto pene detentive da scontare in carcere, quanto piuttosto "il ricovero in strutture adeguate e gestite da professionisti preparati, competenti e umanamente sensibili". Questo, in sintesi il senso del messaggio inviato dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in occasione del congresso nazionale organizzato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per presentare il progetto "Dap - Prima". Progetto che si prefigge di bloccare il turn-over che nel 2004 ha portato 24 mila tossicodipendenti ad entrare nelle carceri italiane, ed uscirne, poco dopo, per aver commesso reati minori. Al convegno è pervenuto anche un messaggio del presidente della Repubblica Ciampi che esprime vivo apprezzamento per l’iniziativa del Dap. "L’Assise fruendo delle più qualificate e specifiche competenze - è scritto nella nota della presidenza della Repubblica - si propone di approfondire con ponderazione e completezza il problema che coinvolge importanti aspetti sociali dei percorsi di riabilitazione e di reinserimento dei tossicodipendenti che delinquono, avendo ben presente la necessità di un giusto equilibrio tra le esigenze di cura e quelle altrettanto essenziali della sicurezza collettiva". Il progetto "Dap Prima", spiega il responsabile del Dap Giovanni Tinebra, intende estendere a livello nazionale l’esperienza che già da diversi anni ha dato risultati positivi a Milano, trovando soluzioni alternative al carcere soprattutto per quei giovani che scippano o commettono piccoli furti per procurarsi la "dose". Fermo: carcere troppo stretto, si studia l’ampliamento
Il Messaggero, 28 gennaio 2005
Il carcere di Fermo deve fare un salto di qualità soprattutto dopo che il territorio è assurto a provincia. Strutturalmente è stato adeguato ai parametri di sicurezza nell’ultimo anno dopo che dalle sue mura erano riusciti a scappare due pericolosi soggetti. Questi erano stati ripresi diversi mesi dopo. "Siamo sempre in attesa di una migliore utilizzazione del carcere di Fermo a Casa Circondariale - ha affermato il procuratore capo della Repubblica di Fermo, Piero Banchieri - o perlomeno, all’apertura in seno alla Casa di Reclusione, di una sezione giudiziaria per l’appoggio (anche temporaneo) dei cittadini arrestati nel circondario o colpiti da misure cautelari". Anche l’anno scorso il procuratore della Repubblica di Fermo aveva lamentato delle carenze riguardo la locale struttura carceraria locale forte di 64 detenuti tutti con una sentenza definitiva. Il 30% di loro sono extracomunitari. Vi sono anche cinque reclusi condannati per omicidio. "Prosegue il disagio - continua Baschieri - già lamentato degli Uffici Giudiziari del Fermano, dell’Avvocatura, dei famigliari dei detenuti di competenza (o arrestati o colpiti da misure cautelari) che debbono necessariamente venir "appoggiati" in case circondariali "vicine" (per lo più Ascoli Piceno, Ancona e Teramo) costringendo tutti a lunghe e faticose trasferte ed a un enorme perdita di tempo, quando basterebbe ad evitare tutto ciò la conclusione rapida del progetto da lungo tempo in cantiere di sistemare una sezione Giudiziaria nell’ambito della Casa di reclusione". Della funzionalità del carcere cittadino si è occupato il settore dei Servizi Sociali di Fermo di Maria Antonietta Di Felice che attraverso una serie di iniziative ha cominciato un notevole lavoro di confronto tra i detenuti. Anche l’Ambito XIX diretto da Daniela Alessandrini, si è però preoccupato di interagire con il carcere. Ieri è stato presentato, infatti il programma del seminario formativo "L’altra chiave. Il percorso del condannato: dalla pena, alla rieducazione, al lavoro" che si terrà oggi alle ore 10 nell’aula multimediale. Già uno dei detenuti (un giovane grafico) è entrato nel programma di recupero con buoni risultati. Suo è il logo del seminario odierno "L’iniziativa - è stato detto nel corso di un incontro stampa - parte di un progetto dell’Ambito Sociale XIX realizzato in collaborazione con la Casa di Reclusione di Fermo e l’Amministrazione Penitenziaria di Macerata, mette in evidenza le problematiche relative alla materia penitenziaria e post-penitenziaria con l’intento di approfondire tale argomento e di affrontare le difficoltà connesse alla carcerazione e il compito arduo della rieducazione e reinserimento sociale e lavorativo del condannato". Droghe: Ciampi e di Berlusconi; i tossicodipendenti vanno curati…
Il Gazzettino, 28 gennaio 2005
Messaggi per certi versi "vicini" dalle più alte istituzioni, al via del congresso nazionale organizzato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per presentare il progetto "Dap-Prima". Per aiutare il tossicodipendente a vincere la propria dipendenza servono non tanto pene detentive da scontare in carcere, quanto piuttosto "il ricovero in strutture adeguate e gestite da professionisti preparati, competenti e umanamente sensibili". Questo, in sintesi il senso del messaggio inviato dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ieri fisicamente ad Auschwitz con i grandi del mondo nella giornate della memoria. "I progressi realizzati sul fronte della cura della tossicodipendenze permette oggi di prevedere pene alternative per chi, afflitto da questo patologia, cade nelle maglie della microcriminalità o è costretto ad affrontare altre difficile prove ad essa collegate. Sono convinto - prosegue il premier nel suo messaggio - che il modo migliore di combattere questo problema sia di aiutare chi ne è coinvolto a vincere la propria dipendenza, e che questo sia possibile non tanto attraverso pene detentive da scontare in carcere, quanto piuttosto attraverso il ricovero in strutture adeguate e gestite da professionisti preparati, competenti e umanamente sensibili". Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, rivolgendosi a Sebastiano Ardita, responsabile della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, sottolinea che occorre avere "ben presente la necessità di un giusto equilibrio tra le esigenze di cura e quelle, altrettanto essenziali della sicurezza collettiva". Quindi nel messaggio inviato in occasione del convegno "Dap-Prima" il capo dello Stato esprime "il più vivo apprezzamento per l’iniziativa adottata dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento"."L’assise, fruendo delle più qualificate e specifiche competenze, si propone di approfondire con ponderazione e completezza il problema che coinvolge importanti aspetti sociali dei percorsi di riabilitazione e di reinserimento dei tossicodipendenti che delinquono, avendo ben presente - conclude nel suo intervento Ciampi - la necessità di un giusto equilibrio tra le esigenze di cura e quelle, altrettanto essenziali, della sicurezza collettiva". Droghe: per tossicodipendenti meno carcere e più recupero
Liberazione, 28 gennaio 2005
I dati lasciano pochi dubbi: l’anno scorso, delle 82 mila persone arrestate quasi un terzo erano tossicodipendenti. In carcere per "reati minori". Per i quali scontano in media, 15, 20 giorni di carcere. Parte da qui, la proposta, avanzata ad un convegno, da Sebastiano Ardita, direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La sua idea è quella di estendere in Italia l’esperimento milanese. Qui, i detenuti tossicodipendenti arrestati per reati minori, possono beneficiare di programmi di recupero in comunità o nei Sert, i centri pubblici di assistenza. "Con costi giornalieri che non sono superiori ad un terzo di quelli di una giornata in carcere". A Milano il progetto sembra aver funzionato. Ma l’idea di allargare l’esperimento si scontra soprattutto con l’attuale legislazione. Si scontra soprattutto con la filosofia punitiva, ispiratrice della legge Bossi-Fini. Ecco perché Rosi Bidi chiede decisamente che quelle norme vengano cancellate. "Se davvero si vuole superare un approccio punitivo verso i drogati, per cominciare sarebbe bene ritirare il disegno di legge Fini". Nuoro: garante dei detenuti istituito da consiglio comunale
L’Unione Sarda, 28 gennaio 2005
La conferenza dei capi gruppo presieduta da Nerina Fiori ha approvato all’unanimità la proposta del sindaco Mario Zidda di istituire la figura del "Garante Civico dei Detenuti". La proposta fa seguito all’impegno preso in occasione della recente visita del primo cittadino nel carcere di Badu ‘e Carros, durante la quale si sono messe a punto alcune iniziative da realizzare in collaborazione con la direzione del penitenziario. Pur non essendo una figura ancora riconosciuta a livello nazionale (ma esiste a tal proposito un disegno di legge) diversi centri della Penisola si sono dotati, in questi ultimi anni, di questa istituzione. I compiti del Garante, secondo la proposta approvata dai capi gruppo sono: 1) promuovere - per le persone private della libertà personale - l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali (con particolare riferimento ai diritti fondamentali, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport, per quanto nelle attribuzioni e nelle competenze del Comune). b) Promuovere iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti delle persone private della libertà personale e della umanizzazione della pena detentiva. c) Promuovere iniziative congiunte con altri soggetti pubblici e in particolare con il Difensore Civico. d) Tutelare l’individuo privato di libertà personale da possibili violazioni di diritti. Informare le autorità stesse relativamente alle condizioni dei luoghi di reclusione. e) Promuovere con le amministrazioni interessate protocolli di intesa utili a poter espletare le sue funzioni anche attraverso visite ai luoghi di detenzione. In occasione del Natale il Comune ha anche organizzato congiuntamente alle libreria cittadine la campagna "Liberamente", attraverso la quale la città ha regalato 300 volumi ai detenuti di Badu ‘e Carros. Guantanamo: rivelazioni su umiliazioni sessuali a detenuti
Associated Press, 28 gennaio 2005
Un manoscritto ottenuto in esclusiva dall’Associated Press da un ex militare che lavorava come interprete presso il campo di detenzione Usa di Guantanamo Bay rivela nuovi dettaglia sugli abusi fisici e psicologici commessi sui prigionieri nel lager statunitense sul territorio cubano. In particolare il documento testimonia della scelta strategica dei carcerieri americani di umiliare i prigionieri di fede musulmana con provocazioni e offese a sfondo sessuale. Nel documento si racconta come in molti casi i prigionieri venivano interrogati da donne che si presentavano agli interrogatori in gonne attillate e biancheria trasparente. Spesso queste Torquemada in minigonna provocavano fisicamente i prigionieri toccandoli o spogliandosi ulteriormente e, almeno in un caso, sporcando la faccia di uno di loro con del falso sangue mestruale (considerato impuro dai musulmani). L’autore del manoscritto non ha personalmente fatto avere il testo all’Associated Press ma ne ha confermato l’autenticità. Si tratta di un ex sergente dell’esercito, Erik R. Saar, 29 anni, che tra il dicembre 2002 e il giugno 2003 ha lavorato come interprete a Guantanamo. Saar non è di origine araba e non è di religione musulmana. Alcuni estratti dagli appunti di Saar - materiale preparatorio per "Inside the Wire", un libro che dovrebbe uscire quest’anno presso Penguin Press - danno un’idea del clima che si respirava e subiva a Guantanamo. Tra le persone che conducevano gli interrogatori, si legge nel documento, una contractor civile entrava in scena con un delizioso completino sadomaso con tanto di minigonna, tanga e reggiseno per torchiare i prigionieri a notte inoltrata. Le speciali prestazioni della porno-inquisitrice erano riservate a detenuti particolarmente coriacei e poco disposti a sciogliere la lingua, quasi tutti sauditi. In un’altra occasione, una delle carceriere americane decise di usare le maniere dolci per provare a far cantare un detenuto molto ostinato nei suoi rifiuti. Si trattava di un giovane saudita di 21 anni sospettato di aver preso lezioni di volo in Arizona assieme ad uno dei dirottatori dell’11 settembre. Visto che l’uomo non collaborava la donna si tolse l’uniforme per restare con indosso soltanto una t-shirt molto aderente. Poi comincio a toccare il detenuto e a strusciarsi contro di lui e costringendolo a toccarle il senso. Poi - rivoltasi ad altre persone presenti alla scena - cominciò a prenderlo in giro sulla sua (presunta) erezione. In un altro caso i carcerieri si consultarono con un esperto di cultura islamica per sapere quale potesse essere un buon sistema per spezzare la resistenza psicologica di un detenuto di ardente fede religiosa. La risposta fu di farlo interrogare da una donna che avesse (o dicesse di avere) le mestruazioni e poi di fare in modo che l’uomo non potesse lavarsi. Il consiglio fu preso anche troppo sul serio. Il prigioniero si trovò faccia a faccia con una donna che a un certo punto di mise una mano dentro i calzoni. Poi, tirata fuori la mano, sporcò il volto del detenuto con una sostanza viscida e rossastra. In realtà si trattava di inchiostro ma questo lo sventurato non poteva saperlo. Un portavoce militare Usa, il colonnello James Marshall, ha affermato all’Associated Press che il 20% delle guardie di Guantanamo sono donne. Marshall ha però smentito che nel campo di detenzione sia avvenuto niente di lesivo della dignità dei prigionieri. "le forze Usa trattano tutti i detenuti e conducono tutti gli interrogatori con umanità e in modo coerente con gli obblighi stabiliti dalla legge Usa e in particolare con le norme che proibiscono la tortura". Catania: progetto pilota per i detenuti tossicodipendenti
La Sicilia, 28 gennaio 2005
Bloccare il turn-over che nel 2004 ha portato 24 mila tossicodipendenti ad entrare nelle carceri italiane, ed uscirne, poco dopo, per aver commesso reati minori. Nei sovraffollati istituti di pena italiani (56.068 detenuti, di cui 15.097 tossicodipendenti) il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria punta a trovare soluzioni alternative al carcere. Soprattutto per quei giovani che scippano o commettono piccoli furti per procurarsi la "dose". "Queste persone - hanno spiegato il responsabile del Dap, Giovanni Tinebra e il responsabile della direzione generale dei detenuti e del trattamento, Sebastiano Ardita, nel corso di un convegno nazionale al quale hanno partecipato diversi esponenti politici di maggioranza e di opposizione - possono essere prese in cura e rieducate senza fare neanche un giorno di carcere. Il progetto si chiama "Dap - Prima" e intende estendere a livello nazionale l’esperienza che già da diversi anni ha dato risultati positivi a Milano. Il progetto prenderà il via innanzitutto in quattro città pilota: Roma, Padova, Reggio Calabria e Catania. "Il tossicodipendente arrestato per reati minori - spiega Ardita - viene preso in carica da un’equipe fatta da medici del Servizio Sert e delle Asl. Tutto questo prima che venga portato davanti al giudice per il processo per direttissima o per la convalida della misura cautelare. Grazie all’aiuto di questa equipe di esperti, il tossicodipendente può scegliere se sottoporsi a un programma di cura. Il giudice, a questo punto, avrà tutti gli elementi per emettere un provvedimento di custodia cautelare alternativa in una comunità terapeutica o in un centro di cura". "Non stiamo innovando il sistema punitivo - fa subito notare Giovanni Tinebra - ci sono spazi e luoghi alternativi al carcere per il recupero dei detenuti tossicodipendenti. È una strada da percorrere". In queste quattro grandi città verrà riproposto il modello di collaborazione tra tribunale, forze dell’ordine, Dap, servizi Tossicodipendenze pubblici e del privato sociale già attivo da metà degli anni ‘90 a Milano. Proprio a Milano, da anni i tossicodipendenti possono beneficiari di programmi di cura in comunità terapeutica con costi giornalieri non superiori a un terzo di quelli di una giornata in carcere ("un detenuto in carcere costa 250 mila delle vecchie lire", fa sapere Tinebra). Ogni anno a Milano 400 tossicodipendenti vengono esaminati dal Servizio Sert Asl città di Milano che funziona nei locali del tribunale, ed almeno 100 di loro vengono in seguito inseriti in comunità. "Si dice che il carcere sia malato, ma spesso si dimentica che è fatto di persone malate", sottolinea Ardita. E i dati lo confermano: al 31 dicembre del 2004, su 15.097 detenuti tossicodipendenti, si contavano 1.394 detenuti con Hiv. Quest’ultimo dato sulla sieropositività - secondo gli stessi vertici del Dap - non corrisponde però alla realtà: "I detenuti che hanno contratto il virus dell'hiv sono molti di più, almeno 4.500-5.000. Questo lo sappiamo - fa notare Ardita - perché molti di loro rifiutano di sottoporsi al test per non essere poi emarginati all’interno del carcere". Nuoro: caso Acquaviva; condannati 4 agenti , 700.000 € risarcimento
L’Unione Sarda, 28 gennaio 2005
Un anno e mezzo all’imputato che rischiava di più, Angelino Calaresu, 41 anni, condannato per omicidio colposo ma assolto dal reato di lesioni. Un anno e 8 mesi a testa invece a Ignazio Trogu, 39, Mario Crobu, 43, e Antonio Salis, 43, considerati gli autori materiali del pestaggio. Assolti per non aver commesso il fatto Antonio Deidda, 45 anni, Vittorio Leoni, 46, Giovanni Dessì, 39, Guido Nurchi, 35. Ma la mazzata peggiore il giudice monocratico del Tribunale Elena Meloni l’ha riservata al ministero della Giustizia che (in solido con gli imputati condannati) dovrà risarcire ai familiari della vittima complessivi 736 mila euro, oltre ad altri 27 mila per le spese processuali. È finito così, ieri sera, il processo contro le otto guardie penitenziarie del carcere di Badu ‘e Carros coinvolte nella morte di Luigi Acquaviva, il detenuto di San Giuseppe Vesuviano trovato impiccato alle sbarre della sua cella all’alba del 23 gennaio di cinque anni fa. La sentenza, arrivata al termine di quasi due ore di camera di consiglio, ha finito per accogliere l’impostazione fatta dal pm Ornella Chicca durante la sua requisitoria finale, a parte le pene meno severe (le richieste erano state 3 anni e mezzo per il pestaggio e 4 anni per l’omicidio colposo) e l’assoluzione di quegli agenti (difesi dagli avvocati Lorenzo Soro, Pasquale Ramazzotti e Basilio Brodu) ai quali veniva contestato il concorso ideologico. Il verdetto infatti spazza via ogni dubbio almeno sul fatto che la sera prima della sua strana morte Luigi Acquaviva fu malmenato a sangue dagli agenti Crobu, Salis e Trogu (avvocato Antonio Busia). Una spedizione punitiva scattata per vendicare l’onta subita da un collega la mattina del 22 gennaio, quando Acquaviva si era armato di lametta e aveva preso in ostaggio per alcune ore l’agente Firinu (situazione risolta dopo ore di trattative solo grazie all’intervento del suo legale, l’avvocato Antonello Spada che adesso, insieme ai colleghi Antonello Cao e Rinaldo Lai, tutela i familiari del detenuto). E la prova decisiva, con tutta probabilità, è arrivata dalla perizia disposta dall’accusa. "Sul corpo - spiegarono al giudice i medici legali Mingioni e Demontis - rilevammo ecchimosi e lividi, certo non compatibili con l’impiccamento ma piuttosto con calci e pugni, e probabilmente anche con corpi contundenti come manganelli o proiezioni contro ostacoli fissi". Quello che invece gli esperti non sono mai riusciti a chiarire è se la morte fu causata o meno dal cappio che gli agenti trovarono attorno al collo del detenuto, tanto che lo stesso pm, venerdì scorso, aveva inutilmente chiesto al giudice di valutare la possibilità di rinviare gli atti alla Procura per approfondire la questione. Alla fine la verità processuale è dunque la stessa fornita dalla direzione del carcere nelle ore successive al ritrovamento del cadavere: suicidio. Insomma, Acquaviva si impiccò con le sue mani alle sbarre della cella del reparto Alta Sorveglianza in cui era stato trasferito dopo il rilascio dell’ostaggio, usando due calzini intrecciati come cappio. Un suicidio che avrebbe dovuto essere evitato dall’agente Calaresu (avvocato Giuseppe Luigi Cucca), a cui era stato dato l’ordine di sorvegliare a vista il detenuto: non lo fece e per questo è stato condannato per omicidio colposo. Ma il risvolto più interessante della sentenza riguarda l’entità dei risarcimenti in favore delle parti civili (in aula era presente anche la moglie, che è scoppiata in lacrime). Perché sembra di poterci leggere che la vita di un detenuto, sia pure camorrista ed ergastolano quale era Acquaviva, vale come quella di chiunque altro. Meno male. Novi Ligure: il padre di Omar "deve pagare per ciò che ha fatto"
L’Unione Sarda, 28 gennaio 2005
"Mio figlio Omar? A Natale poteva tornare a casa in permesso premio, ma io non l’ho voluto". A parlare è Maurizio Favaro, 45 anni, in un’intervista al settimanale "Panorama" da oggi in edicola. "Deve ancora soffrire prima di poter festeggiare tra i suoi familiari, deve ancora aiutare tante persone - continua il padre di Omar - e, perché no, svuotare padelle negli ospedali". "Panorama" ha incontrato l’uomo insieme con Don Andrea Gallo, sostegno spirituale della famiglia. E Favaro ha accettato di parlare: "Voglio bene a Omar - ha detto - ma deve pagare per quello che ha fatto, deve capire sino in fondo l’enormità che ha commesso". E per l’uomo, che segue da vicino il figlio, incontrandolo sei volte al mese, quel giorno non è ancora giunto. "L’ho detto anche a mio figlio prima di Natale - ha aggiunto - e lui si è messo a piangere e mi ha chiesto perché non lo volevo con me a casa". "Ma neanche questo è vero", ha aggiunto Favaro, che recentemente ha accolto in famiglia una giovane nomade rom che Omar ha conosciuto in carcere e con cui è nata una simpatia. "Ora lei lo aspetta a casa nostra. È come una figlia", ha aggiunto. Oggi Favaro vive quasi come un collaboratore di giustizia, nascosto dal mondo. Non ha più un indirizzo, un telefono. L’unica cosa che gli resta, a parte una piccola casa in Francia, è un bar dall’insegna blu, su uno stradone di periferia. "Qui entrano quasi solo extracomunitari - ha raccontato - nessuno sa chi io sia ed io con questo lavoro ci mantengo la mia famiglia e due dipendenti". La concessione dei permessi-premio a Omar aveva sollevato non poche polemiche. Molti avevano sostenuto che fosse troppo presto in relazione al crimine commesso, la famosa strage di Novi Ligure in cui vennero uccisi barbaramente la madre e il fratellino della fidanzatina, Erika. Castelli: sospetti terroristi approfittano di garanzie troppo ampie
Reuters, 28 gennaio 2005
L’assoluzione dall’accusa di terrorismo internazionale di militanti islamici a Milano non ha impedito di sgominare cellule del terrore in Italia, ma il fatto di non poter utilizzare come prova le informazioni di intelligence è un problema, in un sistema legale dove gli imputati godono di ampie garanzie. Lo ha detto oggi il ministro della Giustizia Roberto Castelli in un’intervista a Reuters, mentre non si spengono le polemiche per la sentenza del giudice milanese sui cinque sospetti terroristi islamici e in sede politica i dissidi tra politica e magistratura si manifestano sulla proroga di Per Luigi Vigna alla Direzione nazionale antimafia (Dna). "Non può essere una singola sentenza a inficiare l’impegno del governo italiano contro il terrorismo", ha detto il Guardasigilli, riferendosi alla decisione del gup di Milano di far cadere l’accusa di terrorismo internazionale per cinque nordafricani. "Non credo che la minaccia terroristica sia superiore a prima. Quale che sia la decisione della magistratura molte cellule si apprestavano a compiere atti criminali sul nostro territorio e all’estero sono state sgominate", ha aggiunto Castelli. I cinque nordafricani erano stati arrestati nell’ambito dell’inchiesta che ha portato in carcere lo sceicco egiziano Abderrazak, estradato in Italia dalla Germania, ed erano accusati di terrorismo internazionale per aver inviato dall’Italia militanti in Iraq come kamikaze e di aver preparato attentati da compiere in Europa. "All’interno di questa sentenza ho il sospetto che siano state ignorate le liste dell’Onu che individuano come terroristi tre di questi individui, quindi ho dato incarico al mio ispettorato di acquisire tutti gli atti e appurare che non vi sia stata una negligenza grave", ha detto il ministro, come riferito anche in Parlamento stamani. Il giudice nelle motivazioni della sentenza aveva detto che inviare combattenti e aiuti economici in Iraq non configura l’ipotesi di reato di terrorismo internazionale, mentre non risulta provato che i cinque stessero preparando attentati. "Nelle costituzioni dei paesi democratici ci sono amplissime garanzie nei confronti degli imputati. Bisogna stare attenti affinché queste garanzie non diano vita ad una sorta di impunità", ha detto il ministro, tanto più che i sospetti terroristi cercano di "approfittarne". Per Castelli la norma sul terrorismo internazionale non va cambiata e la decisione quadro dell’Unione europea contro il terrorismo fornisce ai magistrati un buon strumento guida. "L’articolo 270 bis (del codice penale) prevede per i partecipanti o i fiancheggiatori di azioni terroristiche da sette a quindici anni, quindi una pena molto severa". Il problema, secondo il Guardasigilli è che si debbono trovare prove utilizzabili in sede di processo. "Ricordo che le informazioni di intelligence non solo in Italia, ma in molti altri stati democratici non sono utilizzabili come prova all’interno dei processi, questo è il problema".
Riforma della giustizia: "restituiremo maggiori poteri a Csm"
La polemica con la sentenza del Gup di Milano avviene mentre il Senato ha ripreso l’esame della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario, dopo che il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi l’ha rinviata alle Camere per "palese incostituzionalità" in quattro punti. Castelli prevede che il nuovo testo sarà pronto entro i primi di marzo e che accoglierà le indicazioni di Ciampi anche nella parte più delicata, ovvero chi decide sulla carriera dei magistrati. "Noi ottempereremo al richiamo di Ciampi e stiamo lavorando per correggere anche quest’ultima norma, in modo che vengano restituiti al Csm i maggiori poteri secondo quanto richiamato dal presidente", ha detto Castelli. Nelle sue motivazioni, Ciampi aveva rilevato una "menomazione dei poteri" del Csm sulla carriera dei magistrati con l’istituzione di una Scuola superiore della magistratura cui farebbero capo i concorsi interni, svincolata dal Csm. E questo andrebbe contro la Costituzione.
"Csm rispetti la proroga di Vigna"
Sul fronte oggi più caldo del conflitto tra politica e magistratura, la proroga di Pier Luigi Vigna come procuratore nazionale antimafia, nonostante il Csm abbia indetto un concorso per la sua sostituzione, Castelli non si sottrae alla polemica. "Auspico che anche il Csm rispetti le leggi approvate dal Parlamento italiano", ha detto. "In questo momento in cui abbiamo gravi problemi soprattutto a Napoli con la criminalità organizzata, lasciare la direzione nazionale antimafia senza guida - perché Vigna sarebbe scaduto il 15 gennaio con il Csm che non aveva ancora deciso chi fosse il vincitore -, ci sembrava un atto di assoluta irresponsabilità", ha spiegato il ministro. La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, bloccata da Ciampi a metà dicembre, poi un decreto legge a fine anno hanno prorogato al primo di agosto la carica a Vigna. Oggi, in sede di conversione del dl una commissione della Camera ha esteso la proroga al dicembre 2005. Alla domanda se la proroga di Vigna sia stato un modo per bloccare la possibile vittoria nel concorso del procuratore generale di Torino Gian Carlo Caselli, il ministro ha risposto: "Il Csm non si è ancora pronunciato sul concorso a cui partecipa il magistrato Caselli, il magistrato (Pietro) Grasso (capo della procura di Palermo) e altri e tutti danno per scontato che lo vinca Caselli. Dove sta scritto? Vuol dire che il concorso è fasullo?".
Secondo l’opposizione la proroga mira ad eliminare qualsiasi chance di nomina di Caselli - che fu capo della procura palermitana durante l’inchiesta e il processo per mafia al senatore Giulio Andreotti, poi assolto -, visto che da agosto Caselli non avrà più i requisiti per concorrere alla Direzione nazionale antimafia secondo la nuova legge sull’ordinamento giudiziario. Giustizia: proposta di Fi, spariscono le pene inferiori ai 3 anni?
Ansa, 28 gennaio 2005
Imputato di un reato per il quale sono previsti fino a tre anni di carcere? Niente paura, non ci sarà nessun processo. Il carcere sarà tramutato in affidamento in prova ai servizi sociali. E se per 3 anni la condotta sarà buona, il reato verrà estinto. Lo prevede una proposta di legge di Fi, approvata dalla commissione Giustizia della Camera, dal 7 febbraio all’esame dell’Aula. Tra i firmatari, il presidente della commissione Giustizia Pecorella e il coordinatore Bondi. Roma: "Codice a sbarre", quando il carcere arriva in piazza
Roma One, 28 gennaio 2005
Roma, 28 gennaio 2005 - Se non è possibile portare la gente comune in carcere, forse si può tentare di portare il carcere fra la gente comune, in piazza. Questo ha pensato il regista Ivano De Matteo (al suo quarto documentario dopo il film "Ultimo stadio") organizzando la performance in Piazza Trilussa a Roma che è alla base del suo documentario, "Codice a sbarre", dal 2 febbraio proiettato al Politecnico Fandango, sempre a Roma. In una cella di plexiglas, 4 metri per 4, quattro uomini adulti ricreano il carcere. In un metro quadro a testa si muovono, giocano a carte, sudano uno accanto all’altro, cucinano in un bagno che è anche cucina e che non ha la doccia né l’acqua calda. Tutt’intorno in una delle piazze più note di Roma, a Trastevere, passanti, turisti, curiosi si mescolano ai familiari dei quattro ex detenuti, due ormai fuori, due in semilibertà. "La prima proiezione del documentario è stata fatta a Rebibbia - ha raccontato il regista - ed è stato veramente emozionante perché non ero sicuro di come avrebbero reagito i ragazzi che stanno dentro. Invece mi hanno ringraziato con le lacrime agli occhi". In piazza Trilussa, il 5 giugno del 2004, c’erano Giulio, un uomo di mezz’età con moglie e figli e una vita spezzata da tanti anni di prigione, Ezio, un vecchio che racconta il carcere degli anni Cinquanta, Adamo, un giovane che parla delle novità della carcerazione dove si può anche seguire un corso di musica, Adbel, un ragazzo musulmano che nella realtà di una cella tanto piccola deve trovare il modo di pregare cinque volte al giorno. E oltre a loro c’era Carlo, agente di custodia a Rebibbia da 12 anni, disposto a ricreare in una piazza di Roma la quotidianità del suo lavoro. Il documentario alterna le immagini di quel 5 giugno, in un weekend romano in cui la capitale era bloccata per l’arrivo di Bush, con le interviste ai cinque protagonisti e alla lettura fuoricampo delle lettere di mogli, figli, tra momenti di sconforto e di speranza. Il film è anche un viaggio nel mondo e nel linguaggio del carcere. Lombardia: 1 milione di euro per la tutela dei detenuti
Vita, 28 gennaio 2005
La commissione Sanità del Consiglio regionale ha approvato il progetto di legge sulla tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari, stanziando 1 mln di euro per le attività. Il testo, di cui è relatrice Antonella Maiolo, presidente della commissione speciale sulla situazione carceraria, detta le regole per la tutela della salute delle persone in carcere, dei loro affetti e legami familiari e sociali, prevede corsi base per l’apprendimento linguistico e attività socio educative e di formazione al lavoro. "Si tratta del primo provvedimento, in Italia, che ha forma di legge - spiega la Maiolo - e in quanto tale segna un passaggio importante. Il testo è innovativo e riprende, puntualizzandolo, il protocollo esistente fra Regione e Ministero. Tutte le iniziative e le regole previste dalla legge sono finalizzate al recupero reale dei detenuti e alla riduzione del fenomeno della recidività." Molte delle attività regolamentate da questo testo saranno in capo ai diversi assessorati che si faranno carico di finanziarle, aumentando di molto quindi il budget complessivo dedicato all’attuazione della legge.
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